Superbonus: lo strumento green per la ripartenza economica

Nel mio precedente Focus (clicca qui per leggerlo: Le caratteristiche principali del superbonus 110) ho chiarito quali siano le caratteristiche principali del Superbonus110%, ovvero l’agevolazione statale – introdotta dal Governo Conte – che permette di detrarre tutte le spese affrontate per lavori di efficientamento energetico con un’aliquota del 110%. 

Si tratta, come evidente, di uno strumento finalizzato a rilanciare rapidamente il comparto dell’edilizia poiché rappresenta per tutte le figure coinvolte nel processo edilizio (dal committente ai progettisti, dagli impresari agli istituti di credito) un’ottima opportunità per eseguire, a costi contenuti, degli specifici interventi sugli immobili. 

Questo strumento, però, non è stato attuato solo per consentire la ripresa dell’economia ma, anche, per rispondere alle importanti sfide climatiche ed ambientali previste per il settore civile dal Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima.Carlo Murtas, Architetto

Difatti, secondo quanto sostenuto dal Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri On. Riccardo Fraccaro (clicca qui per il suo intervento completo: https://www.governo.it/it/articolo/superbonus-la-chiave-la-ripartenza-green/15950) non è più possibile immaginare una crescita economica fondata sull’abuso e lo spreco di risorse e quindi, in concreto, non sostenibile. 

Per questo motivo, il Governo Conte ha introdotto lo strumento del Superbonus 110% con il quale far fronte alle necessità economico – produttive del Paese nel rispetto delle esigenze di sostenibilità non più differibili. 

Ma in che modo il Superbonus 110% può essere considerato uno strumento green? 

Il Superbonus 110% è stato definito “la chiave della ripartenza green del Paese” perché, attraverso la previsione della detrazione con aliquota del 110%, incentiva l’esecuzione di interventi di riqualificazione energetica e sismica di edifici residenziali. 

Relativamente a questi è stato precisato da diverse circolari dell’Agenzia delle Entrate che, considerata l’assenza di specifiche indicazioni normative, si deve ritenere che la categoria degli interventi di riqualificazione energetica comprenda qualsiasi intervento, o insieme sistematico di interventi, che incida in positivo sulla prestazione energetica. 

In sostanza, quindi, è richiesto che venga realizzata la maggior efficienza energetica prevista dalla norma che, semplificando, si traduce nella riduzione di almeno due classi energetiche rispetto alla situazione ante intervento. 

La classe energetica di un determinato appartamento o edificio è attribuita in base all’indice di prestazione energetica calcolato valutando l’energia totale consumata dall’edificio climatizzato secondo i servizi energetici presenti e per il tipo di immobile, per metro quadro di superficie ogni anno, considerando un utilizzo.Carlo Murtas, Architetto

In questo calcolo, dunque, viene tenuto in debita considerazione il flusso energetico dell’immobile, il cui bilancio deve essere attentamente valutato sia in termini di apporto (ovvero, quanta energia è necessaria per un normale utilizzo) che in termini di dispersione (ovvero, quanta energia si disperde con il normale utilizzo). 

La dichiarazione dell’insieme dei fattori positivi e negativi, indicati attraverso valori predefiniti in base a parametri fissi o variabili, è contenuta all’interno del cosiddetto documento A.P.E., ovvero l’Attestato di Prestazione Energetica 

Maggiore è la classe attribuita ad un immobile, migliore è l’efficienza energetica dello stesso e questo certifica un impatto più contenuto sull’ambiente poiché, semplificando, per garantire determinate prestazioni si consuma di meno.   

Il miglioramento energetico dev’essere poi dimostrato dall’A.P.E., predisposto ante e post intervento, rilasciato da un tecnico abilitato attraverso una dichiarazione asseverata. 

L’asseverazione deve certificare la corretta esecuzione dei lavori, il rispetto dei requisiti tecnici, dei massimali di spesa e la congruità dei costi e può essere eseguita anche a stato avanzamento lavori (cosiddetti “S.A.L.”).  

Successivamente, l’asseverazione dovrà essere inviata ad ENEA in formato telematico entro 90 giorni dal termine dei lavori, o ad ogni S.A.L., che a sua volta rilascia una ricevuta informatica comprensiva di un codice identificativo. 

In conclusione, il Superbonus 110% è davvero uno strumento green utile per la ripartenza economica perché, attraverso la previsione di importanti incentivi e sgravi fiscali – tra l’altro prorogati dalla Legge di Bilancio 2022 – promuove degli interventi più sostenibili per l’ambiente. 

Carlo Murtas, Architetto

Sono laureato in architettura delle costruzioni ed esercito la professione di architetto presso Hinternos, il mio studio di Cagliari, in viale Diaz n. 29.

Hinternos è uno studio multidisciplinare di architettura nel quale si affrontano progetti che spaziano dalla piccola scala del design alle ristrutturazioni di interni ed efficientamento energetico degli edifici.

 

Focus di diritto tributario • Avv. Francesco Sanna

Benefici fiscali e riduzioni aliquote IVA negli interventi edilizi

In primo luogo è bene ricordare che nel sistema giuridico italiano esistono differenti aliquote fiscali che si applicano ogniqualvolta si ha un esborso economico per lavori di ristrutturazioni edilizie. A tal proposito, in base alla tipologia di intervento tali aliquote variano. 

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

Abusi edilizi e Superbonus 110%

Una delle novità più significative e controverse introdotte dal D.L. n. 77/2021, cd. Decreto semplificazioni bis, riguarda la modifica dell’art. 119, co. 13 ter del Decreto Rilancio, in materia di abusi edilizi.

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Focus di diritto civile • Avv. Viola Zuddas

Un anno di Superbonus: primi bilanci e novità

Come abbiamo avuto modo di apprendere dal focus dell’Arch. Carlo Murtas e dalla pillola di diritto pubblicata sui nostri canali social, il Superbonus 110% è uno strumento volto a favorire gli interventi di efficientamento energetico per rilanciare rapidamente il comparto dell’edilizia e rispondere alle importanti sfide climatiche ed ambientali.  

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Superbonus: la strategia green approvata dall’Europa

Come evidenziato dal nostro collaboratore, Arch. Carlo Murtas, il Superbonus 110% può certamente essere considerato uno strumento green utile per la ripartenza economica del Paese perché, attraverso la previsione di importanti incentivi e sgravi fiscali, promuove degli interventi più sostenibili per l’ambiente.

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Nell’ambito delle misure volte a garantire una tutela specifica della vittima del reato, l’ordinamento penale italiano prevede, tra le altre, la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, di cui all’art. 282 ter c.p.p.

La misura in esame ha un carattere duplice, in quanto consente al giudice di prescrivere all’autore del reato di non avvicinarsi a luoghi determinati, ovvero di mantenere una certa distanza dai predetti luoghi o dalla stessa persona offesa, anche disponendo particolari modalità di controllo, mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici.

La finalità dell’istituto è evidente: tutelare l’incolumità della persona offesa, sia nella sfera fisica che in quella psichica, impedendo la reiterazione delle condotte delittuose ed evitando alla vittima il turbamento derivante dall’incontro con l’indagato o dalla vicinanza dello stesso.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Sebbene sia una misura di portata generale, quindi, applicabile per qualsiasi reato, essa trova applicazione soprattutto in relazione ai reati di stalking, violenza sessuale, lesioni aggravate e maltrattamenti in famiglia.

Si tratta, infatti, di fattispecie delittuose contraddistinte dalla particolare vulnerabilità della persona offesa, in quanto destinataria di condotte di violenza persistenti e invasive, nonché caratterizzate dall’assillante ricerca di contatto con la vittima in qualsiasi luogo la stessa si trovi, tali da rendere necessaria l’adozione del provvedimento cautelare, suscettibile di applicazione immediata.

Giova sottolineare, inoltre, che la disposizione in esame si inserisce in un quadro normativo finalizzato al contrasto della violenza domestica e di genere, attuato con la L. n. 154/2001, che ha introdotto la misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare di cui all’art. 282 bis c.p.p., nonché con il D.L. n. 11/2009 che, oltre ad aver previsto la misura in oggetto, ha introdotto il reato di atti persecutori, ed infine con la più recente Legge sul femminicidio e con il cd. Codice Rosso.

Nonostante la disposizione in parola appaia di formulazione sufficientemente lineare, è sorto un problema interpretativo riguardante le modalità di attuazione della misura, tanto ciò è vero che, nell’ottobre scorso, si è reso necessario l’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 39005/2021.

Il contrasto giurisprudenziale

Un primo indirizzo giurisprudenziale, partendo proprio dal dato letterale dell’art. 282 ter c.p.p., in cui si parla di “luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa”, ritiene che spetti al Giudice indicare sempre in modo specifico e dettagliato i luoghi il cui l’accesso è precluso all’indagato destinatario della misura restrittiva.

Infatti, l’applicazione del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, senza una chiara individuazione degli stessi, avrebbe un connotato talmente generico e indefinito da comportare, da un lato, un’eccessiva e ingiustificata compressione della libertà personale e di movimento dell’indagato e, dall’altro lato, di rendere meno agevole il controllo delle prescrizioni imposte.

Il secondo indirizzo giurisprudenziale, invece, fornisce una chiave di lettura della norma partendo dalla finalità che la stessa assume, ovvero garantire la sicurezza della vittima attraverso la creazione di un vero e proprio “schermo di protezione” attorno ad essa, affinché la medesima possa vivere liberamente la propria quotidianità.

Ne consegue, quindi, che la previsione di un divieto di avvicinamento limitato solo a luoghi statici e predefiniti, in taluni casi, potrebbe non essere sufficiente a garantire una tutela piena ed effettiva della vittima, posto che nell’ambito della misura cautelare lo stesso Legislatore distingue in maniera netta due ipotesi, ovvero il divieto di avvicinamento ai luoghi o alla persona.

Ebbene, nel caso in cui venga disposto il divieto di avvicinamento alla persona offesa, il Giudice deve comunque indicare anche i luoghi oggetto del divieto oppure è sufficiente che indichi soltanto la distanza da tenere rispetto alla persona offesa ovunque essa si trovi?

La soluzione delle Sezioni Unite

Nel dirimere la questione, le Sezioni Unite hanno preso in esame la struttura della diversa misura di cui all’art. 282 bis c.p.p., ove è previsto che, in aggiunta all’allontanamento dell’indagato dalla casa familiare, possa essere disposto il divieto di avvicinamento a luoghi determinati -come ad esempio il luogo di lavoro, il domicilio della famiglia di origine o dei prossimi congiunti della persona offesa-, sempre che sussista l’esigenza di una tutela “rafforzata” della vittima.

Similarmente, anche nel caso in esame la norma consente di graduare l’applicazione delle prescrizioni in base all’intensità del rischio a cui è esposta la vittima, attraverso la predisposizione dell’obbligo di mantenere una certa distanza sia da taluni luoghi che dalla persona offesa in quanto tale, e ciò in conformità alla normativa sovranazionale e, nella specie, alla Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio UE n. 2001 del 13.12.2011.

Ne consegue, pertanto, che la misura cautelare del divieto di avvicinamento alla persona offesa è caratterizzata da prescrizioni autonome che possono essere disposte in alternativa oppure congiuntamente, ad esito del giudizio di bilanciamento degli interessi coinvolti e purché risultino strettamente necessarie a garantire la protezione della vittima, in accordo con la previsione dell’art. 13 della Costituzione e dei limiti applicabili alla libertà dell’indagato.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Da un punto di vista pratico, quindi, potranno delinearsi due ipotesi differenti.

La prima ipotesi ricorre quando il Giudice decida di prescrivere il divieto di avvicinamento a luoghi determinati, poiché in tal caso la misura si applica a prescindere dalla presenza fisica della persona offesa e richiede sempre la chiara e precisa indicazione dei luoghi interdetti.

Ciò sta a significare che la violazione della misura imposta si realizza anche nel caso in cui l’indagato si rechi in uno dei suddetti luoghi e la persona offesa non sia presente in quel momento.

Peraltro, tale condotta, oltre a comportare un aggravamento della misura cautelare con altra più afflittiva, come gli arresti domiciliari o la custodia in carcere, è idonea a configurare un’autonoma fattispecie di reato, prevista nell’art. 387 bis c.p. e punita con la reclusione da sei mesi a tre anni.

Mentre, la seconda ipotesi -senza dubbio più gravosa per l’indagato, ma comunque conforme ai principi costituzionali- riguarda il caso in cui sia disposto il divieto di avvicinamento proprio alla persona offesa, giacché in questo caso non è necessaria una perimetrazione fissa del divieto che, pertanto, si estende a qualunque luogo si trovi la persona protetta.

In questa ipotesi il Giudice, valutati i criteri di adeguatezza e proporzionalità della misura, sarà tenuto semplicemente ad indicare la distanza che dovrà sempre essere mantenuta.

L’indagato, pertanto, dovrà tenersi a distanza dalla persona offesa, sia evitando di ricercare qualsiasi contatto con la stessa e sia, nel caso di incontro casuale, allontanandosi immediatamente e ristabilendo la distanza imposta.

Claudia Piroddu, Avvocato

Il Natale in negozio

Dicembre è il mese più atteso, non solo dai bimbi che aspettano il Natale con i doni ma, anche, dagli imprenditori che, come me e la mia socia Roberta Baioni, gestiscono attività commerciali.

In questo periodo, infatti, si raccolgono i frutti di undici mesi di investimenti – non soltanto economici ma anche in termini di impegno ed aspettative – e si devono concentrare tutti gli sforzi per non vanificare il lavoro preparatorio.

Quest’ultimo inizia a gennaio, con le fiere di settore che propongono con largo anticipo quelle che saranno le tendenze per gli addobbi degli alberi e della casa.

Il mio compito è proprio quello di fare la buyer per la mia società: mi occupo, quindi, degli acquisti per il negozio Sirene, naviganti e sognatori e, pur essendo un compito molto impegnativo e delicato, lo faccio con piacere e divertimento. Giovanna Diana, Imprenditrice

Questo compito, poi, è strettamente legato all’esposizione, anzi, ne è il preludio.

L’esposizione è un altro aspetto rilevante per la buona riuscita degli investimenti, perché la gestione corretta dello spazio del negozio e la cura nella scelta della merce da esporre attirano ed incuriosiscono maggiormente le clienti.

Esporre in modo elegante e creativo è sicuramente uno dei miei punti di forza e l’ambiente così creato accoglie e avvolge le clienti, rendendo il lavoro di un anno un successo.

Sono tante le persone che frequentano il nostro negozio e, delle volte, possono crearsi delle tensioni quando, per vari motivi, vengono inavvertitamente rotti degli oggetti dai clienti.

Ho una regola: evitare imbarazzi alle persone per cui, ogni qualvolta accade che un oggetto venga rotto, rassicuro la cliente e non addebito nessun costo, a meno che la cliente stessa non insista per ripagare il danno, ed in quel caso l’importo viene comunque decurtato del – 50%.

Infatti, anche se la legge mi consente di chiedere il pagamento dell’intera somma, sono convinta che una brava imprenditrice debba andare incontro ai propri clienti, soprattutto nei momenti che possono generare tensione ed imbarazzo.

Il periodo natalizio, come detto e come ovvio, è dedicato ai regali.

Questi, purtroppo, non sempre sono adatti a chi li riceve o, semplicemente, può capitare che non siano di gradimento.

In questo caso è bene ricordare per tempo che i cambi della merce si possono effettuare entro il 31 dicembre sempre e solo con la presentazione dello scontrino fiscale, che noi abbiamo cura di consegnare con l’apposita custodia.Giovanna Diana, Imprenditrice

Tra l’altro, il cambio o il reso degli acquisti fatti è una pratica che noi decidiamo di seguire perché capiamo le esigenze delle clienti e vogliamo che siano sempre soddisfatte.

Per questo motivo, anche se la legge non ci impone alcun obbligo – perché siamo un locale commerciale e gli acquisti avvengono direttamente in negozio e non, ad esempio, online – riconosciamo sempre alle clienti la possibilità di effettuare il reso, dietro presentazione dello scontrino fiscale.

Non è un lavoro facile il mio, richiede molta passione e tanto tempo da dedicare a tutti gli aspetti che, in questo focus, ho descritto solo in parte.

Ma non lo cambierei perché mi piace farlo in modo impeccabile e professionale.

E questo, alla fine, da i suoi frutti.

Giovanna Diana, Imprenditrice

Sono nata e cresciuta a Cagliari, e con la mia socia di origine lombarda, Roberta Baioni, ho creato Sirene, naviganti e sognatori, piccolo ma prezioso store al centro della città.

L’attività ha, ormai, 22 anni ed è ben inserita nelle mete dello shopping.

Siamo presenti anche sui principali social dove abbiamo acquisito un discreto consenso.

Il negozio si trova a Cagliari, in via Sebastiano Satta n.64.

Focus di diritto tributario • Avv. Francesco Sanna

Trattamento fiscale degli omaggi natalizi

Come ogni anno le festività natalizie e di fine anno sono per le aziende l’occasione di consegnare degli omaggi ai propri clienti e ai dipendenti.
Ma quale è il trattamento fiscale a loro riservato?

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

Acquisti e truffe online

Oggigiorno, lo shopping online rappresenta una modalità di acquisto ormai consolidata e sempre più in espansione, che consente di selezionare con semplicità i prodotti desiderati per poi riceverli comodamente a casa propria, talvolta, con notevole risparmio in termini di tempo e di denaro.

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Focus di diritto civile • Avv. Viola Zuddas

Cosa fare in caso di regalo non gradito?

Specialmente durante le feste può capitare di ricevere regali che non siano di proprio gradimento e, in questi casi, spesso ci si chiede se sia possibile cambiare quanto ricevuto e, eventualmente, cosa si debba fare.

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Iva e vendite a distanza: le nuove regole dell’e-commerce

Le festività natalizie, si sa, rappresentano quel momento dell’anno in cui i consumatori non badano a spese.
Negli ultimi anni e, in particolare, con l’avvento della pandemia mondiale, delle sue varianti ed annesse restrizioni negli spostamenti, il modo di acquistare è stato totalmente rivoluzionato.

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Cosa accade nel caso in cui un soggetto, in possesso di un regolare porto d’armi, venga indagato o condannato in un procedimento penale?

Ad esempio: a seguito di verbale di accertamento della polizia stradale per guida in stato di ebbrezza alcolica, il Questore potrebbe revocare la licenza di porto di fucile nei confronti del trasgressore?

Prima di individuare i presupposti di Legge e i rimedi esperibili in tali ipotesi, occorre premettere che la normativa italiana stabilisce che per poter acquistare e detenere armi è necessaria un’apposita autorizzazione amministrativa rilasciata dalle autorità competenti, qualora ricorrano le condizioni di Legge.

