L’art. 42, comma 1, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, dispone che “Gli accertamenti in rettifica e gli accertamenti d’ufficio sono portati a conoscenza dei contribuenti mediante la notificazione di avvisi sottoscritti dal capo dell’ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato”.

Detta norma, nella sua semplicità e chiarezze, non lascia spazio a dubbi interpretativi.

In sostanza, l’avviso di accertamento non sottoscritto o sottoscritto da un soggetto non legittimato è nullo e inesistente, poiché “anonimo”. Difatti, come esplicitamente affermato nella norma in commento, la sottoscrizione, effettuata da un soggetto legittimato, rappresenta un requisito giuridico indispensabile ai fini della validità dell’atto impositivo.

È bene precisare che, ai sensi dell’art, 1, comma 375, della Legge 30 dicembre 2004, n. 311, la sottoscrizione analogica può essere sostituita dall’indicazione “a stampa” del nominativo del capo dell’ufficio o di un suo delegato. Tuttavia, la sua assenza determina – come detto – la nullità dell’atto di accertamento emesso, stante l’impossibilità di individuarne la paternità.

A tale estrema conclusione (nullità dell’atto) è giunta anche la Corte di Cassazione la quale, unanimemente afferma che l’avviso di accertamento è nullo se non reca la sottoscrizione del capo dell’ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato.Avv. Francesco Sanna, Tributarista

D’altronde, anche ai sensi dell’art. 21-septies, della Legge 7 agosto 1990, n. 241, la mancanza degli elementi essenziali dell’atto amministrativo, tra cui compare la sottoscrizione, determina l’applicazione della sanzione della nullità; la quale deve essere eccepita a pena di decadenza entro il primo grado di giudizio dinanzi alle Commissioni tributarie, ex art. 61, D.P.R. 29 settembre 1973, 1973, n. 600.

Sulla tematica inerente quale sia il soggetto legittimato ad apporre valida firma all’atto amministrativo non può non evidenziarsi come debba essere ritenuto alla medesima stregua del “capo” dell’ufficio il soggetto reggente”, così come individuato attraverso i provvedimenti amministrativi di organizzazione degli uffici, senza che abbia rilievo il possesso o meno, da parte di tale reggente, della qualifica necessaria. Sul punto la Corte Costituzionale, con la sentenza del 17 marzo 2015, n. 37, ha dichiarato incostituzionale l’art. 8, comma 24, D.L.2 marzo 2012, n. 16, laddove, nelle more dello svolgimento dei concorsi per coprire le posizioni dirigenziali vacanti nell’Amministrazione finanziaria, permetteva di attribuire incarichi dirigenziali ai propri funzionari mediante contratti di lavoro a tempo determinato per la durata necessaria alla copertura di detti posti tramite concorso e faceva salvi gli incarichi già affidati.

A seguito di detta pronuncia, è sorto il “famoso” problema riguardo la legittimità dei provvedimenti firmati da detti funzionari, la cui nomina era divenuta invalida a seguito del predetto giudizio di incostituzionalità. Tuttavia, la Suprema Corte di Cassazione, con sentenza del 9 novembre 2015, n. 22810, ha ritenuto gli atti di copertura delle posizioni vacanti perfettamente legittimi in quanto l’art. 42, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, non richiede la qualifica dirigenziale per la firma degli atti impositivi.

Tale pronuncia fonda la sua motivazione sul principio di tassatività delle cause di nullità degli atti tributari.

E, ancora, un altro vizio che determina la nullità dell’atto impositivo, figlia di un vizio formale del medesimo, consiste nella mancata indicazione circa il responsabile del procedimento amministrativo. Dal combinato disposto degli artt. 5, comma 2, lett. a, Legge 7 agosto 1990, n. 241, e art. 7, Legge 27 luglio 2000, n. 212, emerge che gli atti dell’Amministrazione finanziaria devono tassativamente indicare il responsabile del procedimento. Ciò nell’ottica di assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa svolta dall’Ufficio, anche al fine di una possibile eventuale azione nei confronti del responsabile medesimo, garantendo al contribuente la tutela del proprio diritto di difesa.

Sul punto, occorre fare una precisazione.
La giurisprudenza di legittimità unanimemente ritiene che un’omissione formale (ossia, la mancata indicazione del responsabile del procedimento) non determina alcuna conseguenza automatica in ordine alla validità ed efficacia dell’atto in questione; difatti, per la dichiarazione di nullità dell’atto impositivo, è necessario procedere alla verifica in concreto della sussistenza della lesione dei diritti del contribuente.

