Il termine “sharenting” è il frutto dell’unione delle parole “to share” (condividere) e “parenting” (genitorialità) e con esso si fa riferimento al fenomeno, sempre più diffuso, della condivisione sui social di immagini e video che ritraggono minori.

Difatti, oramai è consuetudine che genitori e parenti condividano sui vari social contenuti raffiguranti soggetti minorenni, anche in tenerissima età, e che di conseguenza quest’ultimi già a pochi mesi dalla nascita abbiano una vera e propria identità digitale.

Tutto ciò non poteva e non può che essere oggetto di attento studio e analisi da parte dell’antropologia e della pedagogia, nonché del diritto.

Un recente studio condotto dall’università dell’Indiana ha appurato che il 92% dei bambini e delle bambine che vivono in America già all’età di 2 anni si ritrovano (ovviamente a loro insaputa) ad avere un’identità digitale creata da terzi (solitamente genitori e parenti).Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

Stante la relativa novità del tema – in questi ultimi anni in continua crescita esponenziale – gli studiosi delle scienze umanistiche non hanno ancora certezze in ordine alla natura, entità e gravità delle possibili ripercussioni che tale fenomeno possa avere sullo sviluppo e sulla crescita dei minori. Tuttavia, tutti sono concordi nel ritenere che il ritrovarsi con una vita “già raccontata” (per giunta da altri, senza esserne coscienti e senza possedere ancora un vero senso del proprio io) è determinante nello sviluppo della personalità e della psiche del soggetto, il quale dovrebbe avere la possibilità/diritto di iniziare a formarsi e farsi conoscere all’esterno in modo autonomo sin dalla nascita fino ad arrivare all’adolescenza e poi all’età della maturità.

Ancora, si ritiene che – benché ogni caso sia unico e specifico – le conseguenze negative che subirà il bambino saranno tanto maggiori quanto più i contenuti e le immagini, date letteralmente in pasto al mondo sconfinato di internet, saranno percepiti da questo come distanti dalla reale percezione che questi ha di sé.Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

In buona sostanza, il soggetto potrebbe dover convivere suo malgrado con una “propria” identità creata da altri per lui su internet ed un’altra diversa (quella vera di tutti giorni) che lui vive e sente come propria; il tutto con le conseguenze che ben si possono immaginare dal punto di vista psicologico e di formazione della personalità.

Il caso affrontato dal Tribunale di Rieti con la sentenza n. 443 del 17 ottobre 2022

In generale quando si affronta il fenomeno della sovraesposizione è bene rammentare che le questioni giuridiche che vengono sollevate sono diverse e trasversali, spaziando dalla violazione della privacy e della riservatezza dei dati personali, alla tutela dell’immagine del bambino/a, al rischio di creazione di contenuti idonei alla proliferazione di ambienti pedopornografici, alla problematica dello sfruttamento del lavoro minorile, ecc.

Le leggi nazionali e sovranazionali tutelano il diritto del minore alla propria immagine e identità, pretendendo che la pubblicazione di foto e video dei minori di 14 anni possa avvenire solo con il consenso di entrambi i genitori, poiché l’attività di diffusione dell’immagine non è ritenuta un atto di ordinaria amministrazione (che può essere quindi compiuto senza confrontarsi con l’altro genitore) ma al contrario necessita del comune accordo.

Per quanto concerne la diffusione di immagini di persone maggiori di 14 anni è necessario il loro consenso. Tant’è che il tribunale di Chieti (sentenza n. 403/2020) ha formalmente diffidato una coppia di genitori che pubblicavano sui social foto del figlio senza il suo consenso.

Ma cosa accade se a diffondere le immagini di un minore è un parente diverso dai genitori?

Nel caso sottoposto all’attenzione del tribunale di Rieti a divulgare fotografie e video su facebook di due bambini era stata la zia.

Nello specifico, il padre di due gemelli aveva citato in giudizio la cognata perché questa aveva pubblicato svariate immagini dei figli senza il suo consenso e nonostante le sue richieste di non diffondere più alcun contenuto che ritraeva la sua famiglia.

Difatti, la donna aveva pubblicato un video e ben 52 fotografie dei nipoti, oltre a 7 fotografie del cognato. In quest’ultimo caso le foto erano state pubblicate sia dalla donna che da un suo amico, con tanto di tag che permetteva di risalire all’identità dei soggetti ritratti.Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

Dopo le lamentele dell’uomo, la donna aveva rimosso le di lui fotografie e il tag ma aveva continuato a pubblicare quelle dei nipoti.

