La salute rappresenta un diritto fondamentale del singolo e, altresì, un interesse preminente della collettività, soprattutto quando l’impatto sul tessuto sociale sia devastante come sta accadendo, purtroppo, per effetto della pandemia da Covid-19.

Per tenere sotto controllo la diffusione del virus risulta di primaria importanza raggiungere l’immunità di gregge o, quantomeno, vaccinare il maggior numero di persone nel minor tempo possibile.

Per poter raggiungere questo obiettivo, l’Agenzia Europea per i medicinali e l’AIFA hanno autorizzato i vaccini Pfizer – BioNTech, Moderna, Vaxzevria (ex AstraZeneca) e COVID-19 Vaccine Janssen di Johnson & Johnson che sono stati messi a punto per indurre una risposta immunitaria in grado di bloccare la proteina “Spike” ed impedire al virus di infettare le cellule del nostro corpo.

Tuttavia, nel corso di questi mesi sono stati registrati dei grossi ritardi nella produzione e nella distribuzione da parte delle aziende che producono i vaccini e queste circostanze hanno inciso notevolmente sulla campagna vaccinale non solo dell’Italia ma di tutta l’Europa.

Nello specifico, per quanto ci riguarda più da vicino, la disponibilità di dosi non è la stessa per tutti i vaccini e, quindi, il Governo ha dovuto predisporre un piano vaccinale (il cosiddetto “Piano strategico per la vaccinazione anti COVID-19”), che si occupa di regolamentare le somministrazioni dei vaccini sulla base di alcuni parametri e criteri ben precisi.

Infatti, alcune persone (quelle cosiddette “fragili”) corrono il rischio di infettarsi e sviluppare la malattia in forma più grave rispetto ad altre e, pertanto, il Governo ha dovuto operare delle scelte volte a tutelarle anche nell’ambito della vaccinazione perché, come chiarito dalle stesse case farmaceutiche, non tutti i vaccini possono essere somministrati a qualunque persona.

Ebbene, in questa fase iniziale caratterizzata da un numero limitato di dosi consegnate, per garantire la massima equità di accesso alla vaccinazione, i vaccini Pfizer – BioNTech, Moderna, Vaxzevria e Janssen sono offerti gratuitamente a tutta la popolazione secondo un ordine di priorità che tiene conto sia del rischio di malattia che riguarda le persone, sia della disponibilità di dosi di ogni siero. Avv. Viola Zuddas, Civilista

Per questo motivo, quindi, allo stato attuale non è consentito alle persone scegliere la tipologia di vaccino da somministrare, poiché questa è demandata agli operatori sanitari in considerazione delle loro competenze e capacità professionali.

Infatti, affinché la scelta del tipo di vaccino da inoculare sia operata in maniera corretta, in ogni hub vaccinale sono presenti dei medici che, dopo aver fatto un approfondito colloquio con il “paziente”, riesaminano con lui la scheda anamnestica, ovvero il modulo che, attraverso specifiche domande, consente di valutare la presenza di controindicazioni o precauzioni particolari in relazione alla somministrazione di uno specifico tipo di vaccino.

Sulla base delle indicazioni fornite dal Governo, dunque, fino a quando la disponibilità delle dosi sarà ridotta, le persone non potranno esprimere la propria preferenza rispetto a quale tipologia di vaccino farsi inoculare, poiché in caso contrario si rischierebbe di escludere dalla profilassi i pazienti più fragili, ai quali può essere somministrato soltanto un tipo di siero. Avv. Viola Zuddas, Civilista

Per ovviare a questo inconveniente e, quindi, per scongiurare che vengano aggirate le problematiche in materia di equità di accesso ai vaccini, alcune Regioni non permettono a chi rifiuta la somministrazione di un tipo specifico di vaccino di riprenotarsi nell’immediato o, addirittura, impongono lo slittamento in coda alla lista della classe d’età di appartenenza.

Alcuni Paesi, invero, consentono ai cittadini di scegliere quale siero farsi inoculare.

Pensiamo, ad esempio, alla Serbia che, grazie ad una campagna vaccinale molto efficiente, sta diventando una meta prediletta per il turismo vaccinale: infatti, previa compilazione di un questionario online, permette anche ai cittadini stranieri residenti all’estero di prenotarsi per la somministrazione gratuita del tipo prescelto di vaccino.

Ebbene, quando la campagna vaccinale avrà raggiunto gli obiettivi sperati e l’Italia avrà un congruo numero di dosi di tutti i vaccini, i cittadini potranno scegliere quale siero farsi inoculare, sempre seguendo le indicazioni fornite dal proprio medico che chiaramente ha le competenze per valutare quale vaccino sia quello più idoneo.

Viola Zuddas, Avvocato
Perché l’Italia ha bisogno del DDL Zan

Oggi, 17 maggio, si celebra in Europa la giornata internazionale contro l’omofobia e la transfobia quale occasione di riflessione contro i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze, fisiche e morali, legati all’orientamento sessuale.

Questa data è stata scelta perché il 17 maggio 1990 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha rimosso l’omosessualità dalla lista delle malattie mentali, definendola come «una variante naturale del comportamento umano» e chiarendo, in sostanza, che l’orientamento sessuale di ciascuno non possa essere ricondotto né ad una patologia né, tantomeno, ad un disturbo mentale.

Sul punto, deve ricordarsi che negli anni ’60 – ’70 l’omosessualità era considerata una deviazione sessuale (al pari della pedofilia), ed, altresì, una condizione psicopatologica inclusa tra i cosiddetti “disturbi sociopatici di personalità”.

Il DDL Zan, tra le misure di cui si fa portavoce, propone all’art. 7 di istituire il giorno 17 maggio quale giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia, al fine di «promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione nonché di contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere, in attuazione dei princìpi di eguaglianza e di pari dignità sociale sanciti dalla Costituzione.» Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista • Avv. Viola Zuddas, Civilista

In occasione di tale giornata, quindi, verranno organizzate cerimonie, incontri e ogni altra iniziativa utile per favorire la diffusione di questi principi e, dunque, contrastare ogni forma di discriminazione e violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità.

Al riguardo, è importante chiarire che il DDL Zan, che prende il nome dal suo relatore Alessandro Zan, è un disegno di legge contro i crimini d’odio che va ad affiancarsi alla L. 25 giugno 1993, n. 205 (cosiddetta “Legge Mancino”), che si occupa di reprimere la discriminazione, l’odio o la violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.

Con il DDL Zan, quindi, le misure repressive già previste dalla Legge Mancino vengono estese anche contro le discriminazioni che siano fondate sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità, in maniera tale da offrire una tutela rafforzata e più stringente.

A tale proposito, il DDL Zan, all’art. 1, precisa che:

  • per sesso si intende il sesso biologico o anagrafico,
  • per genere si intende qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso,
  • per orientamento sessuale si intende l’attrazione sessuale o affettiva nei confronti di persone di sesso opposto, dello stesso sesso, o di entrambi i sessi,
  • per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione.

Ebbene, per comprendere il motivo per il quale questo provvedimento tanto discusso potrebbe rivelarsi necessario per il nostro Paese, è utile richiamare il report aggiornato al dicembre 2020 che annualmente l’ILGA – Europe stila per fotografare la situazione dei diritti umani delle persone lesbiche, gay, bisessuali, trans e intersessuali in Italia.

Il nostro Paese, infatti, si colloca al 35° posto in Europa per la lotta alle discriminazioni fondate sul sesso e per l’inclusione delle persone; per intenderci, peggio dell’Italia fanno Paesi come la Russia, la Polonia e la Turchia.

Questo posizionamento è dato da diversi criteri in cui si tiene conto di:

  • uguaglianza e non discriminazione (ad esempio, vi sono discriminazioni nel mondo del lavoro in base all’orientamento sessuale),
  • famiglia (ad esempio, vi è la possibilità di riconoscere alle coppie omosex diritti simili al matrimonio),
    crimini d’odio ed incitamento all’odio (ad esempio, vi sono o sono in programma Leggi contro i crimini d’odio),
  • riconoscimento legale del genere ed integrità fisica (ad esempio, è riconosciuta la possibilità di sottoporsi ad interventi chirurgici per il cambio di sesso),
  • spazio della società civile (ad esempio, si garantisce alle associazioni LGBTI di organizzare manifestazioni),
  • asilo (ad esempio, vi sono o sono in programma Leggi sull’orientamento sessuale e l’identità di genere).

Sulla base dei dati riportati, quindi, si può purtroppo affermare che nel nostro Paese non vi sia un sistema legislativo in grado di assicurare efficacemente l’inclusione delle persone LGBTI nella società o che si occupi di reprimere con risolutezza atteggiamenti discriminatori, stigmatizzanti e violenti nei loro confronti.

È, dunque, agevole comprendere i motivi per i quali il DDL Zan potrebbe rappresentare un valido strumento per promuovere una cultura di maggiore rispetto ed inclusione e per riconoscere alle persone il diritto di vivere liberamente la propria vita affettiva e sessuale.

Francesco SannaViola Zuddas, Avvocati

Il settore della responsabilità medica è di certo uno dei più dibattuti e controversi del mondo giuridico. Il perché è presto spiegato: da un lato, c’è l’esercizio di una professione tra le più delicate dello scibile umano e dalla quale dipende la fondamentale salvaguardia del diritto alla vita e alla salute, dall’altro lato, c’è la doverosa esigenza di tutelare quei pazienti che hanno patito un danno dal maldestro esercizio della professione sanitaria.

Il concetto di malpractice sanitaria – che si verifica nel momento in cui chi eroga un servizio (azienda ospedaliera, medico extra moenia, clinica privata, infermiere, ecc.), non rispettando le linee guida minime dettate per l’intervento in questione, provoca danni o lesioni gravi e permanenti (o morte) al paziente – è centrale al fine di comprendere gli elementi che concorrono a individuare una fattispecie di malasanità e i suoi possibili effetti. Ciò determina una evidente incidenza sui concetti di colpa e di nesso causale, tra la condotta posta in essere e l’evento dannoso, nel campo della responsabilità medica.

La responsabilità medica attiene, dunque, all’obbligo di rispondere delle conseguenze derivanti dalla illecita condotta, commissiva od omissiva, posta in essere in violazione di una norma.Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

In dipendenza dell’ambito operativo della norma violata si potranno configurare varie tipologie di responsabilità: morale, amministrativo-disciplinare o – ed è quella che qui interessa – giuridica, dovuta alla violazione di una norma di legge.

In generale, si ha una condotta colposa giuridicamente rilevante quando a seguito del contegno posto in essere da un soggetto deriva un evento non voluto dall’agente ma che si verifica a causa della propria negligenza, imprudenza o imperizia (colpa generica) oppure per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline (colpa specifica).

