Come cambia l’approccio all’acquisto della casa ai tempi del Covid

Il Covid-19 ha avuto un impatto molto forte nel settore immobiliare, così come in qualsiasi altro ambito lavorativo: sta infatti contribuendo a rivedere la geografia della domanda e le necessità abitative dei potenziali acquirenti.

Durante la quarantena tante persone hanno realizzato di vivere in una casa che effettivamente non è funzionale nella suddivisione degli spazi e magari è lontana da aree verdi o dal mare: durante questi mesi, quindi, la presenza di spazi troppo esigui e privi di una terrazza o di un giardino ha sicuramente accentuato la sensazione di chiusura.

Ad essere cambiate sono quindi le priorità domestiche.

Ecco che a mutare è l’approccio del cliente al concetto stesso di casa.

Il nostro lavoro ci porta ad avere a che fare con una moltitudine di persone, cerchiamo di entrare in sintonia con ognuno di loro per riuscire a capire esattamente che cosa vogliono e che cosa cercano: dopotutto li supportiamo nell’acquisto più importante della loro vita.

Tante persone, famiglie o single e tanti budget. Che cosa li accomuna? I nuovi requisiti che la loro futura casa deve avere.

I mesi di quarantena hanno portato a vivere le quattro mura domestiche in maniera poliedrica: la casa si è trasformata anche in palestra o scuola di cucina o ristorante e a questo si è unito il nuovo modo di lavorare, lo smart- working, che ha comportato la necessità di riorganizzare gli ambienti interni.

Emerge, dunque, un quadro del tutto nuovo, una casa dalle mille sfaccettature.

Le persone, pertanto, hanno iniziato a cercare fondamentalmente immobili con spazi più ampi, soluzioni indipendenti o semi-indipendenti, nelle vicinanze di aree verdi o vicino alla spiaggia, con metrature più generose anche per la nuova necessità del lavoro da casa.Tiziana Mereu, Agente immobiliare

Nelle richieste che gestiamo compare come condicio sine qua non almeno una di queste caratteristiche.

La costante dello smart working ha fatto sorgere, poi, la necessità di avere un vano ad esso completamente dedicato dove sarà possibile sopperire alla mancanza di privacy registrata durante il lockdown.

Se prima della pandemia si viveva la casa unicamente a fine giornata come un semplice dormitorio e si dava scarsa importanza a certi aspetti, ora, i nuovi tempi che stiamo vivendo, ci portano a riscoprire l’importanza di possedere un giardino o ampi balconi e terrazze come estensione dello spazio interno.

Questo garantisce più libertà di movimento dentro e fuori casa.

Mi rendo conto, in base alle richieste che riceviamo, che le persone hanno riscoperto la necessità di coltivare un hobby o delle passioni come, ad esempio, un orto (in giardino o in balcone poco importa).

Si tratta di una vera e propria rivincita per queste pertinenze, che prima, in particolare il giardino a causa della manutenzione che richiede, venivano snobbate.

A essere cambiata è anche la domanda dei single: se prima puntavano sui bilocali, piccoli, pratici e facilmente gestibili, ora si orientano su abitazioni leggermente più grandi, che consentono loro di destinare una parte della casa al già citato smart working o da dedicare allo svago.

L’incertezza di viaggiare e le limitazioni alle valvole di sfogo hanno messo per ognuno, nessuno escluso, al centro di tutto la casa, che deve essere dotata di tutti i comfort e dove ogni dettaglio non può essere trascurato.

La casa oggi più che mai deve rispecchiare quello che siamo e deve permetterci di esprimerci senza chiusure o limitazioni di spazio.

 

Tiziana Mereu, Agente immobiliare

Sono laureata in giurisprudenza e attualmente esercito la professione presso l’agenzia Intesa Immobiliare di Quartu Sant’Elena, in via Cagliari n. 40b. Sin dai tempi dell’università appassionata di immobili e arredo, dopo una parentesi da consulente del lavoro abilitato, ha prevalso la passione per questo mondo.

Con l’agenzia immobiliare forniamo servizi di compravendita, locazione, consulenza mutui, sempre in costante aggiornamento e sempre mettendo al primo posto le esigenze del cliente.

Focus di diritto tributario Avv. Francesco Sanna

Imposta di registro per l’acquisto della prima casa
In generale, l’agevolazione fiscale per l’acquisto della prima casa è disciplinata dal D.P.R. n. 131/1986.
L’articolo 1, parte I, nota II-bis della Tabella allegata a detto decreto e ss.mm. sancisce l’applicazione dell’imposta di registro nel termine fisso del 2% nel caso in cui il trasferimento avvenga tra privati e abbia ad ‹‹oggetto case di abitazione, ad eccezione di quelle di categoria catastale A1, A8 e A9, ove ricorrano le condizioni di cui alla nota II-bis).››.

Leggi tutto
Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

L’agente immobiliare non comunica il difetto di abitabilità dell’immobile: è truffa contrattuale
Cosa accade nel caso in cui si acquista un immobile nella convinzione che lo stesso abbia determinate caratteristiche e, successivamente, si scopre che l’abitazione non corrisponde alle informazioni fornite dal venditore o dall’agente immobiliare al momento della vendita?

Leggi tutto
Focus di diritto civile, contratti • Avv. Viola Zuddas

Quando spetta la provvigione al mediatore immobiliare?
Il mediatore è colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare, senza essere legato ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza.

Leggi tutto
Focus di diritto internazionale e dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Esiste un diritto all’abitazione?
Il diritto “alla casa” si inserisce nell’ambito di una “tutela multilivello di diritti”, che coinvolge fonti internazionali, comunitarie e nazionali.

Leggi tutto
Le modifiche al codice penale

Il disegno di legge Zan, composto da dieci articoli, ha l’espressa finalità di prevenire e contrastare la discriminazione e la violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità, mediante un intervento di modifica al codice penale.

In particolare, sono due gli articoli ad essere interessati dal DDL ZAN, ovvero l’art. 604 bis e l’art. 604 ter c.p., originariamente introdotti con la cd. Legge Mancino.

Nella formulazione attuale, l’art. 604 bis punisce chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico e chi istiga a commettere o commette atti discriminazione o violenza per gli stessi motivi.

La norma punisce, inoltre, chi partecipa, presta assistenza, promuove o dirige associazioni o gruppi che incitano alla discriminazione o alla violenza basata sui motivi razziali o religiosi.

L’art. 604 ter c.p., invece, prevede un’apposita circostanza aggravante applicabile nel caso di reati commessi con finalità discriminatorie.

Ebbene, se, da un lato, il DDL ZAN non introduce alcuna modifica relativa al reato di propaganda – che rimane, quindi, limitato alle sole ipotesi di odio razziale o etnico – dall’altro lato, interviene sia in merito al reato di istigazione che avendo riguardo alla commissione di atti di discriminazione e violenza.

In parole semplici, si tratta di un intervento volto ad ampliare le norme già esistenti, destinato però ad aggiungere alle discriminazioni o violenze per motivi razziali, etniche e religiose, anche quelle fondate sul sesso, sull’orientamento sessuale e identità di genere, nonché sulla disabilità. Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista • Avv. Claudia Piroddu, Penalista

La Legge, inoltre, prevede l’introduzione di una specifica circostanza aggravante applicabile a quelle condotte criminose che risultano motivate da omotransfobia ed abilismo che, ad oggi, non sono previste espressamente in nessuna norma del codice penale.

Infatti, nonostante l’art. 61 c.p., che disciplina le circostanze aggravanti comuni applicabili a qualsiasi fattispecie, preveda l’aggravante di “aver agito per motivi abbietti o futili“, questa, tuttavia, ha ad oggetto ipotesi diverse che ricorrono solo laddove la condotta sia sorretta da motivi perversi o sproporzionati, entrambe difficilmente applicabili al caso in esame.

Ebbene, la critica maggiore che viene sollevata al disegno di legge riguarda la presunta limitazione della libertà di espressione che le modifiche normative introdurrebbero.

Ma è davvero così?

Libertà di espressione e reati di opinione

La libera manifestazione del pensiero, come principio fondante di uno stato democratico, è tutelata dall’art. 21 della Costituzione italiana, nel quale si precisa che “tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione“.

Poter esprimere idee e pensieri, tuttavia, non significa poterlo fare in maniera indiscriminata, ad esempio, con modalità offensive o violente.

Vi sono, quindi, dei limiti previsti proprio per tutelare anche le libertà altrui, ossia l’onore, la reputazione, l’incolumità o l’integrità fisica e psichica delle persone coinvolte, solo per citarne alcune.

Deve poi aggiungersi che il codice penale e alcune leggi speciali puniscono i cd. reati di opinione, che tutelano valori morali, spirituali e ideali, intesi come beni super- individuali, ossia riconducibili all’intera società.

Ne sono un esempio, il reato di attentato contro l’integrità, l’indipendenza e l’unità dello Stato, il reato di attentato contro la Costituzione dello Stato o i reati di vilipendio, nonché il reato di apologia di genocidio e del fascismo che, nella specie, punisce chiunque pubblicamente esalti esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche.

Fatta questa doverosa premessa, pare opportuno precisare che il DDL ZAN garantisce la libertà di opinione, senza metterla in discussione né limitarla.

In particolare, l’art. 4 prevede espressamente che “sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti“.

Ciò significa che è ben possibile continuare ad esprimere liberamente idee e convinzioni personali, condivisibili o meno, purché la libertà di espressione del singolo non sconfini nell’istigazione all’odio e alla violenza per motivi inerenti al sesso, all’identità di genere o all’orientamento sessuale.

Peraltro, è necessario aggiungere che la norma non contempla né disciplina in alcun modo la “maternità surrogata” e la “transizione di genere“, ma introduce, invece, la definizione di “identità di genere“, quale estrinsecazione della libera espressione di sé, mutuandola dalla giurisprudenza europea e dal diritto sovrannazionale.

Invero, nell’art. 1, lett. d), il DDL stabilisce che “per identità di genere si intende l’i­dentificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corri­spondente al sesso, indipendentemente dal­l’aver concluso un percorso di transizione“.