In particolare, secondo il giudicante la condotta posta in essere dalla zia dei gemelli era ancor più grave perché questa aveva diffuso immagini dei minori da soli, in primo piano e in costume da bagno; il tutto per di più con un profilo impostato in modalità pubblica.

Quest’ultima circostanza – che rendeva i contenuti visibili a tutti – in aggiunta alla durata dell’esposizione (fotografie caricate online da circa 5 anni) sono state ritenute dai giudici particolarmente gravi, convincendo gli stessi a condannare la signora ad un risarcimento pari a 5mila euro in favore del padre dei bambini.

La normativa di riferimento posta alla base della decisione de qua è il diritto costituzionalmente garantito all’immagine e alla riservatezza della persona (art. 2 Cost.), che nel caso dei bambini gode di una tutela privilegiata (L. 176/1991 ratifica Convenzione di New York sui diritti del fanciullo), l’articolo 10 del codice civile ed infine il Regolamento Europeo sulla Privacy, il quale dispone che: <<I minori meritano una specifica protezione relativamente ai loro dati personali, in quanto possono essere meno consapevoli dei rischi, delle conseguenze e delle misure di salvaguardia interessate nonché dei loro diritti in relazione al trattamento dei dati personali (…)>>.

Avv. Francesco Sanna

Con la sentenza 11 luglio 2018, n. 18287, emanata dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite, viene offerta una differente lettura dell’art. 5, L. 1° dicembre 1970, n. 898, cosiddetta “legge divorzile”, che disciplina, per ciò che qui è di interesse, i rapporti patrimoniali tra gli ex coniugi.

Nello specifico, detta norma prevede che il tribunale, con la sentenza che pronuncia lo scioglimento del matrimonio, possa disporre l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente, o in un’unica soluzione, un assegno in favore dell’altro quando quest’ultimo sia privo di mezzi adeguati o, comunque, non possa procurarseli per ragioni oggettive.

Il diritto a percepire tale emolumento trova il proprio fondamento nel principio di solidarietà post coniugale, che è espressione del più generale dovere di solidarietà economico – sociale previsto dall’art. 2 Cost., e presuppone che il beneficiario abbia mezzi inadeguati al proprio sostentamento, pur non essendo necessario che versi in uno stato di bisogno.

Secondo l’orientamento previgente, il criterio solitamente impiegato per valutare l’esistenza del diritto a beneficiare dell’assegno cosiddetto divorzile si poggiava sull’indagine circa l’adeguatezza dei mezzi economico – patrimoniali dell’altro coniuge, ed era volto a consentire a quest’ultimo la conservazione di un tenore di vita analogo a quello vissuto in costanza di matrimonio.

Tuttavia, la sentenza in commento, muovendo dai mutamenti economico – culturali avvenuti nella società, ha consentito di superare il predetto orientamento affermando che l’assegno cosiddetto divorzile sia lo strumento che, adempiendo a una funzione compensativa, consente al coniuge più debole di ricevere quanto abbia conferito durante il matrimonio.

Esso, dunque, non è finalizzato alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale ma, bensì, al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale della ex coppia.
Nello specifico: “Al fine del calcolo dell’assegno di divorzio di cui all’articolo 5 della L. 1° dicembre 1970, n. 898 occorre tenere in considerazione non il tenore di vita, ma diversi fattori, attraverso un criterio cosiddetto “composito” che, alla luce della valutazione comparativa delle rispettive condizioni economico-patrimoniali, dia particolare rilievo al contributo fornito dall’ex coniuge richiedente alla formazione del patrimonio comune e personale, in relazione alla durata del matrimonio, alle potenzialità reddituali future ed all’età dell’avente diritto.” (Cass. civ., Sezioni Unite, 11 luglio 2018, n. 18287).

“Al fine del calcolo dell’assegno di divorzio di cui all’articolo 5 della L. 1° dicembre 1970, n. 898 occorre tenere in considerazione non il tenore di vita, ma diversi fattori, attraverso un criterio cosiddetto “composito” che, alla luce della valutazione comparativa delle rispettive condizioni economico-patrimoniali, dia particolare rilievo al contributo fornito dall’ex coniuge richiedente alla formazione del patrimonio comune e personale, in relazione alla durata del matrimonio, alle potenzialità reddituali future ed all’età dell’avente diritto.” (Cass. civ., Sezioni Unite, 11 luglio 2018, n. 18287). Avv. Viola Zuddas, Civilista

Tale soluzione, come affermato nella pronuncia in commento, tiene conto di un’esigenza riequilibratrice dei patrimoni che sia maggiormente coerente con il quadro costituzionale di riferimento costituito dagli artt. 2, 3 e 29 Cost.