Per meglio chiarire si ha:

  • negligenza, superficialità, trascuratezza e disattenzione quando ad esempio un medico prescrive un farmaco al posto di un altro oppure un chirurgo non avvedendosi della presenza di un oggetto estraneo all’interno del corpo del paziente non lo rimuove;
  • imprudenza quando il sanitario pone in essere una condotta definibile come avventata o temeraria, pur consapevole dei rischi per il paziente, e decide comunque di procedere con una determinata pratica;
  • imperizia quando si appalesa una scarsa preparazione professionale per incapacità proprie, insufficienti conoscenze tecniche o inesperienza specifica.

La colpa specifica, invece, si ha qualora il sanitario vìola norme che in forza della propria posizione professionale non poteva ignorare e che era tenuto ad osservare.

I tipi di errore in cui può incappare il professionista sono i seguenti:

  • prognostico derivante da un giudizio di previsione sul decorso e soprattutto sull’esito di un determinato quadro.
  • terapeutico attiene alla scelta del trattamento da porre in essere o dalla sua errata esecuzione, come ad esempio la scelta di intervenire chirurgicamente quando non necessario o, peggio ancora, porre in essere un errore durante l’intervento.

Difatti, è indispensabile che venga individuato un legame – nesso eziologico – tra errore commesso e danno subito dal paziente, affinché il secondo possa qualificarsi come diretta conseguenza del primo, determinando, da un lato, una responsabilità giuridicamente rilevante in capo al professionista e, dall’altro lato, il diritto del danneggiato a chiedere il risarcimento del danno patito.Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

La sussistenza del nesso causale in parola spesse volte risulta difficilmente verificabile in termini di certezza assoluta: tant’è che il medico-legale, incaricato dal Giudice al fine di accertare se e in che misura la condotta colposa – commissiva od omissiva – del sanitario sia stata la causa diretta dei danni accertati e di cui il paziente chiede il ristoro, applicherà il criterio sta­tistico-probabilistico.

Problematica strettamente collegata a quanto appena esposto è la ricerca del punto di equilibrio tra la tutela di coloro i quali svolgono un’attività che, come visto, spesso richiede scelte difficili e talvolta lasciate all’intuizione del professionista e l’eventuale responsabilità, sia penale che civile, che su di esso potrebbe incombere in presenza di determinate condizioni.

In assenza di tale punto di equilibrio e di confini precisi entro i quali i sanitari si sentano posti al riparo da procedimenti civili e/o penali a loro carico, volti a dimostrare la loro responsabilità nell’esecuzione di un certo trattamento, di una diagnosi, ecc., nasce il rischio che questi scelgano di non percorrere ogni tentativo, seppur rischioso, di curare o addirittura di salvare la vita del paziente, intimoriti delle possibili conseguenze giudiziarie in cui potrebbero incappare.

Pertanto, si assisterebbe al dilagante esercizio della cosiddetta “medicina difensiva” – figlia della paura degli operatori di poter sbagliare e di incorrere in responsabilità – caratterizzata dal porre in essere terapie standard che, anche se non propriamente adatte al caso concreto, pongono il professionista in una posizione di maggiore riparo da qualsiasi responsabilità.

Francesco Sanna, Avvocato
Un sindacato per gli influencer?

Quella degli influencer è una categoria che negli ultimi anni si sta ritagliando una fetta sempre più consistente nel mercato dei social, della pubblicità e del marketing in generale.

Gli influencer, infatti, hanno la capacità di influenzare in modo rilevante le opinioni ed orientare i comportamenti dei follower grazie alla propria reputazione ed all’impegno che profondono rispetto a certe tematiche di particolare interesse ed attualità.

Questo meccanismo, quindi, è reso possibile (e si alimenta continuamente) grazie ai grandi numeri di follower che seguono e supportano costantemente gli influencer stessi: questi, infatti, riescono a raggiungere migliaia di persone, in alcuni casi anche milioni, e ciò consente loro di diffondere un dato messaggio in maniera rapida e capillare.

Nonostante vi sia ancora qualche resistenza, quello dell’influencer è ritenuto da molti un vero e proprio lavoro attorno al quale, peraltro, gravitano notevoli interessi economici, tant’è che, sempre più spesso, aziende e marchi (anche affermati) si rivolgono a queste figure professionali per avere una maggiore pubblicità e riuscire a consolidare la loro posizione nel mercato.

Difatti, attraverso i post e le stories sui social gli influencer creano contenuti di semplice intrattenimento oppure di caratura professionale e artistica e riescono, così, ad orientare le scelte commerciali dei propri follower.

Per questi motivi, quindi, potrebbe risultare opportuno riconoscere il mestiere dell’influencer come una vera e propria categoria di professionisti, cui ricondurre un trattamento unitario o, quanto più possibile, omogeneo sia in termini di condizioni di lavoro sia in termini strettamente economici. Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista • Avv. Viola Zuddas, Civilista

Infatti, non sono pochi gli influencer che lamentano trattamenti discriminatori da parte delle stesse aziende che li contattano e che imporrebbero loro dei “tariffari” differenti in base, ad esempio, al genere.

Purtroppo, anche in questo settore si registra il triste fenomeno del gender pay gap: nonostante il mercato sia popolato in larga parte da influencer donne (secondo alcuni studi, addirittura l’80%), gli uomini percepirebbero un compenso superiore mediamente del 25% rispetto a quello delle colleghe.

Tale gap è frutto, in parte, della cultura dei nostri tempi (tant’è che, come sappiamo, si riscontra pressoché in ogni settore del lavoro – dal pubblico al privato) e, in parte, è dovuto al fatto che non vi sono dei tariffari legalmente approvati che gli influencer possono applicare per mettersi al riparo dal potere contrattuale più forte di brand o aziende.

Sulla base di queste premesse, dunque, non sarebbe sbagliato che al mestiere dell’influencer venissero riconosciute delle tutele che consentirebbero di svolgere con maggiore sicurezza questa professione.

Questi obiettivi, peraltro, sono il fondamento della Associazione italiana influencer – AI2, formalmente inserita dal Ministero dello Sviluppo Economico nell’elenco delle associazioni professionali di cui alla L. n. 4/2013, ed il cui statuto, tra le altre finalità, si propone di:

  • sostenere e sviluppare l’attività degli influencer sia in Italia che all’estero, favorendone la crescita professionale,
  • promuovere la ricerca e la diffusione / divulgazione delle conoscenze in materia, nonché le relative attività di formazione,
  • sviluppare soluzioni condivise ai problemi che ineriscono allo svolgimento dell’attività degli influencer, anche mediante la promozione di contratti collettivi nazionali, nonché l’elaborazione di standard e/o linee guida inerenti le best practices.

Ebbene, uno degli strumenti che potrebbe essere validamente impiegato per il raggiungimento di tali obiettivi è rappresentato dal sindacato, richiesto a gran voce da diversi influencer.

Il sindacato, come noto, è una forma di associazione di lavoratori, appartenenti ad uno specifico settore o mestiere, che si occupa di tutelare i diritti di quella data categoria, attraverso la regolamentazione delle condizioni di lavoro e la previsione, ad esempio, di compensi minimi uguali per tutti. Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista • Avv. Viola Zuddas, Civilista

Pertanto, la presenza di un sindacato – già prevista peraltro in altri Paesi, come l’America – potrebbe mettere al riparo gli influencer, soprattutto i cosiddetti “micro influencer” – cioè quelli che hanno meno di 100.000 follower, in sostanza-, non solo da comportamenti discriminatori ma, soprattutto, dalle truffe e dalle frodi delle aziende.

Sul punto, deve ricordarsi che spesso i “micro influencer” sono costretti ad acquistare, con denari propri, i prodotti che dovranno poi promuovere nei loro social o, addirittura, sono tenuti a garantire la pubblicazione di un numero di post o stories spropositato rispetto agli “omaggi” che ricevono.

Questa situazione, invero, è spesso aggravata dal fatto che le aziende hanno del personale qualificato che viene impiegato stabilmente nella cura degli affari legati alla contrattazione con gli influencer, mentre questi ultimi – che, peraltro, nella maggior parte dei casi sono di giovanissima età – non hanno sempre le competenze e le capacità per negoziare.

Non vi è dubbio, quindi, che spesso può registrarsi una vera e propria disparità e sproporzione tra le due posizioni che, dunque, potrebbe trovare un nuovo equilibrio con l’ingresso di un sindacato che, affiancando la parte più “debole” – cioè gli influencer -, potrebbe apportare maggiore equità nella contrattazione.

Nel contesto attuale, dunque, approntare un sistema di maggiori tutele in generale ed introdurre, in particolare, una figura di riferimento come il sindacato potrebbe agevolare il dialogo tra le parti e restituire un maggiore equilibrio alla contrattazione del mercato.

Francesco SannaViola Zuddas, Avvocati

Padel e tennis a Cagliari: dietro le quinte

Durante l’anno passato, nonostante la crisi sanitaria globale che ancora sta colpendo tantissimi ambiti produttivi, la città di Cagliari ha avuto la fortuna di ospitare alcuni eventi sportivi di rilievo internazionale, organizzati all’aperto o senza la presenza di pubblico a causa del picco di contagi invernale e dell’irrigidimento delle normative nazionali.

Nel mese di marzo, sullo sfondo del circolo di tennis di Monte Urpinu, si è svolto l’incontro di Coppa Davis tra Italia e Corea del Nord, purtroppo a porte chiuse e quindi senza il pubblico preventivato (3000 posti) in seguito alle restrizioni dovute al contenimento del contagio da Covid-19.
A settembre, sempre il TC Cagliari ha aperto le sue porte al World Padel Tour, evento internazionale dello sport più in voga degli ultimi anni; anche se con un pubblico limitato, si è potuto garantire ai giocatori il supporto dei tifosi, offrendo uno spettacolo del tutto nuovo e dando visibilità alla nostra splendida città che ha potuto godere delle dirette televisive di Sky e mostrare il suo volto anche grazie alla installazione di un campo temporaneo nella suggestiva location del Bastione di Saint Remy.

Il padel è tornato a Cagliari anche nel mese di dicembre, per le Cupra Fip Finals, che si sono disputate sempre al TC Cagliari e al Palapirastu di via Rockfeller, questa volta senza pubblico.
Anche nel 2021, ad aprile, la nostra città ha avuto l’onore di ospitare ancora una volta il grande tennis internazionale, organizzando una tappa del circuito ATP 250 sui campi del Tennis Club Cagliari.

