Gli acronimi DOP e IGP rappresentano l’eccellenza della produzione agroalimentare italiana ed europea e sono gli strumenti principali attraverso i quali viene tutelata la qualità dei prodotti e la garanzia di appartenenza degli stessi ad un determinato territorio. 

I prodotti italiani con marchio DOP e IGP sono numerosi, come ad esempio Grana Padano, Prosciutto di Parma, Pecorino Sardo, l’Agnello di Sardegna, Mortadella di Bologna, Bresaola della Valtellina e tanti altri. 

Inoltre, in Italia sono presenti 341 vini DOC e 78 vini DOCG, con il Piemonte a fare da capolista con ben sessanta etichette di prestigio, ma anche la Toscana, il Veneto, la Lombardia, la Puglia e la Sardegna, che vanta ben 19 vini di Denominazione di Origine controllata.  

È proprio la combinazione di fattori umani ed ambientali che conferiscono al prodotto proveniente da una specifica zona geografica delle caratteristiche uniche. 

All’evidenza, il prestigio di un prodotto dipende dalla garanzia della qualità dello stesso e dalla convinzione del consumatore che i prodotti sul mercato con denominazione protetta siano autentici. 

La materia è disciplinata al livello comunitario dal Regolamento n. 1151/2012 che definisce i requisiti, le caratteristiche e gli standard qualitativi del prodotto alimentare o agricolo, con la specifica finalità di garantire la tutela sia della reputazione e dei profitti di agricoltori e produttori e sia per fornire ai consumatori informazioni chiare e precise sui prodotti presenti sul mercato.Avv. Claudia Piroddu, Penalista

Dunque, cosa si intende con le sigle DOP e IGP e quali sono le principali differenze? 

La sigla DOP, ovvero Denominazione di Origine Protetta (contraddistinta dal bollino giallo-rosso) indica un prodotto proveniente da un determinato ambiente geografico, inteso come l’insieme dei fattori naturali e delle tecniche di produzione che lo contraddistinguono.  

È necessario, però, che le fasi di produzione, trasformazione, elaborazione e confezionamento del prodotto avvengano all’interno di una specifica zona geografica, individuata nel disciplinare di produzione. 

Con la sigla IGP, ovvero Indicazione Geografica Protetta (identificata dal bollino giallo-blu) vengono indicati i prodotti le cui caratteristiche dipendono dall’area geografica di origine, tuttavia, è sufficiente che una sola delle fasi di produzione, trasformazione ed elaborazione si svolgano nell’area geografica di riferimento. 

Vi sono ulteriori riconoscimenti europei, come ad esempio il marchio STG, ovvero Specialità Tradizionale Garantita, che indica i prodotti ottenuti mediante una ricetta tipica o con metodo di produzione tradizionale, ma senza vincolo di appartenenza ad un determinato territorio. 

Inoltre, per quanto riguarda le denominazioni enologiche, si distinguono:  

  • la sigla IGT, ovvero Indicazione Geografica Tipica, che indica i vini le cui uve provengono per almeno l’85% da una determinata area non necessariamente ristretta;  
  • la sigla DOC, ovvero Denominazione di Origine Controllata, prevede requisiti più stringenti, sia in termini di produzione che di caratteristiche chimico-fisiche e sensoriali;  
  • infine, la sigla DOCG, ovvero Denominazione di Origine Controllata Garantita, indica i vini che, essendo stati per almeno 10 anni tra i DOC, acquistano maggiore prestigio e sono sottoposti ad un controllo accurato prima della messa in commercio, che si ripete anche nella fase di imbottigliamento, demandato ad un’apposita commissione. 
La tutela comunitaria

Come anticipato, ai prodotti con marchio DOP e IGP è riconosciuta ampia tutela dinnanzi a numerose condotte illecite, comprese nell’art. 13 del Reg. n. 1151/2012, come, ad esempio, l’utilizzo commerciale del marchio registrato per indicare prodotti diversi, la contraffazione del nome registrato, l’uso di indicazioni che possano trarre in inganno il consumatore sull’origine e le qualità di un prodotto ed ancora le condotte di evocazione che inducono in errore il consumatore sulle caratteristiche del prodotto. 

A tale specifico riguardo, la Corte di Giustizia, con la sentenza del 9 settembre 2021, causa C-783/19 (caso Champanillo), ha chiarito l’ambito di applicazione dell’art. 103 del Reg. UE n. 1308/2013 e riconosciuto la protezione dei prodotti a marchio DOP e IGP di fronte a comportamenti che possono creare nella mente del consumatore medio un nesso fuorviante tra la denominazione contestata e il marchio registrato. 

Nella sentenza richiamata la Corte aveva affrontato il caso della catena spagnola di tapas bar denominata “Champanillo”, contrapposta al Comité Interprofessionnel du Vin de Champagne che chiedeva di vietare l’utilizzo del termine “Champanillo” in quanto costituiva una chiara violazione della DOP “Champagne”. 

La Corte ha accolto le richieste del Comité sul presupposto che il Reg. n. 1308/2013 tutela i prodotti a marchio DOP da tutte le pratiche che sfruttano la notorietà associata ad essi, sia con riferimento ad altri prodotti che ai servizi. 

In particolare, è stata precisata la nozione di evocazione, da intendersi come l’utilizzo indebito in ambito commerciale di un segno che incorpori anche in maniera parziale il marchio DOP, sia che si tratti di un’affinità fonetica o visiva della Denominazione di Origine Protetta o, altresì, di una vicinanza concettuale con la stessa. 

In altre parole, per connotare la condotta come illecita non occorre che si tratti di prodotti identici o simili a quello protetto, ma è necessario che sussista un nesso diretto ed univoco tra il termine e/o segno utilizzato per commercializzare il prodotto o il servizio e la DOP o IGP, tale da ingenerare confusione nel consumatore.  

La normativa italiana

In ambito nazionale, le disposizioni comunitarie in materia di DOP e IGP sono disciplinate dal D. Lvo n. 297/2004, che, in caso di violazioni, prevede sanzioni amministrative pecuniarie, nonché la sanzione dell’inibizione all’utilizzo della denominazione protetta. 

Nel codice penale, invece, è prevista la fattispecie specifica di cui all’art. 517 quater c.p., rubricata “Contraffazione di indicazioni geografiche o denominazioni di origine dei prodotti alimentari” che punisce la contraffazione, ovvero sia la falsificazione del marchio DOP e IGP, sia in caso di violazione del disciplinare di produzione di un determinato prodotto agroalimentare, con la reclusione fino a 2 anni e la multa fino a 20 mila euro, nonché l’introduzione nel territorio dello Stato, la detenzione per la vendita e la vendita o comunque la messa in circolazione dei medesimi prodotti contraffatti. 

Inoltre, è prevista la distinta ipotesi di cui al precedente art. 517 c.p., che punisce la vendita di prodotti industriali mendaci, ovvero con nomi, marchi o segni distintivi nazionali o esteri atti a indurre in inganno il compratore sull’origine, provenienza o qualità dell’opera o del prodotto. 

Infine, sono previste due ulteriori fattispecie disciplinate rispettivamente negli artt. 473 e 474 c.p. che puniscono la contraffazione, l’alterazione o l’utilizzo di marchi o segni distintivi con la reclusione da 6 mesi a 3 anni e la multa fino a 25 mila euro, nonché l’introduzione nello Stato e il commercio di prodotti con segni falsi, con la reclusione da 1 a 4 anni e con la multa fino a 35 mila euro.   

 

Avv. Claudia Piroddu

 

 

La disciplina in materia di stupefacenti è contenuta nel D.P.R. n. 309/90, che nell’art. 73, co. 1, punisce chiunque “coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope”, tra quelle compiutamente elencate in un’apposita tabella.     

Come si evidenzia dalla mera lettura della norma, ciò che consente di attribuire rilevanza penale alle molteplici condotte elencate riguarda proprio la necessaria individuazione della tipologia di sostanza, oggetto materiale dell’attività posta in essere. 

Tra l’altro, ai fini della sussistenza del reato e dello stesso giudizio penale, ad assumere rilievo non è soltanto, come detto, la classificazione della sostanza, ma altresì anche la quantità della stessa, quale elemento decisivo per stabilire la maggiore o minore “gravità” della condotta contestata.  

Ne consegue che, qualora nel corso dell’attività di indagine, pur a fronte dello svolgimento di attività di intercettazione telefonica o ambientale, la sostanza stupefacente oggetto della presunta attività di cessione e/o traffico illecito non venga rinvenuta da parte degli inquirenti, risulta particolarmente difficile l’accertamento della responsabilità penale in capo all’autore delle predette condotte.   

Per descrivere tutti i casi in cui gli indizi a carico del soggetto consistono nelle sole conversazioni intercettate –peraltro, sovente caratterizzate dall’utilizzo di linguaggio criptico, dalle quali può solo ipotizzarsi il coinvolgimento in una delle attività menzionate nel Testo Unico in materia di stupefacenti- senza che, tuttavia, venga sequestrata alcuna sostanza stupefacente, viene comunemente utilizzata l’espressione “droga parlata”.Avv. Claudia Piroddu, Penalista

Si tratta, quindi, di fattispecie in cui, pur in presenza di numerose conversazioni intercettate, non vi siano in concreto riscontri con riferimento al sequestro dello stupefacente, all’identificazione degli acquirenti finali, alle eventuali testimonianze, ai luoghi in cui viene detenuta la sostanza, ai trasporti della stessa, nonché in merito alle somme oggetto di transazione (si veda Cass. pen., sent. n. 11655/2015). 

Sotto il profilo probatorio, tali ipotesi sono accomunate dalla medesima problematica, ovvero: è possibile giungere all’affermazione della penale responsabilità per il reato di cessione di stupefacenti solo sulla base delle mere intercettazioni telefoniche, in cui, per giunta, non si fa nemmeno un chiaro riferimento alla compravendita dello stupefacente? 

In ottica difensiva, la problematica non è certo di poco conto, anche alla luce del fatto che nei processi di cd. “droga parlata”, il linguaggio utilizzato nelle conversazioni oggetto di captazione è spesso poco chiaro, ambiguo e difficilmente decifrabile, al punto tale da lasciare notevole spazio per una ricostruzione alternativa delle vicende oggetto di imputazione.    

Invero, spesso gli interlocutori non menzionano mai lo stupefacente, ma utilizzano altre espressioni (ad esempio, si parla di “formaggio”, “torte”, “olio”, “fiori”, “piastrelle” etc.), così pure non vi è una chiara indicazione dei quantitativi ceduti o acquistati e, talvolta, nemmeno del prezzo. 

Pertanto, al fine di dirimere la questione, si è delineato un orientamento giurisprudenziale piuttosto rigoroso in tema di valutazione della prova, laddove non è ammessa alcuna motivazione del dato probatorio che risulti “sbrigativa” (si veda Cass. pen., sent. n. 38341/2020), poiché la valutazione delle dichiarazioni emerse nel corso dell’attività di intercettazione deve connotarsi da un “rigore logico-argomentativo assoluto, assistito da un alto grado di credibilità razionale” (si veda Cass. pen., sent. n. 15616/2021).  

Le soluzioni prospettate

Con la recente sentenza n. 32426 del 2022, la Corte di Cassazione ha affrontato proprio il caso di un soggetto che ha intrattenuto per un certo periodo di tempo diversi colloqui telefonici, volti alla consegna di beni -mai espressamente indicati, sia nella tipologia, che nel quantitativo- con altro soggetto affiliato ad un’organizzazione dedita al traffico internazionale di eroina. 

In base a quanto detto finora, non vi è alcun dubbio che tale fattispecie, laddove l’attività di indagine non è culminata con il sequestro dello stupefacente asseritamente oggetto di compravendita, rientra appieno nell’ambito della cd. “droga parlata”. 

Nel caso di specie, sia il giudice di primo grado che la Corte di Appello sono giunti all’affermazione della penale responsabilità dell’imputato a titolo di concorso nella cessione di diversi e imprecisati quantitativi di eroina e altro stupefacente. 

Nel confermare la sentenza impugnata, la Corte di Cassazione ha dato risalto a due elementi, ovvero: 

  1. il tenore volutamente criptico delle conversazioni captate, nella misura in cui, qualora si trattasse di una normale compravendita di merce lecita, non vi sarebbe alcun motivo per utilizzare un linguaggio ambiguo;
  2. i rapporti personali tra l’imputato e l’interlocutore, quale soggetto appartenente ad un’associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacente, peraltro, già giudicato per altri reati sempre in materia di stupefacenti.

Prendendo le mosse dal caso concretamente analizzato, giova sottolineare che per poter ritenere un soggetto responsabile di un reato è necessario che le prove raccolte nel giudizio consentano di dimostrare, al di là del ragionevole dubbio, la partecipazione del medesimo al traffico dello stupefacente.  

In altri termini, sotto il profilo logico, è necessario che gli elementi indiziari complessivamente valutati, nel rispetto dei criteri indicati nell’art. 192 c.p.p. (gravità, precisione e concordanza), conducano ad escludere qualsiasi lettura alternativa e altrettanto credibile dei fatti oggetto di contestazione, rispetto all’ipotesi formulata dalla pubblica accusa (si veda, Cass. pen., sent. n. 50905/2011).Avv. Claudia Piroddu, Penalista

A tale specifico riguardo e a seconda del caso di volta in volta prospettato, possono essere diversi gli elementi che consentono, anche in assenza di ulteriori riscontri, ma sulla base delle mere intercettazioni telefoniche, di ritenere che un soggetto abbia posto in essere attività di traffico illegale di stupefacenti.  