A tale riguardo, si distinguono diverse tipologie di licenza per il rilascio di porto d’armi, che variano a seconda dell’utilizzo richiesto -ovvero per difesa personale, per uso sportivo, per uso venatorio e per collezione di armi comuni da sparo-, ciascuna contraddistinta da specifici requisiti e procedure per il rilascio.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

In particolare, il porto d’armi per difesa personale, con validità di 1 anno, viene rilasciato dalla Prefettura, ai soggetti che dimostrino la ragione oggettiva per la quale necessitano di un’arma.

Invero, l’art. 4 della L. n. 110/1975 prevede un divieto generalizzato di portare con sé armi, a meno che non sussista un giustificato motivo, come ad esempio, il caso di un gioielliere o di un professionista che per lavoro trasportano oggetti preziosi o ingenti quantità di denaro e, di conseguenza, incorrono nel concreto pericolo di subire aggressioni o rapine.

Il porto d’armi per uso sportivo e quello per uso venatorio, invece, vengono rilasciati dalla Questura.

Nel primo caso, la licenza è valida 5 anni e consente di detenere, trasportare e utilizzare armi comuni e sportive per esercitare il tiro a volo, mentre, nella seconda ipotesi, la licenza ha parimenti validità quinquennale e autorizza l’acquisto e il porto di fucile da caccia, da utilizzare solo durante la stagione venatoria e nelle zone autorizzate.

Vi è poi una particolare licenza per collezionisti, denominata “licenza di detenzione”, a carattere permanente, che autorizza il soggetto ad acquistare e detenere armi comuni da sparo, anche di pregio storico-artistico, che, tuttavia, non possono essere trasportate all’esterno del luogo di custodia, né utilizzate.

Quali sono i requisiti per il rilascio del porto d’armi?

La materia è disciplinata dal Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (T.U.L.P.S) e dal Regolamento di attuazione, ovvero il R.D. n. 635/1940, giacché la licenza per il porto d’armi si considera una cd. autorizzazione di polizia e, dunque, il relativo rilascio, la sospensione o la revoca sono demandati all’autorità di pubblica sicurezza, ovvero al Questore e al Prefetto.

In generale, per il rilascio del porto d’armi in favore di comuni cittadini non appartenenti alle forze armate è necessario essere maggiorenni, nonché il possesso di specifici requisiti psico-fisici, sia di capacità visiva e uditiva, sia l’assenza di alterazioni neurologiche che possano interferire con lo stato di vigilanza ed, altresì, l’assenza di disturbi di natura psichiatrica e di personalità.

Inoltre, ai sensi dell’art. 11 TULPS, è precluso il rilascio del porto d’armi a chi ha riportato una condanna a pena restrittiva della libertà personale superiore a 3 anni per delitto non colposo e non ha ottenuto la riabilitazione e, altresì, ai soggetti sottoposti all’ammonizione o a misura di sicurezza personale oppure a chi è stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza.

Deve aggiungersi che, ai sensi dell’art. 43 TULPS, costituiscono requisiti ostativi al rilascio la condanna per taluni delitti non colposi commessi con violenza contro la persona, ovvero in caso di furto, rapina, estorsione, sequestro di persona, nonché l’aver riportato condanna per delitti contro la personalità dello Stato o contro l’ordine pubblico oppure per porto abusivo di armi.

Tuttavia, a seguito del D. Lvo n. 104/2018, nei casi poc’anzi menzionati non è previsto un diniego automatico, poiché l’autorità di pubblica sicurezza può concedere la licenza, a seguito di una valutazione di carattere discrezionale soggetta a obbligo di motivazione che, però, tenga conto di tutte le circostanze rilevanti, con riferimento all’affidabilità e alla buona condotta del soggetto.

La medesima disciplina si applica anche per la sospensione cautelare e la revoca del porto d’armi, che si verificano quando vengono meno i requisiti per i quali l’autorizzazione era stata concessa o nel caso in cui sopraggiungano circostanze, anche transitorie, che non consentono l’utilizzo dell’arma.

È evidente, pertanto, che la ratio della normativa sia quella di evitare che venga concesso l’uso delle armi a quei soggetti che abbiano avuto dei precedenti penali per delitti di particolare allarme sociale, dai quali si desume una pericolosità per l’ordine e la sicurezza pubblica, e ciò al fine di prevenire la commissione di nuovi reati.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Casistica e rimedi esperibili

Fatte tali doverose premesse, veniamo ora ai quesiti menzionati all’inizio.

Sul punto, è ormai chiaro che la commissione dei reati previsti dalla Legge comporta l’avvio di un procedimento amministrativo da parte dell’Autorità di pubblica sicurezza, volto alla sospensione o alla revoca del porto d’armi, così come la condanna per taluni delitti può costituire un ostacolo per il rilascio o il rinnovo della licenza.

È evidente, quindi, che, a seconda della specifica situazione in cui si trova il richiedente, sarà possibile esperire, a mezzo del proprio legale, il rimedio più idoneo al fine di ottenere l’autorizzazione per l’utilizzo dell’arma, laddove è riconosciuto il diritto a prendere visione degli atti del procedimento amministrativo, nonché a presentare atti e memorie difensive, con l’indicazione di ogni elemento utile per la decisione.

Ebbene, nel caso in cui il soggetto abbia dei precedenti penali, per poter ottenere la licenza per porto d’armi, è necessario anzi tutto che sia intervenuta la riabilitazione prevista nell’art. 178 c.p.

Si tratta di un provvedimento adottato dal Tribunale di Sorveglianza ad esito di apposito procedimento, con il quale, una volta che sia decorso un certo periodo di tempo, che sia data prova della buona condotta e che sia intervenuto il pagamento delle spese processuali e degli obblighi risarcitori derivanti dal reato, vengono dichiarate estinte le pene accessorie e ogni altro effetto penale della condanna.

In ogni caso, è bene ricordare che il potere dell’autorità di pubblica sicurezza relativo al rilascio, alla sospensione e alla revoca del porto d’armi è di carattere discrezionale e non vincolato, ed è incentrato sulla valutazione in ordine all’affidabilità e meritevolezza del soggetto (Cons. di Stato, sentenza n. 5313 del 17.11.2017).Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Ne consegue che, secondo consolidata giurisprudenza amministrativa, ogni elemento afferente la vita e il contesto sociale ed economico in cui è inserito il richiedente può essere assai utile ai fini della valutazione de qua, specie in presenza di un singolo e sporadico episodio criminoso, che di per sé considerato non può giustificare il diniego della licenza, in assenza di ulteriori fattori pregiudizievoli e sempre che ricorrano elementi positivi dimostrativi del concreto ravvedimento del soggetto (T.A.R. Torino, sentenza n. 1063 del 26.06.2015).

A questo riguardo, assumono particolare rilevanza gli elementi attuali della personalità del soggetto, nonché l’entità del fatto, la condotta successiva e il tempo trascorso rispetto all’epoca del reato senza che siano stati commessi ulteriori illeciti, posto che si tratta di circostanze che globalmente considerate sono espressive dell’essenza di pericolosità del soggetto (T.A.R. Piemonte, sentenza n. 84 del 10.01.2018).

In ultimo, a fronte di un provvedimento di revoca di licenza di porto d’armi, è possibile presentare ricorso dinnanzi all’autorità amministrativa competente per richiederne l’annullamento, evidenziando l’illogicità e la carenza di motivazione dello stesso.

Claudia Piroddu, Avvocato

Il quadro delle violenze e molestie nel mondo del lavoro

Secondo l’Istat (2018), in Italia un milione e 404 mila donne hanno subito nel corso della loro vita molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro. In un rapporto pubblicato da WeWorld e Ipsos in occasione della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, il 70% delle donne intervistate dichiara di aver subito una qualche forma di molestia in ambito lavorativo in Italia.

Un’iniziativa dell’Espresso e della CGIL inaugurata questa settimana, #lavoromolesto, si unisce a questi studi con l’obiettivo di raccogliere le testimonianze di molestie sul lavoro, includendo minacce, comportamenti offensivi e umilianti che violano la dignità delle lavoratrici, da parte di superiori e colleghi. Il progetto sottolinea che la maggior parte delle vittime e survivor non parlano delle proprie esperienze. È importante precisare che la responsabilità non deve mai pesare sulle vittime e survivor, ma su un sistema che deve porre le condizioni necessarie perché si sentano tutelate, perché le loro voci siano credute e ascoltate, perché ci siano delle procedure che prendano sul serio le loro denunce (all’interno di un’azienda o tramite le forze dell’ordine). Questa responsabilità è del governo e dei datori di lavoro.

I dati a livello nazionale e regionale in tutto il mondo e le esperienze di survivor e vittime mostrano una realtà assordante:

  1. Le violenze e le molestie sul lavoro impregnano tutti i settori, tutti i contesti, tutti i paesi
  2. Le donne, le persone con disabilità[1], le persone razzializzate, le persone LGBTQI+, le lavoratrici migranti, le persone che lavorano nel settore informale e che hanno un lavoro precario sono le più esposte. In questo contesto, l’intersezione delle identità diventa un fattore di vulnerabilità aggiunta, e ogni gruppo va considerato come fortemente eterogeneo.
  3. Dove esistono delle leggi solide e interessanti, c’è comunque ancora tanto da fare da parte dei governi per potersi assicurare che siano messe in pratica, e che i datori di lavoro si prendano le loro responsabilità in materia di prevenzione e protezione del personale, come rivendicato dai sindacati, dai movimenti e associazioni femministe di tutto il mondo.

Quale cornice normativa a livello internazionale?

Nel 2019, una Convenzione internazionale contro la violenza e le molestie nel mondo del lavoro è stata adottata dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL). Concretamente, questo significa che gli stati membri dell’ONU, sindacati e datori di lavoro hanno intrapreso delle negoziazioni per arrivare a un documento che offra un quadro normativo in materia. Per poterla applicare a livello nazionale, ogni governo deve poi ratificarla, effettuando i cambiamenti legislativi necessari per portarsi in pari con le misure indicate dal trattato internazionale.

La Convenzione 190 è accompagnata dalla Raccomandazione 206, che ha il ruolo di indicare e guidare gli stati membri nell’applicazione della Convenzione a livello nazionale. Fornisce infatti delle linee guida e degli esempi di misure che sarebbe fondamentale integrare per poter veramente proteggere le vittime e survivor di violenze e molestie, e per poter effettuare una concreta prevenzione.

Il 29 ottobre 2021 l’Italia ha completato il processo di ratifica, secondo paese in Europa e nono al mondo. Cosa significa per le lavoratrici e lavoratori italianə? Questo dipende dai cambiamenti che saranno intrapresi per rinforzare le leggi esistenti e la loro applicazione.Ludovica Anedda, Specializzata in uguaglianza di genere

Cosa offre di innovativo questo trattato internazionale? 

La Convenzione 190 e la Raccomandazione 206 hanno quattro dimensioni che sono particolarmente importanti:

  1. La definizione di violenze e molestie sul lavoro è molto ampia, rispetto alla maggior parte delle legislazioni nazionali. L’articolo 1 legge:

« a) l’espressione “violenza e molestie” nel mondo del lavoro indica un insieme di pratiche e di comportamenti inaccettabili, o la minaccia di porli in essere, sia in un’unica occasione, sia ripetutamente, che si prefiggano, causino o possano comportare un danno fisico, psicologico, sessuale o economico, e include la violenza e le molestie di genere;

« b) l’espressione “violenza e molestie di genere” indica la violenza e le molestie nei confronti di persone in ragione del loro sesso o genere, o che colpiscano in modo sproporzionato persone di un sesso o genere specifico, ivi comprese le molestie sessuali. »

E in Italia? Proprio in questi giorni il Senato sta discutendo un testo per l’introduzione del reato di molestia o di molestia sessuale. Lo stesso testo apporterebbe la modifica del codice delle pari opportunità introducendo sulle molestie una formulazione che includa anche gli atti indesiderati « anche se verificatisi in un’unica occasione » (art. 1 del D.D.L. 665).

  1. Nella Convenzione 190, la definizione fa riferimento a tutti i settori, nel pubblico, nel privato, nell’economia formale e informale, in aree urbane e rurali, e per tutte le lavoratrici e lavoratori, senza distinzione legata al tipo di contratto. Inoltre, intende come “mondo del lavoro” il posto di lavoro stesso, ma anche i luoghi connessi al lavoro come luoghi destinati a pause, bagni e spogliatoi, ma anche durante gli spostamenti per recarsi al lavoro o per il rientro dal lavoro, include lo smart working e le molestie e violenze online.

Questa dimensione diventa particolarmente rilevante nel contesto attuale in cui lo “smart working” forzato durante la pandemia ha cambiato per molte persone la realtà lavorativa in Italia e in tutto il mondo.

  1. La Convenzione 190 e la Raccomandazione 206 sottolineano l’importanza di considerare le persone e i gruppi che sono più a rischio di essere esposti alle violenze e molestie nel mondo del lavoro. Questo include le donne, le persone con disabilità, le persone razzializzate, le persone LGBTQI+, le lavoratrici migranti, le persone che lavorano nel settore informale, e non solo. Una settimana dopo il Transgender day of remembrance (TDOR), giornata per commemorare le vittime dell’odio transfobico, così come tutti i giorni dell’anno, è importante ricordarci che le persone transgender e non binarie sono particolarmente esposte alle violenze di genere, e questo include le violenze e le molestie sul lavoro, che si aggiungono alle multeplici forme di discriminazione che affrontano nel quotidiano.

In Italia è necessario finanziare e intraprendere studi e analisi che permettano di avere una visione più chiara di questa diversità di esperienze, in modo da poter concretamente adattare e applicare la legislazione e le misure dei datori di lavoro in tutti i settori.

In Italia, il D.D.L. Zan sul contrasto all’omolesbobitransfobia, all’abilismo e al sessismo, affossato al Senato proprio qualche giorno prima della conclusione della ratifica della Convenzione 190 da parte del Ministero per il Lavoro e le Politiche Sociali, sarebbe stato in questo contesto uno strumento essenziale e complementare per contrastare violenze e molestie nel mondo del lavoro.

  1. Un punto essenziale di questo trattato internazionale è il fatto che sottolinea l’impatto della violenza domestica sul mondo del lavoro.

Anche se questo collegamento non sembra immediatamente automatico, ci sono diversi motivi per cui è importante parlare di violenza domestica quando parliamo del mondo del lavoro.

  • Il posto di lavoro è il primo luogo dove l’aggressore può facilmente trovare la vittima perchè, anche se stesse cercando di scappare, per necessità, se non è tutelata dal datore di lavoro e dallo stato, dovrà presentarsi a lavoro per non perderlo. Per questo motivo, la vittima/survivor deve avere l’opportunità di assentarsi senza subire delle conseguenze sul proprio impiego. In questo contesto, la legge italiana ha una misura che permette di prendere dei giorni di assenza retruibiti. Un’altra misura essenziale in questo contesto sarebbe il diritto alla mobilità geografica, che esiste per esempio in Spagna.
  • Può capitare che una vittima e survivor, a causa delle violenze subite, si debba assentare o segua degli orari irregolari per poter, ad esempio, fare delle visite mediche o sporgere una denuncia: la vittima e survivor deve essere protetta dal rischio di perdere il lavoro e di essere licenziata. Misure di protezione dal licenziamento sono assenti nella maggior parte dei paesi del mondo, compresa l’Italia, con delle eccezioni in Nuova Zelanda e in Australia.
  • Il lavoro ha un ruolo essenziale nella vita della vittima e survivor: la violenza domestica è spesso fortemente legata alla violenza economica e al controllo economico da parte del compagno violento: perdere il lavoro significherebbe per la vittima e survivor perdere la possibilità di essere economicamente indipendente per poter scappare dalla situazione di violenza e poter intraprendere dei percorsi di recupero e ricostruzione di sè.
  • Il confine tra luogo di lavoro e domicilio è sempre più sfocato nel contesto attuale della pandemia del COVID-19, in cui tantə lavoratori e lavoratrici si sono trovati obbligatə a lavorare da casa, con uno “smart working” forzato: le vittime di violenza domestica si sono trovate in un lockdown con i propri aggressori.

In una società che sminuisce, ignora, invisibilizza e zittisce le vittime e survivor delle violenze di genere, in cui la cultura dello stupro impregna tutte le sue dimensioni, dal discorso politico e giornalistico, a ciò che viene rappresentato nei film, nelle fiction e nei programmi televisivi, è assolutamente fondamentale avere un quadro legale solido. Ma non è abbastanza.Ludovica Anedda, Specializzata in uguaglianza di genere

Sta a tuttə noi ascoltare, sostenere e amplificare giorno dopo giorno le voci di vittime e survivor, e mettere in discussione i nostri comportamenti e quelli delle persone che ci sono attorno. Ma sta al governo rinforzare le leggi, assicurarsi che queste siano applicate e valutate, che i datori di lavoro e le imprese italiane anche nelle loro filiere estere rispettino la normativa e integrino le misure necessarie per prevenire queste violenze e proteggere il personale, che le associazioni femministe che si occupano della protezione e del supporto per le vittime e survivor e i centri anti-violenza siano sostenuti e finanziati.

[1] Per un approfondimento sull’uso dei termini “persone con disabilità” o “persone disabili”, vedere l’articolo dell’attivista Sofia Righetti: https://m.facebook.com/sofiarighetti

Ludovica Anedda, Specializzata in uguaglianza di genere

Sono laureata in relazioni internazionali, con un Master in analisi di politiche pubbliche, e dal 2019 lavoro a Parigi con l’ONG di solidarietà internazionale CARE, in cui mi occupo di advocacy e influenza politica nell’ambito dell’uguaglianza di genere. Più precisamente, collaborando con altre organizzazioni, associazioni femministe e sindacati, sviluppo e presento raccomandazioni dettagliate per il governo francese, soprattutto per l’integrazione di un approccio di genere nella politica estera della Francia.

Nell’ultimo anno, mi sono particolarmente occupata di una campagna a livello nazionale per la ratifica da parte della Francia della Convenzione 190 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) contro la violenza e le molestie nel mondo del lavoro.

Precedentemente, sono stata consulente sulle politiche educative e di genere dell’Unione Europea a Bruxelles, e ho avuto delle esperienze professionali presso l’agenzia dell’Unione Europea che si occupa di uguaglianza di genere (EIGE) e presso l’agenzia dell’ONU specializzata nella protezione dei diritti umani (OHCHR).

Come progetto personale, ho iniziato una newsletter per poter accompagnare soprattutto giovanə professionistə nella ricerca di opportunità di lavoro nell’ambito dell’uguaglianza di genere e della protezione dei diritti LGBTQI+. Tramite questa newsletter, curo delle liste di Gender Jobs in ONG e associazioni, nel settore pubblico, nel settore privato, in organizzazioni internazionali.