Di norma, quando si sente parlare di eventi come questi, si pensa che l’organizzazione competa esclusivamente a professionisti del marketing o ai settori amministrativi delle società creative e, soprattutto, a chi si occupa della programmazione dal punto di vista della comunicazione e direzione artistica.
In realtà esiste una pianificazione, che avviene dietro le quinte, senza la quale gli eventi aperti al pubblico non potrebbero realizzarsi; è il lavoro che riguarda gli spazi e le strutture scelte per ospitare le manifestazioni che siano esse di natura sportiva, artistica, o congressuale.
È per questo che le società organizzatrici si rivolgono a tecnici del settore per ottenere le autorizzazioni necessarie allo svolgimento degli spettacoli in programma.

L’organizzazione di eventi e manifestazioni sportivi aperti al pubblico è regolamentata dalla legge italiana di pubblica sicurezza, R.D. 18 giugno 1931, n. 773, denominata TULPS ovvero Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. Con il regio decreto 6 maggio 1940, n. 635 è emanato il relativo regolamento di esecuzione (Regolamento di esecuzione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza). Elena Falqui, Ingegnere

La legge è tuttora in vigore e rimane il primo riferimento normativo per chi intende organizzare un evento pubblico.
Sinteticamente, il decreto impone la verifica dei luoghi dedicati agli eventi pubblici da parte di una commissione di vigilanza (CVLPS), comunale o provinciale in funzione del numero di spettatori. La commissione è composta da professionisti di diversi settori, ognuno dei quali si esprime per l’area di propria competenza (ad es. rappresentanti degli uffici dei Vigili del Fuoco, ASL, Questura, Genio civile, etc). Al di sotto dei 200 spettatori non viene convocata la commissione ma è sufficiente la certificazione di un tecnico abilitato.

Tutte le grandi manifestazioni che si sono svolte a Cagliari hanno quindi avuto necessità di un supporto tecnico, sia per la presentazione delle domande autorizzative che per la parte progettistica e la FIT mi ha affidato questo incarico, in virtù delle mie precedenti esperienze con la finale di FEDERATION CUP del 2013 -che si è svolta sempre a Cagliari- e ai vari anni di collaborazione con l’Architetto progettista degli allestimenti per gli Internazionali BNL d’Italia, al Foro Italico di Roma.

Nel dettaglio, la procedura per richiedere l’autorizzazione per una manifestazione sportiva prevede un primo passaggio all’ufficio comunale preposto al rilascio della determina, (ad esempio al Comune di Cagliari l’ufficio dedicato è quello della Pubblica istruzione, politiche giovanili e sport, al Comune di Roma il Dipartimento Sport e Politiche Giovanili). Il dirigente dell’Ente locale attiva l’”Avvio del procedimento” e, in base alla richiesta del proponente ed al numero di spettatori previsto, convoca la Commissione di Vigilanza.

Il tecnico incaricato dall’organizzazione provvede quindi ad inoltrare all’amministrazione tutti i documenti necessari per il controllo degli spazi dedicati al pubblico, fondamentali per l’ottenimento dell’autorizzazione dal punto di vista strutturale. Verranno quindi prodotti allegati grafici come piante, planimetrie dei sistemi di sicurezza con indicazioni delle vie d’esodo, relazioni strutturali e descrittive per tutte le aree pubbliche.
Molto importante è anche la documentazione relativa alla Circolare 7 giugno 2017 (Circolare Gabrielli) che rende obbligatoria la stesura di un piano Safety&Security per le manifestazioni pubbliche.
Contemporaneamente, il promotore produce adeguata documentazione per quanto riguarda gli aspetti amministrativi, contributivi e quelli strettamente legati alla natura dell’evento (ad esempio autorizzazioni delle Federazioni sportive e del CONI in ambito di eventi sportivi).

Una volta ricevuta tutta la documentazione richiesta, la CVLPS si riunisce per esaminare i progetti e i documenti prodotti e successivamente effettua un sopralluogo per riscontrare la conformità di quanto dichiarato.

A questo punto, se gli spazi, gli impianti e le strutture sono ritenuti adeguati e rispondenti alle prescrizioni normative, la Commissione rilascia il suo nulla osta per lo svolgimento della manifestazione tramite un parere positivo e l’amministrazione comunale può inviare l’autorizzazione generale per l’evento. Elena Falqui, Ingegnere

Il cantiere più impegnativo a cui mi sono dedicata, per la grande dimensione del progetto, è stato certamente quello riguardante l’allestimento delle grandi tribune temporanee previste per la Coppa Davis 2020 (2000 posti aggiunti a quelli preesistenti). Tale progetto mi ha coinvolta nella progettazione, nella direzione dei lavori e nel coordinamento della sicurezza; l’esperienza maturata in questa occasione mi ha permesso di gestire con maggiore padronanza i progetti successivi.

Considero un privilegio aver avuto l’opportunità di cimentarmi in queste esperienze professionali e sono grata per la fiducia che la mia Federazione ha riposto in me, consentendomi di affinare le mie competenze e di capire davvero quanto sia gratificante poter lavorare in un’organizzazione di questo livello.
Ma soprattutto, grazie al prezioso supporto e aiuto di colleghi esperti, ho avuto modo di comprendere pienamente quanto la categoria professionale a cui appartengo sia fondamentale nella realizzazione di eventi di così ampio respiro.

Elena Falqui, Ingegnere

Mi sono laureata nel 2007 in Tecnologie per La Conservazione e il Restauro dei Beni Culturali e nel 2010 in Ingegneria Edile, col massimo dei voti presso la facoltà di Ingegneria e Architettura di Cagliari; ho conseguito il Master di II livello in Progettazione di impianti sportivi presso la Sapienza a Roma nel 2011.
Ho svolto inizialmente l’attività di libero professionista presso uno studio privato e contemporaneamente presso lo studio di Ingegneria e Architettura di famiglia.
Nel 2012 ho intrapreso la mia prima esperienza a Roma, affiancando l’architetto incaricato, dal CONI e dalla FIT, della progettazione degli spazi del Foro Italico a Roma in occasione degli Internazionali BNL d’Italia. Nello stesso anno sono stata assunta dalla FIT, ho proseguito l’affiancamento col progettista degli IBI; ho svolto anche il ruolo di referente FIT per gli impianti sportivi di tennis in tutta Italia e ho fatto parte per alcuni anni della Commissione Impianti Sportivi; ho anche partecipato al gruppo di controllo sul “Fondo Rotativo FIT”, verificando, dal punto di vista tecnico, le richieste di finanziamenti dei circoli affiliati.
Dal 2019 sono diventata un collaboratore esterno della Federazione Italiana Tennis e tuttora proseguo il mio percorso nel mondo dello Sport.
Mi occupo principalmente della progettazione degli spazi, della direzione dei lavori, della sicurezza sia in fase di progettazione che esecuzione nei cantieri, della stesura di Piani Safety&Security e sono il referente nei rapporti con l’amministrazione locale durante la programmazione di manifestazioni sportive.

Focus di diritto tributario Avv. Francesco Sanna

Breve analisi delle agevolazioni fiscali riferite alle ASD e SSD
Premesso che la legge di riferimento sulle agevolazioni fiscali per le ASD e SSD, senza scopo di lucro, è la n. 398 del 16 dicembre 1991, con la circolare dell’Agenzia delle Entrate, n.18/E dell’1 agosto 2018, si deve evidenziare come Governo e CONI abbiano fatto chiarezza su tale materia.

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

Manifestazioni sportive: la responsabilità penale dell’organizzatore

Come abbiamo visto nell’articolo FOCUS dell’Ing. Elena Falqui, l’organizzazione di eventi e manifestazioni sportive aperte al pubblico presuppone il rilascio di un’apposita autorizzazione amministrativa, finalizzata a verificare che spazi, impianti e strutture siano conformi alle prescrizioni dettate dalla normativa di settore.

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Focus di diritto civile • Avv. Viola Zuddas

Le misure di contenimento del rischio nelle manifestazioni: cenni
Quando si organizzano delle manifestazioni sportive è di primaria importanza adottare tutte quelle cautele che consentano di salvaguardare l’incolumità e la sicurezza delle persone che vi prendono parte, sia in qualità di atleti che come pubblico.

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Focus di diritto internazionale • Avv. Eleonora Pintus

La Carta Internazionale per l’Educazione Fisica, l’Attività Fisica e lo Sport: interventi legislativi per la diffusione del patrimonio dell’UNESCO
“La pratica dell’educazione fisica, dell’attività fisica e dello sport è un diritto fondamentale per tutti.”
Si apre così la Carta Internazionale per l’Educazione Fisica, l’Attività Fisica e lo Sport, adottata durante la Conferenza Generale dell’UNESCO nel 1978, oggi riconosciuta come documento di riferimento che orienta il processo decisionale in campo sportivo.

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Quando il debitore risulta essere inadempiente, il creditore deve costituirlo formalmente in mora mediante diffida per iscritto con cui intima l’adempimento dell’obbligazione dovuta (ad esempio, il pagamento di una certa somma di denaro), e con l’avvertimento che, in mancanza, si procederà con l’azione legale per la tutela dei propri interessi.

Qualora l’intimazione non sortisca alcun effetto, il creditore ha la possibilità di adire l’autorità giudiziaria per ottenere il soddisfacimento delle proprie pretese, impiegando – qualora vi siano i presupposti – uno strumento che gli consenta di tutelarsi in tempi brevi ed a costi contenuti.

Tale strumento è rappresentato dal decreto ingiuntivo.

Si tratta, nel dettaglio, di un provvedimento che viene emanato dal giudice a seguito di uno specifico procedimento instaurato da parte del creditore, ovvero il procedimento di ingiunzione, e che gli permette di ottenere, in pochi mesi, una pronuncia di condanna del debitore.

Quest’ultimo, quindi, è tenuto ad adempiere nel termine previsto dal decreto ingiuntivo poiché, in caso contrario, potrà andare incontro ad un procedimento esecutivo e subire, eventualmente, il pignoramento dei propri beni.

Il decreto ingiuntivo, dunque, è uno strumento rapido, efficace e poco costoso attraverso il quale, in presenza di certi requisiti previsti dalla legge, il creditore può ottenere tutela dei propri diritti.Avv. Viola Zuddas, Civilista

Tuttavia, si può fare ricorso a tale istituto soltanto nei casi espressamente disciplinati dal codice di procedura civile stante la peculiarità del rito.

Infatti, a norma degli artt. 633 – 656 c.p.c., il procedimento per ingiunzione può essere promosso soltanto su iniziativa di chi sia creditore di una somma liquida di denaro o di una determinata quantità di cose fungibili, e da chi abbia diritto alla consegna di una cosa mobile determinata.