Come preannunciato, si tratta di una definizione introdotta per la prima volta dal Parlamento europeo e dal Consiglio con la Direttiva n. 95 del 2011 ove, rilevata l’esigenza di introdurre una definizione comune del motivo di persecuzione costituito dall’ “appartenenza a un determinato gruppo sociale”, è stato specificato che ai fini della definizione di un determinato gruppo sociale, occorre tenere debito conto degli aspetti connessi al sesso del richiedente, tra cui l’identità di genere e l’orientamento sessuale.

Una più approfondita definizione è stata poi inserita nella Direttiva 2012/29 UE, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato.

In particolare, nell’invitare gli Stati membri a migliorare la legislazione e le misure concrete di sostegno per il riconoscimento e la protezione delle vittime, la Direttiva in esame ha riservato particolare attenzione alle “vittime della violenza di genere”, con ciò intendendosi “la violenza diretta contro una persona a causa del suo genere, della sua identità di genere o della sua espressione di genere o che colpisce in modo sproporzionato le persone di un particolare genere”.

La violenza punibile è, dunque, quella che “può provocare un danno fisico, sessuale, emotivo o psicologico, o una perdita economica alla vittima. La violenza di genere è considerata una forma di discriminazione e una violazione delle libertà fondamentali della vittima e comprende la violenza nelle relazioni strette, la violenza sessuale (…), la tratta di esseri umani, la schiavitù e varie forme di pratiche dannose, quali i matrimoni forzati, la mutilazione genitale femminile e i cosiddetti «reati d’onore»”.

È evidente, dunque, che l’introduzione del concetto di “identità di genere” da un punto di vista giuridico non è certamente nuova ma ha trovato ampio riconoscimento già a livello sovranazionale. Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista • Avv. Claudia Piroddu, Penalista

Ebbene, nonostante ciò, sebbene l’Italia abbia recepito la Direttiva n. 29 del 2012 con il Decreto legislativo del 15 dicembre 2015 n. 212, ad oggi risulta l’unico Paese tra quelli fondatori dell’Unione Europea a non aver adottato una normativa per contrastare penalmente l’odio e la violenza per motivi inerenti al sesso, all’identità di genere o all’orientamento sessuale.

In questo contesto, il DDL ZAN consentirebbe, indubbiamente, di contrastare a livello penale questo tipo di fenomeni.

Eleonora PintusClaudia Piroddu, Avvocati

In tema di sicurezza sul lavoro, occorre precisare che il datore di lavoro è titolare di specifici obblighi di adeguata informazione, formazione e vigilanza dei lavoratori ed è tenuto per Legge all’adozione di tutte le misure idonee a prevenire eventuali rischi connessi all’attività lavorativa.

Tali obblighi trovano fondamento nell’art. 2087 c.c. e nelle disposizioni contenute nel Testo Unico sulla salute e sicurezza sul lavoro.

All’evidenza, si tratta di norme volte a contenere il più possibile i rischi e ad evitare il verificarsi di infortuni, tanto ciò è vero che il datore di lavoro deve adottare, secondo la propria esperienza e le migliori conoscenze tecniche, le misure necessarie in relazione al tipo di attività svolta, le quali devono essere costantemente aggiornate.

In caso contrario, l’inosservanza delle norme dirette alla prevenzione degli infortuni sul lavoro può comportare la responsabilità penale del datore di lavoro, ove sia dimostrato il nesso di causalità tra la predetta violazione e l’evento lesivo verificatosi in danno del lavoratore.

In particolare, giova sottolineare che in capo al datore di lavoro, quale titolare di appositi obblighi posti a presidio della salute e sicurezza del lavoratore, è riconosciuta una cd. posizione di garanzia.

Ne deriva che, ai sensi dell’art. 40 c.p., il datore di lavoro risponde dell’evento lesivo, qualora non abbia adottato le misure anti infortunistiche volte ad impedirlo o non abbia vigilato adeguatamente sul rispetto delle medesime.

Tanto precisato, all’evidenza, ciò non significa che il titolare della posizione di garanzia sia ritenuto responsabile automaticamente al verificarsi di un incidente sul luogo di lavoro (Cass. pen., sez. IV, 13 gennaio 2021, n. 4075). Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Invero, è necessario verificare, innanzi tutto, se sussiste o meno la violazione dell’obbligo di prevenzione da parte del datore di lavoro.

Inoltre, occorre che l’evento lesivo verificatosi in concreto sia proprio quello che la misura di contenimento mirava ad evitare (cd. concretizzazione del rischio) ed, infine, che l’infortunio si sia verificato a causa della condotta negligente, imprudente o imperita del datore di lavoro o in conseguenza della violazione di norme specifiche.

Nel caso in cui ricorrano tutti gli elementi poc’anzi menzionati, il datore di lavoro potrà essere chiamato a rispondere per colpa delle lesioni o morte del lavoratore, ai sensi dell’art. 43 c.p.

Peraltro, il datore di lavoro è tenuto al rispetto dei predetti obblighi anche in caso di nomina del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, posto che tale figura non può sostituire quella del datore di lavoro, che, anche in tale ipotesi, mantiene il ruolo di vigilanza.

Tuttavia, in taluni casi, è prevista la possibilità di delegare le funzioni in materia di sicurezza e igiene sul lavoro -ad esempio, nell’ambito societario- con la conseguenza che solo il delegato potrà rispondere di eventuali eventi lesivi subiti da un dipendente.

Ne consegue che il datore di lavoro, direttamente o mediante apposite figure delegate, deve sempre dotarsi di strumenti di valutazione, gestione e controllo del rischio, la cui osservanza risulta idonea a evitare il verificarsi di eventi lesivi o quanto meno a escludere o limitare la rilevanza penale delle condotte del datore di lavoro.

E in caso di “imprudenza” del lavoratore?

Con una recente pronuncia, la Corte di Cassazione ha ribadito il principio consolidato secondo il quale, a fronte di una condotta omissiva del datore di lavoro, il comportamento del lavoratore, quand’anche risulti negligente o imprudente e abbia contribuito a dare causa all’evento lesivo, non vale a interrompere il nesso causale tra la condotta ascritta al datore di lavoro e l’incidente occorso al dipendente.

In altre parole, dal momento che le disposizioni antinfortunistiche perseguono il fine di tutelare il lavoratore anche dagli infortuni derivanti da sua colpa, ancorché prevedibili, non è configurabile una responsabilità del medesimo, quando il sistema di sicurezza approntato dal datore di lavoro presenti delle criticità o anomalie (Cass. pen., sez. IV, 13 febbraio 2020, n. 8163).

A tale riguardo, però, nella sentenza n. 50000 del 6 novembre 2018, i giudici di legittimità hanno precisato che: “Il comportamento del lavoratore può rilevare quale limite alla responsabilità del datore di lavoro solo quando risulti abnorme, eccezionale o comunque esorbitante rispetto al procedimento lavorativo e alle precise direttive ricevute, connotandosi come del tutto imprevedibile o inopinabile, sicché tra gli obblighi del datore di lavoro è ricompreso anche il dovere di prevenire l’eventuale comportamento negligente o imprudente del lavoratore”. Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Che cosa si intende, dunque, per comportamento “abnorme”?
Si considera “abnorme” il comportamento che risulta talmente eccezionale e ingovernabile rispetto al tipo di attività svolta, da collocarsi al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte delle persone preposte all’applicazione delle misure di prevenzione degli infortuni sul lavoro.
Pertanto, se il comportamento del dipendente non può connotarsi come abnorme o imprevedibile, tenuto anche conto dell’esperienza maturata dal medesimo e della specifica lavorazione posta in essere, sussisterà comunque una responsabilità del datore di lavoro (Cass. pen., sez. IV, 25 settembre 2020, n. 26618).

Quest’ultimo, infatti, risponderà del reato colposo (lesioni o morte) e sarà tenuto al risarcimento dei danni conseguenti, per non aver adottato le misure necessarie a contenere il rischio di verificazione di eventi lesivi, compresi quelli che possono prevedibilmente derivare da errori nello svolgimento dell’attività di lavoro.

Claudia Piroddu, Avvocato
Diffamazione sui social: responsabilità diretta e dei provider alla luce della normativa interna e Comunitaria

La diffusione di internet e, ancora più, la nascita dei social network, se da un lato ha apportato numerosi benefici tra i quali, la rapida e capillare circolazione delle informazioni, nonché la nascita di nuove professioni, come quella dell’influencer, d’altra parte, soprattutto nell’ultima decade, ha comportato il notevole aumento degli illeciti commessi dagli utenti del web.

La casistica è variegata: si passa dalla sostituzione di persona, alla diffamazione a mezzo internet, all’accesso abusivo al sistema informatico, al cyber bullismo o, ancora, alla pedopornografia.

In particolare, sempre più frequenti sono le condotte di diffamazione perpetrate tramite l’uso dei social network che all’evidenza risultano facilitate dalla possibilità, per un numero notevole di utenti della rete, di esprimere del tutto liberamente, e senza vaglio preventivo, commenti e giudizi, talvolta connotati da carattere volgare e offensivo, o ancora, mediante la semplice diffusione di fake news.

Sebbene la Legge italiana riconosca e tuteli il diritto alla libera manifestazione del pensiero, lo stesso incontra un chiaro limite dinnanzi alle condotte che trasmodano nell’offesa dell’altrui immagine e reputazione, che, dunque, assumono rilevanza penale.

Al riguardo, la Giurisprudenza di Legittimità è concorde nel ritenere che la diffusione di un messaggio diffamatorio pubblicato sulla bacheca di Facebook, ovvero sulla piattaforma Instagram -ad esempio, nelle modalità di commento ad una foto- integra l’ipotesi di diffamazione aggravata, ai sensi dell’art. 595, comma terzo, c.p., sotto il profilo dell’offesa arrecata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa. Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista • Avv. Claudia Piroddu, Penalista

La potenziale offesa insita nel commento, infatti, è senza dubbio capace di raggiungere un numero indeterminato di persone -quale elemento costitutivo della fattispecie in esame- e, pertanto, è evidente che colui il quale abbia coscientemente e volontariamente “postato” il commento diffamatorio sarà chiamato a rispondere del reato di diffamazione aggravata poc’anzi menzionato.