Focus di diritto civile • Avv. Francesco Sanna

Il Piano Strategico Nazionale sulla violenza maschile contro le donne

Il 18 novembre scorso, Elena Bonetti, Ministro per le pari opportunità e la famiglia, ha presentato al Consiglio dei Ministri il Piano Strategico Nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2021-2023, ovvero un documento di programmazione strategica per la definizione ed attuazione di politiche integrate ed efficaci.

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

Il fenomeno del “mobbing” e la tutela penale

Con il termine “mobbing” si intendono quelle forme di violenza e abuso -per lo più di natura psicologica-, maturate in ambito lavorativo, che possono manifestarsi attraverso offese, molestie, assegnazione di orari di lavoro o incarichi particolarmente gravosi oppure, al contrario, di mansioni inferiori rispetto al ruolo ricoperto dalla vittima, nonché mediante continui rimproveri o critiche aggressive e del tutto ingiustificate.

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Focus di diritto civile • Avv. Viola Zuddas

Le misure economiche a sostegno delle vittime di violenza di genere

L’espressione “violenza di genere” descrive tutte quelle forme di violenza che riguardano le persone discriminate in base al sesso.

Essa comprende, quindi, la violenza psicologica, quella fisica e sessuale, gli atti persecutori (il cosiddetto “stalking”) ed, infine, anche il femminicidio.

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Combattere la violenza di genere e domestica nell’Unione Europea

La violenza di genere e quella domestica, che vede come vittime principali le donne e le ragazze, resta una delle principali problematiche nell’Unione Europea e per la cui eliminazione l’Unione si sta impegnando, ormai da tempo, nell’adozione di valide ed adeguate soluzioni.

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Da alcuni anni, anche in Sardegna, si assiste al notevole incremento della coltivazione di canapa sativa -comunemente definita cannabis light o canapa legale-, grazie soprattutto alla molteplicità dei suoi impieghi, principalmente nel settore industriale, e alla capacità di questo tipo di coltivazione di ridurre l’impatto ambientale e la perdita della biodiversità.

Al fine di regolamentare la materia e di prevedere adeguati incentivi per promuovere la filiera della canapa, con la Legge 2 dicembre 2016 n. 242, il legislatore italiano ha adottato una serie di misure volte a individuare i requisiti e i limiti della coltivazione.

Tuttavia, sebbene da un lato la coltivazione di canapa sativa risulti lecita, dall’altro lato non può trascurarsi che nel corso degli ultimi mesi, sul territorio sardo e in particolare nell’oristanese, si siano verificati molteplici sequestri di ingenti quantitativi di canapa light a carico di imprenditori e coltivatori, con l’accusa di detenzione di stupefacente a fini di spaccio.

Quindi, quali sono i requisiti previsti dalla Legge e in quali ipotesi tali condotte assumono rilevanza penale?

Innanzi tutto, occorre chiarire che la cannabis sativa è una particolare varietà di canapa che, diversamente dalla cannabis indica e dalla cannabis ruderalis, con la Direttiva 2002/53/CE, è stata inserita nel catalogo comune delle specie di piante agricole, la cui coltivazione risulta liberamente consentita.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Invero, ai sensi dell’art. 2 della L. n. 242/2016 citata poc’anzi, la coltivazione di canapa sativa non necessita il previo rilascio di particolari autorizzazioni di carattere amministrativo e il coltivatore è tenuto semplicemente a conservare per 12 mesi i cartellini delle sementi acquistate e le relative fatture di acquisto.

È richiesto, però, che il contenuto di THC -ossia il principio attivo in grado di produrre un effetto psicotropo e, quindi, drogante- sia inferiore allo 0,2 %, con un limite di tolleranza fissato allo 0,6%.

Inoltre, affinché l’attività di coltivazione e trasformazione venga considerata lecita, la norma elenca ulteriormente i prodotti che è possibile ottenere mediante la lavorazione della canapa sativa e a cui la stessa deve essere destinata.

Ne consegue che la canapa coltivata non può essere utilizzata liberamente, ma dalla stessa è possibile ottenere soltanto:

  • alimenti e cosmetici;
  • semilavorati, come fibre, oli e carburanti, per forniture alle industrie;
  • materiale destinato alla pratica del sovescio;
  • materiale organico destinato al settore della bio ingegneria e bioedilizia;
  • materiale utilizzabile per la bonifica di siti inquinati;
  • coltivazioni dedicate alle attività didattiche e di ricerca, nonché destinate al florovivaismo.

Tuttavia, proprio dalla formulazione poco chiara e fin troppo generica della norma sono sorti numerosi dubbi interpretativi, in particolare per quanto riguarda la commercializzazione di canapa sativa proveniente da coltivazioni lecite.

Verrebbe da pensare, infatti, che trattandosi di cannabis light, e quindi legale, la vendita sia considerata parimenti lecita, eppure così non è.

Il contrasto giurisprudenziale e l’intervento delle Sezioni Unite

Il nodo della questione riguarda l’ammissibilità o meno della vendita al pubblico di foglie, infiorescenze, olio e resina derivanti dalla coltivazione di cannabis sativa.

Da un lato, infatti, si colloca un primo indirizzo giurisprudenziale minoritario che tiene conto esclusivamente della capacità o meno del prodotto di produrre effetti psicotropi, individuata nella soglia dello 0.6% di THC (si veda, Cass. pen., sez. VI, sent. n. 4920 del 2018).

Pertanto, la vendita di derivati della canapa sativa risulterebbe lecita, a condizione che tali prodotti contengano un principio attivo collocato entro la cd. soglia drogante fissata dalla Legge, posto che, in applicazione del principio penale di offensività, l’assenza di effetti psicotropi esclude qualsivoglia pericolo per la sicurezza, la salute e l’ordine pubblico.

All’evidenza, quindi, benché la L. n. 242/2016 tra le attività consentite menzioni solamente la coltivazione e la trasformazione della canapa sativa, tuttavia, la norma non vieta espressamente la commercializzazione, che, pertanto, deve considerarsi ammissibile nel rispetto dei limiti anzidetti.

Dall’altro lato, vi è un diverso e più rigoroso orientamento, fatto proprio anche dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 30475 del 2019, che tiene conto del solo dato letterale della norma.

Invero, la Legge in parola stabilisce la liceità della coltivazione della cannabis sativa per le sole finalità tassativamente elencate nella stessa, tra le quali non figura la commercializzazione dei prodotti derivati.

Ne consegue che la detenzione, nonché la vendita al pubblico di infiorescenze, resine e oli integra il reato di cui all’art. 73 del D.P.R. n. 309/90, anche a fronte di un contenuto di THC inferiore alla soglia drogante prevista per Legge, salvo che tali derivati siano in concreto privi di ogni efficacia psicotropa.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Lo stesso principio risulta applicabile anche con riferimento all’impiego della canapa sativa negli alimenti, nella misura in cui tra le finalità indicate espressamente dalla L. n. 242/2016 figura anche quella alimentare.

Ciò, però, non significa che la pianta possa essere utilizzata interamente o senza alcuna distinzione, ad esempio per produrre infusi, tisane, pasta, biscotti e così via.

Infatti, con apposito provvedimento il Ministero della Salute, nell’indicare tassativamente i livelli massimi di THC ammissibili negli alimenti, ha stabilito che l’unica parte della pianta di canapa che può essere utilizzata a fini alimentari sono i semi, quindi, con esclusione delle infiorescenze, il cui impiego risulta illecito e sanzionabile penalmente.

In definitiva, la Legge italiana non prevede la possibilità in capo al coltivatore di effettuare alcuna attività di lavorazione delle piante di canapa sativa e, di conseguenza, l’essicazione, la sbocciolatura, il trasporto o la vendita al dettaglio sono considerate condotte illecite, in quanto rientranti nella nozione di “commercializzazione”, e quindi punibili in applicazione della disciplina in materia di traffico di stupefacenti.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Come si immagina, tale conclusione determina una serie di ripercussioni, anche sotto il profilo economico, posto che il coltivatore, impossibilitato a svolgere lecitamente qualsivoglia lavorazione della canapa, si vedrà costretto a cedere a terzi il prodotto “grezzo”, ovviamente a un prezzo notevolmente inferiore.

Per questa ragione, stante l’assenza di un effettivo pericolo per la salute e l’ordine pubblico legato alla commercializzazione della canapa sativa, in quanto priva di effetto drogante, le associazioni di categoria e i coltivatori invocano con urgenza un intervento normativo che, anche a livello regionale, possa colmare i vuoti lasciati dalla L. n. 242/2016, consentendo così di incentivare la filiera della canapa e di dare nuovo impulso all’economia sarda.

Claudia Piroddu, Avvocato

L’HACCP alla base della sicurezza alimentare

L’HACCP acronimo di hazard analisys critical control point, in italiano analisi dei pericoli e dei punti critici di controllo, non è altro che una metodologia costruita e sviluppata durante l’era spaziale (anni ’70) per poter proteggere chi consuma bevande e alimenti.

Tutto, infatti, parte da protocolli generati per tutelare la salute degli astronauti e conferire loro delle nozioni che permettessero di conservare e manipolare adeguatamente gli alimenti eliminando così i più comuni rischi generati non solo da una possibile contaminazione legata all’operatore (colui che ha a che fare con l’alimento), ma anche alla conservazione -quindi rispettare tempi e temperature.

L’HACCP, oltre ad imporre delle regole comportamentali, mette in evidenza come correggere i problemi che potrebbero presentarsi lungo il percorso dei prodotti commestibili. Federica Adamo, Consulente e formatore

Ciò che rappresenta il pericolo nell’alimento o nella bevanda è un agente che può essere già presente o che per contatto va a contaminare ciò che consumiamo: può essere, ad esempio, un agente microbiologico (ad esempio un batterio, un virus, un parassita o una muffa), un agente chimico (ad esempio una sostanza chimica tipo pesticida o un banale detergente usato per la pulizia delle superfici) e/o un agente fisico (ad esempio una scheggia o una pietrolina).

L’HACCP ci fornisce delle regole ben precise di comportamento, conservazione e manipolazione degli alimenti, cosicché questi possano essere consumati senza arrecare alcun tipo di danno.

L’HACCP, quindi, consente il controllo completo della filiera alimentare dal produttore primario (contadino e allevatore) al trasportatore, al grossista; dalla manipolazione alla conservazione, alla vendita ed alla somministrazione: una catena che in ogni fase va attentamente valutata e documentata così da non perdere mai, e poi mai, quello che è il controllo su alimenti e bevande, per consentire il consumo di alimenti sani per tutti!

Lo scopo è appunto quello di ottenere alimenti sani per tutti: il consumatore finale deve avere la garanzia su ciò che consuma e questa è conferita dalla metodologia che tutti andranno ad applicare.Federica Adamo, Consulente e formatore

Come già precisato, nasce negli anni ’70 negli Stati Uniti d’America e poco alla volta va a diffondersi in altri paesi: visto e considerato che i risultati iniziano ad arrivare, nel 2004 l’Unione Europea con il “pacchetto igiene” inizia a normare e delineare i punti da tenere sotto controllo della filiera, ma non solo infatti indica anche come l’Operatore Alimentarista deve comportarsi (ciò che deve o non deve fare).

L’operatore alimentarista che fino agli anni ’90 non possedeva nozioni su come comportarsi, ma veniva solamente controllato il suo stato di salute (libretto sanitario poi sospeso), ora si ritrova a fare i conti con la formazione.

La formazione diventa obbligatoria così da avere operatori consapevoli di ciò che avviene e di ciò che potrebbero causare.

Questa diventa un’arma importantissima contro il diffondersi di malattia di origine alimentare, le cosiddette “tossinfezioni” che causano patologie non solo gastrointestinali, ma a volte parecchio gravi come cecità, artrite reattiva, sindrome emolitica uremica, cancro, aborto ed altri fino ad arrivare anche alla morte.

Questo per evidenziare che sicuramente non è il mal di pancia la nostra preoccupazione primaria.

La formazione affiancata da un manuale di autocontrollo dell’attività diventa quindi l’arma per contrastare le tossinfezioni anche se, purtroppo, ancora oggi molti operatori sottovalutano l’importanza della conoscenza e non considerano quest’aspetto, che invece accompagna la consapevolezza di ciò che si fa, e per questo è obbligatorio.

La formazione è obbligatoria ai sensi del REG CE 852/04 e, precisamente, il D.Lgs 197/2003 prevede delle sanzioni in caso di mancata formazione che ovviamente servirebbero da deterrente ma, purtroppo, sono ancora troppi gli operatori che provano a sottrarsi ai loro doveri fino a che non vi sia l’intervento dell’apposito organo di vigilanza.

Federica Adamo, Consulente e formatore

Sono laureata in Tossicologia dell’alimento, dell’ambiente e del farmaco, oltre ad avere i titoli di formatore e di RSPP (responsabile del servizio di protezione e prevenzione). Sono consulente e formatore in materia di sicurezza sul lavoro e in igiene degli alimenti.

Amo relazionarmi con tutte le figure, creare relazioni di lavoro durevoli e di supporto.

La tecnologia, soprattutto ora visto i tempi complicati da diversi aspetti, ci aiuta nel continuare ad essere uniti, collegati ed a interagire anche a distanza.

Servizio di sostegno alle imprese, è nato per aiutare e supportare nano, micro, piccole, medie e grandi imprese. Vi guida, indicandovi le soluzioni più idonee alle vostre necessità, fornendovi assistenza vera e propria a 360 gradi su numerosi fronti.

I servizi offerti sono:

  • Consulenze aziendali nella valutazione dei rischi D.Lgs 81/08 (DVR)
  • Organizzazione e gestione corsi obbligatori sulla sicurezza sul lavoro secondo indicazioni Acc. Stato e Regioni e non
  • Docente/formatore in materia di sicurezza sul lavoro
  • Docente/formatore corsi anti-incendio e emergenza ed evacuazione
  • Valutazioni ambientali
  • Affiancamento imprenditori per apertura muove attività
  • Consulenza e disbrigo pratiche per gestione Ispettive da parte di organi di vigilanza
  • Realizzazione e gestione di sistemi integrati per la sicurezza
  • Docente/formatore HACCP
  • Consulente HACCP relativamente alla gestione ed analisi di prodotti alimentari
  • Affiancamento e stesura nel manuale HACCP per tutte le tipologie di attività
Focus di diritto civile • Avv. Francesco Sanna

La figura dell’operatore del settore alimentare (OSA)

L’operatore del settore alimentare è una figura di primaria importanza nell’assicurare le adeguate misure di sicurezza lungo tutta la filiera alimentare.

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

La frode alimentare nel codice penale

Quando si parla di “frode alimentare” si fa riferimento genericamente alla produzione e alla commercializzazione di alimenti non conformi alle norme vigenti.

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Focus di diritto civile • Avv. Viola Zuddas

Il danno da intossicazione alimentare

Da una decina d’anni sono state introdotte in Italia nuove regole, rivolte principalmente agli operatori del settore alimentare, volte a disciplinare in maniera più compiuta la pratica dell’etichettatura dei prodotti alimentari e le dichiarazioni nutrizionali dei singoli prodotti.

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Il controllo sugli operatori alimentari secondo la normativa UE

La politica di sicurezza alimentare dell’Unione europea (UE) ha come obiettivo principale quello di proteggere i consumatori, garantendo al contempo il regolare funzionamento del mercato unico.

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Con il D.L. n. 132/2021, entrato in vigore il 30 settembre 2021, il Consiglio dei Ministri ha introdotto una rilevante modifica alla norma che disciplina l’acquisizione dei tabulati telefonici e telematici per finalità di accertamento e repressione dei reati.

Pare appena opportuno sottolineare che i tabulati telefonici e i dati relativi al traffico web assumano un’importanza peculiare nello svolgimento delle indagini, specie nella fase iniziale, in cui qualsiasi elemento può essere utile per indirizzare gli investigatori.

Il traffico telefonico e telematico di una determinata utenza, infatti, è suscettibile di fornire una notevole quantità di informazioni cd. sensibili.

Proprio attraverso l’analisi di tali dati è possibile ricostruire non solo gli spostamenti di una persona, attraverso le “celle” che il terminale ha agganciato per connettersi, ma anche individuare i contatti con le altre utenze e, quindi, ricostruire la rete di frequentazioni della persona oggetto di indagine, nonché i siti web che la stessa ha visitato in un preciso arco temporale.

È, quindi, evidente che si pone la necessità di bilanciare, da un lato, le esigenze di giustizia penale e di indagine e, dall’altro lato, quelle di tutela della privacy, da un utilizzo sproporzionato e talvolta inutile dei dati personali.

La norma di riferimento è l’art. 132 del cd. Codice della privacy (D. Lgs n. 196/2003) che, nella sua formulazione originaria, anteriore al D.L. n. 132/2021, prevedeva che il Pubblico Ministero –soggetto titolare delle indagini penali- potesse disporre autonomamente l’acquisizione dei tabulati telefonici.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Ciò poteva avvenire per qualsiasi tipo di reato e non solo nei confronti dell’indagato, ma di chiunque, con il solo limite temporale del periodo di conservazione dei dati del traffico telefonico e telematico a cui è tenuto il fornitore del servizio, fissato rispettivamente in 24 e 12 mesi dalla data della comunicazione e, per talune tipologie di reati gravi, in 72 mesi, secondo quanto previsto dalla controversa L. n. 167/2017.

Fatta questa premessa, è bene chiarire che con il D.L. n. 132/2021, il Governo, nel rispetto dei principi enunciati dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea nella sentenza del 2 marzo 2021, causa C-746/18, ha scelto una linea maggiormente “garantista”, introducendo dei requisiti e limiti specifici per l’acquisizione dei tabulati.

Quali sono le modifiche?

La nuova disciplina

La Corte di Giustizia dell’Unione europea, partendo dall’esigenza di bilanciare adeguatamente gli interessi coinvolti, ha ritenuto di circoscrivere le attività di acquisizione dei tabulati telefonici e telematici, sia attraverso l’individuazione dei reati per i quali potrà essere richiesta l’acquisizione e sia attraverso una limitazione al potere di iniziativa attribuito all’organo requirente.

A tale riguardo, non bisogna dimenticare l’intervento del Garante per la protezione dei dati personali che, proprio all’indomani della sentenza della CGUE, ha sollecitato l’introduzione di una riforma della materia.