Ebbene, per ottenere la pronuncia di ingiunzione di pagamento o di consegna:

  • il creditore deve dare prova scritta del diritto (ad esempio, con cambiali),
  • il credito deve riguardare onorari per prestazioni giudiziali o stragiudiziali, o il rimborso delle spese dell’avvocato,
  • il credito deve riguardare onorari, diritti o rimborsi spettanti a notaio o altri professionisti, con tariffario legalmente approvato,
  • se, invece, il diritto dipende da controprestazione o condizione, il creditore deve provare l’adempimento della sua prestazione o l’avveramento della condizione.

Questa fase del procedimento di ingiunzione ha carattere sommario, in quanto il debitore non partecipa al giudizio e non ha la possibilità di contestare le pretese del creditore.

Il giudice, se ritiene fondata la domanda proposta dal ricorrente, emana il decreto ingiuntivo con cui ingiunge al debitore il pagamento della somma dovuta, la consegna di cose determinate o, infine, il rilascio di un dato bene immobile.

Il creditore, poi, deve notificare il ricorso per ingiunzione ed il decreto ingiuntivo al debitore: è da questo momento, dunque, che quest’ultimo ha conoscenza del procedimento.

Il debitore può decidere di pagare la somma dovuta, consegnare la cosa determinata o rilasciare un dato bene immobile, seguendo le modalità previste e nel rispetto dei tempi indicati nel decreto ingiuntivo, oppure può proporre opposizione avverso il decreto.Avv. Viola Zuddas, Civilista

In questa seconda ipotesi, viene instaurato un giudizio a cognizione ordinaria che mira all’accertamento e alla verifica del diritto reclamato dal presunto creditore e delle opposte ragioni del debitore.

Tale procedimento si caratterizza per la presenza di entrambe le parti, le quali hanno gli strumenti per dimostrare la fondatezza delle proprie pretese.

All’esito del giudizio viene emanata una sentenza che può essere:

  • di rigetto, se la domanda proposta dal debitore non sia fondata e, quindi, il decreto ingiuntivo acquista efficacia esecutiva,
  • oppure di accoglimento, se la domanda proposta dal debitore sia fondata e, quindi, il giudice revoca il decreto ingiuntivo o ne dichiara la nullità.

In definitiva, il decreto ingiuntivo consente al creditore di ottenere, qualora vi siano i presupposti previsti dalla legge, rapida tutela dei propri diritti a fronte di costi piuttosto contenuti: per tali motivi, esso rappresenta uno degli strumenti più utilizzati dai creditori per soddisfare le proprie ragioni.

Viola Zuddas, Avvocato

Con il presente articolo e con quelli che seguiranno nelle prossime settimane e mesi si tenterà di offrire, seppur in sintesi e senza alcuna presunzione di esaustività, un quadro d’insieme in materia di responsabilità medica: il tutto alla luce delle annose problematiche, sia di diritto sostanziale che processuale, e di quelle nuove nate a seguito dell’emergenza pandemica da SARS-CoV-2 in atto.

Fatta questa doverosa premessa di carattere organizzativo-metodologico, ora si cercherà di approcciare l’istituto in esame partendo dalla sua definizione.

In generale si definisce responsabilità medica quella responsabilità professionale sussistente in capo a colui il quale nell’esercizio dell’attività sanitaria arreca danni ad un paziente causati da errori, omissioni o violazioni degli obblighi inerenti lo svolgimento dell’attività medesima.Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

La base normativa di riferimento è la seguente.

Il codice civile regola all’articolo 2229 e seguenti c.c. i caratteri fondamentali della responsabilità civile del professionista intellettuale, prestando specifica attenzione alla particolarità principe di tali professioni: cioè la diligenza impiegata, nonché quella che sia plausibile attendersi dal soggetto che svolge la propria attività lavorativa in piena autonomia, con ampi poteri discrezionali e in virtù delle specifiche competenze acquisite a seguito di un lungo periodo di formazione teorico-pratica.

L’importanza di tale materia, unita alle sue peculiarità e difficoltà interpretative, hanno determinato il Legislatore ad approntare appositi interventi legislativi atti a regolamentare in maniera puntuale e specifica l’istituto in parola; a cominciare dal D.L. del 13 settembre 2012, n. 158, convertito con modificazioni nella L. dell’8 novembre 2012, n. 189 (la cosiddetta legge Balduzzi) fino alla recentissima L. dell’8 marzo 2017, n. 24 (cosiddetta legge Gelli-Bianco).

Richiamata la normativa generale e speciale dell’istituto de quo, dal punto di vista giuridico-sostanziale si può parlare di responsabilità medica quando sussiste un nesso causale tra la lesione alla salute psicofisica del paziente e la condotta commissiva/omissiva dell’operatore sanitario in concorso o meno con le inefficienze e/o carenze della struttura sanitaria in cui il trattamento sanitario è stato eseguito o che sarebbe dovuto essere eseguito.

Alla luce di quanto appena affermato emerge la centralità del rapporto tra il diritto alla salute, di cui all’articolo 32 Cost. ‹‹La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.›› ed il diritto-dovere del sanitario a svolgere la propria attività professionale secondo scienza e coscienza, sia autonomamente che in equipe, avendo quale fine ultimo la guarigione del malato o la prevenzione dell’insorgenza di patologie.

Pertanto, il concetto di responsabilità medica si riferisce ad una o più prestazioni, eseguite su un determinato soggetto, che sono il risultato di un insieme di azioni, commissive od omissive, svolte da un sistema composito di autori (persone fisiche: medici, infermieri, assistenti sanitari, ecc., e giuridiche: ospedale, clinica privata, casa di cura per anziani, ecc.).

Da queste semplici osservazioni è evidente come la casistica degli interventi sanitari sia estesa e, soprattutto, sia il risultato di tutte quelle esperienze e metodologie che si sono dimostrate “sul campo” idonee alla prevenzione e/o alla cura quotidiana dei pazienti.

Tuttavia, nei casi in cui gli effetti sperati non siano quelli auspicati è possibile che al personale medico-sanitario possano essere mosse delle critiche sulle scelte intraprese ed imputati errori diagnostici, terapeutici, o da omessa vigilanza, ecc., tali da aver determinato l’aggravamento del quadro clinico del paziente o, nella peggiore delle ipotesi, il suo decesso; con conseguente rischio di incorrere in azioni penali e/o civili in proprio danno, volte a provare la sussistenza della responsabilità di quanto accaduto.

Da ciò deriva la grande rilevanza, nonché la diversa considerazione rispetto al passato, dell’importanza della volontà e autonomia del paziente, non più in balìa delle decisioni del professionista ma soggetto attivo nelle scelte riguardanti la sua salute.Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

In particolare, in materia di consenso informato e di diritto alle cure si richiamano le disposizioni di cui alla Legge 22 dicembre 2017, n. 219 e alla Convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997, in virtù delle quali in sostanza viene affermato che:

  • Il Consenso Informato medico è il processo con cui il Paziente decide in modo libero e autonomo dopo che gli sono state presentate una serie specifica di informazioni, rese a lui comprensibili da parte del medico o equipe medica, se iniziare o proseguire il trattamento sanitario previsto; (L. 22 dicembre 1997, n. 219);
  • “Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato. Questa persona riceve innanzitutto una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi. La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso”. (art. 5 Convenzione di Oviedo del 1997)

Tirando le fila del discorso si può affermare che l’operato del sanitario sarà legittimo non solo se svolto nel rispetto delle leges artis, ma anche se preceduto dallo scrupoloso assolvimento degli obblighi informativi in materia di consenso informato. In difetto, anche di uno solo di tali adempimenti, potrà derivare la responsabilità medico-sanitaria del professionista.

Francesco Sanna, Avvocato

Il testamento è un negozio giuridico tipico con cui l’autore determina la sorte del proprio patrimonio in pendenza della sua morte, servendosi degli strumenti della istituzione dell’erede e del legato.

Nello specifico, il testamento olografo è lo strumento più diffuso attraverso il quale il testatore può esprimere la propria libera volontà: esso ha natura giuridica ed efficacia probatoria di una scrittura privata e dev’essere scritto per intero, datato e sottoscritto di mano del testatore.

Deve chiarirsi, sin da subito, che le disposizioni contenute nella scheda testamentaria sono sempre revocabili in qualsiasi momento poiché il legislatore intende garantire l’assoluta libertà del testatore nella regolamentazione dei propri interessi dopo la morte.

La revocabilità del testamento è un principio di ordine pubblico che trova la sua espressa tutela nell’art. 679 c.c. che prescrive l’inefficacia di ogni clausola o condizione con la quale si rinunci alla facoltà di revocare o mutare le disposizioni testamentarie. Avv. Viola Zuddas, Civilista

Al riguardo, deve precisarsi che la revoca, talvolta indicata anche come “revocazione”, può essere giuridicamente qualificata come un atto negoziale volto a togliere efficacia alle precedenti disposizioni testamentarie: essa può essere espressa o tacita, a seconda delle modalità con cui avviene.

In particolare, la revocazione è espressa quando il testatore, con un nuovo testamento o con un atto ricevuto da notaio in presenza di due testimoni, dichiara esplicitamente di revocare, in tutto o in parte, la disposizione testamentaria precedente.

È, invece, tacita quando la volontà di revocare la disposizione testamentaria può desumersi da un comportamento specifico del testatore che, ad esempio, redige un nuovo testamento che reca delle disposizioni incompatibili con quelle contenute nel testamento anteriore.

Ciò precisato, deve ulteriormente chiarirsi che il legislatore ha previsto un’ipotesi di revoca legale del testamento nel caso in cui siano sopravvenuti dei figli dopo la redazione della scheda testamentaria.

Difatti, l’art. 687 c.c. prescrive che: “Le disposizioni a titolo universale o particolare, fatte da chi al tempo del testamento non aveva o ignorava di aver figli o discendenti, sono revocate di diritto per l’esistenza o la sopravvenienza di un figlio o discendente del testatore, benché postumo, anche adottivo, ovvero per il riconoscimento di un figlio nato fuori del matrimonio. La revocazione ha luogo anche se il figlio è stato concepito al tempo del testamento. La revocazione non ha invece luogo qualora il testatore abbia provveduto al caso che esistessero o sopravvenissero figli o discendenti da essi. Se i figli o discendenti non vengono alla successione e non si fa luogo a rappresentazione, la disposizione ha il suo effetto.”

Nell’ipotesi contemplata dalla norma, quindi, la revoca opera al verificarsi di un presupposto di carattere oggettivo che può, invero, manifestarsi in un duplice modo: l’ignoranza dell’esistenza di figli al momento della redazione del testamento o la sopravvenienza degli stessi.

Coerentemente con la finalità della disposizione in commento, tra l’altro, devono essere ricompresi nella categoria dei figli, o discendenti, anche coloro che abbiano ottenuto l’accertamento della loro filiazione a seguito di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità.