Dette condotte sono state perfino sottoposte anche al vaglio della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo la quale, come affermato in un caso recente, ha confermato che integra una violazione dell’articolo 8 della Cedu -che tutela il diritto al rispetto della vita privata, incluso quello alla reputazione- la pubblicazione di un’immagine manipolata sul social network Instagram.

I giudici, nel caso di specie, hanno superato i confini “classici” della diffamazione -intesa quale offesa di carattere verbale- affermando che la tutela della reputazione va assicurata anche a chi subisce accuse diffamatorie su Instagram sotto forma di manipolazione di un’immagine.

Ma la complessità del fenomeno della diffamazione a mezzo internet fa sorgere un ulteriore ed inevitabile quesito: in questi casi, è possibile ascrivere una responsabilità anche al cd. “provider”, ossia il prestatore di servizio della società dell’informazione?

Difatti, sebbene questi siano certamente responsabili degli illeciti posti in essere in prima persona, il problema sorge, allorquando, l’illecito venga commesso da soggetti terzi, in quanto l’ordinamento penale italiano non prevede una responsabilità per fatto altrui.

La normativa di riferimento è contenuta nel D. Lgs. del 9 aprile 2003 n. 70, emanato in attuazione della Direttiva europea sul commercio elettronico 2000/31/CE, relativa a taluni aspetti giuridici della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico.

Dalla lettura della normativa in esame, si evince l’assenza di un obbligo generale di sorveglianza ex ante per i providers i quali, ai sensi dell’art. 17 del menzionato decreto, sono sollevati da un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano; né grava sui medesimi un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite.

In tal senso, l’art. 14 della Direttiva non lascia spazio ad alcun dubbio: “Gli Stati membri provvedono affinché, nella prestazione di un servizio della società dell’informazione consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non sia responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore: a) non sia effettivamente al corrente del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illegalità dell’attività o dell’informazione, o b) non appena al corrente di tali fatti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso“.

Ebbene, l’eventuale mancata collaborazione con le autorità potrebbe, infatti, comportare non solo il riconoscimento di una responsabilità civile in capo ai medesimi degli eventuali danni cagionati dalla sussistenza e mancata rimozione dell’illecito ma, altresì, delle conseguenze da un punto di vista del diritto penale.

Sul punto, la più recente giurisprudenza di legittimità, ha affermato che: “risponde a titolo di concorso nel delitto di diffamazione commesso da terzi il gestore di un sito internet che, venuto a conoscenza dell’esistenza di un articolo diffamatorio pubblicato da altri, mantiene consapevolmente tale contenuto sul sito, consentendo che lo stesso eserciti la sua efficacia diffamatoria” (Cass. pen., sez. V, n. 54946/2016). Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista • Avv. Claudia Piroddu, Penalista

Quanto, invece, alla figura del blogger -nonostante la stessa risulti distinta da quella del provider, poiché l’amministratore del blog si limita a mettere a disposizione uno spazio virtuale in cui gli utenti possono interagire con la pubblicazione di commenti- è stata delineata una responsabilità, per certi versi, assimilabile a quella finora esaminata.

Partendo dal presupposto che non vi è una norma che prevede in capo al blogger degli appositi obblighi impeditivi di eventi offensivi riguardanti l’altrui reputazione, tuttavia, il blogger che non si attiva tempestivamente per rimuovere commenti offensivi pubblicati da terzi sul suo blog commette anch’egli il reato di diffamazione.

Infatti, secondo l’indirizzo giurisprudenziale più recente, la predetta condotta è equiparata non già al mancato impedimento dell’evento diffamatorio, bensì ad una vera e propria condivisione consapevole del contenuto lesivo dell’altrui reputazione anche da parte del gestore del blog, che, non provvedendo alla rimozione del post offensivo, ne ha consentito un’ulteriore divulgazione.

In conclusione, l’esigenza di tutelare la vittima per i danni alla propria immagine e reputazione, hanno fatto giungere la quasi totalità degli ordinamenti alla conclusione di attribuire, oltre che al singolo, anche al service provider o al blogger la responsabilità per illeciti derivanti dal materiale immesso e non rimosso o dalle dichiarazioni effettuate dagli internauti in spazi virtuali a questi messi a disposizione e gestiti dai primi.

Eleonora PintusClaudia Piroddu, Avvocati

Padel e tennis a Cagliari: dietro le quinte

Durante l’anno passato, nonostante la crisi sanitaria globale che ancora sta colpendo tantissimi ambiti produttivi, la città di Cagliari ha avuto la fortuna di ospitare alcuni eventi sportivi di rilievo internazionale, organizzati all’aperto o senza la presenza di pubblico a causa del picco di contagi invernale e dell’irrigidimento delle normative nazionali.

Nel mese di marzo, sullo sfondo del circolo di tennis di Monte Urpinu, si è svolto l’incontro di Coppa Davis tra Italia e Corea del Nord, purtroppo a porte chiuse e quindi senza il pubblico preventivato (3000 posti) in seguito alle restrizioni dovute al contenimento del contagio da Covid-19.
A settembre, sempre il TC Cagliari ha aperto le sue porte al World Padel Tour, evento internazionale dello sport più in voga degli ultimi anni; anche se con un pubblico limitato, si è potuto garantire ai giocatori il supporto dei tifosi, offrendo uno spettacolo del tutto nuovo e dando visibilità alla nostra splendida città che ha potuto godere delle dirette televisive di Sky e mostrare il suo volto anche grazie alla installazione di un campo temporaneo nella suggestiva location del Bastione di Saint Remy.

Il padel è tornato a Cagliari anche nel mese di dicembre, per le Cupra Fip Finals, che si sono disputate sempre al TC Cagliari e al Palapirastu di via Rockfeller, questa volta senza pubblico.
Anche nel 2021, ad aprile, la nostra città ha avuto l’onore di ospitare ancora una volta il grande tennis internazionale, organizzando una tappa del circuito ATP 250 sui campi del Tennis Club Cagliari.

Di norma, quando si sente parlare di eventi come questi, si pensa che l’organizzazione competa esclusivamente a professionisti del marketing o ai settori amministrativi delle società creative e, soprattutto, a chi si occupa della programmazione dal punto di vista della comunicazione e direzione artistica.
In realtà esiste una pianificazione, che avviene dietro le quinte, senza la quale gli eventi aperti al pubblico non potrebbero realizzarsi; è il lavoro che riguarda gli spazi e le strutture scelte per ospitare le manifestazioni che siano esse di natura sportiva, artistica, o congressuale.
È per questo che le società organizzatrici si rivolgono a tecnici del settore per ottenere le autorizzazioni necessarie allo svolgimento degli spettacoli in programma.

L’organizzazione di eventi e manifestazioni sportivi aperti al pubblico è regolamentata dalla legge italiana di pubblica sicurezza, R.D. 18 giugno 1931, n. 773, denominata TULPS ovvero Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. Con il regio decreto 6 maggio 1940, n. 635 è emanato il relativo regolamento di esecuzione (Regolamento di esecuzione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza). Elena Falqui, Ingegnere

La legge è tuttora in vigore e rimane il primo riferimento normativo per chi intende organizzare un evento pubblico.
Sinteticamente, il decreto impone la verifica dei luoghi dedicati agli eventi pubblici da parte di una commissione di vigilanza (CVLPS), comunale o provinciale in funzione del numero di spettatori. La commissione è composta da professionisti di diversi settori, ognuno dei quali si esprime per l’area di propria competenza (ad es. rappresentanti degli uffici dei Vigili del Fuoco, ASL, Questura, Genio civile, etc). Al di sotto dei 200 spettatori non viene convocata la commissione ma è sufficiente la certificazione di un tecnico abilitato.

Tutte le grandi manifestazioni che si sono svolte a Cagliari hanno quindi avuto necessità di un supporto tecnico, sia per la presentazione delle domande autorizzative che per la parte progettistica e la FIT mi ha affidato questo incarico, in virtù delle mie precedenti esperienze con la finale di FEDERATION CUP del 2013 -che si è svolta sempre a Cagliari- e ai vari anni di collaborazione con l’Architetto progettista degli allestimenti per gli Internazionali BNL d’Italia, al Foro Italico di Roma.

Nel dettaglio, la procedura per richiedere l’autorizzazione per una manifestazione sportiva prevede un primo passaggio all’ufficio comunale preposto al rilascio della determina, (ad esempio al Comune di Cagliari l’ufficio dedicato è quello della Pubblica istruzione, politiche giovanili e sport, al Comune di Roma il Dipartimento Sport e Politiche Giovanili). Il dirigente dell’Ente locale attiva l’”Avvio del procedimento” e, in base alla richiesta del proponente ed al numero di spettatori previsto, convoca la Commissione di Vigilanza.

Il tecnico incaricato dall’organizzazione provvede quindi ad inoltrare all’amministrazione tutti i documenti necessari per il controllo degli spazi dedicati al pubblico, fondamentali per l’ottenimento dell’autorizzazione dal punto di vista strutturale. Verranno quindi prodotti allegati grafici come piante, planimetrie dei sistemi di sicurezza con indicazioni delle vie d’esodo, relazioni strutturali e descrittive per tutte le aree pubbliche.
Molto importante è anche la documentazione relativa alla Circolare 7 giugno 2017 (Circolare Gabrielli) che rende obbligatoria la stesura di un piano Safety&Security per le manifestazioni pubbliche.
Contemporaneamente, il promotore produce adeguata documentazione per quanto riguarda gli aspetti amministrativi, contributivi e quelli strettamente legati alla natura dell’evento (ad esempio autorizzazioni delle Federazioni sportive e del CONI in ambito di eventi sportivi).

Una volta ricevuta tutta la documentazione richiesta, la CVLPS si riunisce per esaminare i progetti e i documenti prodotti e successivamente effettua un sopralluogo per riscontrare la conformità di quanto dichiarato.