In particolare, nella normativa italiana vi sarebbe una chiara mancanza di bilanciamento tra la protezione dei dati e le esigenze di pubblica sicurezza, reso ancor più evidente dalla L. n. 167/2017, citata poc’anzi, che ha esteso notevolmente il termine massimo per la conservazione dei tabulati, determinando in conseguenza l’obbligo di conservazione generalizzata dei tabulati di tutti gli utenti per un periodo di 6 anni.

Su tali presupposti, il Garante ha sollecitato il Parlamento e il Governo a predisporre una disciplina che consenta di delineare chiaramente le condizioni, i limiti e i termini della conservazione dei dati, che tenga conto della gravità dei reati per i quali si procede e che comunque preveda un controllo da parte dell’autorità giudicante, organo terzo e imparziale.

Il Legislatore italiano, pertanto, in applicazione dei suddetti principi, ha previsto la nuova disciplina che consente l’acquisizione dei dati telefonici e telematici, purché:

  • ricorrano sufficienti indizi circa la commissione di taluni reati, ossia devono sussistere elementi chiari e consistenti in ordine non solo alla realizzazione del reato, ma anche alla riferibilità dello stesso ad un soggetto determinato;
  • deve trattarsi di reati per i quali la Legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a 3 anni e dei reati di minaccia, molestia o disturbo alle persone con il mezzo del telefono, quando siano caratterizzati da condotte gravi;
  • infine, è necessario che i dati relativi al traffico telefonico e telematico siano rilevanti ai fini della prosecuzione delle indagini.

Qualora siano soddisfatti tutti i requisiti oggettivi richiesti dalla nuova disposizione, i dati sono acquisiti con decreto motivato del giudice su richiesta del pubblico ministero o su istanza del difensore dell’imputato, della persona sottoposta a indagini, della persona offesa e delle altre parti private.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Tale disposizione costituisce, senza alcun dubbio, il cuore della riforma.

Da una parte, infatti, la norma introduce una limitazione al potere di indagine esercitato dal pubblico ministero, poiché egli –in qualità di parte del processo, al pari della difesa dell’imputato e delle parti private- non potrà più disporre autonomamente l’acquisizione dei tabulati, ma dovrà sottoporre tale richiesta alla decisione del giudice, organo terzo ed imparziale, tenuto a vagliare rigorosamente la sussistenza dei presupposti di Legge poc’anzi menzionati.

D’altra parte, non può trascurarsi che la norma attribuisca anche al difensore dell’imputato, alla persona sottoposta a indagini, alla persona offesa e alle altre parti private il potere di richiedere direttamente al giudice l’acquisizione dei tabulati, riconoscendo, quindi, una ruolo decisivo all’iniziativa di tutte le parti del processo, non solo alla pubblica accusa.

Da ultimo, il D.L. in esame ha ulteriormente introdotto una specifica “procedura d’urgenza”, che, ai sensi dell’art. 1, co. 3 bis, nel caso in cui ricorrono ragioni di urgenza e vi è fondato motivo di ritenere che dal ritardo possa derivare un grave pregiudizio alle indagini, consente al pubblico ministero di disporre di sua iniziativa l’acquisizione dei dati con decreto motivato.

Tuttavia, anche in tale ipotesi -pensata proprio per salvaguardare le esigenze di celerità delle indagini- è previsto l’intervento del giudice, al quale il provvedimento deve essere comunicato immediatamente e, comunque, non oltre le 48 ore, affinché quest’ultimo decida entro le successive 48 ore sulla convalida dello stesso.

All’evidenza, deve trattarsi di uno strumento di carattere comunque eccezionale che, in ogni caso, richiede il controllo, seppur successivo, da parte dell’autorità giudicante che, in caso di mancata convalida nei termini e nei modi previsti, comporta l’inutilizzabilità dei dati ottenuti.

In definitiva, la riforma introduce senza alcun dubbio un chiaro limite al potere di indagine del pubblico ministero che potrà richiedere direttamente i tabulati e il traffico web solo in caso di urgenza, ma resta comunque vincolato alla decisione del giudice.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

La norma si applicherà, dunque, a tutti i nuovi procedimenti e, altresì, in virtù del principio applicabile alle disposizioni procedurali del tempus regit actum, anche ai procedimenti pendenti, per i quali risulta necessaria una verifica da parte dell’organo giudicante circa la sussistenza delle condizioni per l’utilizzabilità dei tabulati e log richiesti.

Claudia Piroddu, Avvocato

Oggi, 27 settembre, è la giornata mondiale del turismo, ricorrenza istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1980 per rendere la comunità internazionale consapevole del ruolo del turismo e del suo impatto sui valori sociali, politici, economici e culturali delle persone in tutto il mondo.

Quest’anno, l’Organizzazione Mondiale del Turismo (OMT), cioè l’agenzia delle Nazioni Unite competente per la promozione del turismo, ha voluto porre l’attenzione sull’impatto che la pandemia ha avuto sulle imprese e sui lavoratori impegnati in questo settore e, proprio per questo motivo, l’oggetto della giornata mondiale del turismo 2021 è “Il turismo per la crescita inclusiva. La persona oltre le statistiche”.

L’obiettivo da raggiungere, oggi più che mai, è quindi la promozione di un turismo responsabile, sostenibile e universalmente accessibile, cioè un turismo che rispetti la natura e, in generale, che preservi l’ambiente in cui viviamo e che, al contempo, contribuisca all’espansione economica, all’osservanza dei diritti umani e delle libertà fondamentali senza distinzione di razza, sesso, lingua e religione.

La pandemia, purtroppo, ha colpito il settore turistico di tutte le economie, sia quelle dei Paesi più ricchi che quelle dei Paesi ancora in via di sviluppo: questi ultimi, in particolare, hanno visto acuirsi il divario rispetto alle economie più forti poiché privi di una struttura economico – organizzativa tale da consentire di arginare gli effetti della crisi.

Non bisogna dimenticare, infatti, che in tutto il mondo milioni di imprese e di posti di lavoro dipendono dal settore turistico, che è anche una forza trainante nella protezione del patrimonio naturale e culturale.

Sicuramente, uno degli strumenti più efficaci per promuovere la ripresa di questo settore e valorizzare l’inclusione è quello di individuare nuove destinazioni turistiche al fine di assicurare una distribuzione equilibrata dei flussi di visitatori e favorire la crescita economica e sociale dei Paesi in via di sviluppo.

In questo modo, dunque, si potrebbe contrastare la cosiddetta “stagionalità” dei flussi turistici, ovvero quel tipo di turismo che prevede lo spostamento di milioni di persone concentrato in determinati periodi dell’anno e nelle mete più gettonate.

Questo tipo di turismo, infatti, crea inevitabilmente un sovraffollamento di visitatori che, spesso, risulta essere dannoso per l’ambiente e scarsamente gestibile sotto il profilo dei servizi locali.

Il turismo in Sardegna tra stagionalità e sostenibilità

Per quanto riguarda la Sardegna (e, in generale, le località turistiche balneari) il flusso di turisti si concentra, solitamente, da maggio ad ottobre, con picchi in luglio ed agosto.

La stagionalità, quindi, rappresenta un problema per la gestione dei visitatori, poiché non tutte le mete sono effettivamente attrezzate per ospitare e ricevere un afflusso consistente di turisti; inoltre, rappresenta un problema per l’economia, in quanto gran parte di coloro che operano nel settore turistico ha un contratto stagionale, appunto, e risulta disoccupata nei mesi di cosiddetta “bassa stagione”.

Per contrastare le distorsioni negative del mercato che derivano da questo fenomeno, dunque, si dovrebbe puntare maggiormente su un turismo sostenibile da praticare tutto l’anno, attraverso la valorizzazione delle risorse del territorio ed il potenziamento delle strutture ricettive.

Possiamo dire che questa estate il turismo in Sardegna sia stato davvero “sostenibile”?

Come sappiamo, nonostante la pandemia, la stagione turistica in Sardegna ha registrato dei dati impressionanti: l’isola, infatti, è stata una delle mete più ambite di questa estate con oltre 10 milioni di turisti che vi hanno soggiornato dal mese di giugno a quello di settembre.

Sul punto, riportiamo qualche interessante dato condiviso dal dott. Giovanni Depau, Food&Beverage manager dell’hotel Stella Maris, del Cruccuris Resort e di Sa Mirada Apartments.

Precisamente, in queste strutture, situate nel comune di Villasimius, è stato riscontrato in media un aumento del +30% di presenze rispetto alla precedente stagione, con un picco di prenotazioni del +83,42% nel mese di giugno per il Cruccuris Resort.

Questi dati, quindi, confermano la grande ripresa del turismo locale che è sicuramente in crescita rispetto al trend registrato nella stagione estiva 2020, anche se non ha ancora raggiunto i livelli dell’estate 2019, rispetto alla quale si riscontra comunque un calo quasi del -50%.

A contendere a Villasimius il ruolo di meta più ambita da parte dei turisti c’è, come ogni estate, anche l’arcipelago di La Maddalena, che è il primo Parco Nazionale della Sardegna.

Ebbene, tutti noi abbiamo impresse nella mente le riprese aeree girate in elicottero a fine agosto (condivise dal profilo twitter @NavigoPerCaso e poi diffuse da diverse testate giornalistiche sia sui social che in trasmissioni televisive – immagini simili sono state trasmesse anche da “Linea Blu” nella puntata del 18 settembre) che testimoniavano la presenza di imbarcazioni di grandi dimensioni che si stendevano come un tappeto nell’arcipelago di La Maddalena.

Guardando quelle immagini, non si può non pensare che l’ambiente marino, già piuttosto fragile, sia stato sottoposto a dure pressioni a causa del grandissimo afflusso dei turisti che si sono riversati in massa nel Parco per godere della sua indiscutibile bellezza.

In proposito, si deve ricordare che nel Parco non ci sono limiti né sul numero di accessi né sulle dimensioni delle imbarcazioni: i visitatori, infatti, devono semplicemente pagare un ticket commisurato al tipo di natante, che consente loro di navigare, ormeggiare, ancorare e sostare entro i 300 metri dalla costa.

Non vi è dubbio, quindi, che in questa bellissima area marina (ed anche in altre zone) sia assolutamente necessario adottare dei provvedimenti atti a prevenire ed a porre rimedio agli inconvenienti ambientali e naturalistici derivanti da flussi turistici intensissimi che sono sempre in costante aumento.

In definitiva, possiamo dire che anche in questa stagione, nonostante gli strascichi della pandemia, abbiamo assistito ad un turismo di massa, poiché, in un lasso di tempo circoscritto, milioni di persone si sono riversate in alcune mete specifiche che, spesso, non sono riuscite a gestire dei numeri così importanti.

Per promuovere un turismo che sia davvero inclusivo e sostenibile sarebbe, dunque, necessario assicurare una distribuzione equilibrata dei flussi turistici così da tutelare il territorio per preservarlo per le generazioni future.

Viola Zuddas, Avvocato

Come ogni anno, anche nell’estate appena trascorsa, la Sardegna -e in particolare la vasta area dell’oristanese compresa tra il Marghine e il Montiferru- ha dovuto far fronte al devastante fenomeno degli incendi boschivi.

Tuttavia, la nostra isola non è l’unica regione italiana ad essere interessata dall’emergenza incendi, ma si tratta di una problematica che investe tutto il territorio nazionale.

Secondo un recente studio realizzato dalla Coldiretti, quest’anno, in Italia si è registrato un incremento del fenomeno pari al 256% rispetto all’estate scorsa, che ha determinato la distruzione di migliaia di ettari di boschi e macchia mediterranea, con una stima di costi di spegnimento e bonifica che si aggirano intorno al miliardo di euro.

Dinnanzi a tali dati allarmanti e stante la necessità di introdurre al più presto misure efficaci per contrastare il fenomeno degli incendi boschivi, il Governo ha adottato il D.L. n. 120/2021, entrato in vigore il 10 settembre 2021.

Giova precisare che il decreto legge è un atto normativo di carattere provvisorio, emanato dal Governo nei casi di straordinaria necessità ed urgenza, ex art. 77 Cost., avente forza di Legge, ma che, tuttavia, deve essere convertito in Legge dal Parlamento, nei tempi e con le modalità previste.

Ebbene, il Decreto in esame prevede alcune modifiche al codice penale e, nella specie, all’art. 423 bis, con l’introduzione di due nuovi articoli, l’art. 423 ter e 423 quater.

La fattispecie

Ancora prima del recente intervento normativo, il codice penale italiano già prevedeva una fattispecie specifica, volta a sanzionare chiunque cagioni un incendio boschivo.

Invero, l’art. 423 bis c.p. punisce chiunque cagiona un incendio doloso su boschi, selve o foreste o su vivai forestali destinati al rimboschimento con la reclusione da 4 a 10 anni, mentre nel caso di incendio colposo, la pena è della reclusione da 1 a 5 anni.

Si tratta di un reato collocato tra i delitti contro l’incolumità pubblica, pertanto, lo scopo della norma incriminatrice è quello di tutelare la sicurezza di un numero indeterminato di persone, nonché di preservare l’ambiente.

È bene precisare che, ai sensi dell’art. 2 della L. n. 353/2000, per incendio boschivo si intende “un fuoco con suscettibilità ad espandersi su aree boscate, cespugliate o arborate, comprese eventuali strutture ed infrastrutture antropizzate poste all’interno delle predette aree, oppure su terreni coltivati o incolti e pascoli limitrofi a dette aree”.

Quindi, affinché il reato possa configurarsi occorre che la condotta del soggetto agente, sia essa volontaria o colposa, abbia causato la propagazione del fuoco che, per la sua caratteristica forza distruttiva, è suscettibile di espandersi rapidamente e in maniera incontrollata, mettendo così in pericolo le persone e i luoghi tutelati e ciò a prescindere dal verificarsi di un danno concreto.

Le modifiche

Il D.L. n. 120/2021 ha introdotto tre nuovi commi al dettato dell’art. 423 bis c.p.

In particolare, è prevista una circostanza aggravante, punita con la reclusione da 7 a 12 anni, qualora il soggetto commetta il reato di incendio boschivo “con abuso dei poteri o con la violazione dei doveri inerenti allo svolgimento di servizi nell’ambito della prevenzione e della lotta attiva contro gli incendi boschivi”.

Il considerevole inasprimento di pena trova la sua ragion d’essere nell’esigenza di contrastare in maniera decisa la commissione di simili condotte da parte di coloro che dovrebbero operare per proteggere l’ambiente, poiché, proprio in conseguenza delle mansioni svolte, la condotta assume un intrinseco e maggiore disvalore sociale.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Inoltre, nei successivi commi sono previste due circostanze attenuanti applicabili nel caso in cui l’autore del reato si adopera per evitare che l’attività delittuosa venga portata a conseguenze ulteriori o provvede alla messa in sicurezza e al ripristino dello stato dei luoghi, oppure quando il soggetto aiuti l’autorità giudiziaria nella ricostruzione dei fatti o nella individuazione degli autori del reato.

La finalità di prevenzione, nonché deterrente del fenomeno degli incendi boschivi, attuata con il Decreto Legge in esame, è ancora più chiara nei nuovi artt. 423 ter e 423 quater c.p., che, attraverso l’applicazione di pene accessorie e della confisca, mirano a colpire gli interessi, per lo più di natura economica, degli autori del reato.

Infatti, in caso di condanna alla reclusione non inferiore a due anni, la norma prevede la pena accessoria dell’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego nei confronti del dipendente di amministrazioni o di enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica.

In ogni caso, alla condanna consegue anche l’interdizione da cinque a dieci anni dall’assunzione di incarichi o dallo svolgimento di servizi nell’ambito della lotta attiva contro gli incendi boschivi.

È stata introdotta anche un’ipotesi di confisca obbligatoria dei beni che costituiscono il prodotto o il profitto del reato e, ove non sia possibile, di beni di valore equivalente di cui il condannato abbia la disponibilità.

Non vi è dubbio che le modifiche in materia penale poc’anzi richiamate da sole non siano sufficienti per affrontare efficacemente l’emergenza incendi.

Invero, proprio alla luce di quanto è accaduto i mesi scorsi, unitamente all’intervento sanzionatorio, si è reso necessario, da un lato, il rafforzamento delle misure di controllo del territorio, prevenzione e coordinamento e, dall’altro lato, la predisposizione di interventi per la tutela del patrimonio boschivo.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

A tal fine, il D.L. n. 120/2021 prevede l’adozione di un Piano Nazionale di coordinamento per l’aggiornamento tecnologico e l’accrescimento della capacità operativa nelle azioni di previsione, prevenzione e lotta attiva contro gli incendi boschivi, redatto sulla base delle valutazioni effettuate ogni tre anni dalla Protezione Civile in merito lo stato dei luoghi e delle risorse.

Non solo, ma è prevista una maggiore attenzione in merito alle attività di pulizia e manutenzione dei boschi, l’adozione di specifici divieti di pascolo, caccia e raccolta dei prodotti del sottobosco nelle aree percorse dal fuoco, nonché la predisposizione di postazioni di atterraggio dei mezzi di soccorso, la realizzazione di infrastrutture, vie di accesso e tracciati spartifuoco, tutte attività finalizzate alla prevenzione degli incendi, ma anche a velocizzare gli interventi di spegnimento.

Claudia Piroddu, Avvocato

Il disturbo della condotta: pennacchio evolutivo o emergenza sociale?

Introduzione

La rabbia è riconosciuta universalmente come una delle emozioni di base (e per definizione funzionale alla sopravvivenza) e l’aggressività, nella coerenza della sua funzione evolutiva, è perfettamente integrata con il comportamento animale, primati compresi.

E in maniera più complessa e raffinata nell’homo sapiens.

La capacità di difendersi e di attaccare un aggressore, proteggere il proprio nucleo di pari, protestare per le cure mancate, inviare un segnale di alt per proteggere un piccolo indifeso sono solo una parte di tutti i meccanismi ancestrali di sopravvivenza per i quali la rabbia e l’aggressività si dimostrano utili e vitali. Alberto Anedda, Neuropsichiatra Infantile

Nell’essere umano (a differenza di altri primati meno evoluti) le emozioni di base risultano il fondamento nel quale vanno poi a svilupparsi complessi modelli operativi interni, diramandosi nel sistema di intersoggettività e comunicazione simbolica (e linguistica): questo ha consentito alla nostra specie di organizzare un sistema sociale e di relazione così elegante da risultare potenziale creatore di molteplici meccanismi adattivi nei confronti dell’ambiente circostante.

L’aggressività, nonostante sia presente sin dalla culla, viene naturalmente inibita mediante la crescita e la maturazione cerebrale (e relazionale) con una duplice funzione: la sopravvivenza del singolo e il mantenimento della comunità di peers.