Sorge, però, un problema quando il testatore, in vita, abbia avuto consapevolezza di avere un figlio non riconosciuto e, nonostante ciò, abbia deciso volontariamente di escluderlo dal testamento.

Sul punto deve darsi conto di un contrasto sorto tra dottrina e giurisprudenza, che si fanno portatrici di due distinti orientamenti.

La dottrina muove da un’interpretazione restrittiva della norma appena richiamata ed afferma che la revoca sia uno strumento riconosciuto per attuare rigorosamente la volontà del testatore: quest’ultima, infatti, dev’essere sempre preservata e, dunque, non potrebbe disporsi la revoca del testamento poiché il testatore, pur essendo consapevole di avere un figlio, ha inteso escluderlo volontariamente dalla propria successione.

Tuttavia, la giurisprudenza più attenta e sensibile individua il fondamento della norma nella oggettiva modificazione della situazione familiare, con conseguente necessità di tutelare gli interessi successori dei figli e dei discendenti del testatore.

Per tale motivo, secondo questo orientamento, il testamento redatto da chi sapeva dell’esistenza di propri figli nati fuori dal matrimonio deve essere revocato anche qualora l’accertamento della filiazione avvenga a seguito della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità pronunciata dopo la morte del testatore.

Quest’ultima posizione è stata accolta dalla Corte di Cassazione che, con una recente pronuncia, ha precisato che: “La sopravvenienza di figli, idonea a giustificare la revoca del testamento, ricorre anche quando venga esperita vittoriosamente nei confronti del testatore l’azione di accertamento della filiazione, senza che abbia alcun rilievo che la dichiarazione giudiziale di paternità o la proposizione della relativa azione intervengano dopo la morte del de cuius, né che quest’ultimo, quando era in vita, non abbia voluto testare in loro favore.” (Cass. civ., sent. 21 maggio 2020, n. 13680). Avv. Viola Zuddas, Civilista

Sulla base del principio di diritto espresso dalla Suprema Corte, quindi, deve ritenersi che a nulla rileva che il testatore abbia redatto il testamento nella consapevolezza di avere un figlio e con la precisa volontà di non riconoscerlo né di disporre in suo favore; né, tantomeno, rileva che il riconoscimento dello status di figlio sia avvenuto con una dichiarazione giudiziale emanata dopo la morte del testatore.

Difatti, in tali ipotesi, la finalità della revoca è quella di tutelare la filiazione per preservare gli interessi successori dei figli e ciò anche a discapito della volontà espressa dal testatore quando era ancora in vita.

Viola Zuddas, Avvocato

Ormai da mesi sentiamo parlare del cosiddetto “Superbonus 110%” per le ristrutturazioni delle nostre abitazioni: si tratta, nello specifico, di un’agevolazione statale che permette di detrarre tutte le spese affrontate per lavori di efficientamento energetico con un’aliquota del 110%.

Pertanto, non vi è dubbio che rappresenta per tutte le figure coinvolte nel processo edilizio (dal committente ai progettisti, dagli impresari agli istituti di credito) un’ottima opportunità per eseguire, a costi contenuti, degli specifici interventi in ambito di riqualificazione energetica, e non solo.

Il “Superbonus 110%”, quindi, consente la realizzazione di tutte quelle lavorazioni che aumentano le prestazioni termiche della nostra casa e che, contestualmente, ne diminuiscono i consumi, tra le quali la più diffusa è rappresentata dalla realizzazione di un cappotto termico necessario per la coibentazione dell’involucro di un edificio.

Prima di entrare nel merito delle lavorazioni ammesse alla detrazione, è opportuno precisare che il quadro normativo, seppur ormai ampiamente definito, è in continua evoluzione: la grande portata dell’intervento lo rende, inevitabilmente, un tema complesso da affrontare tant’è che l’Agenzia delle Entrate e gli altri enti preposti (E.N.E.A. e Mi.S.E.) hanno emanato circolari e risoluzioni per fornire chiarimenti interpretativi della normativa di riferimento, ovvero il D. L. 19 maggio 2020, n. 34, il cosiddetto “Decreto Rilancio”.

Inoltre, in considerazione delle molteplici casistiche che possono crearsi in un panorama edilizio vario e complesso come quello italiano è comprensibile che, almeno nella fase iniziale, vi siano delle incertezze ed un po’ di diffidenza nei confronti della fisiologica burocrazia insita in un intervento di queste proporzioni.

Tuttavia, il “Superbonus 110%” rappresenta davvero un’ottima possibilità e, pertanto, è necessario che il committente, prima di dare esecuzione ad un qualsiasi intervento sul proprio immobile, si affidi ad un professionista che, attraverso la realizzazione di uno studio di fattibilità, valuti la sussistenza dei requisiti richiesti dalla normativa per accedere alla detrazione. Carlo Murtas, Architetto

In questo breve articolo, dunque, non voglio entrare nel dettaglio delle singole e differenti casistiche che potrebbero incontrarsi, ma darò delle indicazioni in maniera chiara e semplice per aiutare a comprendere le caratteristiche principali di questo strumento.

Prima di tutto, come anticipato, occorre precisare che i principali soggetti beneficiari di questa agevolazione sono, per ciò che qui interessa, le persone fisiche proprietarie di immobili ed i condomini.

Inoltre, la normativa di riferimento prevede due macro categorie di interventi agevolabili: quelli cosiddetti “trainanti” e quelli cosiddetti “trainati”.

Gli interventi “trainanti” sono quelli principali e, di conseguenza, obbligatori per poter ottenere la detrazione fiscale del 110%, tra i quali si possono menzionare quelli di isolamento termico sugli involucri (ad esempio, realizzazione del cappotto termico).

Gli interventi “trainati”, invece, sono quelli aggiuntivi, la cui relativa spesa, pertanto, potrà essere detratta solo se viene contestualmente realizzato almeno un intervento principale; tra questi possono ricordarsi quelli di efficientamento energetico (ad esempio, realizzazione di infissi esterni).

Come anticipato precedentemente, per accedere al “Superbonus 110%” è opportuno che il professionista incaricato esegua uno studio di fattibilità specifico per quel determinato immobile che, partendo dalla valutazione della conformità urbanistica ed edilizia e dalla diagnosi energetica, mira a verificare la sussistenza dei requisiti necessari prescritti dalla normativa di riferimento.

Se lo studio di fattibilità dovesse dare esito positivo in tutte le sue fasi, si potrà procedere con la fase progettuale definitiva ed avviare la pratica di detrazione.

Il vantaggio principale del “Superbonus”, come sappiamo, è la possibilità di vedersi riconoscere la detrazione fiscale nella misura del 110% e, altresì, di poter optare per la cessione del credito corrispondente alla detrazione maturata oppure scegliere un contributo anticipato sotto forma di sconto in fattura.

In conclusione, il “Superbonus 110%” rappresenta sicuramente un’ottima opportunità per tutti coloro che hanno intenzione di effettuare lavori di efficientamento energetico della propria abitazione poiché abbatte notevolmente i relativi costi di esecuzione.

Carlo Murtas, Architetto

Sono laureato in architettura delle costruzioni ed esercito la professione di architetto presso Hinternos, il mio studio di Cagliari, in viale Diaz n. 29.

Hinternos è uno studio multidisciplinare di architettura nel quale si affrontano progetti che spaziano dalla piccola scala del design alle ristrutturazioni di interni ed efficientamento energetico degli edifici.

Focus di diritto tributario Avv. Francesco Sanna

Superbonus 110%: accertamento e dubbi circa il Giudice competente in caso di controversia
In ordine alla disciplina dei controlli riferiti al Superbonus questi sono demandati a più soggetti con competenze diverse.

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

Profili di rilevanza penale: le false attestazioni
Per l’ottenimento del beneficio fiscale, c.d. Superbonus 110%, previsto dalla L. 17 luglio 2020, n. 77, e riconosciuto sotto forma di detrazione delle spese sostenute per la realizzazione di interventi di ristrutturazione destinati al miglioramento energetico degli immobili, nonché alla riduzione del rischio sismico, la Legge richiede il rilascio di talune attestazioni da parte di soggetti qualificati.

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Focus di diritto civile • Avv. Viola Zuddas

Ristrutturazione dell’immobile e Superbonus 110%
In materia di Condominio negli edifici è importante sottolineare, anzitutto, che ci si trova davanti ad una situazione complessa, in cui le singole unità immobiliari coesistono con le cosiddette parti comuni.
In un Condominio, quindi, ciascun condomino è proprietario di uno o più appartamenti ed è, altresì, comproprietario, insieme agli altri, delle parti comuni dell’edificio.

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Focus di diritto internationale • Avv. Eleonora Pintus

Superbonus 110%: i residenti all’estero possono beneficiarne?
Ti sarai forse chiesto se il Superbonus sia destinato esclusivamente ai cittadini italiani residenti in Italia oppure se anche coloro che vivono all’estero abbiano la possibilità di beneficiarne.

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Con la sentenza 11 luglio 2018, n. 18287, emanata dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite, viene offerta una differente lettura dell’art. 5, L. 1° dicembre 1970, n. 898, cosiddetta “legge divorzile”, che disciplina, per ciò che qui è di interesse, i rapporti patrimoniali tra gli ex coniugi.

Nello specifico, detta norma prevede che il tribunale, con la sentenza che pronuncia lo scioglimento del matrimonio, possa disporre l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente, o in un’unica soluzione, un assegno in favore dell’altro quando quest’ultimo sia privo di mezzi adeguati o, comunque, non possa procurarseli per ragioni oggettive.

Il diritto a percepire tale emolumento trova il proprio fondamento nel principio di solidarietà post coniugale, che è espressione del più generale dovere di solidarietà economico – sociale previsto dall’art. 2 Cost., e presuppone che il beneficiario abbia mezzi inadeguati al proprio sostentamento, pur non essendo necessario che versi in uno stato di bisogno.

Secondo l’orientamento previgente, il criterio solitamente impiegato per valutare l’esistenza del diritto a beneficiare dell’assegno cosiddetto divorzile si poggiava sull’indagine circa l’adeguatezza dei mezzi economico – patrimoniali dell’altro coniuge, ed era volto a consentire a quest’ultimo la conservazione di un tenore di vita analogo a quello vissuto in costanza di matrimonio.

Tuttavia, la sentenza in commento, muovendo dai mutamenti economico – culturali avvenuti nella società, ha consentito di superare il predetto orientamento affermando che l’assegno cosiddetto divorzile sia lo strumento che, adempiendo a una funzione compensativa, consente al coniuge più debole di ricevere quanto abbia conferito durante il matrimonio.