In tema di “droga parlata”, infatti, occorre valutare nel complesso il tenore dei dialoghi, specie nel caso in cui, tenuto conto del contesto ambientale e dei rapporti tra gli interlocutori, l’espressione criptica non abbia alcun senso logico nel contesto espressivo in cui viene utilizzata, tale cioè da far ritenere che il termine in uso venga in realtà adoperato per indicare dell’altro. 

Particolare risalto viene, inoltre, riconosciuto alle modalità della compravendita (prezzo, valore della merce, quantitativo, suddivisione del “carico”) del trasporto, nonché della cura adoperata per eludere eventuali controlli da parte delle forze dell’ordine (si veda, Cass. pen., sent. n. 50995/2013).     

In conclusione, ogni qual volta all’esito delle indagini e, nella specie tenuto conto del tenore delle conversazioni intercettate, persista l’incertezza sulla tipologia, sulla quantità e qualità della sostanza o, più genericamente, della “merce” oggetto di scambio, in mancanza di una motivazione adeguata e rigorosa da parte del giudice, non sarà possibile giungere ad una sentenza di condanna (si veda, Cass. pen., sent. n. 11655/2016).  

Avv. Claudia Piroddu

 

 

La cd. “Plastic tax” o tassa sulla plastica monouso è stata introdotta con la Legge di bilancio 2020, commi 634-658, e consiste in un’imposta, già applicata in altri Stati europei, sul consumo dei manufatti in plastica con singolo impiego, denominati con l’acronimo “MACSI”, da attuarsi in seguito all’emanazione delle disposizioni attuative da parte dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli. 

Nel corso degli anni, l’entrata in vigore della plastic tax –originariamente prevista per il mese di luglio 2020- ha subito diverse proroghe e, in ultimo, la Legge di bilancio 2023 ha disposto l’ulteriore rinvio al 1 gennaio 2024.  

L’imposta ha una duplice finalità che consiste, da un lato, nel recuperare gettito erariale e dall’altro lato, nel promuovere la riduzione della produzione e del consumo di plastica non riciclabile, nonché del conseguente impatto ambientale.  

Infatti, prima ancora di individuare i prodotti e i soggetti ai quali risulta applicabile l’imposta, giova sottolineare che l’introduzione di costi aggiuntivi sui beni contenenti materiale plastico non possa non avere impatto anche sul consumatore e, pertanto, sul prezzo finale del prodotto. 

Sebbene il meccanismo della tassazione che colpisce la produzione abbia la finalità di incentivare un cambiamento dei materiali utilizzati ad es. nel packaging o in generale negli imballaggi, d’altra parte questo non basta, poiché risulta necessario introdurre anche misure volte ad indirizzare i processi di produzione verso materiali riciclabili. 

Ad ogni modo, con l’introduzione del tributo viene data attuazione alla Direttiva europea del 5 giugno 2019 n. 2019/904/UE che sancisce il divieto di utilizzo di manufatti in plastica (come ad es. posate, piatti, cannucce etc.) e, al contempo, obbliga gli Stati membri ad adottare misure finalizzate a ridurre il consumo di alcuni prodotti in plastica monouso per i quali non esiste alternativa, nonché a monitorare il consumo di tali prodotti e le misure adottate.   

Fatta questa doverosa premessa, occorre chiarire quali siano i prodotti a cui può essere applicata l’imposta di nuova formulazione.  

Al fine di delimitare l’ambito di applicazione della Plastic tax, l’art. 1, comma 634 della Legge di bilancio 2020, innanzi tutto, individua e racchiude i prodotti per i quali è previsto il pagamento dell’imposta nell’acronimo “MACSI”.Avv. Claudia Piroddu, Penalista

In particolare, si parla di manufatti con singolo impiego che hanno o sono destinati ad avere funzione di contenimento, protezione, manipolazione o consegna di merci o prodotti alimentari, purché gli stessi: 

  1. siano realizzati, anche in forma di fogli, pellicole o strisce, con l’impiego, anche parziale, di materie plastiche costituite da polimeri organici di origine sintetica;
  2. non siano ideati, progettati o immessi sul mercato per compiere più trasferimenti durante il loro ciclo di vita o per essere riutilizzati per lo stesso scopo per il quale sono stati ideati.

Rientrano nella nozione in esame anche i dispositivi realizzati, anche solo in parte, con materie plastiche che consentono la chiusura, la commercializzazione o la presentazione dei medesimi MACSI o di manufatti costituiti con materie diverse dalla plastica, nonché i prodotti semilavorati e le cd. preforme, ovvero i prodotti ottenuti dallo stampaggio di PET destinati ad essere utilizzati come contenitori di bevande o bottiglie. 

Sono esclusi dall’applicazione dell’imposta i MACSI compostabili, i dispositivi medici e i MACSI adibiti a contenere e proteggere preparati medicinali. 

Non si può far a meno di notare che si tratti di una definizione in grado di ricomprendere nell’ambito della tassazione un’ampia tipologia di beni, ossia tanto quelli realizzati con un vero e proprio impiego di materie plastiche, quanto quelli realizzati dalla commistione di materiale plastico e materiale di altra natura, come tale non imponibile. 

Pertanto, stante l’oggettiva difficoltà di fornire una nozione univoca, al fine di individuare con certezza i prodotti destinatari dell’imposta, nell’art. 1, co. 651, della disposizione sopra richiamata, viene stabilito che sia l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli a dover procedere alla concreta identificazione dei MACSI mediante l’indicazione per ciascuna merce dei corrispondenti codici della nomenclatura combinata. 

L’imposta e le sanzioni

La Plastic tax è fissata al valore di 0,45 euro per ogni chilogrammo venduto di prodotti di plastica monouso o MACSI, tuttavia, è prevista, altresì, una soglia di esenzione dell’imposta, che, pertanto, non sarà applicabile qualora l’importo dovuto sia inferiore o pari a 25 euro, e ciò è frutto di un parziale correttivo alla normativa originaria in cui veniva indicata una soglia inferiore. 

L’obbligazione tributaria sorge al momento della produzione, dell’importazione definitiva nel territorio nazionale, ovvero dell’introduzione dei predetti beni nel medesimo territorio da altri Paesi UE e diviene esigibile all’atto di immissione in consumo dei MACSI nel territorio italiano. 

È bene precisare che l’immissione in consumo dei MACSI si verifica all’atto della loro cessione, sia con riferimento alle merci prodotte in Italia e sia a quelle provenienti da Paesi europei o Stati terzi e ciò tanto nel caso in cui l’acquisto sia effettuato nell’esercizio di attività economica, quanto da parte del consumatore privato.  

Il pagamento dell’imposta è previsto a carico del fabbricante (per i MACSI realizzati nel territorio nazionale), dell’acquirente nell’esercizio di attività economica o del cedente qualora i prodotti siano acquistati dal consumatore privato (per i MACSI provenienti da Paesi UE), dell’importatore (per i MACSI provenienti da Paesi terzi), nonché dei committenti italiani o esteri che cedono i prodotti ad altri soggetti nazionali.Avv. Claudia Piroddu, Penalista

L’accertamento dell’imposta dovuta viene effettuato sulla base di dichiarazioni trimestrali contenenti tutti gli elementi necessari per determinare il debito d’imposta, presentate dai soggetti obbligati all’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, entro la fine del mese successivo al trimestre cui la dichiarazione di riferisce.      

È, dunque, la stessa Agenzia delle Dogane e dei Monopoli ad essere tenuta a svolgere attività di accertamento, verifica e controllo dell’imposta, con facoltà di accedere presso di impianti di produzione, nonché la Guardia di Finanza, alla quale è demandato il consueto compito di verificare la regolarità delle dichiarazioni e dei pagamenti effettuati. 

Quanto alle sanzioni applicabili, la norma distingue alcune ipotesi, ovvero: 

  1. in caso di mancato pagamento è prevista una sanzione amministrativa pari al quintuplo della tassa evasa e in misura comunque non inferiore a 250 euro;
  2. in caso di ritardato pagamento è prevista una sanzione amministrativa corrispondente al 25% dell’imposta dovuta, per un importo non inferiore a 150 euro;
  3. in caso di tardiva presentazione della dichiarazione trimestrale è prevista una sanzione da 250 a 2.500 euro.

Da ultimo, giova precisare che la norma introduce anche un sistema di incentivi per le imprese. 

Nella specie, è previsto un credito di imposta per le imprese, attive nel settore delle materie plastiche, che abbiano proceduto all’adeguamento tecnologico della produzione di manufatti biodegradabili e compostabili, secondo gli standard prefissati. 

Si tratta di un credito di imposta, utilizzabile in compensazione, previsto nella misura del 10% delle spese sostenute per l’adeguamento, fino ad un importo massimo di 20 mila euro per ciascun beneficiario, che dovrà essere indicato nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo di imposta nel corso del quale interviene il provvedimento di concessione e in quelle relative ai periodi di imposta successivi fino a quando se ne conclude l’utilizzo.

Avv. Claudia Piroddu

 

Il termine “sharenting” è il frutto dell’unione delle parole “to share” (condividere) e “parenting” (genitorialità) e con esso si fa riferimento al fenomeno, sempre più diffuso, della condivisione sui social di immagini e video che ritraggono minori.

Difatti, oramai è consuetudine che genitori e parenti condividano sui vari social contenuti raffiguranti soggetti minorenni, anche in tenerissima età, e che di conseguenza quest’ultimi già a pochi mesi dalla nascita abbiano una vera e propria identità digitale.

Tutto ciò non poteva e non può che essere oggetto di attento studio e analisi da parte dell’antropologia e della pedagogia, nonché del diritto.

Un recente studio condotto dall’università dell’Indiana ha appurato che il 92% dei bambini e delle bambine che vivono in America già all’età di 2 anni si ritrovano (ovviamente a loro insaputa) ad avere un’identità digitale creata da terzi (solitamente genitori e parenti).Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

Stante la relativa novità del tema – in questi ultimi anni in continua crescita esponenziale – gli studiosi delle scienze umanistiche non hanno ancora certezze in ordine alla natura, entità e gravità delle possibili ripercussioni che tale fenomeno possa avere sullo sviluppo e sulla crescita dei minori. Tuttavia, tutti sono concordi nel ritenere che il ritrovarsi con una vita “già raccontata” (per giunta da altri, senza esserne coscienti e senza possedere ancora un vero senso del proprio io) è determinante nello sviluppo della personalità e della psiche del soggetto, il quale dovrebbe avere la possibilità/diritto di iniziare a formarsi e farsi conoscere all’esterno in modo autonomo sin dalla nascita fino ad arrivare all’adolescenza e poi all’età della maturità.

Ancora, si ritiene che – benché ogni caso sia unico e specifico – le conseguenze negative che subirà il bambino saranno tanto maggiori quanto più i contenuti e le immagini, date letteralmente in pasto al mondo sconfinato di internet, saranno percepiti da questo come distanti dalla reale percezione che questi ha di sé.Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

In buona sostanza, il soggetto potrebbe dover convivere suo malgrado con una “propria” identità creata da altri per lui su internet ed un’altra diversa (quella vera di tutti giorni) che lui vive e sente come propria; il tutto con le conseguenze che ben si possono immaginare dal punto di vista psicologico e di formazione della personalità.

Il caso affrontato dal Tribunale di Rieti con la sentenza n. 443 del 17 ottobre 2022

In generale quando si affronta il fenomeno della sovraesposizione è bene rammentare che le questioni giuridiche che vengono sollevate sono diverse e trasversali, spaziando dalla violazione della privacy e della riservatezza dei dati personali, alla tutela dell’immagine del bambino/a, al rischio di creazione di contenuti idonei alla proliferazione di ambienti pedopornografici, alla problematica dello sfruttamento del lavoro minorile, ecc.

Le leggi nazionali e sovranazionali tutelano il diritto del minore alla propria immagine e identità, pretendendo che la pubblicazione di foto e video dei minori di 14 anni possa avvenire solo con il consenso di entrambi i genitori, poiché l’attività di diffusione dell’immagine non è ritenuta un atto di ordinaria amministrazione (che può essere quindi compiuto senza confrontarsi con l’altro genitore) ma al contrario necessita del comune accordo.

Per quanto concerne la diffusione di immagini di persone maggiori di 14 anni è necessario il loro consenso. Tant’è che il tribunale di Chieti (sentenza n. 403/2020) ha formalmente diffidato una coppia di genitori che pubblicavano sui social foto del figlio senza il suo consenso.

Ma cosa accade se a diffondere le immagini di un minore è un parente diverso dai genitori?

Nel caso sottoposto all’attenzione del tribunale di Rieti a divulgare fotografie e video su facebook di due bambini era stata la zia.

Nello specifico, il padre di due gemelli aveva citato in giudizio la cognata perché questa aveva pubblicato svariate immagini dei figli senza il suo consenso e nonostante le sue richieste di non diffondere più alcun contenuto che ritraeva la sua famiglia.

Difatti, la donna aveva pubblicato un video e ben 52 fotografie dei nipoti, oltre a 7 fotografie del cognato. In quest’ultimo caso le foto erano state pubblicate sia dalla donna che da un suo amico, con tanto di tag che permetteva di risalire all’identità dei soggetti ritratti.Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

Dopo le lamentele dell’uomo, la donna aveva rimosso le di lui fotografie e il tag ma aveva continuato a pubblicare quelle dei nipoti.

In particolare, secondo il giudicante la condotta posta in essere dalla zia dei gemelli era ancor più grave perché questa aveva diffuso immagini dei minori da soli, in primo piano e in costume da bagno; il tutto per di più con un profilo impostato in modalità pubblica.

Quest’ultima circostanza – che rendeva i contenuti visibili a tutti – in aggiunta alla durata dell’esposizione (fotografie caricate online da circa 5 anni) sono state ritenute dai giudici particolarmente gravi, convincendo gli stessi a condannare la signora ad un risarcimento pari a 5mila euro in favore del padre dei bambini.