A partire dalla fine del primo anno di vita un comportamento aggressivo può costituire persino un mezzo per garantire lo sviluppo della propria identità: ne sono un esempio gli scoppi d’ira del bambino quando gli viene impedita un’esperienza di esplorazione o di mancate cure. L’aggressività diventa quindi non solo un modo per ottenere protezione da parte della figura di attaccamento, ma anche una risposta difensiva nei confronti della mancanza di sensibilità dei caregivers.

Infine si può concettualmente suddividere tale costrutto in due aree, che presentano a loro volta funzioni e significati diversi: l’aggressività reattiva (o affettiva) e l’aggressività proattiva (o predatoria).

    1. L’aggressività reattiva viene definita come la risposta messa in atto per difendersi da una minaccia, reale o percepita tale. Inoltre, l’aggressività reattiva risulta essere impulsiva e non pianificata, e si associa (soprattutto quando disregolata) ad un’attivazione del sistema di allerta .
    2. L’aggressività proattiva non richiede alcun effetto esterno scatenante: è finalizzata al raggiungimento di un obiettivo diretto (generalmente nei confronti di un altro essere umano), con lo scopo di gestirla e trarne un qualsiasi vantaggio. L’aggressività predatoria, a differenza della precedente, risulta quindi pianificata e calcolata.

Definizione

La persona che presenta un Disturbo della Condotta (CD, Conduct Disorder) manifesta modalità comportamentali caratterizzate dalla sistematica e persistente violazione delle regole, dei diritti dell’altro e delle norme sociali, con conseguenze talvolta molto gravi sul piano del funzionamento globale dell’individuo e sull’impatto nei confronti dell’ambiente circostante. Tale disturbo, per essere definito secondo i criteri del DSM-5 (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), si deve presentare prima dei 18 anni, e risulta spesso essere il precursore del Disturbo Antisociale di Personalità in età adulta, rientrando a far parte tra i disturbi da comportamento dirompente, del controllo degli impulsi e della condotta.Alberto Anedda, Neuropsichiatra Infantile

Nello specifico, i cluster sintomatologici del disturbo vengono raggruppati in quattro categorie:

    1. Aggressione a persone e animali: la persona può presentare un’interazione minacciosa con la finalità di intimorire, può frequentemente utilizzare armi (bianche e non) con l’intento di causare danni fisici a terzi, mette in atto comportamenti crudeli nei confronti di persone o animali quali aggressione, scippo, estorsione o rapina a mano armata che prevedono l’affronto diretto di una vittima, con talvolta costrizione ad attività sessuali indesiderate.
    2. Distruzione della proprietà: distruzione di proprietà altrui, piromania.
    3. Frode o furto: introduzione in proprietà altrui, bugie o menzogne finalizzati all’ottenere favori o all’evitare doveri, furti di articoli di valore senza affrontare direttamente la vittima.
    4. Gravi violazioni di regole: spesso, già prima dei 13 anni, l’individuo contravviene alle regole familiari trascorrendo la notte fuori, o allontanandosi da casa di notte senza rientrarvi per un lungo periodo, o marinando frequentemente la scuola.

Cause e storia naturale

Il CD (Disturbo Comportamentale) viene definito in parte in base al livello di compromissione della vita familiare, sociale o scolastica del bambino o adolescente: per la diagnosi sono sufficienti 3/15 sintomi (purché non si manifestino in più categorie). Le cause e i fattori di rischio includono fattori ambientali (che vanno da un attaccamento disorganizzato a un ambiente degradato/ostile) a fattori individuali (geni, comorbidità con ADHD, temperamento, ecc.). La maggior parte dei sintomi del CD, sia che si manifestino in età giovanile o più tardi, sono spesso gravi e possono condurre a problemi emotivi e sociali con talvolta risvolti legali; non è raro inoltre che la persona con un disturbo della condotta presenti anche una maggiore suscettibilità (ed eventuale utilizzo) alle sostanze d’abuso (cannabis, cocaina, alcool, ecc.) e partecipi ad attività illecite.

Specifica con emozioni prosociali limitate

È inoltre descritto un sottotipo del CD, definito dalla carenza più o meno marcata delle emozioni prosociali e dell’empatia, che risulta predittivo per una struttura di comportamento caratterizzata da problemi di condotta più severi e persistenti.

Da cosa è caratterizzata tale specifica?

  1. Mancanza di rimorso e senso di colpa (Lack of remorse or guilt): la persona non prova emozioni di colpa relativamente alle proprie azioni, con scarsa preoccupazione sulle conseguenze negative di quello che può aver commesso.
  2. Mancanza di empatia, “callosità” (Callous-Lack of empathy): la persona non è condizionata da quello che possono provare le altre persone, ed è descritta come fredda o poco sensibile.
  3. Disinteresse nei confronti delle sue performance (Unconcerned about performance): la persona appare disinteressata da quello che possono essere i suoi obbiettivi scolastici o lavorativi, senza mettere in atto alcuno sforzo per raggiungere i risultati (anche quando gli obiettivi sono chiari); può spesso rivolgersi agli altri come colpevoli per i suoi insuccessi.
  4. Appiattimento affettivo (Shallow or deficient affect): la persona non appare in grado di esprimere i propri sentimenti (se non in maniera superficiale) tranne che per avere dei vantaggi dagli altri (es. manipola o intimidisce).

La specifica con emozioni prosociali limitate ci richiede di confrontarci con le basi sottostanti a tale disturbo. Il comportamento nei pazienti affetti da CD può quindi manifestarsi in due forme: in una, la persona manifesta problemi nella regolazione delle emozioni forti, rabbiose e ostili. Una minoranza di pazienti con CD, invece di manifestare emozioni come rabbia e ostilità presenta una carenza dell’empatia e del senso di colpa. Tali bambini (e adolescenti) tendono a manipolare gli altri per un loro tornaconto personale: con ridotti livelli d’ansia e la tendenza ad annoiarsi facilmente preferiscono attività sempre nuove, eccitanti, persino pericolose, con la probabilità perciò i manifestare i quattro sintomi dello specificatore.

Conclusioni

Il disturbo della condotta deve considerarsi a tutti gli effetti un disturbo cronico e complesso, e come tale deve essere impostato il piano di intervento.

Tale plan si deve basare su diversi livelli: sulla comunità in cui la persona vive, sulla famiglia (es. parent training) e sull’individuo (come la psicoterapia o interventi farmacologici, da considerarsi su pazienti che non rispondono agli altri trattamenti o che presentano aggressività marcata e comportamenti violenti). Si è rivelato inoltre molto utile per la prevenzione in età precoce il programma terapeutico Coping Power, che si avvale di un lavoro di equipe sui diversi contesti di vita del bambino, quali la scuola e la famiglia.

Appare ormai ovvio che, nella sua complessità e cronicità, il CD appaia come una vera e propria sfida per il sistema di cura, soprattutto per i diversi risvolti etici e legali (ed economici) che possono interfacciarsi costantemente nella vita di chi ne soffre e dei suoi cari: a tal proposito appare quindi necessario focalizzare e programmare i sistemi di aiuto e cura sempre di più verso la prevenzione e l’identificazione dei fattori di rischio (sia individuali che comunitari). Solo un lavoro che parta dallo stato e dalla società potrà quindi favorire la liberazione progressiva da tutti gli stigmi e i pregiudizi che interessano il mondo della salute mentale, ancor più quando si tratta di bambini e adolescenti. Alberto Anedda, Neuropsichiatra Infantile

Alberto Anedda, Neuropsichiatra Infantile

Sono un medico chirurgo, specialista in Neuropsichiatria Infantile, Psicoterapeuta Cognitivo Comportamentale Costruttivista.
Ho svolto la mia attività clinica in diversi servizi integrati in Italia e all’estero, centri territoriali di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza e centri convenzionati di riabilitazione globale per minori.
Dal 2020 lavoro presso il centro Lucio Bini di Cagliari come Neuropsichiatra e Psicoterapeuta, con attenzione speciale per pazienti affetti da tutti i disturbi psichiatrici e dal mese di Luglio 2021 presto servizio come Dirigente Medico all’interno della Clinica di Neuropsichiatria dell’Infanzia e l’Adolescenza presso l’Ospedale Microcitemico A. Cao di Cagliari.
Nello specifico si sottolinea particolare elezione per valutazione e trattamento dei Disturbi del Neurosviluppo (ADHD, Autismo, Disturbi dell’Apprendimento, Tic e Tourette), Disturbi da Comportamento Dirompente e della Condotta (Disturbo Oppositivo Provocatorio e Disturbo della Condotta), Disturbi dell’Umore, Disturbo Ossessivo Compulsivo e Disturbi d’Ansia.
Mi occupo inoltre di Psicoterapia Cognitivo-Costruttivista per minori e adulti, interventi mirati di supporto alla genitorialità (Parent Training), terapia farmacologica nell’ambito dei disturbi psichiatrici per minori e adulti, attività di formazione (corsi e seminari) e presto inoltre servizio come Consulente Tecnico di Parte (CTP).

Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

L’imputabilità del minore
Quando si parla di Disturbo della Condotta e, più in generale, delle conseguenze anche sul piano penale dei comportamenti legati a tale condizione, sorge spontaneo chiedersi: il minore che commette un reato può essere perseguito penalmente?

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Focus di diritto civile • Avv. Viola Zuddas

Bullismo e reazione della vittima
Come abbiamo visto nel focus a cura del Dott. Alberto Anedda, un disturbo della condotta (Conduct Disorder, “CD”) implica uno schema comportamentale ripetitivo che porta l’individuo che ne soffre a violare i diritti delle persone con cui si entra in contatto.

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Focus di diritto civile Avv. Francesco Sanna

Bullismo e responsabilità civile
In primis è bene ricordare che la Repubblica riconosce e garantisce, ai sensi degli artt. 2 e 31 Cost., i diritti dell’infanzia e della gioventù.

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Unione Europea e tutela della salute mentale: il Programma “EU4Health”
La salute mentale è un diritto fondamentale dell’uomo.
Trattasi di una condizione indispensabile al benessere, alla qualità della vita ed alla salute fisica, oltre che favorire l’apprendimento, il lavoro e la partecipazione alla società.

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Entra nel vivo la stagione turistica e, come ogni anno, le coste della Sardegna si preparano ad accogliere i vacanzieri da tutto il mondo.

Il turismo è, da un lato, una preziosa risorsa per l’economia sarda -tra l’altro sempre più in difficoltà anche a causa delle restrizioni e divieti imposti per contrastare la pandemia da Covid-19- ma, d’altra parte, pone la necessità di garantire la protezione e l’incremento del patrimonio naturale esistente, nonché la conservazione di flora e fauna o, più in generale, dell’ecosistema del posto.

Proprio nell’ottica di tutelare l’ambiente marino e gli arenili da comportamenti scorretti e nocivi, nonché per favorire la sostenibilità ambientale, sia al livello regionale che locale, le amministrazioni hanno imposto una serie di divieti.

A titolo esemplificativo, in molte località sarde è stato introdotto un limite massimo di persone che possono accedere nelle spiagge e, inoltre, nell’Ordinanza balneare 2021 -emanata dall’Assessorato degli Enti Locali della Regione Sardegna- è previsto espressamente che sulle spiagge e negli specchi acquei riservati alla balneazione sia fatto divieto di campeggiare, transitare o sostare con automezzi, motocicli e veicoli di ogni genere, nonché di abbandonare, interrare e scaricare -sia a terra che a mare- ogni tipo di rifiuto o altri materiali, compresi i mozziconi di sigaretta, contenitori e bicchieri in plastica etc.

A tutela dell’incolumità pubblica e del patrimonio naturalistico è, altresì, vietato accendere fuochi e introdurre sostanze infiammabili, spostare, occultare o danneggiare segnali fissi o galleggianti, come cartelli e boe, nonché asportare qualsiasi elemento costituente il tessuto naturale dell’arenile, quale, ad esempio, sabbia, ghiaia e ciottoli.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

A tale riguardo, pur a fronte delle numerose campagne di sensibilizzazione delle associazioni ambientaliste, negli ultimi anni si assiste all’incremento esponenziale di episodi di sottrazione di sabbia e conchiglie dalle spiagge sarde e, in particolare, dalla celebre spiaggia dei “chicchi di riso” di Is Arutas nel litorale oristanese, depredata per lo più da turisti, disposti a tutto pur di avere un souvenir delle loro vacanze e incuranti dell’irreparabile danno ambientale conseguente a questo tipo di condotte.

Invero, se sotto il profilo del cd. turismo responsabile e sostenibile è buona regola rispettare sempre l’ambiente e le comunità locali ospitanti, attraverso comportamenti che riducano al minimo l’impatto ambientale e l’inquinamento, la questione di cui si discute deve essere affrontata senza dubbio anche sotto il profilo della compatibilità ambientale.

È noto, infatti, che il millenario processo di formazione della spiaggia è frutto di un delicato equilibrio tra i fenomeni di deposito ed erosione, pertanto, se al processo naturale di erosione si aggiunge quello della massiva e incontrollata sottrazione della sabbia da parte dell’uomo, il rischio evidente è che, nel corso degli anni, l’arenile possa scomparire del tutto, oppure, che le autorità locali, proprio al fine di prevenire ciò, pongano il divieto assoluto di visitarle.

Cosa prevede la Legge italiana?


La legislazione italiana a tutela del litorali

Il riferimento normativo a livello nazionale è costituito dall’art. 1162 del codice della navigazione, il quale prevede che “chiunque estrae arena, alghe, ghiaia o altri materiali nell’ambito del demanio marittimo o del mare territoriale ovvero delle zone portuali della navigazione interna, senza la concessione prescritta nell’articolo 51, è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 1.549,00 a euro 9.296,00“.

Pare opportuno ricordare brevemente che la norma poc’anzi richiamata, modificata dal D. Lvo. n. 507 del 1999, in origine qualificasse la fattispecie in parola come contravvenzione e, quindi, come reato, sanzionato con la pena dell’arresto fino a due mesi ovvero con l’ammenda.

Nella sua formulazione attuale, invece, l’illecito non è più di natura penale, ma amministrativa ed è sanzionato più severamente, mediante il pagamento di una somma di denaro particolarmente ingente.

All’evidenza, la dichiarata finalità della norma è quella di impedire l’abusiva asportazione dei beni del demanio marittimo e, al contempo, prevenire la devastazione dei litorali e dell’ecosistema.

Dunque, l’arena –ossia la sabbia-, la ghiaia, le alghe, l’acqua di mare, le conchiglie e ogni altro materiale appartengono al cd. “demanio marittimo”, costituito, secondo quanto previsto nell’art. 28 del codice della navigazione, da: a) il lido, la spiaggia, i porti e le rade; b) le lagune, le foci dei fiumi che sboccano in mare, i bacini di acqua salmastra che comunicano liberamente col mare; c) i canali utilizzabili ad uso pubblico marittimo.

Occorre, altresì, precisare che il demanio marittimo rientri nella più ampia definizione civilistica di cui all’art. 822 c.c., di “demanio pubblico” e che, pertanto, si tratta di beni che appartengono allo Stato.

Accanto alla citata legislazione nazionale, proprio l’incremento di tali condotte ha costretto le regioni e gli enti locali a correre ai ripari e a dotarsi di normative apposite e più stringenti, nonché a promuovere iniziative di sensibilizzazione e di controllo sul territorio.

Con specifico riferimento alla Sardegna, l’art. 40 della Legge regionale n. 16 del 2017 prevede espressamente che “salvo che il fatto non costituisca più grave illecito, chiunque asporta, detiene, vende anche piccole quantità di sabbia, ciottoli, sassi o conchiglie provenienti dal litorale o dal mare in assenza di regolare autorizzazione o concessione rilasciata dalle autorità competenti è soggetto alla sanzione amministrativa da euro 500 a euro 3.000,00“. Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

La predetta disposizione, quindi, non si limita a sanzionare soltanto la condotta di sottrazione di beni naturalistici dalle coste sarde, ma anche la vendita degli stessi.

A ben vedere, infatti, la “refurtiva” sottratta abusivamente dalle spiagge non costituisce affatto un mero “ricordo” per l’avventato turista, giacché nella maggior parte dei casi detti beni vengono in realtà venduti online a caro prezzo, così incrementando un vero e proprio commercio illegale.

In ultima analisi, giova sottolineare che nel caso in cui la sottrazione abbia ad oggetto una quantità considerevole di sabbia o di beni comunque appartenenti al demanio marittimo, la condotta risulta piuttosto ascrivibile nell’ambito del reato di furto aggravato, ai sensi dell’art. 625, n. 7, c.p.

Secondo la giurisprudenza più recente (si veda, Cass. pen., sez. IV, n. 11158 del 2019), infatti, la sottrazione o asportazione di sabbia o ghiaia del lido del mare o dal letto dei fiumi comporta la configurabilità sia della circostanza aggravante dell’esposizione della cosa alla pubblica fede che della destinazione della cosa a pubblica utilità, poiché il prelievo del materiale cagiona un danno idrogeologico all’arenile e lede la pubblica utilità dei fiumi o la fruibilità dei lidi marini.

In definitiva, la tematica della tutela dell’ambiente assume sempre maggiore centralità e, pertanto, la protezione del mare e dei litorali deve essere attuata sia attraverso strumenti di prevenzione e sensibilizzazione e sia mediante la predisposizione di un efficace sistema di controllo e repressione delle condotte vietate, affinché l’habitat naturale risulti liberamente fruibile anche dalle generazioni future.

Claudia Piroddu, Avvocato

Nei giorni scorsi hanno destato molto clamore gli arresti e le misure cautelari disposte dal GIP del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere nei confronti dei 144 agenti della polizia penitenziaria coinvolti nelle brutali violenze avvenute nella casa circondariale “Francesco Uccella“, ai danni di numerosi detenuti, tra cui anche un disabile con ridotta capacità di movimento.

Tali fatti si erano verificati il 6 aprile 2020, in occasione delle proteste organizzate dai detenuti delle diverse strutture carcerarie della penisola, innescatesi a seguito delle forti restrizioni imposte per contrastare l’epidemia Covid-19.

Pur a fronte di un eloquente filmato registrato all’interno del carcere campano che ritrae alcune delle condotte contestate agli odierni indagati, non v’è dubbio che si tratti di una vicenda ancora in corso di indagini, per la quale dovrà, dunque, attendersi l’esito dell’iter giudiziario per accertare le varie responsabilità di natura penale e disciplinare.

Tuttavia, quanto accaduto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, per le modalità delle condotte, nonché per la qualifica di pubblici ufficiali rivestita dagli autori delle stesse, per certi versi, ricorda il violento pestaggio avvenuto la sera del 21 luglio 2001, durante il G8 di Genova, nella tristemente nota Scuola Diaz.

Dal momento che si era trattato di atti degradanti e connotati da particolare crudeltà, su più fronti, si parlò di una vera e propria “tortura di Stato” messa in atto nei confronti dei malcapitati manifestanti.