A questo punto, se gli spazi, gli impianti e le strutture sono ritenuti adeguati e rispondenti alle prescrizioni normative, la Commissione rilascia il suo nulla osta per lo svolgimento della manifestazione tramite un parere positivo e l’amministrazione comunale può inviare l’autorizzazione generale per l’evento. Elena Falqui, Ingegnere

Il cantiere più impegnativo a cui mi sono dedicata, per la grande dimensione del progetto, è stato certamente quello riguardante l’allestimento delle grandi tribune temporanee previste per la Coppa Davis 2020 (2000 posti aggiunti a quelli preesistenti). Tale progetto mi ha coinvolta nella progettazione, nella direzione dei lavori e nel coordinamento della sicurezza; l’esperienza maturata in questa occasione mi ha permesso di gestire con maggiore padronanza i progetti successivi.

Considero un privilegio aver avuto l’opportunità di cimentarmi in queste esperienze professionali e sono grata per la fiducia che la mia Federazione ha riposto in me, consentendomi di affinare le mie competenze e di capire davvero quanto sia gratificante poter lavorare in un’organizzazione di questo livello.
Ma soprattutto, grazie al prezioso supporto e aiuto di colleghi esperti, ho avuto modo di comprendere pienamente quanto la categoria professionale a cui appartengo sia fondamentale nella realizzazione di eventi di così ampio respiro.

Elena Falqui, Ingegnere

Mi sono laureata nel 2007 in Tecnologie per La Conservazione e il Restauro dei Beni Culturali e nel 2010 in Ingegneria Edile, col massimo dei voti presso la facoltà di Ingegneria e Architettura di Cagliari; ho conseguito il Master di II livello in Progettazione di impianti sportivi presso la Sapienza a Roma nel 2011.
Ho svolto inizialmente l’attività di libero professionista presso uno studio privato e contemporaneamente presso lo studio di Ingegneria e Architettura di famiglia.
Nel 2012 ho intrapreso la mia prima esperienza a Roma, affiancando l’architetto incaricato, dal CONI e dalla FIT, della progettazione degli spazi del Foro Italico a Roma in occasione degli Internazionali BNL d’Italia. Nello stesso anno sono stata assunta dalla FIT, ho proseguito l’affiancamento col progettista degli IBI; ho svolto anche il ruolo di referente FIT per gli impianti sportivi di tennis in tutta Italia e ho fatto parte per alcuni anni della Commissione Impianti Sportivi; ho anche partecipato al gruppo di controllo sul “Fondo Rotativo FIT”, verificando, dal punto di vista tecnico, le richieste di finanziamenti dei circoli affiliati.
Dal 2019 sono diventata un collaboratore esterno della Federazione Italiana Tennis e tuttora proseguo il mio percorso nel mondo dello Sport.
Mi occupo principalmente della progettazione degli spazi, della direzione dei lavori, della sicurezza sia in fase di progettazione che esecuzione nei cantieri, della stesura di Piani Safety&Security e sono il referente nei rapporti con l’amministrazione locale durante la programmazione di manifestazioni sportive.

Focus di diritto tributario Avv. Francesco Sanna

Breve analisi delle agevolazioni fiscali riferite alle ASD e SSD
Premesso che la legge di riferimento sulle agevolazioni fiscali per le ASD e SSD, senza scopo di lucro, è la n. 398 del 16 dicembre 1991, con la circolare dell’Agenzia delle Entrate, n.18/E dell’1 agosto 2018, si deve evidenziare come Governo e CONI abbiano fatto chiarezza su tale materia.

Leggi tutto
Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

Manifestazioni sportive: la responsabilità penale dell’organizzatore

Come abbiamo visto nell’articolo FOCUS dell’Ing. Elena Falqui, l’organizzazione di eventi e manifestazioni sportive aperte al pubblico presuppone il rilascio di un’apposita autorizzazione amministrativa, finalizzata a verificare che spazi, impianti e strutture siano conformi alle prescrizioni dettate dalla normativa di settore.

Leggi tutto
Focus di diritto civile • Avv. Viola Zuddas

Le misure di contenimento del rischio nelle manifestazioni: cenni
Quando si organizzano delle manifestazioni sportive è di primaria importanza adottare tutte quelle cautele che consentano di salvaguardare l’incolumità e la sicurezza delle persone che vi prendono parte, sia in qualità di atleti che come pubblico.

Leggi tutto
Focus di diritto internazionale • Avv. Eleonora Pintus

La Carta Internazionale per l’Educazione Fisica, l’Attività Fisica e lo Sport: interventi legislativi per la diffusione del patrimonio dell’UNESCO
“La pratica dell’educazione fisica, dell’attività fisica e dello sport è un diritto fondamentale per tutti.”
Si apre così la Carta Internazionale per l’Educazione Fisica, l’Attività Fisica e lo Sport, adottata durante la Conferenza Generale dell’UNESCO nel 1978, oggi riconosciuta come documento di riferimento che orienta il processo decisionale in campo sportivo.

Leggi tutto

 

 

Con la recente conversione del D.L del 21 ottobre 2020, n. 130 nella L. 18 dicembre 2020, n. 173, è stato portato avanti l’iter di modifica dei Decreti Sicurezza (meglio noti come “Decreti Salvini”), spesso contestati perché contrastanti con i principi costituzionali e gli obblighi derivanti dalla normativa sovranazionale, nonché a causa delle notevoli difficoltà applicative e di coordinamento con la normativa in materia di diritto dell’immigrazione.

Le novità introdotte dalla legge in esame, a completamento delle sostanziali modifiche già apportate dal D.L. n. 130/2020, se da un lato sono dirette a garantire una tutela rafforzata in favore dei migranti, nel rispetto degli obblighi internazionali, dall’altro non rallentano i procedimenti di espulsione dei soggetti irregolari.

In questo contributo, ci soffermeremo, principalmente, su due dei numerosi interventi posti a completamento della nuova disciplina e tra loro certamente connessi: le modifiche in materia di diritto dell’immigrazione a tutela dei soggetti vulnerabili e i profili di interesse penalistico in materia di immigrazione.

Divieti di espulsione e di respingimento: disposizioni a tutela delle categorie vulnerabili

Con riguardo alle disposizioni in materia di categorie vulnerabili disciplinate all’articolo 19, comma 1 del Testo Unico dell’Immigrazione, la legge di conversione individua ulteriori e nuove ipotesi di divieto di espulsione.

In particolare, è fatto divieto di espulsione o respingimento dello straniero che, nello Stato di destinazione, rischi di essere perseguitato, oltre che per motivi di razza, sesso, lingua e religione – in ossequio ai principi sanciti dalla Convenzione di Ginevra del 1951 – anche a causa del proprio orientamento sessuale o della propria identità di genere (art. 1 co. 1 lett. e, n. 01).

Il riconoscimento del divieto di espulsione verso un Paese nel quale lo straniero possa subire persecuzioni in ragione del proprio orientamento sessuale, già fatto proprio dalla Giurisprudenza di legittimità e Costituzionale, rappresenta un enorme passo avanti nel processo di omologazione della normativa interna alla normativa europea ed internazionale.

Ancora, tra le novità che meritano di essere segnalate, occorre rilevare che il legislatore ha escluso che possa procedersi al respingimento o espulsione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che l’allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare dello straniero medesimo.

Detta disposizione sembrerebbe dunque diretta a salvaguardare la dimensione personale del migrante, allorquando l’ordine di espulsione o allontanamento possa comportare lo sradicamento dell’individuo dalla propria dimensione familiare e sociale.

A tal riguardo, ai fini di ogni più opportuna valutazione del rischio di violazione, la normativa in esame dispone espressamente che dovrà tenersi conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del soggiorno nel territorio nazionale, oltre che dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine.

Ciò detto, si evidenzia, altresì, che il legislatore non ha mancato di prestare attenzione alle condizioni di salute del migrante: difatti, tra le nuove ipotesi di divieto di espulsione è stata altresì annoverata quella in cui lo straniero versi in gravi condizioni psico-fisiche o sia affetto da gravi patologie.

Detta condizione, peraltro, costituisce il presupposto per il rilascio di un permesso di soggiorno per cure mediche, valido per il tempo attestato dalla certificazione sanitaria, rinnovabile per tutto il periodo in cui persistono le condizioni di salute predette ed ora anche convertibile in permesso di soggiorno per motivi di lavoro.

Tanto detto, occorre evidenziare che, ferma l’esigenza di garantire una tutela multilivello, con la Legge n. 173/2020, il legislatore ha contestualmente inserito nuove ipotesi di espulsione: lo straniero, infatti, oltre che nei casi di sicurezza nazionale ed ordine pubblico, potrà essere altresì allontanato qualora tale provvedimento risponda ad esigenze di protezione della salute nel rispetto della Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati, e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Profili di interesse penalistico in tema di immigrazione

Dal provvedimento in esame, come già in parte evidenziato, risulta del tutto evidente la volontà del legislatore di non rallentare né limitare i procedimenti espulsivi del migrante.
Difatti, se da un lato questi regolamenta favorevolmente i meccanismi dell’accoglienza e dell’integrazione, dall’altro disciplina con maggior rigore i profili di interesse penalistico in tema di immigrazione.

In particolare, tra questi, il decreto – come confermato dalla legge di conversione – dedica particolare attenzione ai delitti commessi all’interno dei centri di permanenza per i rimpatri (CPR).
Al riguardo, l’articolo 6 ha aggiunto il comma 7 bis all’art. 14 del Testo Unico dell’immigrazione, prevedendo una più rapida disciplina processuale per i delitti commessi con violenza alle persone o alle cose in occasione o a causa del trattenimento in un centro di permanenza per i rimpatri o durante la permanenza nelle strutture di primo soccorso e accoglienza.

In tutti questi casi, quando non è possibile procedere immediatamente all’arresto per ragioni di sicurezza o incolumità pubblica, il legislatore ha previsto che si potrà addirittura dar luogo all’arresto di colui che risulti essere l’autore, individuato anche sulla base di mera documentazione video-fotografica, entro le 48 ore successive ai fatti (cd. flagranza differita), con conseguente giudizio direttissimo; salvo che siano necessarie più approfondite indagini.

In conclusione, sebbene le disposizioni introdotte in sede di conversione con la L. n. 173/2020 mirino a riequilibrare il sistema alla luce dei principi costituzionali e internazionali, è forse ardito parlare di novità giacché i passi da compiere per eliminare gli effetti distorsivi introdotti dai precedenti decreti appaiono ancora numerosi.