Esso, dunque, non è finalizzato alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale ma, bensì, al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale della ex coppia.
Nello specifico: “Al fine del calcolo dell’assegno di divorzio di cui all’articolo 5 della L. 1° dicembre 1970, n. 898 occorre tenere in considerazione non il tenore di vita, ma diversi fattori, attraverso un criterio cosiddetto “composito” che, alla luce della valutazione comparativa delle rispettive condizioni economico-patrimoniali, dia particolare rilievo al contributo fornito dall’ex coniuge richiedente alla formazione del patrimonio comune e personale, in relazione alla durata del matrimonio, alle potenzialità reddituali future ed all’età dell’avente diritto.” (Cass. civ., Sezioni Unite, 11 luglio 2018, n. 18287).

“Al fine del calcolo dell’assegno di divorzio di cui all’articolo 5 della L. 1° dicembre 1970, n. 898 occorre tenere in considerazione non il tenore di vita, ma diversi fattori, attraverso un criterio cosiddetto “composito” che, alla luce della valutazione comparativa delle rispettive condizioni economico-patrimoniali, dia particolare rilievo al contributo fornito dall’ex coniuge richiedente alla formazione del patrimonio comune e personale, in relazione alla durata del matrimonio, alle potenzialità reddituali future ed all’età dell’avente diritto.” (Cass. civ., Sezioni Unite, 11 luglio 2018, n. 18287). Avv. Viola Zuddas, Civilista

Tale soluzione, come affermato nella pronuncia in commento, tiene conto di un’esigenza riequilibratrice dei patrimoni che sia maggiormente coerente con il quadro costituzionale di riferimento costituito dagli artt. 2, 3 e 29 Cost.

Di conseguenza, il giudizio sul riconoscimento dell’assegno cosiddetto divorzile, e sulla sua quantificazione, dovrà essere espresso alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economiche delle parti, in considerazione dell’apporto conferito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, tenuto altresì conto della durata del matrimonio e dell’età dell’avente diritto.

Ciò chiarito è, ora, importante precisare che detto emolumento è suscettibile comunque di revisione e, altresì, di revoca qualora siano intervenute, medio tempore, delle circostanze che abbiano alterato in maniera rilevante l’equilibrio economico – patrimoniale di uno o di entrambi i coniugi.

Difatti, lo stesso art. 9 della Legge Divorzile precisa che, qualora sopravvengano giustificati motivi dopo la sentenza che pronuncia lo scioglimento del matrimonio, il tribunale può, su istanza di parte, disporre la revisione delle disposizioni relative alla misura e alle modalità dei contributi da corrispondere in favore del coniuge beneficiario.

Sul punto è bene chiarire che, secondo la giurisprudenza dominante, non è sufficiente un mero miglioramento o peggioramento sotto il profilo economico – patrimoniale della capacità dell’uno o dell’altro coniuge perché possa riconoscersi automatica valenza estintiva della solidarietà post coniugale; al contrario, è necessario che sopravvengano dei mutamenti delle condizioni economiche e dei redditi di uno o di entrambi gli ex coniugi che, in concreto, abbiano fatto insorgere l’esigenza di un riequilibrio delle rispettive situazioni economiche.

Solo in tale ipotesi, dunque, sarà possibile eventualmente adeguare l’importo dell’assegno in base alla nuova situazione patrimoniale – reddituale accertata o, addirittura, far cessare lo stesso obbligo della contribuzione.

Ebbene, deve comunque evidenziarsi che in detto contesto assume rilievo anche il comportamento serbato da ciascun coniuge: difatti, nel caso in cui lo stato di bisogno, che in astratto legittima la percezione dell’assegno cosiddetto divorzile, sia stato causato dal beneficiario stesso, il coniuge onerato potrà agire in giudizio per ottenerne la revoca o la diminuzione.
Sul punto, la Corte di Cassazione si è pronunciata con un arresto che si pone in continuità con l’orientamento prevalente ed ha chiarito che: «Se la beneficiaria dell’assegno divorzile è ancora in giovane età ed ha dimostrato di avere piena capacità lavorativa, il mantenimento da parte dell’ex coniuge non sussiste perché semmai esistente uno stato di bisogno esso è stato causato da una precisa volontà della ex moglie che ben avrebbe potuto continuare a svolgere la sua attività lavorativa ed eventualmente cercarne nel frattempo una più redditizia o consona alle sue esigenze personali.» (Cass. civ., sez. VI, 18 ottobre 2019, n. 26594).

La Corte di Cassazione ha chiarito che: “Se la beneficiaria dell’assegno divorzile è ancora in giovane età ed ha dimostrato di avere piena capacità lavorativa, il mantenimento da parte dell’ex coniuge non sussiste perché semmai esistente uno stato di bisogno esso è stato causato da una precisa volontà della ex moglie che ben avrebbe potuto continuare a svolgere la sua attività lavorativa ed eventualmente cercarne nel frattempo una più redditizia o consona alle sue esigenze personali.” (Cass. civ., sez. VI, 18 ottobre 2019, n. 26594). Avv. Viola Zuddas, Civilista

Dalla massima sopra riportata si evince che, in forza del principio di autoresponsabilità economica, ciascuno dei coniugi abbia l’onere di attivarsi al fine di sfruttare la propria capacità lavorativa, cercando un impiego che gli consenta di autosostentarsi e non gravare colpevolmente sull’altro più abbiente.

Da ciò consegue che l’assegno divorzile non spetta all’ex coniuge che, pur potendo reinserirsi nel mercato del lavoro, sia rimasto colpevolmente inerte nel reperire un’occupazione lavorativa confacente con le sue competenze e le sue condizioni economico-sociali.

In conclusione, quindi, per riconoscere il diritto a percepire l’assegno divorzile dovrà operarsi una valutazione complessiva della situazione economico – patrimoniale di entrambe le parti, che tenga in considerazione l’apporto fornito da ciascuna al ménage familiare, l’eventuale sopravvenienza di fattori che incidano sulla consistenza patrimoniale e l’impegno profuso da ciascuna nel reperimento di un’occupazione lavorativa.

Viola Zuddas, Avvocato

L’emergenza epidemiologica da Covid-19 ha causato l’interruzione del ciclo economico e produttivo di aziende ed imprese, sia di piccole che di grandi dimensioni: queste, quindi, hanno attraversato – ed attraversano tuttora – delle grandi difficoltà nella gestione delle risorse personali ed economiche, che le hanno portate, loro malgrado, a dover licenziare parte del proprio personale.

Per tutelare i datori di lavoro ed i lavoratori dipendenti, il Governo Conte, di concerto con le parti sociali, ha approntato un articolato sistema di ammortizzatori sociali per consentire la riorganizzazione strutturale dell’azienda in crisi e ridimensionare il costo del lavoro, cui si accompagnano degli incentivi volti ad evitare la dispersione del capitale umano e, al contempo, favorire l’occupazione.

Tra le tante misure adottate, il D.L. 17 marzo 2020, n. 18 (cosiddetto “Cura Italia”), convertito in L. 24 aprile 2020, n. 27, ha imposto fino al 31 marzo 2021 il divieto di licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, ovvero quelli determinati da «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa.» (art. 3 della L. 15 luglio 1966, n. 604)

In particolare, quindi, al datore di lavoro è preclusa la possibilità di intimare il licenziamento al proprio dipendente pure in presenza di un evento di natura eccezionale ed imprevedibile, come l’emergenza da SARS-CoV-2, che di fatto determina la riduzione dei livelli di attività e, conseguentemente, causa l’alterazione del rapporto tra fabbisogno occupazionale e numero dei lavoratori impiegati in quel dato momento.
La medesima misura, invero, è stata adottata anche in ordine al licenziamento collettivo: questo, infatti, non può essere intimato neppure quando ricorrano oggettive esigenze tecnico – produttive che imporrebbero la riduzione del personale.

Pertanto, sia in caso di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo che in caso di licenziamento collettivo, il recesso unilaterale del datore di lavoro dev’essere considerato nullo, in quanto posto in violazione di una norma avente carattere imperativo, collegata ad esigenze di ordine pubblico.

Ne consegue che il lavoratore che sia stato licenziato può legittimamente adire l’autorità giudiziaria per ottenere, previa declaratoria di nullità del licenziamento intimato, la reintegra nel proprio posto di lavoro, il risarcimento del danno consistito nella mancata retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione, e la condanna del datore di lavoro al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali spettantigli. Avv. Viola Zuddas, Civilista

Tuttavia, bisogna precisare che il blocco dei licenziamenti, imposto dal predetto decreto “Cura Italia”, cesserà il 31 marzo 2021 e, pertanto, il nuovo ministro del lavoro Orlando dovrà valutare l’opportunità della sua proroga o, quantomeno, la necessità di adottare ulteriori riforme degli ammortizzatori sociali.

Sul punto, è importante rilevare che l’Istat ha registrato un considerevole calo dell’occupazione nel nostro territorio, e che esso ha riguardato, in particolare, i lavoratori precari, le partite iva e coloro che avevano un contratto stagionale: al contrario, i danni sono stati contenuti per i lavoratori subordinati proprio grazie al blocco dei licenziamenti ed alla cassa integrazione.
Invero, giunti al 31 marzo 2021, si rischia di assistere a decine di migliaia di licenziamenti che porteranno ad irreversibili ed inevitabili processi di ristrutturazione delle imprese e, nei casi più gravi, alla cessazione dell’intera attività.

Non vi è dubbio, quindi, che, al fine di scongiurare un’improvvisa e difficilmente gestibile ripercussione sull’occupazione, il governo guidato da Mario Draghi dovrà adottare soluzioni mirate che tengano in considerazione le differenze esistenti nel mondo del lavoro e che siano effettivamente rispondenti alle esigenze concrete sia dei lavoratori che delle imprese.

A quest’ultimo proposito, deve darsi conto del dibattito crescente in ordine alla legittimità del blocco dei licenziamenti e, di conseguenza, di una sua eventuale proroga.

L’art. 41 Cost., comma primo, infatti, precisa che “L’iniziativa economica privata è libera” e, dunque, l’adozione di misure che incidano sulla libertà di impresa dovrebbe essere dettata solo da esigenze di carattere straordinario e, comunque, dovrebbe essere limitata nel tempo. Avv. Viola Zuddas, Civilista

Proprio tale aspetto solleva non poche perplessità, poiché le disposizioni che sono state adottate (come, appunto, il blocco dei licenziamenti) sono entrate in vigore da ben 13 mesi e, dunque, non sarebbero pienamente compatibili con il concetto di “temporaneità” che dovrebbe giustificare un divieto di tale portata.