Eppure, in quel preciso momento storico, l’ordinamento penale italiano non prevedeva una fattispecie di reato ad hoc; pertanto, i dirigenti, i funzionari e gli agenti di polizia coinvolti vennero processati, oltre che per falso ideologico e abuso d’ufficio, per reati minori come lesioni e percosse, puniti, quindi, con pene lievi.

In conseguenza dei fatti accaduti durante il G8 di Genova, con la sentenza del 7 aprile 2015 (Caso Cestaro c/ Italia), lo Stato italiano venne condannato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, affermando che quanto compiuto dalle forze dell’ordine italiane nell’irruzione alla Diaz dovesse essere qualificato come “tortura”, ha sanzionato l’inadeguatezza e l’incapacità dell’ordinamento italiano a prevenire e reprimere proprio i reati di tortura, in violazione dell’art. 3 della CEDU. Avv. Claudia Piroddu, Penalista • Avv. Eleonora Pintus, Penalista, Internazionalista

 

Cosa si intende per “reato di tortura”?

Tra i numerosi atti internazionali dei quali l’Italia risulta firmataria che vietano gli atti di tortura – o, comunque, trattamenti inumani e degradanti – occorre menzionare la Convenzione ONU del 1984, ratificata dall’Italia con la Legge n. 498 del 1988, con l’obbligo di legiferare in merito, che definisce come tortura “qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti … al fine di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla, intimorirla o far pressione su si lei … qualora siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale“.

Peraltro, anche la Costituzione italiana prevede nell’art. 13, comma 4, un obbligo di repressione dei fatti di violenza commessi nei confronti di persone sottoposte a restrizioni di libertà.

Nonostante ciò, solo a seguito di un tortuoso e lungo iter parlamentare conclusosi con la Legge n. 110 del 2017 si è giunti all’introduzione nel codice penale dei reati di tortura e di istigazione alla tortura, previsti rispettivamente negli articoli 613 bis e 613 ter c.p., collocati nel Titolo XII del codice penale, riguardante i delitti contro la persona e contro la libertà morale.

Nella specie, l’art. 613 bis c.p. punisce con la reclusione da 4 a 10 anni chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, vigilanza, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, qualora il fatto è commesso mediante più condotte o se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.

Al secondo comma dell’art. 613 bis c.p. è prevista una specifica ipotesi -punita più severamente con la pena della reclusione da 5 a 12 anni- che ricorre allorquando gli atti di tortura siano perpetrati dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di un pubblico servizio, con abuso di poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio. Avv. Claudia Piroddu, Penalista • Avv. Eleonora Pintus, Penalista, Internazionalista

Restano, invece, esclusi dall’ambito della fattispecie gli atti compiuti nell’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti, quindi, la disposizione non pregiudica in alcun modo l’intervento delle forze dell’ordine che operino legittimamente.

A ben vedere, quindi, la normativa penale interna ha recepito solo parzialmente il dettato della Convenzione ONU contro la tortura.

La differenza più evidente riguarda proprio la connotazione della fattispecie de qua sia come reato comune che può essere commesso da chiunque a prescindere dalla qualifica rivestita –ipotesi, quest’ultima, contemplata solo dall’ordinamento italiano- e sia come reato proprio, realizzato dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio.

Come vedremo a breve, la distinzione non è di poco conto e si riverbera sull’individuazione della natura del reato commesso dal soggetto qualificato, classificabile per taluni come reato autonomo e in altri casi come mera circostanza aggravante.

 

La più recente giurisprudenza sul reato di tortura

Al momento, vi sono diverse pronunce di merito e di legittimità che risultano senz’altro utili per delineare l’ambito di applicabilità del reato di tortura e per individuarne in maniera precisa gli elementi costitutivi.

A tale riguardo, pare opportuno segnalare la pronuncia n. 47079 dell’8 luglio 2019, con la quale la Corte di Cassazione si è espressa a seguito del ricorso proposto avverso l’ordinanza del Tribunale della Libertà dei Minori di Taranto, in ordine alle violenze commesse da un gruppo di giovani ai danni di un anziano disabile nel Comune di Manduria.

Nell’occasione, i Supremi Giudici hanno evidenziato che il bene giuridico protetto dalla norma in esame deve individuarsi nella “libertà morale o psichica, comunemente intesa come diritto dell’individuo di autodeterminarsi liberamente, in assenza di coercizioni psichiche“.

Si tratta, altresì, di un reato eventualmente abituale che si configura anche in presenza di due sole condotte poste in essere in un minimo lasso temporale, purché siano connotate da violenze esercitate sulle persone o sulle cose e minacce gravi, tali cioè da cagionare a chi le subisce un trauma psichico.

È stato precisato, inoltre, che la scelta del Legislatore italiano di identificare la tortura come reato realizzabile anche dal privato risulti più conforme alla realtà criminologica italiana e soprattutto consenta di fornire una nozione più ampia di tortura, consistente nel cagionare ad un soggetto indifeso intense sofferenze a prescindere dalla qualifica soggettiva dell’autore della condotta. Avv. Claudia Piroddu, Penalista • Avv. Eleonora Pintus, Penalista, Internazionalista

Tuttavia, proprio in merito alla qualifica rivestita dall’autore del reato, si è originato un interessante contrasto giurisprudenziale.

Invero, un primo indirizzo considera il reato di tortura commesso dal pubblico ufficiale come una mera circostanza aggravante della fattispecie comune prevista nel primo comma dell’art. 613 bis c.p., mentre un secondo orientamento connota tale ipotesi come fattispecie autonoma, in virtù del maggiore disvalore degli atti di tortura posti in essere dal soggetto preposto a garantire il rispetto della sicurezza e dei diritti della persona.

Del resto, non può trascurarsi che, qualora la condotta venisse qualificata come reato circostanziato, verrebbe vanificata la portata punitiva della norma, laddove, attraverso il meccanismo di bilanciamento delle circostanze di cui all’art. 69 c.p., sarebbe astrattamente possibile ridurre drasticamente la pena applicabile.

In tal senso, si può comprendere la portata della recentissima sentenza pronunciata il 17 febbraio 2021 dal GUP di Siena, in merito ai fatti di tortura commessi nel carcere di San Gimignano da parte di dieci agenti penitenziari nei confronti di un detenuto tunisino.

Nell’occasione, il Giudice di prime cure, proprio sulla base delle argomentazioni poc’anzi richiamate, ha specificato che la cd. tortura di stato, ovvero quella realizzata dalle forze dell’ordine, sia da considerarsi a tutti gli effetti una fattispecie autonoma di reato e, come tale, deve essere punita più severamente rispetto ai fatti commessi dal privato.

Solo in questo modo, infatti, il reato assumerebbe una connotazione più vicina a quella contenuta nella Convenzione ONU e garantirebbe una risposta punitiva più decisa dinnanzi a tali fatti gravissimi, finora rimasti per lo più nell’ombra, benché, purtroppo, sempre più frequenti.

Claudia PirodduEleonora Pintus, Avvocati

Come abbiamo visto negli articoli precedenti, l’ambiente è un tema molto caro a noi di ForJus e, per questo motivo, vogliamo porre l’attenzione su quanto sia indispensabile e necessario impiegare degli strumenti concreti per la sua tutela e salvaguardia.

Infatti, anche se ormai tantissime persone – soprattutto i giovani – sono consapevoli della necessità di contrastare l’inquinamento per preservare l’ambiente e, altresì, la salute della popolazione, è ancora elevatissima la quantità di rifiuti di plastica che viene riversata nei mari e negli oceani.

A tale proposito, è utile segnalare che sono tantissime le iniziative che si svolgono ogni anno, soprattutto nel periodo estivo, per sensibilizzare sull’importante e preoccupante tema dell’inquinamento causato dalla plastica, in particolare quella monouso.

Ad esempio, sabato 26 giugno nella spiaggia del Poetto di Cagliari si è svolta la terza edizione di “puliamolasella21”, un’importantissima iniziativa promossa da MedSea Foundation e Reset_UniCa per pulire sia la spiaggia che il fondale dai rifiuti che, purtroppo, vengono quotidianamente abbandonati.

Ebbene, i 400 ragazzi che hanno aderito con entusiasmo all’iniziativa hanno raccolto oltre 15 tonnellate di spazzatura nell’area di Marina Piccola!

Questo risultato mette in evidenza, da una parte, l’impegno attivo dei ragazzi e la loro volontà di tutelare gli spazi ed il paesaggio della città in cui vivono; ma dall’altra parte pone l’accento su quanto sia grave la minaccia dell’inquinamento.

Sul punto, basti pensare che, secondo quanto riportato dal sito del WWF Italia e da un report del 2021 di Greenpeace Italia, le correnti del mar Mediterraneo fanno tornare sulle coste l’80% dei rifiuti di plastica con il risultato che per ogni chilometro di litorale si accumulano oltre 5 kg di rifiuti al giorno.

Tra le maggiori cause di questo fenomeno possono annoverarsi l’alta densità di popolazione, la presenza di numerose attività antropiche negli ambienti marino-costieri e l’intenso traffico marittimo.

Tuttavia, l’inquinamento più dannoso da plastica è quello invisibile, ovvero quello causato dalle cosiddette microplastiche, cioè da quei minuscoli pezzi di materiale plastico rilasciato direttamente nell’ambiente (ad esempio, a seguito del lavaggio di capi sintetici) oppure prodotto dalla degradazione di oggetti di plastica più grandi (ad esempio, pezzi di bottiglia). Avv. Viola Zuddas, Civilista

Si pensi, poi, che le microplastiche presenti in mare possono essere inghiottite dagli animali e, attraverso la catena alimentare, la plastica da questi ingerita può arrivare direttamente nel nostro piatto: secondo delle stime effettuate da organizzazioni internazionali, ingeriamo in media cinque grammi di plastica a settimana, cioè l’equivalente di una carta di credito.

La gravità della situazione si coglie maggiormente se si riflette sul fatto che il mar Mediterraneo rappresenta soltanto l’1% delle acque mondiali ma contiene il 7% della microplastica marina.

Per risolvere tale problema occorrono soluzioni concrete che coinvolgano non soltanto i cittadini ma anche la politica (sia a livello nazionale che sovranazionale), la comunità scientifica, le associazioni ambientaliste ed il mondo produttivo, in maniera tale da trovare delle soluzioni condivise ed effettive.

Uno degli strumenti maggiormente impiegati per sensibilizzare sul tema è quello dell’istituzione di ricorrenze, o “giornate”, in occasione delle quali si promuovono delle specifiche iniziative.

Ad esempio, oggi, 5 luglio, è la giornata di azione europea per la raccolta dei coperchi di plastica che è stata istituita nel 2015 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite per sensibilizzare la popolazione sulla problematica dell’inquinamento derivante soprattutto dalle plastiche monouso. Avv. Viola Zuddas, Civilista

Parliamo, in particolare, di tutti quei prodotti di uso comune come i contenitori alimentari, le posate ed i bicchieri, le cannucce e molti altri, che sono la causa principale dell’inquinamento dell’ecosistema marino in generale.

Difatti, non solo questi rifiuti si ritrovano sull’arenile e sulla superficie del mare ma possono anche rinvenirsi sul fondale a profondità variabile.

Non vi è dubbio, quindi, che sia necessario creare sinergie ed approcci multidisciplinari per individuare gli interventi necessari da attuare in concreto contro la minaccia dell’inquinamento.

Viola Zuddas, Avvocato

L’amore ai tempi del Covid

È ormai trascorso oltre un anno dall’inizio della pandemia da COVID-19 che ha modificato profondamente le abitudini di vita delle persone. La grande incertezza sul futuro ha ingenerato condizioni di forte stress sfociando spesso in stati emotivi difficili da gestire: allerta, preoccupazione, sgomento, sino ad arrivare a manifestazioni disfunzionali quali ansia, panico e addirittura sintomi post-traumatici.

La quarantena, necessaria per fronteggiare l’emergenza, ha sconvolto e continua a sconvolgere gli equilibri famigliari. Dai dati emerge chiaramente come la coppia sia una delle categorie maggiormente colpite. Secondo l’Associazione Nazionale Divorzisti Italiani, l’aumento nel numero di separazioni tra il 2019 ed il 2020 è stato pari al 60%.

Tra i principali motivi di tensione annoveriamo la permanenza forzata tra le mura domestiche, causa smart working o perdita del lavoro, il maggiore coinvolgimento nelle attività scolastiche dei figli nonché la nuova organizzazione dei tempi e degli spazi, o ancor peggio l’impossibilità di ricavarne di propri.

All’estremo opposto ci sono le situazioni di distanziamento forzato.

Le cause sono molteplici: professioni, come quelle sanitarie, che espongono al rischio di contagio ed obbligano all’isolamento domiciliare permanente o altre che costringono al lavoro in sedi distanti da casa e risentono dalle attuali limitazioni, di natura pratica e legale, agli spostamenti a lungo raggio.

Ma l’isolamento forzato e prolungato, tanto quanto la distanza, sono solo fattori di malessere esterni alla coppia.
Essi possono fungere da amplificatore di un disagio preesistente senza essere la reale causa di un’eventuale crisi.

Disagi e conflitti di varia natura sono infatti parte integrante di ogni relazione senza necessariamente minacciarne la stabilità.

Si parla di crisi solo quando il disagio è duraturo ed accompagnato da un sentimento di impotenza, conseguenza di innumerevoli tentativi di appianamento andati a vuoto.

Per comprendere le dinamiche interne ad un rapporto sentimentale dobbiamo necessariamente far riferimento alla teoria dell’attaccamento. Esiste infatti un filo diretto tra la qualità del legame instaurato con le figure significative dell’infanzia (caregivers) ed i legami instaurati in età adulta. Questo perché il bambino in base alle esperienze vissute costruisce degli schemi mentali chiamati MOI (Modelli Operativi Interni) che si porterà dietro, per dirlo con le parole di Bowlby, dalla culla alla tomba. Dott.ssa Stefania Persico, psicologa e psicoterapeuta

I MOI vengono costantemente impiegati dall’individuo come chiave di lettura nella rappresentazione di sé, nelle interazioni con gli altri e nell’interpretazione del mondo. Sono un patrimonio di memorie relazionali implicite che rimangono attive per tutta la vita e che ci portano a ricercare, anche nella scelta del partner, le esperienze che conosciamo. Ciò non significa che il nostro destino sia già scritto. Esperienze emozionali e relazionali correttive, ripetendosi nel tempo, possono sovrascriversi totalmente o parzialmente ai modelli precedentemente appresi e modificarli.

Quando due persone entrano in relazione portano all’interno della coppia i propri MOI ed il proprio stile di attaccamento (sicuro, insicuro-evitante, insicuro-ambivalente, disorganizzato). Senza entrare nei dettagli di queste complesse ed ampiamente studiate categorie, è facilmente intuibile come legami sicuri possano generalmente offrire superiori livelli di benessere psicologico rispetto a legami insicuri. Questi ultimi generano spesso malessere e disagio per la minore disponibilità di strategie di coping (l’affrontare/il fronteggiare le difficoltà) da impiegare nei momenti di crisi.

Ad esempio, se un individuo con uno stile di attaccamento insicuro-ambivalente si considera immeritevole di amore difficilmente riuscirà a fidarsi del partner: vivrà, pertanto, il rapporto con la costante paura di essere abbandonato mettendo in atto meccanismi di controllo, continua ricerca di rassicurazione e manifestando livelli incontrollabili di gelosia.

Adulti con uno stile disorganizzato, estremamente disfunzionale, vivranno invece un rapporto caratterizzato da forte instabilità, accesi conflitti sino ad arrivare a comportamenti di sopraffazione e violenza.

In estrema sintesi, la coppia entra in crisi nel momento in cui non riesce più a rinegoziare il legame attraverso discussioni e litigi costruttivi, smette di essere cooperativa e sente di non disporre più delle risorse necessarie al raggiungimento di un compromesso che garantisca una relazione sentimentale gratificante. Dott.ssa Stefania Persico, psicologa e psicoterapeuta

Come già accennato, la pandemia da COVID-19 ha solo esacerbato conflitti esistenti, rompendo equilibri già fragili. Con molta probabilità, la maggior parte delle crisi ad essa attribuite erano già in corso in fase pre-pandemica. Banalmente però, quando si è concentrati su molteplici attività come lavorare, fare la spesa, portare i figli a scuola, andare in palestra, uscire con gli amici, vedere i parenti non si ha il tempo per soffermarsi sulle difficoltà relazionali.
Solo nel momento in cui parte di questi fattori di distrazione sono improvvisamente venuti meno non è stato più possibile per molte coppie continuare a negare l’evidenza.

In ambito psicologico, la crisi non ha necessariamente un’accezione negativa. Al contrario, viene considerata un’opportunità di cambiamento, di crescita, di ridefinizione della propria identità e della propria autostima.

Per evitare di cadere preda del dolore e dell’angoscia è però indispensabile riorientarsi.
La terapia individuale o di coppia rappresenta un notevole aiuto in tal senso.
Consente infatti di analizzare la situazione da un punto di vista differente, quello di uno specialista con l’esperienza e gli strumenti necessari per farlo con distacco ed obiettività.

La terapia aiuta ad operare scelte più consapevoli nella direzione del cambiamento costruttivo e di un’evoluzione personale e del rapporto. Aiuta anche, quando altre strade non sembrano più percorribili, a maturare una scelta di separazione ed affrontare in maniera meno dolorosa e distruttiva la riorganizzazione del sistema che la dissoluzione di un rapporto inevitabilmente comporta.

Stefania Persico, Psicologa e psicoterapeuta

Mi sono laureata con il massimo dei voti in Psicologia con indirizzo Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni  Sociali presso l’Università degli Studi di Cagliari.

Ho conseguito la specializzazione quadriennale in psicoterapia della Gestalt ed in seguito mi sono formata come Terapeuta EMDR. Esercito la libera professione e l’attività di perito presso il mio studio di Cagliari in via Alghero 29.

Focus di diritto civile, diritto di famiglia Avv. Francesco Sanna

Conflittualità tra i coniugi e affidamento dei figli
Dal focus della dott.ssa Stefania Persico abbiamo appreso che la convivenza forzata o il distanziamento obbligatorio, imposti entrambi da ragioni sanitarie, ha causato l’aumento della conflittualità all’interno della coppia e, spesso, ha portato alla dolorosa decisione di separarsi.

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

Il reato di maltrattamenti in famiglia: presupposti e “violenza assistita”
Il tema dei maltrattamenti in famiglia, specie negli ultimi anni e, in particolare, durante il periodo delle restrizioni imposte dalla pandemia di Covid-19, ha assunto sempre maggiore rilievo, anche a fronte dell’aumento considerevole delle richieste di assistenza da parte delle vittime di violenza domestica e di genere.