Con la recente conversione del D.L del 21 ottobre 2020, n. 130 nella L. 18 dicembre 2020, n. 173, è stato portato avanti l’iter di modifica dei Decreti Sicurezza (meglio noti come “Decreti Salvini”), spesso contestati perché contrastanti con i principi costituzionali e gli obblighi derivanti dalla normativa sovranazionale, nonché a causa delle notevoli difficoltà applicative e di coordinamento con la normativa in materia di diritto dell’immigrazione.Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista

Eleonora Pintus, Avvocato

Il patrocinio a spese dello Stato, disciplinato nell’art. 79 e segg. del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, è un istituto che garantisce l’assistenza legale gratuita alle persone che intendono promuovere un giudizio o tutelare i propri diritti dinnanzi all’Autorità Giudiziaria, nell’ipotesi in cui non abbiano percepito un reddito annuo superiore a una determinata soglia prevista per Legge.

L’art. 24 della Costituzione italiana prevede, infatti, che la difesa è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento e, pertanto, viene garantita anche ai soggetti economicamente deboli, tanto ciò è vero che “sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione“.

In parole semplici: nel caso in cui ricorrano i presupposti soggettivi e oggettivi per l’ammissione al beneficio, il compenso del difensore nominato dall’interessato sarà a carico dello Stato e non del cliente.

Ora vediamo insieme quali sono i requisiti previsti dalla Legge.

L’Ordinamento italiano prevede che possano beneficiare dell’istituto in esame sia gli stranieri, purché si trovino regolarmente sul territorio italiano, sia i cittadini italiani che risiedono nel territorio dello Stato o che vi risiedevano nel momento in cui è sorta la fattispecie per la quale si rende necessario l’intervento dell’avvocato, nonché gli enti senza scopo di lucro e le associazioni.

Restano, comunque, esclusi dal beneficio i soggetti già condannati con sentenza definitiva per taluni reati in materia di associazione di tipo mafioso, nonché di produzione, traffico e detenzione di sostanze stupefacenti ed, altresì, per reati commessi in violazione delle norme per la repressione dell’evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto.

Inoltre, occorre precisare che è possibile usufruire del beneficio per tutte le attività aventi ad oggetto la difesa nel giudizio civile, penale, amministrativo, contabile o tributario, ma resta esclusa l’attività stragiudiziale che non sia direttamente collegata al giudizio, il cui relativo compenso è posto, pertanto, a carico del cliente.

In particolare, in ambito penale, l’art. 98 c.p.p. prevede che l’imputato, la persona offesa dal reato, il danneggiato che intende costituirsi parte civile e il responsabile civile possano chiedere di essere ammessi al patrocinio per i non abbienti, in ogni stato e grado del procedimento.

Tuttavia, l’ammissione al beneficio è esclusa nel caso in cui il richiedente risulti assistito da più di un difensore o, comunque, ne vengono meno gli effetti qualora l’interessato, successivamente all’ammissione, nomini un secondo difensore.

I limiti di reddito per accedere al gratuito patrocinio

Con il Decreto del Ministero della Giustizia del 23 luglio 2020, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 30 gennaio 2021, l’importo reddituale che consente l’ammissione al beneficio è stato aggiornato a euro 11.746,68, frutto dell’adeguamento biennale delle soglie di reddito in relazione alle variazioni del costo della vita stabilito dall’Istat.

Alla luce della recente modifica, quindi, per poter accedere al beneficio in parola è necessario che il reddito risultante dall’ultima dichiarazione non superi la somma poc’anzi indicata.

È bene chiarire che, nel calcolo dell’importo utile ai fini dell’accesso al patrocinio a spese dello Stato, assume rilevanza la complessiva capacità economica del richiedente e, di conseguenza, dell’intero nucleo familiare risultante dallo stato di famiglia.

A tale riguardo, occorre considerare non soltanto il reddito percepito dal richiedente, ma, altresì, quello percepito dai familiari conviventi che andrà, dunque, a sommarsi con il reddito del richiedente.

Ai fini della determinazione del reddito per l’ammissione al patrocinio a spese dello stato, si tiene conto di tutti i redditi anche se non sottoposti a tassazione e, pertanto, anche dell’eventuale importo ricevuto a titolo di reddito di cittadinanza, della pensione di invalidità e dell’indennità di accompagnamento (ad eccezione di quella percepita a favore degli invalidi totali), nonché dell’assegno di separazione o di divorzio in favore del coniuge (escluso quello percepito in favore dei figli). Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Vi sono, tuttavia, dei casi particolari previsti per legge in cui, nel computo del parametro reddituale, ha rilevanza soltanto il reddito del richiedente e ciò si verifica, ad esempio, nei giudizi aventi ad oggetto diritti personalissimi o nel caso di diritti in conflitto con quelli degli altri membri della famiglia.

In materia penale, inoltre, è previsto che, qualora il richiedente conviva con il coniuge o altri familiari, il limite di reddito sia aumentato di euro 1.032,91 per ciascun familiare convivente.

In ogni caso, per le vittime di alcuni reati (ad esempio, per i reati di violenza sessuale, maltrattamenti in famiglia, atti persecutori, prostituzione e pornografia minorile), nonché per il minore straniero non accompagnato ed, altresì, per i figli rimasti orfani di un genitore a seguito di omicidio commesso dal coniuge in danno dello stesso genitore, i limiti di reddito finora esaminati non si applicano, cosicché, qualora venga fatta apposita richiesta, è possibile accedere al beneficio qualunque sia il reddito percepito dall’interessato.

In ambito penale, per l’ammissione al beneficio è necessario depositare presso la cancelleria del Giudice, dinnanzi al quale pende il procedimento, un’apposita istanza, sottoscritta anche dal difensore -nominato d’ufficio o di fiducia- alla quale dovrà essere allegata la copia del documento di identità e del codice fiscale del richiedente e dei familiari conviventi, lo stato di famiglia e residenza, nonché la dichiarazione dei redditi percepiti nell’anno precedente o comunque l’ultima dichiarazione disponibile e in corso di validità.

Il giudice si pronuncerà nel termine di dieci giorni successivi alla presentazione dell’istanza.

È doveroso sottolineare che il richiedente è tenuto a dichiarare il vero, giacché in caso di dichiarazioni false o di omissioni, qualora risulti provata la mancanza originaria delle condizioni reddituali, si configura la fattispecie delittuosa di cui all’art. 95 T.U. spese di giustizia, che punisce il trasgressore con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 309,87 a euro 1.549, 37, aumentata se dal fatto consegue l’ottenimento del beneficio. Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Deve aggiungersi, che la condanna per il predetto reato comporta, inoltre, la revoca del patrocinio a spese dello stato con efficacia retroattiva e il recupero a carico del responsabile delle somme corrisposte.

Ad ogni buon conto, secondo la giurisprudenza più recente, il reato sussisterebbe anche quando la falsità o l’omissione riguarda redditi che in concreto rientrerebbero nei limiti massimi stabiliti per ottenere l’ammissione al beneficio del gratuito patrocinio.

In questo caso, tuttavia, occorre verificare con particolare attenzione se la dichiarazione mendace sia il frutto di una condotta dolosa, ossia consapevole e volontaria, oppure se sia piuttosto il risultato di un mero errore o disattenzione nell’indicazione dei redditi o nella compilazione dell’istanza.

Solo in quest’ultima ipotesi, pur a fronte di una dichiarazione falsa, è escluso il dolo e, di conseguenza, anche il reato, poiché risulta mancante uno degli elementi costitutivi della fattispecie delittuosa (Cass. pen., sez. IV, sent. del 27 novembre 2019, n. 49572).

Claudia Piroddu, Avvocato

Con la sentenza n. 10381 del 17 marzo 2021, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono intervenute per fare chiarezza in merito all’applicabilità al convivente more uxorio dell’esimente prevista nell’art. 384 c.p.

La norma appena menzionata, infatti, esclude la punibilità dell’autore di alcuni delitti, nel caso in cui il soggetto abbia commesso il reato spinto dalla necessità di salvare un prossimo congiunto da un grave danno nella libertà o nell’onore.

La vicenda trattata riguardava un’imputata che, al fine di aiutare il conducente di un’autovettura che aveva provocato un incidente stradale, dichiarava falsamente ai Carabinieri di essere stata lei alla guida del mezzo. La falsa dichiarazione era diretta a favorire la posizione del conducente -convivente dell’imputata- che, oltre ad essere privo della patente di guida, in quanto revocata, dopo l’incidente si era allontanato senza prestare assistenza alle persone coinvolte nel sinistro.

Il Tribunale e la Corte di Appello di Cagliari avevano condannato la donna per il delitto di favoreggiamento personale, in quanto la medesima, con le sue dichiarazioni, avrebbe aiutato il conducente dell’autovettura ad eludere le investigazioni dell’autorità giudiziaria, in ordine al reato di cui all’art. 186, comma 6, CdS, che punisce la violazione dell’obbligo di fermarsi in presenza di un incidente stradale con danni alle persone.

In particolare, sia nel corso del giudizio di primo grado che in nel giudizio di Appello, i giudici cagliaritani avevano escluso che nel caso di specie potesse applicarsi l’esimente di cui all’art. 384 c.p., sul presupposto che tra i due soggetti -imputata e conducente dell’auto- vi fosse un mero rapporto convivenza di fatto che, in quanto tale, non rientrerebbe nell’ambito della disposizione richiamata.

Ebbene, la vicenda in esame si inserisce in un fervente dibattito che vede contrapposti due diversi indirizzi giurisprudenziali e, nel contempo, si colloca a pieno titolo all’interno delle problematiche riguardanti l’evoluzione del concetto di “famiglia“.

Il contrasto giurisprudenziale:
due orientamenti a confronto

Il primo e più rigoroso indirizzo giurisprudenziale esclude l’applicabilità dell’art. 384 c.p. ai conviventi, giacché dalla semplice lettura della disposizione normativa si evince che l’esimente in oggetto si applica ai “prossimi congiunti”, che l’art. 307, comma quarto, c.p. identifica in: ascendenti, discendenti, coniuge, parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso, fratelli, sorelle, affini, zii e nipoti.