Pertanto, occorrerà, dunque, che il contribuente dimostri che la mancata indicazione del responsabile del procedimento abbia prodotto in capo allo stesso un pregiudizio effettivo circa l’esercizio del diritto di difesa e dei diritti partecipativi nella fase precontenziosa. Detta omissione, peraltro, pare essere lesiva anche dei principi generali di buon andamento e imparzialità della Pubblica Amministrazione, costituzionalmente tutelati.

Sul punto, la Corte di Cassazione è chiara nell’affermare che “L’obbligo di indicare il responsabile del procedimento, lungi dall’essere un inutile adempimento, ha lo scopo di assicurare la trasparenza dell’azione amministrativa, la piena informazione del cittadino (anche ai fini di eventuali azioni nei confronti del responsabile) e la garanzia del diritto di difesa, che sono altrettanti aspetti del buon andamento e dell’imparzialità della Pubblica Amministrazione predicati dall’art. 97, comma primo, Costituzione”. (Cass. Civ. Sez. V, 28 dicembre 2018, n. 33565, cfr. CTP Cosenza n. 3684/2020).

Francesco Sanna, Avvocato

Indice:
1. Il caso
2. La massima
3. Il principio di diritto

1. Il caso

Gli eredi di X e Y impugnavano l’avviso di rettifica, relativo all’anno 1982, con il quale l’Amministrazione aveva recuperato a tassazione corrispettivi non contabilizzati e I.V.A.

In primo grado la Commissione Tributaria Provinciale rigettava le domande di parte ricorrente e avverso tale sentenza i contribuenti proponevano impugnazione, depositando, in corso di causa, apposita memoria alla quale allegavano l’intervenuta rinuncia all’eredità a mezzo atto notarile del 1985.
La Commissione Tributaria Regionale accoglieva l’appello, rilevando che chi rinuncia all’eredità è da considerarsi come se non fosse mai stato chiamato a rispondere delle situazioni giuridiche ad essa connesse.

L’impugnazione dell’atto impositivo equivale ad accettazione implicita dell’eredità, così rendendo inefficace il successivo atto formale di rinuncia alla stessa. (Cass. Civ., sez. Tributaria, ordinanza 29 ottobre 2020, n. 23989).”Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

2. La massima

L’Agenzia delle Entrate adiva la Corte di Cassazione, la quale ha stabilito che «qualora i chiamati all’eredità abbiano ricevuto ed accettato la notifica di una citazione o di un ricorso per debiti del de cuius o si siano costituiti eccependo la propria carenza di legittimazione, non siano configurabili ipotesi di accettazione tacita dell’eredità, trattandosi di atti pienamente compatibili con la volontà di non accettare l’eredità (Cass., sez. 3, 3/08/2000, n. 10197). Qualora, invece, i chiamati all’eredità, come nel caso di specie, abbiano impugnato un atto di accertamento emesso nei loro confronti in qualità di eredi dell’originario debitore, senza contestare l’assunzione di tale qualità e, quindi, il difetto di titolarità passiva della pretesa, ma censurando nel merito l’accertamento compiuto dall’Amministrazione finanziaria, deve ritenersi che essi abbiano posto in essere un’attività che non è altrimenti giustificabile se non con la veste di erede …» (Cass. Civ., sez. Tributaria, ord. 29 ottobre 2020 n. 23989)

3. Il principio di diritto

Ciò premesso in fatto, devesi evidenziare come attraverso tale pronuncia la Suprema Corte di Cassazione abbia fornito una linea interpretativa chiara da adottare in fattispecie di tal fatta, tutt’altro che rare e, quindi, di particolare interesse sia per gli operatori del diritto che per i contribuenti che si trovano o si troveranno ad affrontare una situazione analoga a quella in commento.

A seguito del decesso del contribuente titolare della posizione tributaria, sono stati notificati degli avvisi di accertamento agli eredi, i quali hanno impugnato nel merito la pretesa tributaria e solo in seconda battuta hanno eccepito l’intervenuta espressa rinuncia all’eredità.

Pertanto, il Supremo Collegio, pur ammettendo l’efficacia retroattiva dell’atto di rinuncia all’eredità ed affermando che l’accettazione dell’eredità è presupposto indefettibile perché si possa rispondere dei debiti ereditari, ha osservato come tale esclusione ad essere chiamato a rispondere dei debiti del de cuius operi purchè l’erede non abbia posto in essere comportamenti dai quali si possa desumere un’accettazione implicita dell’eredità; come avvenuto nel caso in analisi.

Difatti, l’Amministrazione ha dedotto l’irrilevanza della rinuncia all’eredità, in quanto intervenuta in momento successivo alla proposizione dell’impugnazione dell’atto impositivo dinanzi alla Commissione Tributaria, costituendo l’impugnazione comportamento che presuppone necessariamente la volontà di accettare e, comunque, di porre in essere un contegno che non si avrebbe il diritto di porre in essere se non in qualità di erede.

Francesco Sanna, Avvocato