Di conseguenza, il giudizio sul riconoscimento dell’assegno cosiddetto divorzile, e sulla sua quantificazione, dovrà essere espresso alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economiche delle parti, in considerazione dell’apporto conferito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, tenuto altresì conto della durata del matrimonio e dell’età dell’avente diritto.

Ciò chiarito è, ora, importante precisare che detto emolumento è suscettibile comunque di revisione e, altresì, di revoca qualora siano intervenute, medio tempore, delle circostanze che abbiano alterato in maniera rilevante l’equilibrio economico – patrimoniale di uno o di entrambi i coniugi.

Difatti, lo stesso art. 9 della Legge Divorzile precisa che, qualora sopravvengano giustificati motivi dopo la sentenza che pronuncia lo scioglimento del matrimonio, il tribunale può, su istanza di parte, disporre la revisione delle disposizioni relative alla misura e alle modalità dei contributi da corrispondere in favore del coniuge beneficiario.

Sul punto è bene chiarire che, secondo la giurisprudenza dominante, non è sufficiente un mero miglioramento o peggioramento sotto il profilo economico – patrimoniale della capacità dell’uno o dell’altro coniuge perché possa riconoscersi automatica valenza estintiva della solidarietà post coniugale; al contrario, è necessario che sopravvengano dei mutamenti delle condizioni economiche e dei redditi di uno o di entrambi gli ex coniugi che, in concreto, abbiano fatto insorgere l’esigenza di un riequilibrio delle rispettive situazioni economiche.

Solo in tale ipotesi, dunque, sarà possibile eventualmente adeguare l’importo dell’assegno in base alla nuova situazione patrimoniale – reddituale accertata o, addirittura, far cessare lo stesso obbligo della contribuzione.

Ebbene, deve comunque evidenziarsi che in detto contesto assume rilievo anche il comportamento serbato da ciascun coniuge: difatti, nel caso in cui lo stato di bisogno, che in astratto legittima la percezione dell’assegno cosiddetto divorzile, sia stato causato dal beneficiario stesso, il coniuge onerato potrà agire in giudizio per ottenerne la revoca o la diminuzione.
Sul punto, la Corte di Cassazione si è pronunciata con un arresto che si pone in continuità con l’orientamento prevalente ed ha chiarito che: «Se la beneficiaria dell’assegno divorzile è ancora in giovane età ed ha dimostrato di avere piena capacità lavorativa, il mantenimento da parte dell’ex coniuge non sussiste perché semmai esistente uno stato di bisogno esso è stato causato da una precisa volontà della ex moglie che ben avrebbe potuto continuare a svolgere la sua attività lavorativa ed eventualmente cercarne nel frattempo una più redditizia o consona alle sue esigenze personali.» (Cass. civ., sez. VI, 18 ottobre 2019, n. 26594).

La Corte di Cassazione ha chiarito che: “Se la beneficiaria dell’assegno divorzile è ancora in giovane età ed ha dimostrato di avere piena capacità lavorativa, il mantenimento da parte dell’ex coniuge non sussiste perché semmai esistente uno stato di bisogno esso è stato causato da una precisa volontà della ex moglie che ben avrebbe potuto continuare a svolgere la sua attività lavorativa ed eventualmente cercarne nel frattempo una più redditizia o consona alle sue esigenze personali.” (Cass. civ., sez. VI, 18 ottobre 2019, n. 26594). Avv. Viola Zuddas, Civilista

Dalla massima sopra riportata si evince che, in forza del principio di autoresponsabilità economica, ciascuno dei coniugi abbia l’onere di attivarsi al fine di sfruttare la propria capacità lavorativa, cercando un impiego che gli consenta di autosostentarsi e non gravare colpevolmente sull’altro più abbiente.

Da ciò consegue che l’assegno divorzile non spetta all’ex coniuge che, pur potendo reinserirsi nel mercato del lavoro, sia rimasto colpevolmente inerte nel reperire un’occupazione lavorativa confacente con le sue competenze e le sue condizioni economico-sociali.

In conclusione, quindi, per riconoscere il diritto a percepire l’assegno divorzile dovrà operarsi una valutazione complessiva della situazione economico – patrimoniale di entrambe le parti, che tenga in considerazione l’apporto fornito da ciascuna al ménage familiare, l’eventuale sopravvenienza di fattori che incidano sulla consistenza patrimoniale e l’impegno profuso da ciascuna nel reperimento di un’occupazione lavorativa.

Viola Zuddas, Avvocato