Agli effetti della Legge penale, dunque, nel novero dei prossimi congiunti non vengono ricompresi i conviventi, con la logica conseguenza che la nozione richiamata, per espressa volontà del Legislatore, venga ricondotta esclusivamente ai membri della famiglia fondata sul matrimonio.

Inoltre, la ragione dell’esclusione deve ravvisarsi anche nella evidente differenza e, pertanto, nella non sovrapponibilità del rapporto di fatto al vincolo coniugale, poiché, a ben vedere, solo il secondo è caratterizzato dalla stabilità e dalla reciprocità dei diritti e dei doveri, laddove il primo è connotato da un legame che può essere sciolto in qualsiasi momento.

Tra l’altro, non può trascurarsi che l’art. 384 c.p. sarebbe una norma eccezionale e, di conseguenza, non potrebbe essere applicata se non nei casi espressamente previsti dalla Legge e ciò in virtù del noto principio penalistico del divieto di analogia.

Infine, occorre aggiungere che con la Legge Cirinnà, che ha disciplinato le unioni civili tra persone dello stesso, nonché le convivenze, è stata ampliata la cerchia di soggetti rientranti nella nozione di “prossimi congiunti“, ove, infatti, attualmente vengono ricomprese anche le persone unite civilmente, ma non i conviventi di fatto.

Ebbene, la predetta esclusione dal dettato normativo non può di certo considerarsi casuale, quanto piuttosto l’espressione della precisa volontà del Legislatore di rimarcare la differenza esistente in tema di convivenza more uxorio rispetto alle altre ipotesi regolamentate.

Il secondo indirizzo giurisprudenziale giunge, invece, a conclusioni opposte.

Si tratta di un orientamento più recente e incentrato su un concetto ampio di “famiglia“, giacché con il superamento del dogma dell’indissolubilità del matrimonio, la stabilità del rapporto non costituisce più una caratteristica imprescindibile per riconoscere tutela alle situazioni giuridiche ad esso connesse.

Sempre in tale prospettiva, occorre aggiungere che anche in ambito europeo è stata introdotta una nozione ampia di “vita familiare” (art. 8 CEDU), nella quale viene riconosciuta tutela anche alla famiglia in senso “sociale”, purché sussistano stretti e comprovati legami affettivi.

Nonostante l’assenza di una Legge che disciplina compiutamente la convivenza cd. di fatto, è importante sottolineare che tale legame e gli effetti giuridici da esso scaturenti non restino affatto privi di tutela, specie sotto il profilo penalistico.

Ad esempio, è orientamento oramai consolidato quello che considera applicabile anche al convivente il diritto di astenersi dal rendere testimonianza nel processo penale, iscritto a carico dell’imputato con esso convivente (art. 199, comma 3, c.p.p.). Non solo, poiché, in tema di valutazione dei requisiti per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, sussiste un’equiparazione totale tra la convivenza coniugale e convivenza more uxorio, così come, ad oggi, è pacificamente ammessa l’applicabilità del reato di maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 c.p. anche nell’ipotesi non infrequente di famiglia cd. di fatto.

L’intervento delle Sezioni Unite

Per dirimere il contrasto giurisprudenziale poc’anzi riportato, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, partendo tra una concezione ampia di “famiglia“, si sono concentrate, per lo più, sulla natura giuridica della disposizione di cui all’art. 384 c.p., che, per la prima volta, viene classificata come causa di esclusione della colpevolezza.

In tale ipotesi, infatti, l’agente pone in essere un fatto antigiuridico nella consapevolezza di violare la Legge, ma l’Ordinamento si astiene dal punirlo, poiché la sua condotta è stata determinata dalla presenza di un legame affettivo così forte da influire sulla volontà dell’autore del reato, tanto ciò è vero che non è possibile esigere dal soggetto un comportamento diverso da quello perpetrato.

In altri termini, in presenza di particolari circostanze che condizionano la libertà di determinazione dell’autore del fatto –come nel caso del legame affettivo e della spinta a mentire pur di proteggere il proprio convivente-, lo Stato fa venir meno la sua pretesa punitiva.

La qualificazione giuridica in tali termini dell’esimente in oggetto comporta, altresì, il venire meno del carattere dell’eccezionalità della norma che, pertanto, può trovare applicazione anche in via analogica, ossia per tutte quelle fattispecie che, pur non essendo espressamente previste, possiedono tutti i requisiti necessari, quindi, anche nel caso della convivenza di fatto.

“L’art. 384, comma primo, c.p., in quanto causa di esclusione della colpevolezza si applica analogicamente anche a chi ha commesso il reato di favoreggiamento personale, per esservi stato costretto dalla necessità di salvare il convivente cd. di fatto da un grave e inevitabile danno nella libertà e nell’onore”. Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Infatti, a ben vedere, per il soggetto che si trova di fronte all’alternativa tra l’adempimento di un dovere di dire la verità dinnanzi all’autorità giudiziaria e la protezione dei propri affetti, sia che si tratti di persone unite in matrimonio o che si tratti di persone conviventi il dilemma morale è identico. Ebbene, proprio sulla base delle argomentazioni sopra riportate, le Sezioni Unite hanno ribaltato la decisione dei giudizi cagliaritani, riconoscendo a pieno titolo l’applicabilità dell’esimente.

Tuttavia, occorre aggiungere che, affinché l’esimente possa operare e, quindi, escludere la condanna per il reato di favoreggiamento personale, la situazione di convivenza debba essere dimostrata nel corso del giudizio, attraverso l’indicazione di elementi di prova particolarmente rigorosi e certi.

Claudia Piroddu, Avvocato

Ormai da mesi sentiamo parlare del cosiddetto “Superbonus 110%” per le ristrutturazioni delle nostre abitazioni: si tratta, nello specifico, di un’agevolazione statale che permette di detrarre tutte le spese affrontate per lavori di efficientamento energetico con un’aliquota del 110%.

Pertanto, non vi è dubbio che rappresenta per tutte le figure coinvolte nel processo edilizio (dal committente ai progettisti, dagli impresari agli istituti di credito) un’ottima opportunità per eseguire, a costi contenuti, degli specifici interventi in ambito di riqualificazione energetica, e non solo.

Il “Superbonus 110%”, quindi, consente la realizzazione di tutte quelle lavorazioni che aumentano le prestazioni termiche della nostra casa e che, contestualmente, ne diminuiscono i consumi, tra le quali la più diffusa è rappresentata dalla realizzazione di un cappotto termico necessario per la coibentazione dell’involucro di un edificio.

Prima di entrare nel merito delle lavorazioni ammesse alla detrazione, è opportuno precisare che il quadro normativo, seppur ormai ampiamente definito, è in continua evoluzione: la grande portata dell’intervento lo rende, inevitabilmente, un tema complesso da affrontare tant’è che l’Agenzia delle Entrate e gli altri enti preposti (E.N.E.A. e Mi.S.E.) hanno emanato circolari e risoluzioni per fornire chiarimenti interpretativi della normativa di riferimento, ovvero il D. L. 19 maggio 2020, n. 34, il cosiddetto “Decreto Rilancio”.

Inoltre, in considerazione delle molteplici casistiche che possono crearsi in un panorama edilizio vario e complesso come quello italiano è comprensibile che, almeno nella fase iniziale, vi siano delle incertezze ed un po’ di diffidenza nei confronti della fisiologica burocrazia insita in un intervento di queste proporzioni.

Tuttavia, il “Superbonus 110%” rappresenta davvero un’ottima possibilità e, pertanto, è necessario che il committente, prima di dare esecuzione ad un qualsiasi intervento sul proprio immobile, si affidi ad un professionista che, attraverso la realizzazione di uno studio di fattibilità, valuti la sussistenza dei requisiti richiesti dalla normativa per accedere alla detrazione. Carlo Murtas, Architetto

In questo breve articolo, dunque, non voglio entrare nel dettaglio delle singole e differenti casistiche che potrebbero incontrarsi, ma darò delle indicazioni in maniera chiara e semplice per aiutare a comprendere le caratteristiche principali di questo strumento.

Prima di tutto, come anticipato, occorre precisare che i principali soggetti beneficiari di questa agevolazione sono, per ciò che qui interessa, le persone fisiche proprietarie di immobili ed i condomini.

Inoltre, la normativa di riferimento prevede due macro categorie di interventi agevolabili: quelli cosiddetti “trainanti” e quelli cosiddetti “trainati”.

Gli interventi “trainanti” sono quelli principali e, di conseguenza, obbligatori per poter ottenere la detrazione fiscale del 110%, tra i quali si possono menzionare quelli di isolamento termico sugli involucri (ad esempio, realizzazione del cappotto termico).

Gli interventi “trainati”, invece, sono quelli aggiuntivi, la cui relativa spesa, pertanto, potrà essere detratta solo se viene contestualmente realizzato almeno un intervento principale; tra questi possono ricordarsi quelli di efficientamento energetico (ad esempio, realizzazione di infissi esterni).

Come anticipato precedentemente, per accedere al “Superbonus 110%” è opportuno che il professionista incaricato esegua uno studio di fattibilità specifico per quel determinato immobile che, partendo dalla valutazione della conformità urbanistica ed edilizia e dalla diagnosi energetica, mira a verificare la sussistenza dei requisiti necessari prescritti dalla normativa di riferimento.

Se lo studio di fattibilità dovesse dare esito positivo in tutte le sue fasi, si potrà procedere con la fase progettuale definitiva ed avviare la pratica di detrazione.

Il vantaggio principale del “Superbonus”, come sappiamo, è la possibilità di vedersi riconoscere la detrazione fiscale nella misura del 110% e, altresì, di poter optare per la cessione del credito corrispondente alla detrazione maturata oppure scegliere un contributo anticipato sotto forma di sconto in fattura.

In conclusione, il “Superbonus 110%” rappresenta sicuramente un’ottima opportunità per tutti coloro che hanno intenzione di effettuare lavori di efficientamento energetico della propria abitazione poiché abbatte notevolmente i relativi costi di esecuzione.