La normativa di riferimento posta alla base della decisione de qua è il diritto costituzionalmente garantito all’immagine e alla riservatezza della persona (art. 2 Cost.), che nel caso dei bambini gode di una tutela privilegiata (L. 176/1991 ratifica Convenzione di New York sui diritti del fanciullo), l’articolo 10 del codice civile ed infine il Regolamento Europeo sulla Privacy, il quale dispone che: <<I minori meritano una specifica protezione relativamente ai loro dati personali, in quanto possono essere meno consapevoli dei rischi, delle conseguenze e delle misure di salvaguardia interessate nonché dei loro diritti in relazione al trattamento dei dati personali (…)>>.

Avv. Francesco Sanna

L’art. 600-ter, primo comma, n. 1, c.p., rubricato “Pornografia minorile”, punisce, con la reclusione da 6 a 12 anni, “Chiunque, utilizzando minori di anni diciotto, realizza esibizioni o spettacoli pornografici ovvero produce materiale pornografico”. 

Dalla semplice lettura della norma, si comprende immediatamente l’illiceità della condotta di chi utilizzi il minore che non abbia compiuto i 14 anni di età o qualora sussista una condizione di costrizione del minore, ovvero di violenza, minaccia o, più in generale, di abuso. 

In tali casi, infatti, non può esservi alcun dubbio in ordine alla rilevanza penale della realizzazione di immagini o video che abbiano ad oggetto la vita privata sessuale del minore, in quanto, da un lato, si esclude che l’infraquattordicenne abbia raggiunto l’età per esprimere validamente il consenso sessuale e, dall’altro lato, poiché la costrizione implica di per sé l’offesa all’integrità psicofisica del minore. 

Tuttavia, cosa accade nel caso in cui vengano realizzate delle fotografie o registrazioni video con il consenso del minore ultraquattordicenne e nel contesto di una relazione sentimentale con una persona maggiorenne?  

In questa ipotesi, infatti, non tutte le condotte assumono rilievo penale, specie laddove le stesse siano il frutto di una libera scelta e sempre che il materiale prodotto sia destinato ad un uso strettamente privato. 

Per capire la distinzione tra ciò che integra il reato e ciò che, invece, si colloca al di fuori della sfera penale, occorre partire dal concetto di utilizzazione, che costituisce l’elemento fondante e necessario per la configurabilità della fattispecie criminosa. 

Sul punto sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che, con la sentenza del 9 febbraio 2022, n. 4616, hanno individuato gli elementi costitutivi del reato in esame. 

L’utilizzazione del minore e il consenso 

In tema di produzione di materiale pornografico assume rilievo centrale il concetto di utilizzazione del minore, il quale, innanzitutto, consente di escludere la rilevanza penale del materiale autoprodotto dal minore medesimo. 

Il concetto di utilizzazione, infatti, implica la strumentalizzazione del minore, che diventa un semplice “mezzo” per soddisfare il desiderio sessuale dell’adulto o, in senso più ampio, una qualsiasi utilità. 

Ne consegue che qualora risulti provata l’utilizzazione del minore, quand’anche vi fosse il consenso del medesimo, lo stesso non può comunque escludere la rilevanza penale della condotta, poiché il consenso deve considerarsi libero e non il risultato della condotta di abuso perpetrata dall’adulto. 

All’evidenza, quindi, diventa fondamentale individuare una serie di elementi indicatori di una condizione di utilizzazione del minore. 

A tal fine, le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno enucleato alcuni elementi in grado di viziare il consenso, ovvero: 

  • la posizione di supremazia rivestita dal soggetto agente nei confronti del minore e la conseguente abusività della condotta realizzata; 
  • la dazione o la promessa di denaro in cambio della produzione del materiale pornografico e il conseguente abuso della condizione di svantaggio economico assunta dal minore; 
  • la sussistenza di condotte di violenza, minaccia (anche indiretta e insidiosa) inganno o abuso di autorità, quali modalità per ottenere la produzione del materiale pornografico; 
  • il fine commerciale perseguito; 
  • l’età del minore coinvolto, ossia se risulti inferiore a quella prevista per la valida formulazione del consenso sessuale, nonché il grado di maturità psicofisica raggiunto. 

Ebbene, il requisito comune a tutte le ipotesi poc’anzi elencate si riscontra nella determinazione di una forma di condizionamento del minore o comunque nella formazione di dinamiche che vedono l’autore della condotta in una posizione di primazia rispetto al minore, il quale, proprio in conseguenza della condotta perpetrata dall’adulto o, più in generale, trovandosi in una delle situazioni rammentate, non è in grado di esprimere validamente il consenso e diventa un mero strumento  assoggettato al volere dell’agente.Avv. Claudia Piroddu, Penalista

Dunque, fatte queste doverose precisazioni, anche nel caso in cui il minore ultraquattordicenne e l’adulto siano legati da una relazione sentimentale e vi sia il consenso, la rilevanza penale della condotta di produzione di materiale pornografico non è necessariamente esclusa. 

In questa ipotesi occorre vagliare con maggiore rigore la presenza degli indicatori enunciati poco sopra, al fine di accertare se il consenso possa dirsi prestato validamente e liberamente oppure se risulti il frutto di condizionamenti o pressioni psicologiche più o meno insidiose. 

Peraltro, giova precisare che il consenso espresso al compimento dell’atto sessuale non implica in via automatica anche quello all’effettuazione di riprese o fotografie dal contenuto pornografico. 

Invero, affinché il consenso possa dirsi valido è necessario che si estenda anche in relazione all’ulteriore attività di registrazione dell’atto sessuale, nonché alla conservazione delle immagini così ottenute. 

Avendo, invece, riguardo alla successiva diffusione online del materiale attinente alla sfera sessuale del minore –anche mediante l’invio a terze persone su chat Whatsapp o Telegram-, considerato che il minore non possa mai acconsentire validamente alla messa in circolazione del materiale pornografico prodotto, in quanto egli non ha certamente raggiunto il grado di maturità tale da consentirgli di esprimere una scelta consapevole e ponderata,  la condotta di diffusione del materiale pedopornografico rientra indubbiamente nell’ambito dell’art. 600-ter c.p.

Tuttavia, la responsabilità del soggetto agente viene meno in caso di eventi imprevedibili e comunque a lui non imputabili, ovvero se egli dimostri di aver adottato tutte le cautele necessarie ed evitare la messa in circolazione del materiale.  


Claudia Piroddu, Avvocato

 

Reddito di libertà: una misura a sostegno delle donne vittime di violenza

La Convenzione di Istanbul (maggio 2011), all’interno della definizione di violenza domestica, insieme alle più conosciute forme di violenza fisica, sessuale e psicologica, inserisce la violenza economica.  

L’indipendenza economica, infatti, è un aspetto rilevante, anche se spesso poco evidenziato, delle situazioni di subalternità in ambito relazionale e domestico. 

Nel contesto socio culturale italiano e non solo, le donne molto spesso hanno difficoltà ad individuare la violenza economica come un abuso perché culturalmente è considerato normale che una donna non lavori.Claudio Casti, Operatore Patronato Inac Cagliari

La marcata differenza nella gestione del denaro all’interno del nucleo familiare spesso va di pari passo con la separazione dei ruoli all’interno dello stesso. Questa separazione a sua volta alimenta un circolo vizioso che rafforza la posizione di subalternità: dalle statistiche redatte grazie ai dati raccolti nei Centri antiviolenza, una donna su tre subisce violenza economica (dati aggiornati al 2021), ma i numeri reali potrebbero essere ben più alti.  

Il fenomeno non è ben conosciuto e le donne spesso si rivolgono a un centro antiviolenza solo quando la forma di violenza che subiscono si fa più eclatante.  

Lo sportello Mia Economia di Fondazione Pangea ha stilato un identikit delle vittime di violenza economica. Gli abusi si verificano a tutti i livelli socio-economici, sono vissuti da donne di ogni classe e livello di reddito e riguardano principalmente la fascia d’età tra i 40 e i 60 anni. 

Lo stato emergenziale del 2020 e il conseguente periodo di lockdown hanno portato maggiormente all’attenzione pubblica i casi limite di violenza di genere all’interno del contesto familiare, mettendo anche in luce situazioni di prevaricazione psicologica ed economica. 

Le motivazioni che possono spingere a non abbandonare il nucleo familiare e a sopportare i soprusi di un compagno violento sono spesso riconducibili al fatto che lo stesso è l’unico percettore di reddito della famiglia.Claudio Casti, Operatore Patronato Inac Cagliari

In questo contesto trova finalmente applicazione il D.P.C.M. del 17 dicembre 2020, ex art. 105 – bis del decreto Rilancio 34/2020, che introduce il cosiddetto Reddito di Libertà (Rdl) per le donne vittime di violenza, per cui viene stanziato un fondo di 9 milioni di euro. Ulteriori somme integrative possono essere stanziate dalle singole Regioni/Province autonome ad integrazione di quanto spettante, come indicato dal messaggio INPS 1053 del 7 marzo 2022. 

Partendo dal presupposto che un primo passo verso l’uscita dalla posizione di subalternità parte dal raggiungimento dell’indipendenza economica, il Reddito di Libertà è volto proprio ad agevolare un percorso di emancipazione delle donne vittime di violenza e in condizione di povertà nonché il sostegno per l’istruzione e la formazione dei figli minori, e opera parallelamente al percorso di emancipazione e autonomia intrapreso presso il Centro antiviolenza.  

Emerge dalle statistiche dei Centri antiviolenza che una donna su tre che vi si presenta, lo fa con i figli, fatto non marginale che evidenzia l’importanza del supporto offerto dalla misura Rdl.  

Il contributo economico viene erogato dalle Regioni per tramite dei Comuni, su domanda presso l’Ufficio dei Servizi Sociali e consiste in 400 euro mensili non imponibili, spettanti per un massimo di 12 mensilità.Claudio Casti, Operatore Patronato Inac Cagliari

Il contributo non è incompatibile con altre prestazioni a sostegno del reddito erogate dall’INPS o eventuale pensione di invalidità, e spetta alle donne cittadine italiane, cittadine della Comunità Europea, o extracomunitarie munite di regolare permesso di soggiorno. Rientrano inoltre tra le beneficiarie le cittadine straniere con status di rifugiate politiche o protezione sussidiaria. 

Alla domanda andrà allegata la dichiarazione del responsabile legale del Centro antiviolenza che ha preso in carico la vittima di violenza, e la dichiarazione dello stato di bisogno straordinario ed urgente, firmata dal responsabile del Servizio Sociale di riferimento. 

Claudio Casti, Operatore Patronato Inac Cagliari

Sono nato a Cagliari nel 1981, dopo gli studi in biologia, dal 2008 ho lavorato al Caf – Cia e al Patronato Inac nelle sedi di Cagliari, San Sperate e Sestu.
Dal 2014 sono operatore nella sede provinciale del Patronato Inac di Cagliari.
 

 

 

Focus di diritto civile  • Avv. Francesco Sanna

Matrimonio forzato e violenza di genere

La Corte di Cassazione ha stabilito, con l’ordinanza del 20 aprile 2022 n. 12647, che la violenza fisica e psichica esercitate contro una donna per costringerla a convolare a nozze configura una vera e propria fattispecie di violenza di genere. 

In generale, la violenza in parola rientra tra quelle oggetto di riconoscimento di protezione internazionale e così il matrimonio imposto con la coercizione fisica e psichica consumate nei confronti di una donna, costituisce violenza di genere. 

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

La violenza economica può integrare il reato di maltrattamenti?

Prima di esaminare i principali orientamenti giurisprudenziali in tema di maltrattamenti contro i familiari e conviventi, occorre premettere che la violenza domestica e di genere si manifesta attraverso molteplici modalità e, pertanto, non può essere circoscritta esclusivamente alle condotte di violenza fisica, ma vi rientrano anche quei comportamenti finalizzati ad esercitare un controllo sulla vittima, tanto sul piano psicologico, quanto sotto il profilo economico, attraverso la privazione dei mezzi di sussistenza. 

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Focus di diritto civile • Avv. Viola Zuddas

La violenza di genere ed i maltrattamenti economici

La violenza contro le donne rappresenta una violazione dei diritti umani che ha varie e preoccupanti sfaccettature poiché colpisce tantissimi e diversi aspetti della vita di chi la subisce. 

Come abbiamo avuto modo di analizzare nei precedenti articoli e focus sul tema, ci sono diverse forme di violenza: accanto a quella fisica, che si distingue per l’impiego di forza volta a sopraffare fisicamente una persona attraverso anche botte e percosse, c’è la violenza psicologica che si caratterizza per comportamenti o atteggiamenti idonei ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di un danno ingiusto, consistenti in minacce, insulti, umiliazioni, atti denigratori di vario tipo, ecc. 

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Il Fondo sociale Europeo Plus a tutela delle donne

Come rilevato dalla recente Proposta di direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’8 marzo 2022 sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza di genere “Per violenza contro le donne si intende una violenza di genere perpetrata nei confronti di una donna in quanto tale o che colpisce per antonomasia le donne”.

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L’articolo 9 della Costituzione, per ciò che qui interessa, prescrive che la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica e, altresì, tutela il paesaggio ed il patrimonio storico ed artistico della Nazione. 

Affinché lo Stato, gli enti territoriali e gli enti pubblici riescano nel loro compito, il Legislatore ha messo loro a disposizione una serie di norme che garantiscono la libera formazione della cultura in tutte le sue manifestazioni. 

Vi è, infatti, un complesso di prescrizioni che attribuiscono autonomia alle strutture che si dedicano alla crescita del patrimonio culturale in quanto espressione delle tradizioni, dei costumi, della civiltà dei popoli e, in sostanza, perché ne rappresentano la memoria storica. 