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Focus di diritto civile, diritto di famiglia • Avv. Viola Zuddas

Il tradimento e l’addebito della separazione
Come già anticipato dalla Dott.ssa Stefania Persico nel suo focus, la pandemia da COVID-19 ha modificato profondamente le abitudini di vita delle persone e la quarantena, indispensabile per fronteggiare l’emergenza sanitaria, ha sconvolto gli equilibri familiari.

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Litigi tra genitori – figli e disaccordo al vaccino. L’intervento dell’Unione Europea sui diritti dei minori.
È noto che le restrizioni derivanti dall’emergenza da Covid-19 hanno messo a dura prova il nostro stile di vita e la nostra quotidianità.

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Nei giorni scorsi è iniziata la raccolta firme per il referendum sull’eutanasia, promosso dall’Associazione Luca Coscioni, che prevede la parziale abrogazione dell’art. 579 del codice penale, norma che, ad oggi, punisce l’omicidio del consenziente e vieta, pertanto, la pratica della cd. eutanasia attiva.

Data la complessità della questione e volendo tralasciare i problemi di natura etica che la tematica porta con sé, pare più opportuno soffermarsi, invece, sulla normativa italiana attualmente in vigore, nonché sugli aspetti giuridici dell’intervento referendario.

Innanzi tutto, quando si parla di eutanasia è necessario distinguere le forme di eutanasia attiva da quella omissiva.
Infatti, l’eutanasia praticata in forma omissiva consiste nell’interruzione delle cure necessarie per tenere in vita il paziente, comprese quelle di nutrizione e di idratazione artificiale, nel caso in cui questi decida liberamente di rifiutare qualsiasi tipo di trattamento sanitario, ancorché necessario per la sopravvivenza, al fine di evitare l’accanimento terapeutico.

Si tratta di un’ipotesi consentita in presenza di determinate condizioni, sebbene non risulti regolamentata in maniera chiara, univoca ed esaustiva.
La stessa trae fondamento nel diritto all’autodeterminazione individuale, previsto nell’art. 32 della Costituzione, nonché nella Legge 22 dicembre 2017, n. 219, in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, che, introducendo il divieto di ostinazione irragionevole delle cure, garantisce la tutela della “dignità nella fase finale della vita”.

A tale riguardo, ad esempio, in Italia è ammissibile la cd. terapia del dolore, consistente nella somministrazione di farmaci analgesici che, a fronte dell’interruzione dei trattamenti sanitari ritenuti gravosi e sproporzionati rispetto ai risultati ottenibili, conduce alla morte prematura del paziente, ma consentono al medico di alleviarne le sofferenze, così come la sedazione palliativa profonda e continua che evita al paziente terminale ulteriori patimenti.

Allo stesso modo, dal 31 gennaio 2018, è possibile dichiarare anticipatamente le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, attraverso il testamento biologico, con cui l’individuo può decidere se accettare o rifiutare le cure nell’eventualità in cui dovesse risultare affetto da una malattia invalidante o si trovasse nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso, proprio a causa delle condizioni di salute.

Per quanto riguarda l’eutanasia in senso stretto, ovvero praticata in forma attiva, l’Ordinamento italiano sanziona penalmente sia le condotte dirette, in cui è il medico a somministrare il farmaco eutanasico al paziente che ne faccia richiesta e sia quelle indirette, che si concretizzano in qualsiasi contributo materiale di agevolazione dell’altrui progetto di porre fine alla propria vita, attraverso l’assunzione -anche in modo autonomo- della sostanza letale. Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Invero, nella prima ipotesi ricorre il reato di omicidio del consenziente, punito dall’art. 579 c.p., mentre nel secondo caso si configura il reato di istigazione o aiuto al suicidio, di cui al successivo art. 580 c.p.

All’evidenza, entrambe le disposizioni sanciscono l’indisponibilità del diritto alla vita, nella misura in cui, pur a fronte della morte cagionata con il consenso effettivo della persona, la condotta risulta comunque punita, sebbene meno severamente rispetto all’ipotesi di omicidio volontario.

L’evoluzione normativa

Un significativo intervento correttivo è stato introdotto di recente dalla Corte Costituzionale, allorquando nell’ambito del noto processo a carico di Marco Cappato per il suicidio assistito di Dj Fabo, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p.

In particolare, la Consulta ha ritenuto non punibile la condotta “di chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli” (Corte Cost., 22 novembre 2019, n. 242).

Alla luce di quanto detto finora, quindi, in Italia l’eutanasia attiva costituisce reato (nelle forme dell’omicidio del consenziente o dell’istigazione o aiuto al suicidio), mentre, entro i limiti poc’anzi analizzati, il suicidio medicalmente assistito e la sospensione delle cure, altrimenti detta eutanasia passiva, risultano ammissibili, poiché riconducibili nell’ambito del già citato art. 32 Cost.

Tuttavia, giova precisare che, in occasione della vicenda Cappato, la Corte Costituzionale ha sollecitato espressamente l’intervento del Parlamento, affinché venisse introdotta un’appropriata disciplina a colmare il vuoto normativo in materia di fine vita, con lo scopo di garantire adeguata tutela a tutte quelle situazioni riconosciute come “costituzionalmente meritevoli di protezione”.

Ebbene, se, da un lato, nessun intervento normativo è stato ancora introdotto, d’altra parte non può trascurarsi che nella pratica si pone il problema della disparità di trattamento riservata ai pazienti affetti da patologie gravissime e sottoposti a trattamenti sanitari molto invasivi che, tuttavia, non potrebbero scegliere di rinunciare alle cure, senza subire ulteriori e prolungate sofferenze.

È evidente, infatti, che in tali sfortunate ipotesi resterebbe sempre precluso ai predetti soggetti di esercitare il diritto, riconosciuto anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, di decidere liberamente e consapevolmente di porre fine, con dignità, alla propria vita.

Il quesito referendario si propone, pertanto, di abrogare parzialmente l’art. 579 c.p., in modo tale che una persona maggiorenne, pienamente capace di intendere e di volere, nonché libera nell’esprimere il proprio consenso, possa consentire la propria morte, senza che ciò comporti conseguenze di natura penale nei confronti del medico che l’abbia determinata. Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Per il vero, la disposizione in parola resterebbe comunque applicabile, ma solo in relazione alla condotta di chi cagiona la morte di un uomo con il suo consenso, quando però il fatto è commesso contro una persona minorenne, inferma di mente o che si trova in condizioni di deficienza psichica, nonché nel caso in cui il consenso sia stato estorto con violenza, minaccia, ovvero carpito con l’inganno.

Quindi, la ratio dell’intervento è quella di punire, con la stessa pena prevista per l’omicidio volontario, soltanto chi cagiona la morte di un soggetto consenziente che, tuttavia, non risultasse in grado di prestare validamente il proprio consenso, per età, condizioni personali o in quanto destinatario di raggiri o suggestioni, finalizzate a intervenire, alterandolo, il processo di libera e consapevole formazione della volontà.

Ne consegue, al contrario, che ogni qual volta il consenso sia validamente prestato nel rispetto delle disposizioni di Legge dettate in materia di consenso informato e testamento biologico e, purché, tali condizioni e modalità siano verificate, non si configurerebbe alcun reato.

La portata della modifica sarebbe senza dubbio enorme.
In questo modo, infatti, si consentirebbe al soggetto di disporre del bene vita, al contempo realizzando un’estensione consistente del bene giuridico che si vuole proteggere, tale cioè da includervi il diritto dell’individuo di porre fine alla propria esistenza tramite l’aiuto di terzi, e, altresì, garantendo il pieno rispetto della dignità della persona.

All’evidenza, all’affermazione del predetto principio attraverso la proposta referendaria dovrebbe poi seguire un compiuto intervento legislativo, volto a regolamentare la materia e a delineare in maniera chiara e organica tutti i requisiti necessari per l’attuazione, sia in tema di espressione del consenso, che di accertamento preventivo dello stesso, nonché di individuazione dei soggetti legittimati a darne esecuzione.

Claudia Piroddu, Avvocato

La strage della funivia del Mottarone è tornata al centro della scena mediatica a seguito della diffusione delle immagini estrapolate dall’impianto di videosorveglianza della funivia di Stresa-Alpino-Mottarone e relative agli ultimi istanti di vita delle vittime della sciagurata vicenda.

Le immagini contenute in un file-video, come anche evidenziato dal comunicato trasmesso dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Verbania, erano state depositate all’atto della richiesta di convalida del fermo degli indagati e di applicazione della misura cautelare.

Atti e documenti che, come tale, sono tuttora al vaglio degli inquirenti.

La diffusione di tali immagini ha suscitato una forte reazione, oltre che da parte dell’opinione pubblica, anche, e in particolar modo, da parte degli operatori del diritto.

Ebbene, volendo scientemente sorvolare su qualunque discussione relativa al forte impatto emotivo di un triste episodio di cronaca gettato al patibolo mediatico, appare qui interessante esaminare la vicenda dal punto di vista normativo al fine di comprendere quali siano le ragioni “tecniche” alla base delle contestazioni mosse dal mondo giuridico.

Al riguardo, è preliminarmente rilevante comprendere quale veste giuridica debba essere attribuita a tali immagini video e, di seguito, individuare le norme che disciplinano la pubblicazione di atti e immagini nell’ambito del procedimento penale.

Al fine di rispondere al primo quesito, occorre evidenziare, anzitutto, che, come anticipato, le predette immagini sono state acquisite nella fase delle indagini preliminari, ossia quella fase processuale in cui il Pubblico Ministero o, su delega, la Polizia Giudiziaria, quale organo di indagine, ha l’obiettivo di ricercare qualunque elemento pertinente al reato e di individuarne l’autore. Elementi, questi, che, in ogni caso, potrebbero acquisire valore di “prova” solo successivamente, in sede dibattimentale.

Il video della funivia in oggetto, pertanto, può essere certamente annoverato tra gli atti raccolti dalla Polizia Giudiziaria in fase indagini preliminari e atte a mettere il P.M. nelle condizioni di decidere se esercitare o meno l’azione penale.

Ebbene, tutti gli atti di indagine compiuti dal Pubblico Ministero e/o dalla Polizia Giudiziaria sono coperti, ai sensi dell’art. 329 c.p.p., da segreto, e ciò fino a quando l’imputato non ne abbia conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari.

Tale norma disciplina, dunque, il segreto di indagine, che va dal momento dell’acquisizione della notizia di reato fino alla chiusura delle indagini preliminari.

La ratio della norma appare molto chiara: non nuocere all’attività investigativa.

Ora, inquadrata dal punto di vista processuale la natura delle immagini video di cui sopra, al fine di rispondere al secondo quesito, occorre comprendere se le stesse potessero costituire oggetto di pubblicazione o meno.

Sul punto, si rileva che il legislatore, al fine di dare piena e concreta attuazione al principio della tutela della riservatezza del procedimento penale, ha puntualmente disciplinato, parallelamente alle suddette regole sulla segretezza, il divieto di pubblicazione degli atti e di immagini ai sensi dell’art. 114 c.p.p.Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista

Detta norma, come anche puntualizzato dalla giurisprudenza di legittimità, regolamenta il divieto di pubblicazione di atti o documenti presenti nel fascicolo del P.M. che, come è noto, nella fase delle indagini preliminari è il solo fascicolo esistente.

Qui sono presenti gli atti coperti dal c.d. segreto assoluto (art. 114, comma 1, c.p.p.), ossia atti del Pubblico Ministero e della Polizia Giudiziaria – che rimangono segreti “fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza”- e per i quali vige un divieto assoluto di pubblicazione sia con riguardo al loro contenuto che al testo.

Nello stesso fascicolo vi sono, poi, gli atti non più coperti dal segreto e gli atti che, fin dall’origine, non sono coperti dal segreto stesso.
In particolare, e per quanto è di maggiore interesse in questa sede, si evidenzia che per gli atti non coperti da segreto sussiste comunque, come anche ribadito dagli Ermellini, un divieto, seppur limitato, di pubblicazione dell’atto stesso.
Ed infatti, è proprio il secondo comma dell’art. 114 c.p.p. ad evidenziare che non vi è coincidenza concettuale tra il cd. segreto ed il divieto di pubblicazione.

Invero, anche un atto non più coperto dal segreto non può essere pubblicato fino alle scadenze indicate dalla norma, ossia fino allo svolgimento dell’udienza preliminare oppure, se questa non si tiene, fino alla chiusura della fase delle indagini preliminari.
In caso di dibattimento, invece, gli atti contenuti nel fascicolo del P.M. non possono essere pubblicati se non dopo la sentenza di secondo grado.

Ora, il breve excursus normativo soprariportato, consente di comprendere gli aspetti tecnico-normativi alla base delle contestazione provenienti dal mondo giuridico a seguito della pubblicazione e divulgazione delle immagini video del drammatico incidente verificatosi lo scorso 23 maggio: trattasi, infatti, di immagini che, benché non più coperte dal segreto, in quanto note agli stessi indagati, non avrebbero potuto e dovuto essere pubblicate in forza del divieto di pubblicazione di cui all’art. 114, comma 2 c.p.p., in quanto afferenti ad un procedimento attualmente in fase di indagini preliminari.

Ebbene, appare chiaro come questa vicenda abbia sortito l’effetto di porre ancora una volta al centro delle riflessioni il rapporto tra media e giustizia, peraltro più volte affrontato dalla stessa Corte Europea dei Diritti dell’Uomo la quale ha più volte ribadito che, in tutte le ipotesi di diffusione delle notizie, debbano, in ogni caso, essere garantiti i diritti fondamentali delle persone quali, tra tutti, la presunzione di non colpevolezza.

Eleonora Pintus, Avvocato

Il caso

Era il 2 luglio 2020 quando un gruppo di pescatori Sardi di Sorso decide di prendere il largo verso il Capo di Roccapina, a poche miglia dalla Corsica, nei pressi degli Isolotti dei Monaci.

Detta area si inserisce nella riserva naturale delle Bocche di Bonifacio (réserve naturelle des Bouches de Bonifacio), classificata come Area specialmente protetta di interesse mediterraneo sita tra Corsica e Sardegna (per maggiori informazioni sulle Aree Marine Protette, leggi l’ultimo articolo di Forjus su https://www.forjus.it/2021/06/07/le-aree-marine-protette-criticita-e-tutela-penale/)

In quell’occasione, secondo la ricostruzione fornita da “l’Office de l’environnement de la Corse” (Ufficio dell’ambiente della Corsica), autorità francese che si occupa della vigilanza dell’area protetta, il gommone, con a bordo quattro pescatori, avrebbe violato l’area – così accedendo in acque di competenza francese – dove è severamente vietata ogni attività di caccia e pesca.

Tra le contestazioni mosse ai pescatori, oltre alla violazione di un’area protetta privi di autorizzazione, si inseriscono anche quelle di minaccia e resistenza a pubblico ufficiale.

Nei giorni scorsi, l’autorità Giudiziaria francese ha dunque emesso nei confronti dei tre uomini (uno dei quattro asseritamente presenti non è stato identificato) un “Mandato di arresto Europeo” (MAE), a seguito del quale gli stessi sono stati arrestati e sottoposti a custodia cautelare presso il carcere di Bancali.

La richiesta di consegna: il mandato d’arresto europeo (MAE)

Ma cosa è il MAE e come funziona?

Il mandato d’arresto europeo è una procedimento giudiziario “di consegna” finalizzato all’esercizio dell’azione penale o all’esecuzione di una pena.

La procedura consiste nell’emissione di un mandato da parte di un’autorità giudiziaria di uno Stato membro (emittente) perché si proceda all’ arresto di una persona ricercata in un altro Stato membro e la si consegni al primo Stato affinché possa essere esercitata l’azione penale o, in caso di condanna, ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privativa della libertà.

Detto meccanismo, nettamente semplificato rispetto al più noto procedimento di estradizione, opera mediante un contatto diretto delle autorità giudiziarie, basandosi sul principio del riconoscimento reciproco delle decisioni penali.

Al di là dei diritti che, in tali casi, debbono necessariamente essere garantiti agli imputati – quali, a titolo esemplificativo, il diritto di nomina di un difensore e quello di traduzione degli atti in una delle lingue ufficiali dello stato membro di esecuzione, ivi compreso il MAE – la peculiarità di tale procedura risiede nel fatto che il MAE può operare solo per fatti puniti dalla legge dello Stato emittente con una pena detentiva o con misure di sicurezza privative della libertà della durata massima non inferiore a dodici mesi ovvero, in caso di condanna o applicazione di una misura di sicurezza, allorquando sia stata pronunciata una condanna non inferiore a quattro mesi.
Ebbene, è lecito chiedersi se un Paese possa rifiutare la consegna della persona oggetto del mandato.

La risposta è affermativa.
In tal caso, si possono distinguere tra:

  • motivi obbligatori: ad esempio quando la persona è stata già giudicata per lo stesso reato (principio del ne bis in idem), oppure se si tratta di minori (dunque soggetti che non hanno compiuto l’età prevista per la responsabilità penale nel paese d’esecuzione) o, ancora, in caso di amnistia;
  • motivi facoltativi: ad esempio, in caso di assenza di doppia incriminazione per i reati che non siano compresi tra le 32 fattispecie penali di cui all’articolo 2, paragrafo 2, della decisione quadro sul MAE (tra i quali, reati di stupro, omicidio volontario, terrorismo, ecc); se sussiste giurisdizione territoriale, oppure in caso di procedura penale in corso nel paese dell’esecuzione ovvero per intervenuta prescrizione.

Per l’esecuzione del MAE sono previsti termini rigorosi, che dipendono dal fatto che il ricercato acconsenta o meno alla propria consegna.

Nei casi in cui il ricercato acconsente alla propria consegna, la decisione definitiva sull’esecuzione del MAE dovrà essere presa entro dieci giorni dalla comunicazione del consenso (articolo 17, paragrafo 2, della decisione quadro sul MAE).

Nei casi in cui, invece, il ricercato non acconsente alla propria consegna, la decisione definitiva sull’esecuzione del MAE dovrà essere presa entro sessanta giorni dall’arresto del ricercato (articolo 17, paragrafo 3, della decisione quadro sul MAE).

In ogni caso, dopo l’arresto del ricercato sulla base del MAE, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione deve decidere se mantenere l’imputato in stato di custodia o metterlo in libertà fino alla decisione sull’ esecuzione del MAE.Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista

La custodia non è, quindi, sempre indispensabile e la persona può essere messa in libertà provvisoria in qualsiasi momento ai sensi della legislazione nazionale dello Stato membro di esecuzione.
Se la persona non è mantenuta in custodia, l’autorità competente dello Stato membro di esecuzione deve adottare le più opportune misure per evitarne la fuga.