Carlo Murtas, Architetto

Sono laureato in architettura delle costruzioni ed esercito la professione di architetto presso Hinternos, il mio studio di Cagliari, in viale Diaz n. 29.

Hinternos è uno studio multidisciplinare di architettura nel quale si affrontano progetti che spaziano dalla piccola scala del design alle ristrutturazioni di interni ed efficientamento energetico degli edifici.

Focus di diritto tributario Avv. Francesco Sanna

Superbonus 110%: accertamento e dubbi circa il Giudice competente in caso di controversia
In ordine alla disciplina dei controlli riferiti al Superbonus questi sono demandati a più soggetti con competenze diverse.

Leggi tutto
Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

Profili di rilevanza penale: le false attestazioni
Per l’ottenimento del beneficio fiscale, c.d. Superbonus 110%, previsto dalla L. 17 luglio 2020, n. 77, e riconosciuto sotto forma di detrazione delle spese sostenute per la realizzazione di interventi di ristrutturazione destinati al miglioramento energetico degli immobili, nonché alla riduzione del rischio sismico, la Legge richiede il rilascio di talune attestazioni da parte di soggetti qualificati.

Leggi tutto
Focus di diritto civile • Avv. Viola Zuddas

Ristrutturazione dell’immobile e Superbonus 110%
In materia di Condominio negli edifici è importante sottolineare, anzitutto, che ci si trova davanti ad una situazione complessa, in cui le singole unità immobiliari coesistono con le cosiddette parti comuni.
In un Condominio, quindi, ciascun condomino è proprietario di uno o più appartamenti ed è, altresì, comproprietario, insieme agli altri, delle parti comuni dell’edificio.

Leggi tutto
Focus di diritto internationale • Avv. Eleonora Pintus

Superbonus 110%: i residenti all’estero possono beneficiarne?
Ti sarai forse chiesto se il Superbonus sia destinato esclusivamente ai cittadini italiani residenti in Italia oppure se anche coloro che vivono all’estero abbiano la possibilità di beneficiarne.

Leggi tutto

Con una recentissima sentenza, la n. 6353 del 18 febbraio 2021, la Corte di Cassazione ha stabilito che prendere un telefono dimenticato dal legittimo proprietario sul bancone del bar costituisce una condotta penalmente rilevante, punibile ai sensi dell’art. 624 c.p., con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da 154 a 516 euro.

All’evidenza, il solo fatto che un oggetto fuoriesca momentaneamente dalla disponibilità materiale del titolare, non fa venire meno il diritto di proprietà di quest’ultimo, anche perché, in tale specifica ipotesi e salva la prova contraria, non sussisterebbe alcuna volontà del proprietario di disfarsi in via definitiva del bene.

Infatti, prosegue la Corte, se si conserva memoria del luogo in cui il bene è stato lasciato, è chiaro che il legittimo proprietario potrebbe riacquistarne la materiale disponibilità, qualora altro soggetto non ponga in essere l’attività di sottrazione della cosa rinvenuta.

Tanto ciò è vero che, nel caso trattato dalla sentenza in esame, la proprietaria si era allontanata dall’esercizio commerciale e, resasi conto di aver dimenticato lo smartphone, vi aveva fatto ritorno dopo pochi minuti, proprio per chiedere informazioni sull’apparecchio al gestore del locale.

Quanto al dolo, è emerso, altresì, che l’imputato avesse visto chiaramente la ragazza lasciare il locale senza portare con sé il cellulare e che si fosse impossessato dello stesso appena pochi minuti dopo, con la logica conseguenza che il periodo di tempo trascorso fosse troppo breve per escludere che il telefono fosse stato solo dimenticato e non definitivamente perso.

E se, invece, si tratta di un oggetto “smarrito”?

La Suprema Corte ha ulteriormente chiarito che vi è una differenza sostanziale tra le ipotesi di cosa “dimenticata” e cosa “smarrita”.

Se, da un lato, si è già precisato che l’oggetto dimenticato continua a mantenere una connessione con il proprietario che, infatti, ne ha perso solo temporaneamente il contatto fisico, ma ben potrebbe riacquistarne la disponibilità in assenza della condotta di furto, dall’altro lato, deve considerarsi smarrita la cosa che, invece, è definitivamente uscita dalla detenzione del possessore.

Per chiarire meglio, può essere utile fare alcuni esempi pratici.

Se l’oggetto, come abbiamo visto, viene rinvenuto sul bancone di un bar, sul tavolo del ristorante, in biblioteca o su una panchina al parco, per la Legge si considera come un oggetto semplicemente dimenticato dal proprietario, che ben potrebbe tornare sui suoi passi e recuperarlo.

Invece, se il bene viene rinvenuto per strada o in un sentiero di campagna, ossia in un luogo imprecisato in cui non può essere rinvenuto dal proprietario, per il semplice fatto che quest’ultimo non saprebbe dove ritrovarlo, viene considerato come un oggetto smarrito.

Le possibili conseguenze

È bene chiarire che colui che si appropria di un bene, sia esso dimenticato o semplicemente smarrito, può andare incontro a diverse conseguenze, sia di natura penale che di natura civile.
Nel caso di appropriazione di un bene dimenticato, infatti, potrebbe configurarsi il delitto di furto, mentre qualora si tratti di un oggetto smarrito potrebbe realizzarsi la fattispecie di appropriazione di cosa smarrita, originariamente prevista come contravvenzione nell’art. 647 c.p., e ad oggi depenalizzata dall’art. 4 del D. Lgs. n. 7 del 2016, che prevede a carico del trasgressore la sanzione pecuniaria civile da 100 fino ad 8 mila euro.

Per la verità, solo nel caso in cui il bene oggetto di impossessamento sia stato smarrito, e, quindi, il proprietario non sappia il luogo ove egli lo ha lasciato,  potrebbe sussistere la fattispecie di appropriazione di cose smarrite e non di furto, in quanto, secondo l’orientamento giurisprudenziale consolidato, il codice IMEI stampato nel vano batteria identifica la cosa, ma non la proprietà del bene.

Appropriarsi di uno smartphone dimenticato poco tempo prima sul bancone del bar configura il reato di furto e non la fattispecie di appropriazione di cosa smarrita, poiché il proprietario conserva la memoria del luogo in cui il bene è stato lasciato e, pertanto, ben potrebbe riacquistarne la disponibilità. Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Tuttavia, occorre precisare che, nell’ipotesi in cui il proprietario abbia denunciato il furto della res, potrebbe configurarsi il più grave reato di ricettazione, previsto nell’art. 648 c.p., che ricorre quando un soggetto viene trovato in possesso di un bene proveniente da delitto, purché commesso da altri.

Il reato di ricettazione è punito severamente, con la reclusione da due ad otto anni e la multa da 516 a 10.329 euro, sempre che non si tratti di un fatto di particolare tenuità.

Per la sussistenza del reato, la giurisprudenza è pressoché unanime nel ritenere sufficiente, sotto il profilo psicologico, che il soggetto non sia in grado di giustificare la provenienza lecita del bene di cui viene trovato in possesso, purché le modalità del ritrovamento siano tali da ingenerare in qualsiasi persona di media avvedutezza e, secondo la comune esperienza, la certezza che possa trattarsi di un bene sottratto da altri al legittimo proprietario o quanto meno che il possessore ne abbia consapevolmente accettato il rischio.

Claudia Piroddu, Avvocato

Nell’ambito dell’ordinamento nazionale, la querela si configura, oltre che come un diritto della parte offesa, altresì quale presupposto necessario – nei soli reati perseguibili a querela – per l’esercizio dell’azione penale da parte dei pubblici poteri.

Orbene, può accadere che, a distanza di anni, una persona che tempo addietro ha esercitato il diritto di querela non abbia più alcun attuale interesse nel proseguire il giudizio.
In tal caso, ai sensi dell’art. 152, comma 1 c.p., la parte interessata può decidere di rimettere la querela, con conseguente ed automatica estinzione del reato.

Nei reati perseguibili a querela di parte, dunque, la remissione – che può essere “processuale” o “extraprocessuale”, a seconda che la stessa intervenga in giudizio o al di fuori del medesimo – è subordinata ad una espressa manifestazione di volontà del querelante.

Ma cosa accade nell’ipotesi in cui quest’ultimo, non avendo espressamente rimesso la querela, non compaia in udienza, nonostante la regolare notifica della citazione? La mancata comparizione può essere considerata, di per sé, un fatto idoneo a manifestare l’implicita volontà della persona offesa di non voler proseguire il giudizio?

Sul punto, i Giudici della Suprema Corte di Cassazione sono stati più volte interpellati al fine di stabilire se, in detti casi, la mancata comparizione del querelante all’udienza possa dirsi sufficiente a manifestare implicitamente la volontà di rimettere la querela e, in caso di risposta positiva, a quali condizioni.

Già con la pronuncia n. 31668/2016, le Sezioni Unite hanno affermato il principio in forza del quale è auspicabile “una prassi alla stregua della quale il giudice, nel disporre la citazione delle parti, abbia cura di inserire un avvertimento alla persona offesa e al querelato circa la valutazione in termini di remissione della querela della mancata comparizione del querelante e di mancanza di ricusa della remissione della mancata comparizione del querelato (…)”.
Ciò in quanto, tali condotte sono da valutarsi come significative dell’assenza di un perdurante interesse della persona offesa all’accertamento delle responsabilità penali.

Il recente orientamento della Suprema Corte di Cassazione

Sulla scia di tale impostazione, gli Ermellini, con la recente sentenza n. 8101/2020, riprendendo il principio testé riportato, hanno ribadito che: “Integra remissione tacita di querela la mancata comparizione alla udienza dibattimentale del querelante previamente ed espressamente avvertito dal giudice che l’eventuale sua assenza sarà interpretata come fatto incompatibile con la volontà di persistere nella querela”.

Ebbene, ciò che la Corte ha voluto confermare mediante l’enunciazione di tale principio è immediatamente intuibile: stante le conseguenze derivanti dall’atto di remissione della querela – ossia l’estinzione del reato – va da sé che l’effetto di una rimessione tacita possa (e debba) conseguire esclusivamente da un atto che sia inequivocabilmente riconducibile alla volontà del querelante.