Tra queste strutture, ovviamente, non possono non menzionarsi i musei. 

Come si legge nel Decreto ministeriale MiBACT del 23 dicembre 2014 recante “Organizzazione e funzionamento dei musei statali”, i  musei sono istituzioni permanenti, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo. 

Essi, dunque, rivestono un ruolo fondamentale per la collettività poiché custodiscono il suo patrimonio culturale promuovendone la conoscenza presso il pubblico e la comunità scientifica, e ne condividono valori e peculiarità con il resto del mondo, consentendo di comprendere il tessuto socio – culturale di atri Paesi. 

Tutto questo è possibile anche grazie al fatto che i musei assicurano la pubblica fruizione delle opere che custodiscono, garantendo l’accessibilità e promuovendo l’inclusione. 

L’importanza dei musei è stata indirettamente e distopicamente riconosciuta anche da diverse associazioni ambientaliste che hanno deciso di eseguire delle azioni dimostrative di resistenza civile imbrattando delle famosissime opere d’arte per attirare l’attenzione sulla crisi climatica.Avv. Viola Zuddas, Civilista

In particolare, alcuni attivisti di Just Stop Oil e Letzte Generation hanno preso di mira opere come “I Girasoli” di Van Gogh, una delle versioni dei “Covoni” di Monet, “La Ragazza col turbante” (anche conosciuta come “Ragazza con l’orecchino di perla”) di Jan Vermeercon, con delle performance che hanno sollevato tantissime polemiche in quanto, almeno in apparenza, hanno messo in pericolo le opere stesse. 

In realtà tutti i quadri erano protetti da un vetro che fortunatamente ne ha preservato l’integrità. 

Ma cosa accade in Italia se un’opera d’arte viene danneggiata?

Il Legislatore italiano ha inteso riformare le disposizioni penali a tutela del patrimonio culturale, che si trovano oggi contenute prevalentemente nel Codice dei beni culturali (cioè, il d.lgs. n. 42 del 2004), inserendole nel codice penale per dotare l’ordinamento di una disciplina più razionale ed organica. 

A tal fine, il 3 marzo 2022 è stata approvata la L.22/2022 recante “Disposizioni in materia di reati contro il patrimonio culturale”, che si pone in continuità con la Convenzione europea di Nicosia, ratificata dall’Italia il 12 gennaio 2022. 

L’obiettivo dichiarato è, quindi, quello di tutelare, conformemente al disposto dell’articolo 9 della Costituzione, il patrimonio culturale, storico ed artistico mediante: 

  • la previsione di nuove fattispecie di reato per reprimere condotte criminose contro beni di rilevanza costituzionale, 
  • l’inasprimento delle sanzioni previste per i reati già tipizzati, attuando al contempo quindi anche la finalità deterrente e general preventiva dell’impianto normativo.Avv. Viola Zuddas, Civilista

Per ciò che qui è di interesse, è stato introdotto l’art. 518 duodecies c.p., rubricato “Distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o paesaggistici” che ai primi due commi prescrive: «Chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende in tutto o in parte inservibili o non fruibili beni culturali o paesaggistici propri o altrui è punito con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da euro 2.500 a euro 15.000. 

Chiunque, fuori dei casi di cui al primo comma, deturpa o imbratta beni culturali o paesaggistici propri o altrui, ovvero destina beni culturali a un uso incompatibile con il loro carattere storico o artistico ovvero pregiudizievole per la loro conservazione o integrità, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 1.500 a euro 10.000.» 

Nell’ultimo comma si precisa che la sospensione condizionale della pena è subordinata al ripristino dello stato dei luoghi o all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato ovvero alla prestazione di attività non retribuita a favore della collettività per un tempo determinato, comunque non superiore alla durata della pena sospesa, secondo le modalità indicate dal giudice nella sentenza di condanna. 

Si tratta di una norma molto più severa e ampia rispetto al dettato dell’art. 733 c.p., rubricato “Danneggiamento al patrimonio archeologico, storico o artistico nazionale”, che prescrive l’arresto fino a un anno o con l’ammenda non inferiore a euro 2.065 in caso di distruzione, deterioramento o danneggiamento di un monumento o un’altra cosa propria se l’autore è a conoscenza del rilevante pregio e se dal fatto deriva un nocumento al patrimonio archeologico, storico, o artistico nazionale. 

L’intento del Legislatore è, quindi, chiarissimo: l’inasprimento delle norme penali è necessario e funzionale ad attuare la tutela del patrimonio artistico e storico della Nazione che rappresenta uno dei principi fondamentali del nostro Paese, come prescritto dall’art. 9 Cost.Avv. Viola Zuddas, Civilista

D’altronde, quando si parla del patrimonio artistico e storico si fa riferimento a tutto quel complesso di beni pubblici e privati che testimoniano le origini e l’evolversi della civiltà italiana e che, dunque, sono legati alla nostra identità culturale. 

I musei, nello specifico, rivestono un ruolo fondamentale nella salvaguardia e diffusione della cultura e, pertanto, ormai ci si deve aspettare che vengano impiegati come strumento di protesta civile per veicolare la diffusione di messaggi particolarmente importanti, come quelli legati ai cambiamenti climatici: ciò che conta, però, è che il tutto avvenga nel pieno rispetto delle opere che vi sono custodite, di chi le ha create e di chi vuole usufruirne.

Viola Zuddas, Avvocato

 

 

Domotica e sicurezza nelle abitazioni 

La domotica è la disciplina che ha come fine quello di controllare, gestire e automatizzare tutti gli aspetti di una abitazione attraverso l’uso della tecnologia. 

Lo smartphone, il tablet e gli assistenti vocali diventano i mezzi e l’estensione di un controllo costante sempre a portata di mano. 

La sicurezza tramite video sorveglianza è un settore di grande rilevanza della domotica odierna che, grazie alla presenza di numerosi dispositivi sul mercato, permette di controllare e interagire con la propria abitazione grazie ad internet, 24 ore al giorno, ovunque ci si trovi nel mondo. 

Le telecamere disponibili all’acquisto hanno qualità visive ad altissima definizione e funzionano egregiamente tramite wireless. Filippo Camboni, Ingegnere

In esterno le telecamere lavorano in sinergia con sensori ad infrarosso per la visione notturna: potenti luci led si accendono quando i sensori di movimento rilevano qualcuno o qualcosa, registrando un evento in sviluppo davanti all’abitazione. 

All’interno hanno sistemi ad infrarosso migliorati e la capacità di seguire gli spostamenti e “vedere” cosa succede ad ampio raggio. 

Il video in sé può contenere svariate informazioni personali e/o riguardanti terze persone, chiamati “metadati”: ad esempio i volti sono identificati non solo passivamente ma, anche, con il riconoscimento dell’identità della persona; le targhe automobilistiche sono lette e non solo video-registrate; la traccia audio con informazioni sensibili è aggiunta al video grazie ai microfoni integrati nei dispositivi; infine, compaiono gli orari di un dato avvenimento.Filippo Camboni, Ingegnere

Ma cosa accade se nel monitorare un’area privata si registrano anche immagini riguardanti ambienti comuni aperti al pubblico?

È sicuramente interessante analizzare il caso in cui il monitoraggio di un’area privata comporti l’acquisizione di video e/o immagini di parti comuni di passaggio di uno stabile, come nel caso di un posto auto privato in un cortile comune, aperto al pubblico, dove può transitare chiunque. 

Anzitutto, deve chiarirsi che, nel caso in cui venga rilevato il passaggio di una persona viene immediatamente trasmessa una notifica all’utente che può effettuare un controllo istantaneo accedendo alle immagini ed ai video acquisiti: questi possono essere salvati sia in locale sul proprio smartphone, sia sul cloud. 

Il cloud è uno spazio apposito, digitale, gestito dalle grandi compagnie informatiche dove vengono immagazzinati tutti i dati e le informazioni che, quindi, sono conservati ed utilizzabili dall’utente in qualunque momento.Filippo Camboni, Ingegnere

Il tempo di archiviazione e la disponibilità di spazio sono pressoché infiniti finché si acquista spazio sul cloud 

Tuttavia, la gestione del materiale digitale è definita da chi effettua la registrazione e dalle normative in vigore, che verranno trattate negli articoli degli avvocati di ForJus. 

In parallelo, anche le misure di sicurezza digitale si sono evolute con il crescere della tecnologia dei dispositivi. 

I produttori delle telecamere forniscono all’utente un dominio dedicato, il cui accesso alla visione “live” e delle registrazioni è reso possibile tramite delle credenziali personali. 

Devono essere scelti dall’utente un “nome” e una “password”, preferibilmente robusti, ovvero complicati, e non banali. 

Inoltre, si aggiunge la verifica in due passaggi, cioè un ulteriore livello di sicurezza che prevede che, nonostante l’inserimento dei dati di autenticazione sia corretto, venga inviato un codice univoco al numero di cellulare per confermare l’accesso e completare la procedura.Filippo Camboni, Ingegnere

Altresì, le grandi aziende informatiche propongono delle sicurezze ulteriori, da sommarsi a quelle dei produttori dei dispositivi, con dei servizi “Secure Video” il cui utilizzo permette una crittografia end-to-end, in cui i dati ai due estremi server-utente sono criptati e, dunque, non si può accedere come intermediari malevoli intercettandone i contenuti. 

Oltre a quanto già detto, è sempre raccomandato scegliere anche le password del sistema wi-fi solide ed effettuare sempre gli aggiornamenti dei sistemi in modo da chiudere falle informatiche per rendere più difficile possibile attingere ai dati personali. 

Filippo Camboni, Ingegnere meccanico

Ho conseguito la laurea in Ingegneria Meccanica con una prova finale sullo studio e validità di nuove applicazioni biomediche sulle protesi d’anca. 
In seguito con una votazione di 110/110 e Lode ho concluso la Laurea Magistrale in ingegneria Meccanica con particolare riferimento alla parte Gestionale e alla Progettazione meccanica.  

In collaborazione con Sardegna Ricerche ho portato avanti un progetto di sviluppo sulla valorizzazione di prodotti tipici sardi, realizzando dei dispositivi robotici per la raccolta e mondatura automatizzata dello zafferano. 
Inoltre ho aiutato per diversi anni nella didattica universitaria collaborando nel corso di Meccanica applicata alle Macchine svolgendo lezioni e assistenza.
In aggiunta, seguendo la passione per lo sport, che ho praticato da sempre provando varie discipline, ho ottenuto la certificazione di istruttore fitness riconosciuta dal CONI.

Dopo aver maturato varie esperienze nel settore dell’informatica ho scelto di approfondire il settore delle nuove tecnologie, con particolare attenzione allo studio della domotica, specialmente
wireless, con dispostivi innovativi di facile installazione. 

Il proposito è quello di gestire e controllare il dispendio termico degli edifici, migliorare il consumo energetico e utilizzare recenti impianti sulla sicurezza delle abitazioni.

Da qui l’idea di creare Smart Haus, un riferimento chiaro sulle possibilità attuali della domotica wireless
Lo scopo è mostrare attraverso spiegazioni mirate e video illustrativi come funzionano i dispositivi domotici e i loro possibili utilizzi e automazioni. 

Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Francesco Sanna

Glossario sul GDPR

Il tema oggetto del focus di questo mese presenta vari punti di contatto con la disciplina riguardante il diritto alla privacy, nonché l’utilizzo, la conservazione e la sicurezza dei dati che vengono acquisiti per mezzo delle tecnologie oramai di utilizzo comune nei vari contesti sociali.
Ciò premesso, pare utile fornire un glossario sui termini utilizzati nel regolamento sulla protezione dei dati (GDPR) n. 2016/67, in materia di trattamento dei dati personali e di
privacy.

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

L’installazione di un sistema di videosorveglianza può costituire reato?

La Corte di Cassazione, in linea con le indicazioni fornite dal Garante della Privacy, si è pronunciata più volte e spesso in maniera contrastante sulle modalità di utilizzo degli impianti di videosorveglianza, al fine di contemperare, da un lato, le esigenze di tutela della persona e del patrimonio, e dall’altro lato di garantire la tutela della riservatezza, in armonia con i principi costituzionali.  

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Focus di diritto civile, condominio • Avv. Viola Zuddas

I sistemi di videosorveglianza in Condominio

L’installazione di un impianto di videosorveglianza in Condominio deve avvenire, anzitutto, nel rispetto delle prescrizioni previste dal Codice Civile, dal Codice Penale e dalle linee guida del Garante della Privacy che, con il Regolamento n.2016/679, ha disciplinato compiutamente la materia.
Difatti, è stato previsto un articolato sistema per tutelare la sicurezza delle persone e delle cose dei condomini che potrebbero subire un serio pregiudizio dal trattamento illecito dei dati personali raccolti nel caso in cui, come purtroppo talvolta accade, questi siano impiegati per scopi estranei alle esigenze condominiali. 

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Assistenti vocali invadenti: le linee guida UE

Come spiegato nel Focus del nostro collaboratore, la domotica è la disciplina che mira a migliorare la funzionalità delle nostre case grazie a un insieme di automazioni e tecnologie domestiche che consentono di gestire da remoto tutti gli apparecchi di un’abitazione tramite strumenti quali lo smartphone, il tablet e gli assistenti vocali. 

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Interessante pronuncia del Tribunale di Bolzano che, con sentenza del 30 giugno 2022, n. 381, in tema di guida in stato di ebbrezza e corretto funzionamento dell’etilometro, ha assolto l’imputato in quanto non può ritenersi provato al di là di ogni ragionevole dubbio il superamento della soglia di rilevanza penale dell’ebbrezza alcolica.  