Tali considerazioni sono sicuramente condivisibili; tuttavia, non può sottacersi che le predette misure siano state assunte per tutelare la salute collettiva dal rischio pandemico e che, nelle intenzioni del governo guidato dal presidente Conte, sarebbero dovute rimanere in vigore per un periodo limitato di 60 giorni.

Ad ogni modo, sarà necessario attendere i provvedimenti che il nuovo governo adotterà nelle prossime settimane, nella speranza che vengano gettate le basi per una riforma organica del mondo del lavoro e, altresì, degli ammortizzatori sociali.

Viola Zuddas, Avvocato

L’usucapione è un modo di acquisto della proprietà, o di un diritto reale di godimento, a titolo originario che si verifica quando il soggetto che intende avvalersene riesca a dimostrare il possesso, o l’esercizio di un altro diritto, su un bene, mobile o immobile, protratto nel tempo in modo continuo, pacifico e pubblico.

Affinché un soggetto si possa giovare di tale istituto e dei favorevoli effetti derivanti da una sentenza dichiarativa di usucapione è necessaria la coesistenza di determinati elementi, quali:

  • il possesso della cosa;
  • il trascorrere di un determinato periodo di tempo.

Evidenziati gli elementi fondanti l’istituto in parola, disciplinato all’art. 1158 e ss. c.c., occorre esplicitare cosa si intende per “possesso” e “periodo di tempo”, utili ai fini della declaratoria di usucapione di un determinato bene.

Il possesso deve essere:

  • pacifico e pubblico, cioè non violento o clandestino;
  • continuo ed ininterrotto, cioè esercitato con regolarità e non in modo occasionale.

Il tempo per cui si deve protrarre il possesso della cosa, varia in base:

  • alla categoria del bene;
  • alla situazione soggettiva del possessore (buona o mala fede);
  • all’esistenza o meno di un titolo idoneo;
  • all’esistenza o meno della trascrizione (mezzo di pubblicità dei beni immobili e mobili registrati).

Il Legislatore ha, inoltre, previsto i seguenti periodi temporali utili ai fini dell’usucapione:

  • 20 anni per gli immobili il cui possesso sia stato acquistato in malafede;
  • 20 anni per gli altri diritti di godimento sopra un immobile (usufrutto, uso, abitazione, servitù, ecc.);
  • 20 anni di possesso continuato per i beni mobili;
  • 10 anni se si è acquistato in buona fede, e in base a un atto pubblico registrato, da un soggetto che, tuttavia, non era il vero proprietario del bene;
  • 10 anni di possesso continuato per i beni mobili, relativamente alla proprietà o altri diritti reali acquisiti in buona fede da chi non ne è il proprietario, in presenza o meno di un atto di proprietà;
  • 10 anni di possesso continuato per i beni mobili iscritti nei pubblici registri (automobili, imbarcazioni, ecc.);
  • 3 anni dalla trascrizione per i beni mobili iscritti nei pubblici registri acquistati in buona fede da chi non ne è proprietario.

Fatto questo rapido riassunto in ordine alla disciplina sostanziale dell’usucapione, ora ci si soffermerà sull’onere probatorio incombente sulla persona che, adito il Giudice competente, intende ottenere una sentenza dichiarativa di usucapione.

La giurisprudenza sia di merito che di legittimità è unanime nel ritenere indispensabile, per potersi pronunciare a favore dell’intervenuta usucapione, la sussistenza di una prova certa circa l’inizio del possesso, non essendo possibile far riferimento ad un periodo non specificatamente determinato o alla semplice affermazione di possedere quel bene da tempo immemore.

Ad ogni modo nelle cause vertenti su detta materia la prova principe è quella per testimoni, i quali saranno chiamati a confermare date, circostanze e qualsiasi altro elemento utile a comprovare il possesso, nei modi, nelle forme e nei tempi visti sopra, di quel determinato bene da parte del soggetto interessato.
Rilevanza non secondaria assumono anche le prove documentali, quali ricevute di pagamento di tributi, fatture relative a lavori effettuati sul bene, ecc.
In linea generale il Tribunale competente a conoscere della controversia è quello del luogo in cui si trova la cosa oggetto della domanda di usucapione.

È bene precisare che la materia de qua rientra tra quelle per cui il procedimento di mediazione è obbligatorio, ex art. 5 del D. L.vo 4 marzo 2010, n. 28. Pertanto, prima di rivolgersi al Tribunale, il possessore deve presentare una istanza di mediazione civile ad un organismo di mediazione accreditato al Ministero di Giustizia.

Così, la parte, che ritiene di avere maturato il diritto di usucapire un bene, con l’assistenza di un avvocato deve presentare una istanza di mediazione avente ad oggetto il riconoscimento del proprio diritto, l’indicazione delle parti da chiamare e del bene da usucapire. L’organismo, poi, provvederà a convocare le parti indicate nell’istanza e a fissare la data dell’incontro. Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

Il giorno stabilito, davanti il mediatore designato, le parti potranno raggiungere un accordo o meno.
Per poter raggiungere un accordo valido ed efficace è necessario che al procedimento di mediazione partecipino tutti coloro che risultano proprietari del bene e che, in caso di esito negativo della mediazione, saranno convenuti nel procedimento che, se del caso, verrà incardinato davanti al Tribunale.

Problematica frequente in tali processi è quella dipendente dal fatto che spesse volte si verifica che dalla documentazione risultino proprietari del bene da usucapire svariati soggetti, alcuni dei quali oramai deceduti, di difficile reperimento e identificazione – ad esempio gli eredi di cui non si conoscono i dati anagrafici, gli indirizzi, ecc. – così da rendere particolarmente gravosa la necessaria e indispensabile notifica dell’atto introduttivo del procedimento giudiziario a tutti i convenuti.

In presenza di determinate condizioni che rendono estremamente problematico – a causa dell’elevato numero dei destinatari o per la difficoltà di identificarli tutti – procedere alla notifica di un atto giudiziario nelle forme tradizionali, il nostro ordinamento dà la possibilità di ricorrere al peculiare e residuale istituto della notifica per pubblici proclami, ex art. 150 c.p.c.

Con tale strumento notificatorio, previa autorizzazione del Presidente del Tribunale, il soggetto interessato ovvia all’estrema difficoltà o impossibilità di rintracciare ogni singolo convenuto; così potendo in breve tempo ottenere una pronuncia favorevole che lo dichiari proprietario a titolo originario (o titolare di altro diritto reale di godimento) di un certo bene e per l’effetto poterne disporre liberamente.

Francesco Sanna, Avvocato

Il 27 dicembre 2020 è stato scelto come giorno per far partire, in tutta Europa, la campagna vaccinale gratuita per sconfiggere la pandemia da SARS-CoV-2.

In Italia, in particolare, si è deciso di vaccinare per primi i medici, gli infermieri e tutto il personale sanitario che è quotidianamente, ormai da un anno, impegnato in prima linea nella lotta contro il Covid-19.

Tale fase è giunta al termine nelle scorse settimane e, quindi, in questi giorni si è proceduto a somministrare il vaccino agli ospiti delle RSA ed ai soggetti fragili, ovvero agli appartenenti alle categorie più a rischio a causa dell’età avanzata o per altri fattori.

La campagna vaccinale, secondo le previsioni del Comitato Tecnico Scientifico italiano, dovrebbe durare almeno un anno affinché sia possibile vaccinare il 70% della popolazione e consentire, quindi, di raggiungere l’immunità di gregge che permetterebbe di tenere sotto controllo la diffusione del virus.

Nonostante l’importanza dell’obiettivo, il Governo guidato da Mario Draghi, in continuità con quanto già stabilito dal suo predecessore, ha deciso di non imporre, almeno nella prima fase di profilassi, l’obbligatorietà del vaccino e, pertanto, questo verrà somministrato soltanto alle persone che intendano aderire volontariamente alla campagna vaccinale.

In proposito, è utile richiamare quanto prescritto dall’art. 32 Cost. che tutela la salute sia come fondamentale diritto del singolo che come interesse della collettività e che, al contempo, precisa che nessuna persona possa essere sottoposta, contro la propria volontà, ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. Avv. Viola Zuddas, Civilista

Così, la salute rappresenta, da una parte, un diritto fondamentale del singolo e, altresì, un interesse preminente della collettività soprattutto quando l’impatto sul tessuto sociale (e di conseguenza anche su quello economico) sia oltremodo rilevante; d’altra parte, tuttavia, essa non può essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva.

Invero, la Corte Costituzionale, pronunciatasi di recente in materia di vaccinazioni obbligatorie contro il rischio di malattie infettive per i minori di sedici anni, ha chiarito che si può imporre un trattamento sanitario quando questo sia diretto a migliorare lo stato di salute di chi vi è assoggettato e sia, altresì, funzionale a preservare quello degli altri, sempre che eventuali effetti negativi sulla salute siano limitati a quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, siano tollerabili in considerazione delle circostanze del caso concreto (Corte Cost., sent. 18 gennaio 2018, n. 5).

Anche nell’ipotesi della pandemia da SARS-CoV-2, quindi, potrebbe ragionevolmente valutarsi l’obbligatorietà del vaccino in considerazione delle migliaia di morti e dell’elevata diffusività del virus che, ancora a distanza di un anno, continua a causare delle forti restrizioni alle libertà fondamentali di tutti, imponendo, di fatto, un radicale cambiamento delle attività quotidiane.

Tale problematica, inoltre, appare di grandissimo rilievo stante il fatto che nel nostro territorio si stanno diffondendo delle varianti del Covid-19, in particolare quella inglese e quella brasiliana, che risultano avere una maggiore trasmissibilità e, dunque, potrebbero causare un aumento del numero delle infezioni.

Si sta valutando, pertanto, di imporre l’obbligatorietà del vaccino nel mondo del lavoro e, specialmente, in quei settori in cui il lavoratore, dipendente pubblico o privato, entra in contatto con un numero elevato di persone: potrebbero, quindi, essere sottoposti a profilassi obbligatoria coloro che esercitano la professione medica, i docenti delle scuole ed i rappresentanti delle forze dell’ordine.

A questo proposito, peraltro, è opportuno considerare che l’art. 2087 c.c. prescrive che i datori di lavoro siano tenuti ad adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Avv. Viola Zuddas, Civilista

Tale norma, che trova il proprio fondamento nell’art. 32 Cost., è volta a salvaguardare la salute dei lavoratori mediante l’imposizione, in capo ai datori di lavoro, di obblighi di sicurezza che devono permanere durante lo svolgimento della prestazione: così, i datori di lavoro sono tenuti ad adottare e mantenere dei presidi antinfortunistici per preservare i lavoratori dai rischi connessi alla specifica attività prestata e, altresì, sono obbligati ad adeguare gli strumenti di protezione ai progressi tecnologici e della scienza.