La mancata comparizione all’udienza dibattimentale della persona offesa che abbia esercitato il diritto di querela, non è, dunque, significativo della volontà della medesima di non voler proseguire nel giudizio.

Affinché possa essere attribuito un tale significato alla condotta del querelante è necessario che lo stesso, attraverso un’adeguata informativa, venga reso edotto dall’autorità giudiziaria delle conseguenze giuridiche del comportamento omissivo, ossia che la eventuale mancata comparizione all’udienza successiva verrà intesa come espressa volontà di rimettere la querela e, dunque, di non voler proseguire nel giudizio.

La mancata comparizione all’udienza dibattimentale della persona offesa che abbia esercitato il diritto di querela non è significativo della volontà di non voler proseguire nel giudizio se non sia stato previamente reso edotto delle conseguenze giuridiche del comportamento omissivo. Avv. Eleonora Pintus, Diritto Penale

Eleonora Pintus, Avvocato

L’art. 73, comma 1, del D.P.R. n. 309 del 1990, prevede che: “Chiunque, senza l’autorizzazione di cui all’art. 17, coltiva (…) per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella I prevista dall’art. 14, è punito con la reclusione da sei a venti anni e con la multa da euro 26 mila a euro 260 mila“.

Con il termine di “coltivazione” si intende genericamente l’attività svolta dal soggetto in ogni fase di sviluppo della pianta, dalla semina fino al raccolto, e ciò a prescindere dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza.

Quindi, viene spontaneo domandarsi: coltivare cannabis costituisce sempre un reato?

È proprio il tema della punibilità della coltivazione di piante di stupefacente ad essere al centro, ormai da molti anni, di un acceso dibattito che ha investito anche i Giudici della Suprema Corte di Cassazione.

Da un lato, infatti, è stato sostenuto che, per ritenere integrata l’offesa al bene giuridico protetto, non rileva soltanto la quantità di principio attivo ricavabile al momento della scoperta della pianta da parte delle forze dell’ordine, ma occorre considerare, altresì, la capacità della pianta di giungere a futura maturazione e, quindi, la mera attitudine a produrre sostanza con effetto drogante.

Secondo un diverso indirizzo, invece, affinché possa configurarsi un reato, in aggiunta alla conformità della pianta al tipo botanico vietato per Legge e al principio attivo ricavabile, è necessario verificare, inoltre, se l’attività sia idonea in concreto a ledere la salute pubblica, ossia ad incrementare la disponibilità dello stupefacente e a favorirne la diffusione nel mercato.

In particolare, assumono rilievo una serie di elementi, quali: l’estensione e l’organizzazione della coltivazione; la quantità di principio attivo e il raggiungimento della “soglia” drogante, nonché l’inserimento dell’attività nel mercato degli stupefacenti e l’oggettiva destinazione della sostanza al commercio.

Il nuovo orientamento delle Sezioni Unite: la coltivazione ad “uso personale”

Alla luce del principio penalistico di offensività, secondo il quale nessuno può essere punito per un fatto che non abbia leso o posto in pericolo il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, con la sentenza n. 12348 del 16 aprile 2020, le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione hanno risolto il contrasto giurisprudenziale sorto tra i vari orientamenti poc’anzi richiamati.

A tal fine, i Supremi Giudici hanno delineato il reato di coltivazione di stupefacenti non già unicamente sulla base del citato criterio del grado di maturazione della pianta e del principio attivo ricavabile, ma in relazione al tipo di coltivazione e alla destinazione del prodotto.

In applicazione del suddetto principio, occorrerà verificare di volta in volta se si tratta di una coltivazione cd. domestica oppure di una coltivazione cd. tecnico-agraria, poiché solo in quest’ultimo caso il fatto può considerarsi penalmente rilevante e, quindi, punibile.

Nella specie, la coltivazione viene definita “domestica” e, quindi, finalizzata esclusivamente al consumo personale, quando sussistono un insieme di requisiti, come la dimensione minima della coltivazione, la rudimentalità delle tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, la mancanza di indici di un inserimento dell’attività nell’ambito del mercato degli stupefacenti e l’oggettiva destinazione di quanto prodotto all’uso personale esclusivo del coltivatore.

Ebbene, in presenza degli elementi appena menzionati, la condotta di coltivazione non configura reato e non è punibile ai sensi dell’art. 73, comma 1, D.P.R. n. 309 del 1990.

Tuttavia, se il prodotto dell’attività di coltivazione possiede degli effetti droganti può configurarsi un illecito amministrativo, in quanto il coltivatore dovrà essere considerato un mero “detentore” dello stupefacente e, pertanto, sarà assoggettato alle sanzioni previste nell’art. 75 del D.P.R. n. 309 del 1990.

Nell’ipotesi in cui la coltivazione non assume le caratteristiche che abbiamo appena visto, viene definita “tecnico-agraria”.

In questo caso, si configura il reato di coltivazione di stupefacente sia se la coltivazione è giunta a maturazione e il prodotto finale ha un principio attivo in grado di determinare un’efficacia drogante e sia se il processo di maturazione non è ancora giunto a compimento, ma la piantagione presenta tutti i requisiti per produrre in futuro la sostanza stupefacente.

In entrambi i casi, infatti, la condotta si considera idonea ad offendere il bene giuridico protetto, ossia a concretizzare il pericolo di aumento e diffusione nel mercato di sostanze stupefacenti.

Non configurano il reato di coltivazione di stupefacenti quelle condotte di coltivazione di dimensioni ridotte, svolte in forma domestica, che, per il numero esiguo delle piante e del prodotto ricavabile, nonché per la mancanza di una vera e propria organizzazione dell’attività e dell’inserimento nel mercato degli stupefacenti, risultano destinate all’uso esclusivamente personale del coltivatore. Avv. Claudia Piroddu, Penalista

In ogni caso, occorrerà valutare se la condotta tipizzata dalla norma incriminatrice, per mezzi, modalità, circostanze dell’azione o per qualità e quantità della sostanza è di lieve entità, poiché in tale ipotesi potrà applicarsi una fattispecie di reato meno grave, con conseguente riduzione della pena e possibilità di accedere a taluni benefici di Legge.

Claudia Piroddu, Avvocato

Una recente sentenza del G.I.P. del Tribunale di Modena, depositata in data 19 ottobre 2020, apre uno spiraglio verso l’applicazione dell’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova anche in caso di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, per i reati previsti nel D. Lvo. n. 231/2001, artt. 24 e segg., commessi a vantaggio dell’ente dal soggetto che riveste una posizione apicale o dalle persone sottoposte alla direzione o vigilanza di quest’ultimo.

Tale pronuncia si inserisce, infatti, in un fervente dibattito dottrinale e giurisprudenziale che, prendendo le mosse da un’interpretazione rigorosa, finora aveva escluso la possibilità per l’ente di accedere alla messa alla prova, posto che né gli artt. 168 bis c.p. e 464 bis e segg. c.p.p., né la normativa contenuta nel D. Lvo. n. 231/2001 prevedono espressamente che l’ente possa svolgere lavori di pubblica utilità, al fine di ottenere l’estinzione dell’illecito.

In particolare, il Tribunale di Milano, con Ordinanza del 27 marzo 2017, si era espresso in senso sfavorevole all’estensione in via analogica della disciplina della messa alla prova alle ipotesi di responsabilità degli enti.

La sentenza

Invero, come sostenuto dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza del 31 marzo 2016, n. 36272, l’istituto in esame assume sia natura processuale, ma anche natura sostanziale, che, pertanto, precluderebbe la sua applicabilità alle fattispecie non espressamente previste, e ciò in ossequio al principio costituzionale di riserva di legge, quale corollario del principio di legalità, previsto nell’art. 25, comma 2 Cost.

La decisione del Tribunale modenese riveste, quindi, particolare interesse, poiché giunge a conclusioni opposte rispetto all’orientamento poc’anzi richiamato, dando peraltro risalto alla ratio legis, ossia allo scopo che il Legislatore ha voluto perseguire nel disciplinare la materia della responsabilità degli enti, ove si riconosce particolare attenzione, nonché natura premiale, alle condotte di ravvedimento della persona giuridica, ossia rivolte all’eliminazione delle conseguenze dell’illecito.

Operato il richiamo agli artt. 34 e 35 del D. Lvo. n. 231/2001 -che stabiliscono il rinvio alle norme del codice penale per le ipotesi non disciplinate espressamente nel medesimo Decreto-, il Tribunale ha disposto la sospensione per messa alla prova in favore di una società operante nel settore della produzione alimentare, alla quale veniva contestata la fattispecie di cui all’art. 25 bis (Delitti contro l’industria e il commercio), per il reato di cui all’art. 515 c.p.

La società si era impegnata a porre in essere una serie di condotte riparatorie, concernenti non solo l’eliminazione degli effetti negativi dell’illecito, ma anche il risarcimento del danno in favore dei soggetti danneggiati, una revisione dei modelli di organizzazione e gestione relativa all’area aziendale in cui si era verificato l’illecito, nonché lo svolgimento di attività di volontariato in favore della collettività presso un istituto religioso.

Ne consegue che, in conformità alla decisione del Tribunale di Modena, nel caso di illeciti che non destino particolare allarme sociale, anche l’ente potrà formulare richiesta di essere sottoposto ad un programma di trattamento elaborato dall’U.E.P.E. competente (Ufficio locale per l’Esecuzione Penale Esterna), equiparabile a quello previsto per le persone fisiche.

La richiesta di messa alla prova potrà, quindi, essere effettuata a mezzo del proprio difensore munito di procura speciale, per una sola volta, nel corso delle indagini preliminari -ove vi sia il consenso del Pubblico Ministero-, ovvero, in ogni caso, entro le conclusioni dell’udienza preliminare o fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado.Avv. Claudia Piroddu, Penalista

Pertanto, l’esito positivo dei lavori di pubblica utilità, unitamente alla rimozione delle conseguenze pregiudizievoli e al potenziamento delle misure di controllo, volte ad evitare la commissione in futuro di nuovi reati, comporta la pronuncia di estinzione dell’illecito amministrativo in favore dell’ente.

Claudia Piroddu, Avvocato