Nel caso in oggetto, l’imputato è stato tratto a giudizio per rispondere del reato di cui all’art. 186 CdS, co. 2, lett. c), che prevede l’ammenda da euro 1.500 a euro 6.000 e l’arresto da sei mesi ad un anno, qualora sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro.  

La norma prevede, inoltre, la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da uno a due anni (che viene raddoppiata nel caso in cui il veicolo appartiene a persona estranea al reato), nonché la revoca della patente in caso di recidiva nel biennio. 

Nella fattispecie per cui è processo, l’imputato era rimasto coinvolto in un sinistro stradale ed, essendo risultato positivo all’accertamento preliminare (cd. pretest), veniva sottoposto ad accertamento etilometrico mediante apposita apparecchiatura,  previo avviso della facoltà di farsi assistere da un difensore. 

All’esito della prima prova veniva riscontrato un tasso alcolemico pari a 2,30 g/l, mentre all’esito della seconda prova risultava un valore pari a 2,13 g/l. 

Tanto premesso, nel corso del processo la difesa, a mezzo del proprio consulente tecnico, ha evidenziato una serie di difformità e vizi dell’apparecchiatura utilizzata, tali da ingenerare dubbi sull’affidabilità della misurazione, al punto da considerarsi determinante per assolvere l’imputato. 

Cosa si intende per etilometro non a norma? 

La normativa

La normativa di settore introduce diversi requisiti per lo più di natura tecnica, la cui sussistenza, però, risulta fondamentale ai fini del valore probatorio delle misurazioni del tasso alcolemico, sulle quali si fonda la contestazione della violazione. 

Vediamoli insieme. 

Innanzi tutto, l’art. 379 del D.P.R. n. 495 del 1992 prevede essenzialmente che:  

  1. gli etilometri devono rispondere ai requisiti stabiliti con disciplinare tecnico approvato con decreto del Ministro dei Trasporti di concerto con il Ministro della Sanità;
  2. essi sono soggetti alla preventiva omologazione da parte della Direzione Generale della T.C. che vi provvede sulla base delle verifiche e prove effettuate dal Centro Superiore Ricerche e Prove Autoveicolo, in modo tale da verificarne la rispondenza ai requisiti prescritti;
  3. i medesimi apparecchi, prima della loro concreta utilizzazione, devono essere sottoposti a verifiche e prove, da cui deriva la necessità della loro sottoposizione ad una visita preventiva che si risolve nella cd. taratura obbligatoria annuale, il cui esito positivo deve essere annotato sul libretto dell’etilometro, con la precisazione che, in caso di esito negativo, l’etilometro è ritirato dall’uso.

È previsto, inoltre, che ogni etilometro debba essere accompagnato dal libretto metrologico che contiene i dati identificativi dell’apparecchio (quali costruttore, matricola, omologazione etc.) e la registrazione delle operazioni di controllo. 

Deve aggiungersi che l’omologazione rilasciata dal Ministero dei Trasporti è valida solo a nome del richiedente e non è trasmissibile a soggetti diversi e che ogni etilometro deve riportare su una targhetta inamovibile, oltre agli estremi della omologazione eseguita e del numero di identificazione, anche l’indicazione del costruttore. 

La decisione

Come detto sopra, la difesa si è avvalsa di un consulente tecnico che ha evidenziato numerose criticità riguardanti sia l’omologazione dell’etilometro utilizzato per l’effettuazione delle misurazioni del tasso alcoli metrico dell’imputato e sia le verifiche e la manutenzione dello stesso, ovvero tutti elementi necessari per garantire il corretto funzionamento dell’apparecchio. 

In particolare, è emerso che il certificato di omologazione, chiesto e ottenuto nel 1999, risulta essere stato rilasciato ad un soggetto diverso da quello legittimato, ossia il costruttore, e ciò in contrasto con la normativa citata poc’anzi. 

Si legge, inoltre, nella sentenza in commento che la targhetta dell’etilometro “lungi dall’essere inamovibile così come prescritto dall’art. 4, co. 1, D.M. n. 196/90, oltre a riportare il nominativo di un soggetto diverso dall’intestatario del certificato di omologazione, risulta essere manomessa, come documentato dalle fotografie allegate alla relazione tecnica”. 

Ciò che più rileva è che l’apparecchio non risulta essere stato sottoposto alle verifiche periodiche richieste, tanto con riferimento alla verifica della giusta calibratura, quanto all’attività di manutenzione, che, per l’appunto, non è stata fatta, nonostante si tratti di un apparecchio vecchio. 

Altro aspetto di interesse riguarda l’effettuazione della misurazione e la procedura seguita dagli operanti. 

A tale riguardo, la difesa ha eccepito che non è stato effettuato il risciacquo della bocca dell’imputato prima di eseguire il test, nonostante la normativa preveda che non debba esserci alcun inquinamento della prova.  

Non solo, ma l’inattendibilità della misurazione parrebbe desumibile anche dalla temperatura ambientale sussistente al momento del controllo. 

Infatti, tenuto conto delle caratteristiche tecniche dell’apparecchio utilizzato, la temperatura registrata nel caso di specie è risultata pari a 3 gradi sotto zero, mentre la soglia di attendibilità dei risultati è 0 – 45 gradi. 

D’altro canto, pur a fronte di tali contestazioni e prospettazioni difensive, il Pubblico Ministero non ha fornito alcuna prova volta a confutare la sussistenza dei vizi e delle difformità indicate dalla difesa. 

Sul punto, è principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità che: “In tema di guida in stato di ebbrezza è configurabile a carico del pubblico ministero l’onere di fornire la prova dell’omologazione dell’etilometro e della sua sottoposizione alle verifiche periodiche previste dalla legge nei casi di contestazione da parte dell’imputato del buon funzionamento dell’apparecchio” (si veda Cass. pen., sent. n. 3201 del 12.12.2019). 

In definitiva, dinnanzi ai documentati elementi oggettivi che dimostrano il malfunzionamento dell’apparecchio e quindi l’inattendibilità della misurazione, sia la positività al cd. pretest (che si considera un accertamento necessario esclusivamente a rendere legittima la successiva verifica mediante etilometro) e sia i restanti elementi annotati nel verbale, ovvero l’asserito equilibrio precario e alito vinoso, non si considerano dati sufficienti per ritenere raggiunta la prova del superamento della soglia alcolemica prevista per Legge. 

Pertanto, il Tribunale ha concluso che in assenza del sicuro riscontro tecnico in ordine alla esatta percentuale di concentrazione di alcol contenuta nel sangue dell’imputato, il medesimo deve essere mandato assolto perché il fatto non sussiste. 

Claudia Piroddu, Avvocato

 

PNRR e sport: occasione di riqualificazione urbana

In seguito alla crisi globale derivata dalla pandemia da Covid-19, che ha travolto l’intero pianeta, la Commissione europea ha lavorato ad un piano di ripresa dedicato a tutti i paesi membri dell’Unione europea, volto a sanare i danni economici e sociali derivati dall’emergenza sanitaria. 

Con questi presupposti è nato lo strumento finanziario denominato NextGenerationEU, dedicato al finanziamento di interventi finalizzati allo sviluppo economico e alla crescita sostenibile dei paesi colpiti dalle difficoltà generate dal coronavirus. 

Il principale mezzo attuativo di questo pacchetto di finanziamenti europei è il RRF, Dispositivo per la ripresa e la resilienza, che ha consentito agli stati europei di presentare un proprio piano di investimenti, in linea con i principi del NGEU. 

L’Italia, uno dei paesi più colpiti dalla crisi economica, ha quindi progettato e dato vita al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), un piano che prevede sei missioni:  

  1. digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo, 
  2. rivoluzione verde e transizione ecologica,
  3. infrastrutture per una mobilità sostenibile,
  4. istruzione e ricerca,
  5. inclusione e coesione,
  6. salute.

La missione n.5, suddivisa in tre componenti, è fortemente legata al mondo dello sport, strumento di coesione sociale, e punta essenzialmente sulla realizzazione di nuove strutture e sulla ristrutturazione del patrimonio impiantistico sportivo esistente, mirando alla sostenibilità e alla socializzazione come mezzi per la riqualificazione di aree urbane destinate alla collettività.Elena Falqui, Ingegnere

L’investimento relativo all’edilizia sportiva si articola in due avvisi, dedicati a due gruppi denominati cluster 1/2 e 3, che differiscono per la tipologia dei Comuni destinatari e la configurazione delle proposte.  

Il cluster 3 è quello rivolto ai Comuni italiani che presentino progetti accompagnati dalla sponsorizzazione di una federazione sportiva, che manifesti e sottoscriva il proprio interesse negli interventi, al fine di garantire una maggiore promozione e una condivisione di livello nazionale, grazie alla partecipazione di enti che assicureranno la funzionalità degli impianti promossi. 

La manifestazione di interesse pubblicata dal governo, e destinata ai Comuni italiani, prevede un importo finanziabile pari a Euro 162.000.000,00, ed è destinata a progetti riguardanti impianti di proprietà pubblica, con un tetto di contributo di 4 milioni di euro a intervento; il bando indica la possibilità di individuare un singolo intervento, sia per i presentanti domanda, che per le Federazioni sportive, che possono esprimere il loro interesse su un unico progetto. Le domande di partecipazione dovevano essere consegnate entro il 22 aprile 2022, tramite invio alla pec del governo dedicata, con una prima descrizione dell’intervento proposto e delle finalità prefisse, l’indicazione dei soggetti coinvolti e della loro capacità economica, oltre ad un cronoprogramma per la realizzazione delle opere (per un approfondimento clicca il link: https://www.sport.governo.it/media/3380/cluster-3-avviso-pubblico-di-invito-a-manifestare-interesse.pdf). 

La procedura per l’ammissibilità delle istanze sarà improntata alla definizione di un quadro nazionale omogeneo, impostato sul censimento delle strutture sportive attualmente esistenti sul territorio, individuando quindi gli interventi che possano maggiormente rispondere alle finalità prescritte dal PNRR, per garantire la massima riposta in termini di ricrescita economica e sociale. 

I progetti che si aggiudicheranno il finanziamento avranno l’obbligo di andare in appalto e aggiudicazione entro il 31 marzo 2023 e dovranno concludersi con la fine lavori entro il 31 gennaio 2026. 

La riqualificazione dell’impiantistica sportiva, oltre alla creazione di nuovi poli dedicati allo sport che riconfigureranno e trasformeranno grandi aree cittadine, recuperando e valorizzando aree urbane in disuso, avrà inoltre un importante impatto relativamente all’opportunità di poter programmare e organizzare manifestazioni di vario livello da parte dei vari comuni italiani, che potranno contare su strutture adeguate sotto ogni profilo. 

Basti pensare che solo nel nostro comune di Cagliari sono presenti più di 30 impianti dedicati allo sport di proprietà pubblica con gestione diretta, convenzionata o in concessione, ma che la maggior parte di questi versa in pessime condizioni e ha urgente necessità di ristrutturazioni importanti e, punto fondamentale, non sono a norma per l’apertura al pubblico durante le manifestazioni di qualsiasi entità  poiché non certificate per la prevenzione degli incendi (Certificato di Prevenzione Incendi – CPI).Elena Falqui, Ingegnere

Gli eventi sportivi svolti nell’ultimo anno hanno avuto un riscontro molto positivo da parte del pubblico che, dopo le restrizioni degli ultimi anni, ha accolto con entusiasmo la recente riapertura a capienza piena degli impianti sportivi, come dimostrato, ad esempio, dagli Internazionali d’Italia di tennis di maggio di quest’anno, che hanno superato il record assoluto di partecipazione di spettatori della storia del torneo. 

Gli italiani hanno necessità di riscatto, di ripartenza e di socialità e lo sport è sicuramente uno dei mezzi principali per garantire questo processo e le manifestazioni di alto livello sono uno strumento per una crescita economica.

Elena Falqui, Ingegnere

Mi sono laureata nel 2007 in Tecnologie per la Conservazione e il Restauro dei Beni Culturali e nel 2010 in Ingegneria Edile, col massimo dei voti presso la facoltà di Ingegneria e Architettura di Cagliari; ho conseguito il Master di II livello in Progettazione di impianti sportivi presso la Sapienza a Roma nel 2011.
Ho svolto inizialmente l’attività di libero professionista presso uno studio privato e contemporaneamente presso lo studio di Ingegneria e Architettura di famiglia.
Nel 2012 ho intrapreso la mia prima esperienza a Roma, affiancando l’architetto incaricato, dal CONI e dalla FIT, della progettazione degli spazi del Foro Italico a Roma in occasione degli Internazionali BNL d’Italia.
Nello stesso anno sono stata assunta dalla FIT, ho proseguito l’affiancamento col progettista degli IBI; ho svolto anche il ruolo di referente FIT per gli impianti sportivi di tennis in tutta Italia e ho fatto parte per alcuni anni della Commissione Impianti Sportivi; ho anche partecipato al gruppo di controllo sul “Fondo Rotativo FIT”, verificando, dal punto di vista tecnico, le richieste di finanziamenti dei circoli affiliati.
Dal 2019 sono diventata un collaboratore esterno della Federazione Italiana Tennis e tuttora proseguo il mio percorso nel mondo dello Sport.
Da ottobre 2021 sono inserita nell’elenco del corpo nazionale dei Vigili del fuoco come professionista abilitata  alla progettazione antincendio.
Mi occupo principalmente della progettazione degli spazi, della direzione dei lavori, della sicurezza sia in fase di progettazione che esecuzione nei cantieri, della stesura di Piani Safety&Security e sono il referente nei rapporti con l’amministrazione locale durante la programmazione di manifestazioni sportive. 