Tra l’altro, non deve dimenticarsi che lo stesso legislatore ha ricondotto il rischio Covid ad un rischio di natura professionale, e ciò ha imposto ai datori di lavoro l’obbligo di adottare ulteriori e specifici protocolli di sicurezza, concordati con le parti sociali, per consentire lo svolgimento in sicurezza dell’attività produttiva.

In questo contesto, quindi, potrebbe risultare ragionevole che i datori di lavoro impongano la profilassi contro il Covid-19 al fine di garantire la salute di tutti i propri dipendenti, anche in considerazione del fatto che l’art. 42, comma secondo del D.L. 18/2020, cosiddetto “Cura Italia”, ha prescritto che l’infezione da coronavirus, contratta dai lavoratori nell’esercizio delle proprie mansioni, debba essere considerata una malattia professionale e, pertanto, l’INAIL è tenuto ad erogare le prestazioni  dovute.

Tale soluzione appare sicuramente coerente con il principio di solidarietà sancito dalla Costituzione che, pur tenendo in debita considerazione la libertà individuale di ciascuno, non può non attribuire preminente rilevanza alla tutela della salute pubblica e, di conseguenza, della collettività.

Viola Zuddas, Avvocato

L’epidemia da Covid-19, attualmente in corso, ha sortito plurime conseguenze su più livelli.

Difatti, oltre ad aver inciso profondamente nella sfera privata e professionale dei singoli, ed aver, più in generale, causato una vera e propria crisi economica globale, il Coronavirus ha, altresì, determinato l’insorgere di numerose problematiche a livello giuridico.

Al riguardo, è statisticamente provato che la maggior parte delle controversie sorte all’indomani della pandemia, abbiano ad oggetto, principalmente, rapporti di natura contrattuale. Sul punto, basti pensare alle ipotesi di mancata consegna della merce a causa della sospensione delle attività produttive o, ancora, alle ipotesi in cui le agenzie di viaggio e/o turistiche non abbiano potuto eseguire nei confronti del consumatore la prestazione oggetto del contratto a causa della chiusura di porti e aeroporti ovvero delle frontiere tra Stati.

Ebbene, in un quadro caotico come quello delineato, il legislatore è intervenuto con una copiosa produzione normativa atta a far fronte ad uno scenario socio – economico – giuridico in continuo divenire.

Mediazione civile e commerciale

Certamente non immune da questo intervento è il settore della mediazione civile e commerciale.

Nello specifico, il legislatore ha, dapprima, cercato di rispondere alle imminenti esigenze di carattere organizzativo-gestionale degli incontri di mediazione. In particolare, ai commi 20, 20-bis e 21 dell’art. 83, D.L. del 17 marzo 2020, n. 18, convertito con modificazioni dalla L. 24 aprile 2020, n. 27, veniva espressamente disposta:

  • la sospensione dei termini per lo svolgimento di qualunque attività nei procedimenti di mediazione, di negoziazione assistita e di tutti i procedimenti di risoluzione stragiudiziale delle controversie regolati dalle disposizioni vigenti;
  • la possibilità che gli incontri di mediazione si svolgano da remoto, mediante l’uso di strumenti di videoconferenza.

Ma le principali novità sono state solo recentemente introdotte dal legislatore il quale, superate le prioritarie ed imminenti esigenze di tipo organizzativo per l’adozione di misure per il controllo e contenimento di situazioni di rischio, ha ritenuto opportuno attribuire alla mediazione un ruolo centrale nell’ambito della definizione stragiudiziale delle controversie, prevedendo una nuova ipotesi di mediazione obbligatoria, propriamente individuata all’art. 3, commi 6-bis e 6 ter del D.L. del 23.02.2020 n. 6.

Qual è, dunque, o quali sono, le nuove fattispecie al cui verificarsi si deve esperire il tentativo di mediazione?

La formulazione della norma sopra citata non consente di rispondere agevolmente alla domanda giacchè questa non enuncia espressamente e tassativamente le nuove ipotesi di mediazione obbligatoria.

Tuttavia, sulla scorta degli indirizzi interpretativi maggiormente consolidati, sembrerebbero rientrarvi le domande relative a:

  • risoluzione del contratto per inadempimento del debitore o inesatto o tardivo adempimento;
  • risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità della prestazione;
  • risoluzione del contratto per eccessiva onerosità;
  • esercizio del diritto di recesso;
  • risarcimento del danno per inadempimento del contratto o tardivo adempimento dello stesso.
  • in generale, in tutti i casi in cui l’inadempimento totale o parziale del rapporto contrattuale sia diretta conseguenza del rispetto delle misure di contenimento della pandemia emanate sia a livello nazionale che regionale o locale, sia di carattere legislativo che amministrativo o regolamentare.

Dunque, alla luce di quanto sopra detto, la condizione di procedibilità deve essere ricondotta solo alle ipotesi di inadempimento o tardivo adempimento di obbligazioni di carattere contrattuale, dovendosi, perciò, automaticamente escludere le domande di risarcimento del danno per responsabilità extracontrattuale, come, ad esempio, nelle ipotesi di risarcimento per danno da contagio.

Eleonora Pintus, Avvocato

L’art. 2051 c.c. rappresenta una delle ipotesi di cosiddetta responsabilità oggettiva presenti nel nostro ordinamento, disciplinando specificatamente la responsabilità da «Danno cagionato da cose in custodia», a mente della quale un qualunque soggetto, sia esso privato o pubblico, è tenuto al risarcimento qualora la cosa sottoposta alla propria custodia abbia causato un danno ad un altro soggetto, a prescindere dal fatto che il contegno del custode sia a lui imputabile a titolo di colpa o dolo.

La peculiarità di tale fattispecie risiede nel fatto che l’evento dannoso è condizione necessaria e sufficiente a fondare la responsabilità. L’elemento oggettivo idoneo ad interrompere il nesso di causalità tra danno arrecato dalla cosa e responsabilità del custode è rappresentato dal cosiddetto “caso fortuito”: dalla sua sussistenza derivano una serie di risvolti pratici sul regime dell’onere della prova.

Il fattore del “caso fortuito” attiene non ad un comportamento del responsabile, ma al profilo causale dell’evento riconducibile non alla cosa che ne è fonte immediata, ma ad un elemento esterno recante i caratteri dell’imprevedibilità e dell’inevitabilità. Così, conseguendone l’inversione dell’onere della prova in ordine al nesso causale, incombendo sull’attore/danneggiato la prova del nesso eziologico tra la cosa e l’evento lesivo e sul convenuto/danneggiante la prova del “caso fortuito”.

Effetti sul regime dell’onere probatorio

Come accennato, ciò determina effetti sul regime dell’onere probatorio. Vediamo quali.
Dall’art. 2051 c.c. si evince che grava sul danneggiato l’onere di provare il nesso eziologico tra danno subìto e bene in custodia, laddove spetterà al custode dare la prova del “caso fortuito”. Viceversa, nel caso della responsabilità aquiliana, ex art. 2043 c.c., è l’attore a dover fornire la prova del comportamento contrario alla legge, elemento questo estraneo alla struttura della fattispecie normativa di cui all’art. 2051 c.c., nella quale il fondamento della responsabilità è costituito dal rischio intrinseco della cosa e che grava sul custode, salva l’esimente del “caso fortuito”.

Pertanto, in virtù della superiore spiegazione sembrerebbe che colui che si determini a richiedere la tutela giurisdizionale, ai sensi dell’art. 2051 c.c., per i danni patiti gioverebbe di un regime probatorio “di favore”, potendo lo stesso domandare il risarcimento del danno subìto in forza del mero rapporto intercorrente tra la cosa (res) ed il soggetto investito della sua custodia, prescindendo da una condotta soggettivamente imputabile a quest’ultimo.
Tuttavia, alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale sia di legittimità che di merito, il risultato desiderato dal danneggiato/attore non pare di così facile raggiungimento.

L’elemento oggettivo idoneo ad interrompere il nesso di causalità tra danno arrecato dalla cosa e responsabilità del custode è rappresentato dal cosiddetto “caso fortuito”: dalla sua sussistenza derivano una serie di risvolti pratici sul regime dell’onere della prova.”Avv. Francesco Sanna, Civilista

Difatti, con la storica pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 12019/1991, si è dato riconoscimento formale alla dilagante intolleranza verso un’applicazione rigorosa e letterale dell’art. 2051 c.c., la quale prestava il fianco ai cosiddetti “risarcimenti facili”.
In particolare, il problema si è posto soprattutto nei confronti dei beni (strade) appartenenti alle Amministrazioni Pubbliche (Comuni, Province, Regioni e Stato), data la loro particolare estensione territoriale, da un lato, e la propensione a diventare facili bersagli di richieste risarcitorie fraudolente, dall’altro lato.

Ragion per cui, si è affermata, in modo assolutamente maggioritario, l’applicabilità della disciplina di cui all’art. 2051 c.c. anche al caso di danno occorso sulla strada di appartenenza della P.A., gravando però sul danneggiato il serio e rigoroso onere di provare la sussistenza del nesso causale tra danno patito e bene in custodia, oltrechè di escludere l’intervento di alcun “caso fortuito”: elemento di per sé idoneo a mandare assolto L’Ente, custode della rete viaria, da responsabilità.

Tale maggiore rigidità interpretativa è testimoniata dalla particolare attenzione dei giudici circa la verifica della presenza, nelle singole fattispecie, di elementi in grado di interrompere il suddetto nesso causale, il quale può essere spezzato dalla condotta del danneggiato.
E così il contegno del danneggiato ha diversa valenza e peso rispetto alla decisione del caso concreto a seconda del grado di incidenza che questo ha avuto in ordine al verificarsi dell’evento dannoso; il tutto anche alla luce dell’applicazione dell’art. 1227, comma 1 c.c., rubricato «Concorso del fatto colposo del creditore», così «… richiedendosi una valutazione che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di solidarietà espresso dall’art. 2 Cost., sicché, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando sia da escludere che lo stesso comportamento costituisca un’evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale, connotandosi, invece, per l’esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro». (Cass. Civ., ord. n. 9315/2019, conf. Cass. Civ., ord. nn. 2480-2481-2482-2483/2018 e da ultima Cass. Civ., Sez. III, ord. n. 4178/2020)

Sul solco tracciato dalla giurisprudenza di legittimità si è inserito anche il Tribunale di Cagliari, il quale ha prestato particolare attenzione alle peculiarità e alle specificità dei singoli elementi di fatto – caratterizzanti la fattispecie oggetto di decisione – in virtù di quanto allegato e provato dalle parti in causa.

Francesco Sanna, Avvocato