Dette misure possono comprendere, ad esempio, il divieto di viaggio, la sorveglianza elettronica oppure l’obbligo di presentarsi periodicamente a un’autorità.

Il rifiuto di consegna dei pescatori di Sorso: la decisione del Giudice

Ebbene, tornando al caso dei pescatori di Sorso, è proprio quest’ultima misura che il Giudice incaricato dell’esecuzione nel corso dell’udienza tenutasi lo scorso 7 giugno 2021 ha deciso di applicare.

In detta occasione, infatti, i tre pescatori hanno negato il loro consenso alla consegna e, contestualmente, hanno richiesto che venissero applicate nei loro confronti misure cautelari attenuate.

Il giudice dell’esecuzione, ritenuto che l’arresto – avvenuto, come detto, su mandato di arresto europeo da parte della Francia – e le misure cautelari siano stati applicati ai giovani nei termini e alle condizioni di legge, le ha confermate, accogliendo, al contempo, le richieste avanzate dalla difesa di parte.

Ed infatti, al fine di scongiurare ogni pericolo di fuga – in attuazione dell’articolo 12 della decisione quadro sul MAE – l’autorità giudiziaria ha revocato la misura cautelare della custodia cautelare in carcere sostituendola con quella dell’obbligo di firma.

In merito all’eventuale consegna, bisognerà invece attendere la prossima decisione dell’autorità giudiziaria del Tribunale di Sassari, chiamata a dare esecuzione ad ogni mandato d’arresto europeo in base al principio del riconoscimento reciproco e in conformità alle disposizioni della decisione quadro sul MAE.

Eleonora Pintus, Avvocato

Domani, 8 giugno, si celebra la giornata mondiale degli Oceani, il cui tema è l’oceano come “fonte di vita e sostentamento”.

Questa giornata si colloca, in realtà, in un contesto ben più ampio poiché lo scorso primo giugno è stato inaugurato dalle Nazioni Unite e dall’UNESCO, con la Commissione Internazionale Oceanografica, il “Decennio delle Scienze Marine per lo Sviluppo Sostenibile degli Oceani e dei Mari”, con lo scopo di promuovere soluzioni a livello globale per proteggere gli oceani e le loro risorse.

Come sappiamo, gli oceani ed i mari svolgono un ruolo fondamentale nel nostro pianeta, in quanto non solo ospitano degli ecosistemi importantissimi per la biodiversità ma contribuiscono alla regolazione del clima: infatti, sulla base di studi recenti è emerso che oceani e mari assorbano mille volte più calore dell’atmosfera e che, fino ad oggi, abbiano trattenuto il 90% dell’energia in più derivante dall’incremento dei gas serra dovuti all’azione umana.

Come abbiamo già visto nell’articolo precedente, in Italia, il 26 febbraio scorso è nato ufficialmente il Ministero della Transizione ecologica (cosiddetto “MiTE”) che, tra gli altri obiettivi, si pone quello di tutelare la biodiversità, gli ecosistemi ed il patrimonio marino-costiero nonché salvaguardare il territorio e le acque.

A tale ultimo proposito, giova ricordare che, a partire dagli anni ’80, sono state istituite le aree marine protette (cosiddette “AMP”), ovvero quegli ambienti marini dati dalle acque, dai fondali e dai tratti di costa prospicenti, che presentano un rilevante interesse per le loro caratteristiche naturali, geomorfologiche, fisiche, biochimiche con particolare riguardo alla flora e alla fauna marine e costiere.

La Sardegna vanta cinque aree marine protette: in particolare, l’isola di Mal di Ventre, nella penisola del Sinis, è stata istituita alla fine degli anni ‘90 con l’obiettivo di tutelare e valorizzare l’ambiente marino e costiero all’interno dell’area delimitata e, altresì, di amministrare le attività sostenibili in esso consentite. Avv. Claudia Piroddu, Penalista • Avv. Viola Zuddas, Civilista

Peraltro, l’area marina protetta Penisola del Sinis – Isola di Mal di Ventre è stata inserita tra le dieci AMP italiane, alle quali è riconosciuto lo status di ASPIM (Aree Speciali Protette di Importanza Mediterranea), grazie al quale viene adottato un approccio internazionale di cooperazione per la gestione, conservazione e protezione delle specie protette, nonché una costante attività di monitoraggio e salvaguardia delle stesse.

Ebbene, le aree marine protette sono state istituite con le Leggi n. 979/1982 e n. 394/1991 che, ancora oggi, costituiscono lo strumento giuridico principale per garantire la gestione, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale e archeologico di zone marittime e costiere circoscritte che, per conformazione e caratteristiche, sono considerate particolarmente vulnerabili e, pertanto, meritevoli di specifica protezione.

Le aree marine protette rientrano, infatti, nella nozione di “aree naturali protette”, tra le quali figurano, altresì, i parchi e le riserve naturali nazionali e regionali, le zone umide di importanza internazionale, i siti della Rete Natura 2000 e le altre aree naturali protette cd. minori.

Invero, secondo l’orientamento giurisprudenziale maggioritario (si veda, nella specie, Cass. pen., sez. III, 1 aprile 2014, n. 14950), l’elenco contenuto nella normativa di riferimento non è da intendersi tassativo e immutabile, bensì uno strumento aggiornabile nel corso del tempo.

Istituite con Decreto Ministeriale, le aree marine protette sono suddivise in tre differenti livelli di protezione in relazione alla zona in cui ci si trova e, precisamente:

Zona A o riserva marina integrale: è l’area di maggior valore ambientale; in essa sono consentite in genere unicamente le attività di ricerca scientifica e le attività di servizio,
Zona B o riserva marina generale: in essa è consentito il compimento di alcune attività che devono comunque assicurare un basso impatto sull’ecosistema,
Zona C o riserva marina parziale: in essa è consentito il compimento di alcune attività che devono comunque assicurare un modesto impatto sull’ecosistema.

La gestione delle AMP è affidata ad enti pubblici, istituzioni scientifiche o associazioni ambientaliste riconosciute, anche consorziati tra loro, ma il Ministero dell’Ambiente partecipa ai relativi oneri di spesa, mediante un sistema di riparto.

Peraltro, proprio l’aspetto gestionale ed economico -spesso lasciato ai Comuni interessati- rappresenta, a dire delle associazioni ambientaliste, il punto più debole della disciplina di settore.

Infatti, è da diversi anni che viene invocata una riforma organica della legislazione sulle aree protette, sul presupposto della mancanza di un approccio unitario che, operando sia a livello nazionale che europeo, consenta di creare un coordinamento e una programmazione efficace, garantendo il pieno coinvolgimento anche della collettività locale.

La tutela e i divieti

La già citata Legge quadro n. 394 del 1991 ha anticipato l’emanazione della Direttiva comunitaria 92/43/CEE, con la quale è stata creata una rete ecologica di zone speciali protette –denominata “Natura 2000”- finalizzata all’istituzione di un sistema generale di protezione di talune specie di flora e fauna, attraverso l’introduzione di specifici divieti.

In particolare, l’art. 19, co. 3, della L. 394/91, tutt’ora in vigore, individua un elenco di attività vietate nelle AMP, tra le quali figurano: la cattura, la raccolta e il danneggiamento delle specie animali e vegetali; l’introduzione di armi, esplosivi e di ogni altro mezzo distruttivo e di cattura, nonché la navigazione a motore e ogni forma di discarica di rifiuti solidi e liquidi.

Ad essere punite, quindi, non sono soltanto quelle condotte concretamente e immediatamente lesive del patrimonio ambientale, come ad esempio la pesca o il danneggiamento, ma anche condotte che, sulla base di un accertamento presuntivo, risultano suscettibili di mettere in pericolo il bene ambiente, come ad esempio la navigazione a motore o l’introduzione nell’AMP di armi ed esplosivi.

In altre parole, è stata disposta una tutela anticipata che arretra la soglia di punibilità e sanziona anche quelle condotte prodromiche al danno ambientale, cioè potenzialmente capaci di cagionarlo e, quindi, vietate a prescindere dall’effettivo verificarsi dello stesso. Avv. Claudia Piroddu, Penalista • Avv. Viola Zuddas, Civilista

Per chiarire meglio la portata applicativa della legge italiana, può essere utile fare un esempio pratico, richiamando la sentenza n. 6726 del 12 febbraio 2018, con la quale la Corte di Cassazione si è pronunciata sulla fattispecie di illecita effettuazione di attività di pesca subacquea all’interno dell’area marina protetta.

La vicenda approdata dinnanzi ai Supremi Giudici aveva ad oggetto due imputati che erano stati sorpresi nei pressi di alcune imbarcazioni di loro proprietà e, in particolare, uno di essi era stato rinvenuto in acqua, mentre imbracciava un fucile da caccia subacqueo.

Sebbene all’interno dell’imbarcazione di quest’ultimo, al momento dell’accertamento, non fosse stato rinvenuto il pescato, la Corte di legittimità ha comunque ritenuto configurata la fattispecie di cui all’art. 19, co. 3, lett. a) della L. n. 394/91, ossia “la cattura, la raccolta e il danneggiamento delle specie animali e vegetali”.

Infatti, alla luce di quanto detto finora, perché risulti integrata la contravvenzione in parola non occorrerebbe la concreta verificazione del danno.

Ritenuto, da un lato, che l’elenco delle condotte vietate non debba intendersi in maniera assoluta e tassativa, ma un’esemplificazione di comportamenti che il Legislatore intende impedire e, dall’altro, che sussiste un’anticipazione della soglia di punibilità, sarebbe sufficiente il compimento di condotte che risultano comunque idonee e strumentali alla compromissione del bene giuridico protetto.

Pertanto, il fatto stesso che l’imputato sia stato colto in acqua e con il fucile da caccia –il cui porto all’interno dell’AMP risulta comunque vietato, ai sensi del già citato art. 19, co. 3, lett. d), della Legge quadro- è elemento dirimente per ritenere che il medesimo fosse intento a compiere nell’AMP attività di pesca subacquea, che risulta vietata e, perciò, punibile.

Ad ogni modo, è solo attraverso un efficace e costante sistema di monitoraggio e controllo del territorio che è possibile garantire l’effettiva tutela delle AMP, ciò anche in funzione preventiva e come deterrente per tutte quelle condotte lesive del bene protetto.

Claudia PirodduViola Zuddas, Avvocati

Il prossimo 5 giugno è la giornata mondiale dell’ambiente, il cui tema quest’anno sarà il “Ripristino degli ecosistemi”: l’obiettivo, dunque, è quello di prevenire i danni inflitti agli ecosistemi del pianeta e di interrompere lo sfruttamento della natura per promuoverne la guarigione.

Questa data è stata scelta perché il 5 giugno 1972, durante la conferenza di Stoccolma sull’ambiente umano, ha preso forma il progetto dell’Onu con cui gran parte degli stati membri delle Nazioni Unite, le agenzie specializzate ONU ed altre organizzazioni internazionali si sono posti l’obiettivo di tutelare l’ambiente.

In Italia, il 26 febbraio scorso è nato ufficialmente il Ministero della Transizione ecologica (cosiddetto “MiTE”), che ha sostituito il Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, e che si pone l’obiettivo di:

  • tutelare la biodiversità, gli ecosistemi ed il patrimonio marino-costiero nonché salvaguardare il territorio e le acque,
  • attuare politiche di contrasto al cambiamento climatico e al surriscaldamento globale, realizzando programmi di collaborazione bilaterale specialmente con i paesi maggiormente vulnerabili ed esposti ai rischi dei cambiamenti climatici,
  • garantire uno sviluppo sostenibile, mirando all’efficienza energetica ed all’economia circolare, gestendo in maniera integrata il ciclo dei rifiuti e promuovendo la bonifica dei siti d’interesse nazionale,
  • valutare l’impatto ambientale delle opere strategiche, ponendo l’obiettivo di contrastare l’inquinamento atmosferico-acustico-elettromagnetico e di ridurre i rischi che derivano da prodotti chimici e organismi geneticamente modificati.

Grazie al contributo delle numerosissime campagne di sensibilizzazione (prima tra tutte, quella promossa da Greta Thumberg che ha fondato il movimento Fridays For Future che, anche in Italia, svolge un ruolo da protagonista su questi temi), i tempi sono maturi per completare anche la disciplina costituzionale relativa alla tutela dell’ambiente e dell’ecosistema.

Infatti, questi principi rappresentano una priorità per la società italiana nell’ambito delle sfide globali e, dunque, devono sicuramente essere disciplinati in maniera organica pure nella Costituzione, dove attualmente all’art. 9 si legge soltanto un breve riferimento alla «tutela del paesaggio».

Per tale motivo, è stato proposto un disegno di legge che prevede la modifica del citato art. 9 Cost. al quale verrebbe aggiunto il terzo comma del seguente tenore: «La Repubblica tutela l’ambiente e l’ecosistema, protegge le biodiversità e gli animali, promuove lo sviluppo sostenibile, anche nell’interesse delle future generazioni». Avv. Claudia Piroddu, Penalista • Avv. Viola Zuddas, Civilista

Questa modifica, se accolta, consentirebbe di tutelare in maniera più stringente l’ambiente e tutti gli esseri viventi che lo compongono, partendo dal concetto di “sviluppo sostenibile” che rappresenta un elemento indispensabile per l’affermazione e lo sviluppo di nuove tecniche produttive nel rispetto delle risorse naturali disponibili.

Ad ogni modo, nonostante, ad oggi, non venga espressamente menzionato tra i principi fondamentali della Costituzione, l’ “ambiente” è considerato un bene giuridico di valore costituzionale primario e assoluto.

Ciò è possibile attuando il richiamo, da un lato, alla tutela del paesaggio di cui all’art. 9, nella quale viene ricompresa sia la tutela ecologica e l’interesse alla conservazione dell’ambiente naturale, e, dall’altro lato, alla tutela della salute prevista nell’art. 32, ove viene collocata anche la salvaguardia dell’ambiente in cui vive l’uomo.

A garanzia della tutela dell’ambiente, l’ordinamento italiano prevede diversi illeciti sia di natura amministrativa che penale, contenuti principalmente nel Testo Unico Ambientale (D. Lgs. n. 152/2006), nonché nel codice penale.

Proprio nell’ottica di consentire una maggiore protezione dei beni naturali e della salute, con la Legge n. 68/2015 si è proceduto ad una vera e propria riforma dei reati ambientali, che pone al centro la tutela dell’ambiente e degli ecosistemi in quanto tali.

L’intervento normativo in parola è culminato con l’introduzione del Titolo VI-bis del codice penale, che prevede numerose fattispecie che vanno dal reato di inquinamento ambientale, all’associazione per delinquere nei reati ambientali, nonché all’ipotesi a lungo controversa di disastro ambientale.

A tale riguardo, proprio qualche giorno fa, la Corte di Assise di Taranto, con una sentenza da molti considerata “storica”, ha condannato a pene severissime i vertici amministrativi della più grande acciaieria d’Europa, l’ EX ILVA, per il reato di associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale.

Secondo i giudici di primo grado, negli anni, il noto stabilimento siderurgico avrebbe realizzato il massiccio sversamento nell’aria di sostanze nocive per la salute e per l’ambiente, cagionando malattie e morte soprattutto nella popolazione residente nei quartieri in cui sorge e tutt’ora opera l’azienda, oltre che l’avvelenamento di bestiame e prodotti alimentari.

Il reato di “disastro ambientale”

Una delle principali novità introdotte con la riforma dei reati ambientali è costituita dal delitto di disastro ambientale, disciplinato nell’art. 452 quater c.p., che punisce con la reclusione da cinque a quindici anni chiunque cagiona abusivamente un disastro ambientale ponendo in essere, alternativamente, una delle ipotesi descritte dalla norma, ovvero:

1) l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema;
2) l’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali;
3) l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo.

Nell’ultimo comma è prevista una circostanza aggravante che ricorre nell’ipotesi in cui il disastro venga prodotto in un’area naturale protetta o sottoposta a vincolo paesaggistico, ambientale, storico-artistico, ovvero in danno di specie animali o vegetali protette.

Al fine di rafforzare la tutela del bene “ambiente”, per condotta “abusiva” deve intendersi non soltanto quella perpetrata in assenza delle prescritte autorizzazioni o in presenza di autorizzazioni illegittime o non commisurate al tipo di attività esercitata, ma altresì quelle poste in essere in violazione di leggi statali o regionali e di prescrizioni amministrative.

La portata della riforma è senza dubbio molto significativa.

Infatti, prima delle modifiche, tali eventi venivano ricondotti unicamente nella fattispecie generale del cd. disastro innominato, di cui all’art. 434 c.p., posto a tutela della sola incolumità pubblica, non potendosi prescindere dal danno o dalla messa in pericolo delle persone.

L’attuale reato di disastro ambientale garantisce, invece, la tutela diretta dell’integrità dell’ambiente, in una prospettiva ecocentrica.

La norma, tuttavia, punisce indirettamente anche le conseguenze che la condotta lesiva dell’ecosistema produce nei confronti dell’incolumità pubblica, poiché –ed è questo il cuore della riforma- il Legislatore ha voluto dare attuazione al principio secondo il quale la tutela della vita e dell’integrità fisica muove sempre dalla tutela preliminare della salubrità dell’ambiente (Cass. pen., sez. III, 3 luglio 2018, n. 29901). Avv. Claudia Piroddu, Penalista • Avv. Viola Zuddas, Civilista

Oltre all’ampliamento delle condotte punibili poste in essere sia da privati che dagli enti e all’inasprimento delle pene, come efficacia deterrente e in funzione preventiva, giova segnalare che, proprio nell’ottica del ripristino degli ecosistemi, il codice penale prevede nell’art. 452 decies un trattamento sanzionatorio più favorevole nel caso del cd. ravvedimento operoso.

Tale ipotesi ricorre qualora l’autore del reato ambientale si adoperi per evitare che l’attività delittuosa venga portata a conseguenze ulteriori, ovvero, provveda concretamente alla messa in sicurezza, alla bonifica e ove possibile al ripristino dello stato dei luoghi.

Ad ogni modo, partendo dal presupposto che tutelare l’ambiente significa tutelare l’uomo, lo strumento repressivo non può da solo risolvere le innumerevoli problematiche connesse alla tematica ambientale.

È necessario, piuttosto, che vengano adottate al più presto politiche volte a promuovere lo sviluppo sostenibile, che consenta “alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”, in modo tale che la crescita economica, la coesione sociale e la tutela dell’ambiente vadano di pari passo.

Claudia PirodduViola Zuddas, Avvocati