 

Focus di diritto tributario • Avv. Francesco Sanna

PNRR e la riforma fiscale

A più di otto mesi dall’approvazione del Piano, si riconferma il consenso sul PNRR come grande occasione per il rilancio del Paese, ma aumenta la sfiducia sulla capacità del Governo di raggiungere gli obiettivi prefissati.
Questo è quanto emerge dal sondaggio e dall’analisi sui risultati effettuati da Ernst & Young. 

Oggi, l’83% (contro il 92% di settembre 2021) dei manager vede il PNRR come occasione unica per il rilancio del Paese.

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

PNRR e prevenzione delle infiltrazioni mafiose

Il d.l. 6 novembre 2021 n. 152, denominato “Disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e per la prevenzione delle infiltrazioni mafiose”, così come convertito con la L. 29 dicembre 2021 n. 233, ha introdotto, per quanto qui di interesse, oltre alla riforma del processo penale mirata alla digitalizzazione e ad una serie di interventi per garantire maggiore celerità del procedimento, anche delle importanti novità in materia di misure di prevenzione antimafia, intervenendo sul cd. Codice antimafia.

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Focus di diritto civile, tutela della persona • Avv. Viola Zuddas

Il PNRR al servizio dello sport per l’inclusione sociale

Come chiarito dal Dipartimento per lo sport (clicca qui per un approfondimento: https://www.sport.governo.it/it/pnrr/sport-e-inclusione-sociale-avvisi-a-manifestare-interesse/ ) il PNRR si pone (anche) l’obiettivo di incrementare l’inclusione e l’integrazione sociale attraverso la realizzazione e/o la rigenerazione di impianti sportivi che favoriscano il recupero di aree urbane destinate alla collettività.

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Next generation EU e PNRR: inclusione di soggetti fragili e vulnerabili 

Al fine di riparare i danni economici e sociali causati dall’emergenza sanitaria da COVID-19 e creare una solida base per una comune ripartenza europea, la Commissione europea, il Parlamento europeo e i leader dell’UE hanno concordato un piano di ripresa di carattere finanziario denominato NextGenerationEU, espressione di una nuova politica di coesione.

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Come abbiamo già visto brevemente nella precedente pillola di diritto di febbraio, nei mesi scorsi il Governo ha approvato due provvedimenti per riformare i meccanismi con cui vengono assegnate le concessioni pubbliche agli stabilimenti balneari. 

Tali provvedimenti, in sostanza, danno attuazione alle sent. n.17–18/2021 del Consiglio di Stato che impongono lo stop delle proroghe delle concessioni marittime da gennaio 2024 conformemente alla normativa europea in materia di liberalizzazione. 

Sul punto, infatti, è bene ricordare che la Corte di giustizia nella sentenza del 14 luglio 2016, C-458/14 e C-67/15 con riferimento all’art. 12 paragrafi 1 e 2 della direttiva 2006/123/CE e dell’art. 49 TFUE ha sancito alcuni importanti principi – e contestualmente ha dettato degli altrettanto importanti criteri applicativi – in materia di libera circolazione dei servizi, di par condicio, di imparzialità e di trasparenza per le concessioni balneari. 

Dunque, prima delle pronunce del Consiglio di Stato, nel nostro ordinamento vi era un vero e proprio contrasto tra la normativa nazionale  (in particolare l’art. 1, commi 682 e 683, L. n. 145 del 2018 che dispone la proroga automatica e generalizzata fino al 31 dicembre 2033 delle concessioni demaniali in essere) e le norme dell’Unione Europea direttamente applicabili. 

Peraltro, inizialmente il conflitto è stato risolto in favore della normativa nazionale sul presupposto che il diritto dell’Unione non avrebbe potuto imporre l’obbligo di evidenza pubblica per il rilascio delle concessioni demaniali marittime con finalità turistico-ricreative. 

Successivamente, proprio la sentenza n.17/2021 del Consiglio di Stato ha affermato la preminenza del diritto comunitario ed ha precisato che: «il diritto dell’Unione impone che il rilascio o il rinnovo delle concessioni demaniali marittime (o lacuali o fluviali) avvenga all’esito di una procedura di evidenza pubblica, con conseguente incompatibilità della disciplina nazionale che prevede la proroga automatica ex lege fino al 31 dicembre 2033 delle concessioni in essere.» 

Ebbene, come chiarito dallo stesso Consiglio di Stato, per garantire una più efficiente gestione del patrimonio costiero e una correlata offerta di servizi pubblici di migliore qualità è previsto un giusto rapporto tra servizi offerti e tariffe proposte ed un adeguato equilibrio tra le aree demaniali in concessione e quelle libere o libere attrezzate. 

A quest’ultimo proposito, da un report del Demanio Marittimo del Ministero delle Infrastrutture emerge che in Italia quasi il 50% (in alcune Regioni addirittura il 70%) delle coste sabbiose è occupato da stabilimenti balneari: si tratta di una percentuale di occupazione molto elevata se si considera che i tratti di litorale soggetti ad erosione sono in costante aumento e che una parte significativa della costa “libera” risulta non fruibile per finalità turistico-ricreative, perché inquinata o comunque abbandonata.Avv. Viola Zuddas, Civilista

Per le concessioni balneari, dunque, dovranno essere organizzate gare pubbliche con regole equilibrate e pubblicità internazionale, nel rispetto del principio di non discriminazione in base alla nazionalità e di quello di parità di trattamento di ogni potenziale offerente, cui dev’essere garantito un «adeguato livello di pubblicità» che consenta l’apertura del relativo mercato alla concorrenza. 

È chiaro che tali principi sono correlati con l’attuazione di due obblighi fondamentali: 

  • obbligo di trasparenza: volto a scongiurare eventuali disparità di trattamento a danno di imprese con sede in un altro Stato membro che potrebbero essere interessate all’appalto, 
  • obbligo di imparzialità: che impone un rigido controllo sulle procedure di aggiudicazione. 

Sul punto è molto importante sottolineare che a differenza di un appalto “normale”, che riguarda un determinato bene o servizio e che viene eseguito una tantum, nel caso delle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreative la Pubblica Amministrazione mette a disposizione dei privati concessionari un complesso di beni demaniali che, valutati unitariamente e complessivamente, costituiscono uno dei patrimoni naturalistici (in termini di coste, laghi e fiumi e connesse aree marittime, lacuali o fluviali) più rinomati e attrattivi del mondo. 

Lo stesso Consiglio di Stato, peraltro, precisa che: «il giro d’affari stimato del settore si aggira intorno ai quindici miliardi di euro all’anno, a fronte dei quali l’ammontare dei canoni di concessione supera di poco i cento milioni di euro, il che rende evidente il potenziale maggior introito per le casse pubbliche a seguito di una gestione maggiormente efficiente delle medesime.» 

Pertanto, può affermarsi che una delle (tante) ragioni sottese a questa riforma sia di carattere squisitamente economico – patrimoniale, poiché non si può sminuire l’importanza e la potenzialità economica del patrimonio costiero nazionale sottraendolo, di fatto, alle regole delle concorrenza: da una parte, infatti, si verificherebbe la violazione dei principi di libera iniziativa economica e di ragionevolezza derivanti da una proroga generalizzata e automatica delle concessioni demaniali e, dall’altra, permarrebbe comunque il contrasto con i principi europei a tutela della concorrenza e della libera circolazione.Avv. Viola Zuddas, Civilista

Secondo le intenzioni del legislatore comunitario e nazionale, eliminare l’automatismo della concessione balneare, dunque, risponde all’esigenza di trovare il miglior concessionario sotto il profilo economico (che si traduce in migliore offerta di servizi e migliore rapporto tra questi e tariffe proposte) e, altresì, a quello di assicurare la maggiore trasparenza nelle scelte amministrative (che dovrebbe incentivare gli investimenti nel nostro Paese). 

In conclusione, dunque, le norme legislative nazionali che hanno disposto (e che in futuro dovessero ancora disporre) la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative (compresa la moratoria introdotta con l’emergenza da Covid-19 dall’art. 182, comma 2, D.L. n. 34/2020, convertito in legge n. 77/2020) sono in contrasto con il diritto comunitario e, pertanto, non devono essere applicate né dai giudici né dalla pubblica amministrazione. 

Tuttavia, al fine di evitare il significativo impatto socio-economico che deriverebbe da una decadenza immediata e generalizzata di tutte le concessioni in essere e considerati i tempi tecnici perché le amministrazioni predispongano le procedure di gara richieste, le concessioni demaniali per finalità turistico-ricreative già in essere continuano ad essere efficaci sino al 31 dicembre 2023, fermo restando che, oltre tale data, anche in assenza di una disciplina legislativa che riordini la materia conformemente ai principi comunitari, esse cesseranno di produrre effetti, nonostante qualsiasi eventuale ulteriore proroga legislativa che dovesse nel frattempo intervenire, la quale andrebbe considerata senza effetto perché in contrasto con le norme dell’ordinamento dell’U.E. 

Non resta, quindi, che aspettare l’approvazione del DDL Concorrenza per vedere in che modo il Governo darà attuazione ai principi dettati dal Consiglio di Stato.

Viola Zuddas, Avvocato

Diritto d’autore e fotografia

Il diritto d’autore consiste in una serie di tutele di carattere morale e patrimoniale per l’autore di opere creative, aventi il carattere di originalità e novità. 

I diritti morali sono perpetui e irrinunciabili, salvo alcune eccezioni, mentre quelli patrimoniali sono limitati nel tempo e se ne può disporre. In generale questi ultimi durano quanto la vita dell’autore e fino a 70 anni dopo la sua morte (oppure 20 anni dalla creazione dell’opera come vedremo in seguito). 

Questa distinzione ci permette di separare la figura in esame dal copyright, che è un istituto differente in quanto relativo all’aspetto solamente economico e che nasce a seguito di specifico deposito. Il diritto d’autore invece si acquista con la creazione dell’opera. 

Nel nostro ordinamento, le fonti principali che disciplinano il diritto d’autore sono la legge 633/41 e il libro V titolo IX del Codice Civile, mentre a livello europeo sono state emanate nel tempo diverse direttive. 

Con specifico riferimento alle fotografie, la legge sul diritto d’autore le identifica all’art.2 e separa quelle aventi carattere creativo da quelle non aventi carattere creativo, ossia opere fotografiche e semplici fotografie. Questa distinzione è importante perché è proprio l’aspetto della creatività che genera le piene tutele previste dalla legge, per cui non sono previsti depositi o altri formalismi.Massimo Serra,Fotografo

Nel caso in cui l’opera non raggiunga un certo grado di creatività è comunque prevista una tutela minima, consistente nel diritto esclusivo di diffondere e riprodurre le immagini per 20 anni dalla loro creazione, purché la foto non abbia mera valenza documentativa (come la foto di un cantiere) e siano riportati il nome dell’autore (o in caso foto di opere d’arte, dell’autore della stessa) e l’anno di esecuzione dello scatto (anche nei metadata, in caso di file digitali).

Per riassumere, possiamo individuare quindi 3 categorie: 

  • opere fotografiche, tutelate per tutta la vita dell’autore e fino a 70 dopo la sua morte;
  • fotografie semplici, tutelate per 20 anni dalla loro creazione;
  • riproduzioni fotografiche, prive di tutela. 

Va segnalato che definire con certezza quando sia presente o meno l’aspetto della creatività non è semplice e tale identificazione è demandata al giudice. 

Ad ogni modo, possiamo affermare che in via generale è vietato utilizzare un’immagine altrui a meno che non abbiamo ricevuto esplicita autorizzazione dall’autore (sia per le opere fotografiche che per le semplici fotografie) e senza citarne la paternità. Fanno eccezione le finalità didattiche e di cronaca purché non a scopo di lucro, ma anche qui non esistono linee definite precisamente dalla legge e saranno i giudici a formare il diritto in su tali questioni. È sempre previsto un equo compenso per il fotografo se noto.  

In questo scenario occorrerà analizzare gli specifici profili per evidenziare la lesione dei diritti morali e patrimoniali. 

Il rapido avanzamento delle tecnologie e la celerità con cui le opere possono circolare oggi, in maniera spesso indiscriminata, pongono nuovi e sempre più complessi problemi di tutela. La legge sul diritto d’autore trova difficile applicazione online ed è spesso il formante giurisprudenziale a tracciare il terreno su cui muoversi.  

È capitato a chiunque di scaricare delle fotografie disponibili online e questo può configurare un illecito. Internet è neutro rispetto al contenuto veicolato, il quale può essere protetto dal diritto d’autore. Qualora decidessimo di utilizzare un’immagine reperita sul web senza apposita licenza, potremmo ricevere un semplice invito a rimuovere l’immagine, salvo che l’autore ritenga di aver subito un danno economico inteso come mancato guadagno. L’autore potrebbe però lamentare anche un danno morale nel caso in cui il nostro utilizzo fosse contrario ai suoi principi e valori.  

La condivisione di qualsiasi fotografia sui social network od in genere nel web è da considerarsi lecita quando sia possibile risalire all’autore, nonché alla data e all’eventuale titolo o nome dell’opera fotografica. La stessa pubblicazione sui social da parte dell’autore è infatti espressione manifesta di tale volontà di condivisione e allo stesso tempo rappresenta una presunzione grave, precisa e concordante della titolarità dei diritti fotografici legati all’opera pubblicata (Trib. Roma sent n. 12076/2015).Massimo Serra,Fotografo

Il diritto d’autore si applica anche sulle immagini elaborate, finché l’originale resta riconoscibile. Per poter pubblicare online un’immagine senza alcuna conseguenza occorre accertare, confrontando direttamente le immagini, che nell’elaborazione non sia in alcun modo riconoscibile l’originale oppure serve un diritto di utilizzo con il consenso della modifica all’originale. 

Facendo un esempio possiamo dire che il diritto d’autore è violato e sarà possibile ricorrere per vie legali quando venga pubblicata una nostra foto di paesaggio su una rivista o un giornale senza autorizzazione, anche se sprovvista di logo o firma e pubblicata online. 

Diverso è il caso in cui la nostra fotografia sia pubblicata su alcuni meta che prevedono tra le condizioni generali, spesso accettate in maniera superficiale, anche la possibilità di utilizzo di ciò che noi carichiamo.

Massimo Serra, Fotografo

La fotografia mi ha sempre incuriosito. Ho iniziato a studiarla mentre frequentavo Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Cagliari e una volta conseguita la Laurea ho deciso di dedicarmi totalmente alla mia passione.  

Svolgo la professione di fotografo e video maker freelance da oltre 11 anni in tutta la Sardegna, occupandomi principalmente di interni, commerciale e reportage.  

Collaboro con numerose agenzie estere e locali, professionisti, imprenditori e ho svolto diversi lavori per le Pubbliche Amministrazioni. 

Focus di diritto civile • Avv. Francesco Sanna

Il rafforzamento della tutela del diritto d’autore

Il decreto legislativo del 4 novembre 2021 ha recepito la Direttiva (UE) 2019/790 – cosiddetta “Direttiva Copyright” – sul diritto d’autore e sui diritti connessi nel mercato unico digitale. 

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

La tutela penale del diritto d’autore

Nell’Ordinamento italiano il diritto d’autore è disciplinato dal codice civile, negli artt. 2575 c.c. e seg., e dalla Legge del 22 aprile 1941 n. 633, che introducono diversi strumenti di tutela, sia in sede civile che in sede penale. 

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Focus di diritto civile • Avv. Viola Zuddas

I non fungible token (NFT) ed il diritto d’autore

I non fungible token (“NFT”) possono essere definiti come dei “gettoni” digitali non fungibili, cioè non riproducibili e quindi non sostituibili perché unici, che garantiscono a chi li possieda un certificato di esistenza e di proprietà scritto sulla blockchain.  

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Diritti d’autore nel mercato digitale

Come evidenziato anche nell’approfondimento a cura del fotografo Massimo Serra, chiunque crei un’opera letteraria, scientifica o artistica originale, quali articoli, film, canzoni, sculture o anche fotografie, è tutelato dal diritto d’autore o copyright. 

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Quanto è sostenibile lo Smart Working nel lungo periodo?
Domenica 23 Febbraio 2020, direzione Vienna: ricevo comunicazione via mail che il Gruppo UniCredit ha imposto il blocco delle trasferte e constestualmente l’obbligo di attivare l’operatività in remoto.

Il Remote working era facoltativo fino ad 1 giorno alla settimana, ma nella pratica una % minimale della popolazione Operations (insieme di strutture decentrate di circa 4.000 colleghi che svolgono attività amministrative di back-office) usufruiva di questa opzione.

Alcune necessità fondamentali per una transizione in full remote working: messa a disposizione di PC portatile per tutti i dipendenti; dimensionamento dei server per garantire un sistema di accesso in sicurezza per oltre 80.000 utenti connessi contemporanei; garantire il piano di continuità operativa attraverso la gestione dei poli di back-up e la combinazione di attività remotizzabili e non (una % delle attività è per natura paper-based, per cui richiede presenza in ufficio).

A fine Marzo, mentre altre società e istituzioni discutono dell’implementazione dello smart working, UniCredit è operativa con l’intera popolazione remotizzata: un salto quantico in poche settimane.Luca Carta, Group OPS Capacity & Performance Mgmt

Ai meeting ricorrenti sull’emergenza sanitaria, si affiancano gli incontri verticali focalizzati sui risultati di business e sulla produttività operativa delle strutture ICT e Operations.

Il monitoraggio degli indicatori industriali in Operations (volumi, produttività, livelli di servizio, incidenti operativi) è parte della mission del mio team, per cui vi è forte interesse a comprendere le dinamiche complessive e la reazione al remote working dei colleghi, in precedenza non abituati al lavoro da casa.

I risultati sono ottimi: la produttività dei team di lavoro cresce, i livelli di servizio in linea con gli standard, gli errori operativi pressoché nulli.

La disponibilità di strumenti operativi evoluti, di allocazione dinamica di attività-risorse e monitoraggio, rappresenta un elemento essenziale per garantire reportistica giornaliera oggettiva in UniCredit.Luca Carta, Group OPS Capacity & Performance Mgmt

Dopo 2 anni di contesto pandemico, si aprono i dibattiti societari e accademici: questo scenario è sostenibile dal punto di vista sociale e accademico ? Tante risposte discordanti a numerosi quesiti posti nelle varie sfere di analisi.

Per quanto riguarda la mia personale esperienza ed opinione, è possibile affermare con ampia certezza che la produttività equivalente/superiore e la comodità di lavorare da casa rendono lo smart working un vero e proprio asset sia per l’azienda che per il dipendente.

La vera sfida è rappresentata dal contesto normativo e dall’evoluzione dei contratti di lavoro, con l’ipotesi di introdurre meccanismi flessibili di retribuzione/gestione ferie legati alla produttività.Luca Carta, Group OPS Capacity & Performance Mgmt

I risultati dipenderanno dalla disponibilità di tutte le parti in causa, a cooperare e rivedere le proprie posizioni di campo.

Luca Carta, Group OPS Capacity & Performance Mgmt

Ho conseguito la laurea triennale in Economia e Finanza presso l’Università di Cagliari e perfezionato i miei studi all’Università Bocconi di Milano con un master in Finanza.
Nonostante il background accademico incentrato su elementi quantitativi, inizio il percorso lavorativo in ambito consulenziale a carattere ICT e Operations presso Banche, Assicurazioni e Oil&Gas.
Dopo 8 anni di consulenza, intermediati da un’esperienza da start-upper, entro in Cerved, realtà leader in Italia nella Business Information & Rating, con il ruolo di supporto al COO.
Nel Maggio 2019 mi trasferisco in UniCredit per seguire una funzione di governance nelle Operations di Gruppo, con il compito di gestire dinamicamente “capacity e attività”, monitorare gli indicatori industriali e presidiare i contratti con i fornitori italiani di back-office.

Focus di diritto tributario, diritto del lavoro • Avv. Francesco Sanna

Smart working e imposizione fiscale

Lo smart working (“lavoro agile), introdotto nel nostro ordinamento nel 2017, è un fenomeno che si stava già diffondendo, ma che visto la sua definitiva affermazione con l’avvento del Covid-19. 

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

Smart working: salute e sicurezza del lavoratore

Il cd. lavoro agile o smart working è disciplinato nella Legge n. 81/2017, rubricata “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”.

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Focus di diritto civile, diritto del lavoro • Avv. Viola Zuddas

Smart working e diritto alla disconnessione

Lo smart working (o “lavoro agile”), la cui definizione è contenuta nella Legge n. 81/2017, è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato che si caratterizza per la flessibilità organizzativa riconosciuta al lavoratore che, semplificando, non è sottoposto a particolari vincoli di orario o di luogo di lavoro e può, in accordo con il datore di lavoro, organizzare la propria attività per fasi, cicli e obiettivi.

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Il diritto alla disconnessione nell’UE: esigenze normative

La digitalizzazione e l’utilizzo adeguato degli strumenti digitali hanno portato numerosi vantaggi e benefici economici e sociali ai datori di lavoro e ai lavoratori, quali, in particolare, quello di migliorare l’equilibrio tra vita professionale e vita privata oltre che la riduzione dei tempi di spostamento.

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La disciplina di ingresso e di soggiorno degli stranieri nel territorio dello Stato si presenta come particolarmente complessa ed articolata in quanto frutto dell’intreccio normativo vigente a livello sovranazionale.

Per quanto è di interesse in questo contributo, si evidenzia, fin da subito, che il principale testo di riferimento in materia di immigrazione a livello nazionale è il Testo Unico dell’Immigrazione il quale, come si legge tra i principi generali, indica le azioni e gli interventi che lo Stato italiano, anche in cooperazione con gli altri Stati membri dell’Unione europea, con le organizzazioni internazionali, con le istituzioni comunitarie e con organizzazioni non governative, si propone di svolgere in materia di immigrazione, anche mediante la conclusione di accordi con i Paesi di origine.

Il presente testo individua i criteri generali per la definizione dei flussi di ingresso nel territorio dello Stato, delinea gli interventi pubblici volti a favorire le relazioni familiari, l’inserimento sociale e l’integrazione culturale degli stranieri residenti in Italia, nel rispetto delle diversità e delle identità culturali delle persone, purché non siano in contrasto con l’ordinamento giuridico.

Al riguardo, il Titolo secondo del Testo Unico dell’immigrazione è dedicato interamente all’analisi delle disposizioni sull’ingresso e soggiorno nel territorio dello Stato, prestando particolare attenzione a situazioni di carattere umanitario alle quali sono dedicate le disposizioni di cui al Capo III.

Tra queste, per quanto è di maggiore interesse, all’art. 18-bis del TUI, è previsto il riconoscimento del “Permesso di soggiorno per le vittime di violenza domestica”.

La norma in esame prevede espressamente che quando, nel corso di operazioni di polizia, di indagini o di un procedimento per taluno dei delitti previsti dagli articoli 572, 582, 583, 583-bis, 605, 609-bis e 612-bis del codice penale o per uno dei delitti previsti dall’articolo 380 del codice di procedura penale, commessi sul territorio nazionale in ambito di violenza domestica, siano accertate situazioni di violenza o abuso nei confronti di uno straniero ed emerga un concreto ed attuale pericolo per la sua incolumità il questore, con il parere favorevole dell’autorità giudiziaria procedente ovvero su proposta di quest’ultima, rilascia un permesso di soggiorno per consentire alla vittima di sottrarsi alla violenza.

Affinché il permesso di soggiorno possa essere rilasciato allo straniero è, dunque, necessario che siano accertate violenze domestiche o abusi nei confronti di uno straniero nel corso di operazioni di polizia, indagini o procedimenti penali esclusivamente nelle ipotesi in cui si ravvisi la fattispecie delittuosa di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.), lesioni personali semplici e aggravate (artt. 582 e 583 c.p.), mutilazioni genitali femminili (art. 583-bis c.p.), sequestro di persona (art. 605 c.p.), violenza sessuale (art. 609-bis c.p.), atti persecutori (art. 612-bis c.p.), o delitti per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza (art. 380 c.p.p.).

Ma cosa si intende per violenza domestica?

Secondo l’articolo in esame, si intendono per violenza domestica uno o più atti, gravi ovvero non episodici, di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra persone legate, attualmente o in passato, da un vincolo di matrimonio o anche da mera relazione affettiva.

La violenza domestica suscettibile di riconoscimento del permesso di soggiorno, dunque, è oggi circoscritta alle sole ipotesi di violenza che si manifesta nelle condotte penalmente sanzionabili di cui all’attuale impostazione dell’art. 18 bis del TUI, ma non anche nelle ipotesi in cui la violenza si manifesti sotto altre forme.

Ebbene, i più recenti casi di cronaca giudiziaria hanno messo in evidenza una eclatante lacuna dell’assetto normativo italiano che, in contrasto con gli obblighi assunti a livello internazionale, non prevede un sistema di tutele completo per le vittime – per la maggior parte donne, secondo l’ultimo rapporto ministeriale – di condotte coercitive dirette, ad esempio, a costringere un adulto o un minore a contrarre un matrimonio e nell’attirare l’adulto o il minore nel territorio dello Stato estero, diverso da quello di residenza, con lo scopo di costringerlo a contrarre matrimonio.

Detta lacuna è stata parzialmente colmata dagli ultimi interventi normativi in ambito penale: in risposta a detto fenomeno, con la legge del 19 luglio 2019 n. 69, è stato infatti inserito nel Codice penale, l’art. 558 – bis c.p. che disciplina il reato di “Costrizione o induzione al matrimonio”, il quale punisce con la reclusione da uno a cinque anni, chiunque con violenza o minaccia costringa una persona a contrarre matrimonio o unione civile o, approfittando delle condizioni di vulnerabilità o di inferiorità psichica o di necessità di una persona, con abuso delle relazioni familiari, domestiche, lavorative o dell’autorità derivante dall’affidamento della persona per ragioni di cura, istruzione o educazione, vigilanza o custodia, la induca a contrarre matrimonio o unione civile. Con aggravio di pena se la vittima è minore di anni 14.

Matrimonio forzato: la Camera approva la “Legge Saman”

Al fine di garantire una tutela completa delle vittime, e ridurre, se non eliminare del tutto, l’abisso tra i requisiti e le garanzie formali previsti dalle Convenzioni internazionali e la vita quotidiana delle vittime di violenze, il Parlamento ha adottato la proposta di legge A.C. 3200 volta ad introdurre nel nostro ordinamento il reato di matrimonio forzato, di cui all’art. 558-bis c.p., nel novero dei reati presupposti al rilascio allo straniero del permesso di soggiorno per le vittime di violenza domestica di cui all’art. 18 del Test Unico Immigrazione.

La proposta di legge, presentata dopo il caso di Saman Abbas, diciottenne di origini pakistane che sarebbe stata uccisa dai parenti poiché si era opposta al matrimonio combinato con suo cugino, è stata approvata nella seduta del 5 aprile 2022 dall’Assemblea della Camera dei deputati.

L’introduzione della fattispecie delittuosa di cui all’art. 558-bis c.p. tra i reati che consentono l’eventuale rilascio di un titolo abilitativo speciale al soggiorno rappresenta un concreto passo avanti per lo Stato che, in quanto firmatario di plurimi trattati internazionali per la tutela delle donne e, più in generale, vittime di violenze, ha dato luogo ad azioni concrete atte a garantire la piena tutela delle vittime di violenza, così realizzando, mediante interventi normativi orizzontali, una piena e concreta tutela multilivello in ossequio agli obblighi assunti a livello sovranazionale.

Eleonora Pintus, Avvocato

Con decreto del 20 dicembre 2021, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 20 gennaio 2022, il Ministero della Giustizia ha introdotto i criteri e le modalità di erogazione del Fondo per il rimborso delle spese legali sostenute dagli imputati assolti, previsto nella Legge di bilancio per il 2021. 

Con l’approvazione della Legge di bilancio, infatti, è stato istituito un apposito Fondo, con dotazione annua pari a 8 milioni di euro, a decorrere dal 1 gennaio 2021. 

Per poter ottenere il rimborso, almeno parziale, delle spese legali è necessario il possesso di tutti i requisiti stringenti previsti nel decreto attuativo. 

Vediamo di cosa si tratta. 

Innanzi tutto, è necessario che la sentenza penale sia divenuta irrevocabile successivamente alla data del 1 gennaio 2021, con la conseguenza che qualora la sentenza sia passata in giudicato in data anteriore, l’ammissione al beneficio resta preclusa.  

Occorre precisare, inoltre, che il rimborso spetta esclusivamente agli imputati che siano stati assolti con “formula piena”, ovvero con una delle formule assolutorie di seguito indicate: perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. 

La norma chiarisce, inoltre, che non è possibile ottenere il rimborso nel caso in cui l’imputato abbia ottenuto un’assoluzione parziale, cioè nel caso in cui gli siano stati contestati più reati e per alcuni di essi ha ottenuto una pronuncia assolutoria nei limiti anzi detti, mentre per altri ha subito una condanna. 

Si esclude, altresì, l’ipotesi in cui il reato è stato dichiarato estinto per intervenuta prescrizione o per amnistia o nel caso in cui il reato è stato depenalizzato. 

Il rimborso può essere richiesto con riferimento alle somme effettivamente corrisposte dall’imputato al proprio difensore, quindi, con esclusione del soggetto che nel procedimento penale abbia beneficiato del patrocinio a spese dello stato, nonché qualora abbia ottenuto la condanna del querelante alla rifusione delle spese di lite ed, infine, quando il medesimo abbia diritto al rimborso delle spese legali da parte dell’Ente da cui dipende o presta servizio. 

Ad ogni modo, è previsto un limite massimo dell’importo rimborsabile, fissato dalla norma nella somma di euro 10.500 –esentasse, che, pertanto, non concorre alla formazione del reddito- per ciascun procedimento penale. 

In caso di ammissione della domanda e comunque entro i limiti delle risorse assegnate, il predetto importo viene corrisposto direttamente all’imputato non in un’unica soluzione, ma ripartito in tre quote annuali di pari importo, erogate a partire dall’anno successivo a quello in cui la sentenza di assoluzione è divenuta irrevocabile. 

Come richiedere il rimborso delle spese legali?

Una volta verificata la sussistenza dei requisiti poc’anzi menzionati, occorre presentare la domanda di rimborso sulla piattaforma telematica del Ministero della Giustizia, mediante credenziali SPID. 

A tal fine, ai sensi dell’art. 3 del Decreto attuativo, è necessario indicare: 

  • i dati anagrafici e il codice fiscale dell’imputato assolto, ove diversi dal richiedente; 
  • l’ufficio giudiziario che ha pronunciato la decisione divenuta irrevocabile, la data della sentenza, la data di irrevocabilità,  il numero del registro notizie di reato e il numero del registro generale dell’ufficio gip/gup o del dibattimento che ha emesso la sentenza; 
  • le formule con le quali l’imputato è stato assolto;  
  • la durata complessiva del processo, calcolata dalla richiesta di rinvio a giudizio fino alla data di irrevocabilità della sentenza; 
  • il grado di giudizio nel quale è stata emessa la sentenza, specificando se la sentenza è stata emessa in sede di rinvio dalla Corte di Cassazione; 
  • l’importo complessivo delle spese legali per le quali è chiesto il rimborso. 

A tale ultimo riguardo, è necessario che le spese legali siano state corrisposte al difensore mediante bonifico bancario, a seguito di emissione di parcella vidimata dal Consiglio dell’Ordine di appartenenza, corredate di apposite fatture, trattandosi di documentazione che dovrà essere allegata all’istanza di accesso al Fondo.  

L’istanza così compilata dovrà essere presentata entro e non oltre il 31 marzo dell’anno successivo a quello in corso alla data di irrevocabilità delle sentenza di assoluzione, pena la irricevibilità della domanda stessa. 

Tuttavia, per le sentenze divenute irrevocabili nel 2021, le domande potranno essere presentate a partire dal 1 marzo 2022 e fino al 30 giugno 2022. 

La norma individua, infine, dei criteri di preferenza relativi alle istanze pervenute. 

Infatti, verrà data precedenza alle istanza relative ad imputato assolto in via definitiva con sentenza della Corte di Cassazione, ovvero dal giudice del rinvio o comunque all’esito di un processo durato oltre otto anni, a seguire le istanze relative a sentenze pronunciate dal giudice di appello o comunque all’esito di un processo durato più di cinque anni e fino a otto anni, ed, infine, a quelle relative a sentenze pronunciate dal giudice di primo grado o comunque all’esito di un processo durato fino a cinque anni. 

Inoltre, nell’ambito di ciascun gruppo verrà data preferenza alle istanze relative ai processi più lunghi e a parità di durata a quelle con più imputati con reddito inferiore. 

Il Ministero effettuerà una verifica circa la corrispondenza dei dati dichiarati e, dopo aver esaminato le istanze, approverà un elenco definitivo, indicato per ciascuna l’importo rimborsabile. 

Il predetto elenco verrà pubblicato nel sito ministeriale e verrà emesso mandato di pagamento nel successivo termine di 15 giorni. 

Claudia Piroddu, Avvocato

La sicurezza dei prodotti cosmetici

Per poter definire la sicurezza di un prodotto cosmetico è necessario fare una premessa: i cosmetici, per loro definizione, non possono provocare effetti nocivi, ma solo effetti benefici per l’organismo.

Ai sensi dell’art.3 del Regolamento 1223/2009, Testo Unico in materia vigente nel territorio europeo, i prodotti cosmetici messi a disposizione sul mercato “sono sicuri per la salute umana se utilizzati in condizioni d’uso normali o ragionevolmente prevedibili”.

La sicurezza dei prodotti cosmetici è, dunque, un requisito essenziale ai fini della loro immissione sul mercato.
Come tale, al fine di garantire tale adempimento, la presentazione non deve essere ingannevole, l’etichetta deve indicare istruzioni d’uso, avvertenze, modalità di smaltimento del prodotto e qualsiasi altra informazione necessaria al consumatore.Lucia Palmas, Farmacista

Appare tuttavia spontaneo chiedersi come, dal punto di vista pratico, venga garantita la sicurezza di un prodotto cosmetico.

Anzitutto, il primo passo verso la sicurezza è garantito dal soddisfacimento delle GMP, Buone Pratiche di Fabbricazione. Trattasi di un insieme di processi, procedure e documenti, che le aziende cosmetiche sono tenute a rispettare in conformità al predetto Regolamento e che assicurano che i cosmetici siano prodotti secondo gli standard di qualità previsti dalla normativa vigente.

In secondo luogo, è necessario l’intervento di un soggetto deputato al controllo preventivo all’immissione in commercio dei prodotti cosmetici
Questi, nella specie, deve assicurarsi che i prodotti siano previamente sottoposti ad una valutazione della sicurezza.
Lucia Palmas, Farmacista

La relazione sulla sicurezza consta di due parti:

  • la prima include le caratteristiche tecniche del prodotto;
  • la seconda parte è, invece, la vera e propria valutazione della sicurezza effettuata da un “valutatore della sicurezza”, ossia un soggetto dotato di competenze tecniche, titoli ed esperienza necessari per effettuare questo tanto tecnico quanto delicato test di valutazione.

Il valutatore, dunque, è chiamato a redigere la relazione in seguito allo studio del prodotto, spiegando la motivazione scientifica alla base delle conclusioni della valutazione, le conclusioni ed eventuali avvertenze da riportare in etichetta; infine firma il tutto con data e luogo.

Questo documento viene inserito nel PIF, Product information file, che contiene le informazioni sul prodotto cosmetico e viene detenuto dalla persona responsabile nell’eventualità in cui le autorità possano richiederlo.

In questa fase assume un ruolo particolarmente rilevante un organo della Commissione Europea, il “CSSC”, Comitato Scientifico per la Sicurezza dei Consumatori, il quale si occupa di esprimere pareri in materia non alimentare, e quindi anche cosmetica, a seguito di espressa richiesta da parte della Commissione Europea.
Dopo aver effettuato la valutazione del rischio della sostanza in esame, il Comitato può alternativamente esprimere parere positivo, legittimando l’utilizzo della sostanza, oppure parere negativo, con conseguente richiesta di intervento della Commissione Europea affinché ne vieti o limiti l’uso.Lucia Palmas, Farmacista

Dagli anni ‘70 questa istituzione ha valutato tantissimi ingredienti cosmetici al fine di garantire la loro sicurezza e permettendo l’aggiornamento degli allegati al Regolamento relativi alle sostanze vietate o il cui uso è limitato.

Un altro aspetto che garantisce la sicurezza dei prodotti è dato dalla fitta rete di sorveglianza post market che viene attuata in ogni Stato dagli organi preposti. In Italia, ad esempio, questo compito è svolto dal Ministero della salute che incarica gli organi territorialmente competenti, ossia NAS e ASL.

Questi ultimi possono, nell’ambito della loro attività ispettiva: richiedere la documentazione informativa sul prodotto alla persona responsabile; disporre il ritiro di lotti interessati da eventuali discrepanze; effettuare analisi e cooperare con le autorità di altri Stati membri qualora sia necessario.

In questo ambito si colloca la Cosmetovigilanza la quale costituisce la raccolta, valutazione e monitoraggio delle segnalazioni di effetti indesiderabili osservati durante o dopo l’utilizzo normale o ragionevolmente prevedibile di un prodotto cosmetico. Ciò è particolarmente rilevante in quanto, qualora un prodotto dovesse provocare effetti indesiderati in una parte notevole della popolazione, scatta l’allerta per CSSC che studierà il caso, con conseguente adozione di adeguati provvedimenti da parte della Commissione.

Come si può notare, il sistema che garantisce la sicurezza dei prodotti cosmetici è molto complesso ed efficiente.

In ogni caso, è sempre opportuno che il consumatore utilizzi i prodotti cautamente e secondo le indicazioni riportate in etichetta.

Lucia Palmas, Farmacista

Mi sono laureata in Chimica e Tecnologia Farmaceutiche presso l’Università di Cagliari con una tesi sull’utilizzo di principi attivi estratti da agrumi autoctoni come antibatterici.
Ho conseguito l’abilitazione alla professione di farmacista e in seguito al mio percorso di studi ho svolto alcune esperienze professionali e accademiche all’estero, prima in Spagna (Oviedo) presso una start up di biotecnologie con applicazioni nel campo farmaceutico e cosmetico, poi in Argentina presso la rinomata “Universidad de Buenos Aires, facultad de farmacia” presso cui ho svolto attività di ricerca per lo sviluppo di una terapia antitubercolare.
Ho, inoltre, pubblicato come co-autore un articolo scientifico nella rivista “Molecules”.
Attualmente sono una specializzanda al secondo anno presso COSMAST, Master in Scienza e Tecnologia Cosmetiche dell’Università di Ferrara.

Focus di diritto tributario • Avv. Francesco Sanna

Aliquota IVA applicabile alle cessioni dei prodotti cosmetici

In ordine all’ambito di applicazione dell’articolo 124 del decreto Rilancio, si specifica che con la locuzione ‹‹detergenti disinfettanti per mani›› il legislatore ha voluto far riferimento ai soli prodotti per le mani con azione disinfettante (i.e. biocidi e presidi medico-chirurgici), soggetti alla preventiva autorizzazione delle autorità competenti. I comuni igienizzanti/detergenti per le mani, per i quali non è prevista alcuna specifica autorizzazione, non possono dunque considerarsi ricompresi nell’elenco di cui all’articolo 124 del decreto in esame, in quanto non svolgono un’azione disinfettante, limitandosi a rimuovere lo sporco e i microrganismi in esso presenti.

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

La disciplina penale italiana in materia di prodotti cosmetici

Con il Decreto legislativo n. 204 del 4 dicembre 2015, rubricato “Disciplina sanzionatoria per la violazione del regolamento n. 1223/2009 sui prodotti cosmetici”, sono state introdotte sanzioni di natura penale ed amministrativa per le violazioni degli obblighi derivanti dalla normativa europea, in materia di fabbricazione, produzione, distribuzione e messa in commercio di prodotti cosmetici.

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Focus di diritto civile, tutela della persona • Avv. Viola Zuddas

Cosmetici e sperimentazione sugli animali

Per prodotto cosmetico, ai sensi dell’art. 2 del Regolamento CE n.1223/2009 (per leggerlo per intero cliccare il seguente link: eur-lex.europa.eu ) si intende «qualsiasi sostanza o miscela destinata ad essere applicata sulle superfici esterne del corpo umano (epidermide, sistema pilifero e capelli, unghie, labbra, organi genitali esterni) oppure sui denti e sulle mucose della bocca allo scopo esclusivamente o prevalentemente di pulirli, profumarli, modificarne l’aspetto, proteggerli, mantenerli in buono stato o correggere gli odori corporei».

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Sostanze vietate dal 1° marzo 2022: obblighi e responsabilità

Come ben evidenziato dalla Dott.ssa Lucia Palmas nel focus dal Titolo “La sicurezza dei prodotti cosmetici”, la commercializzazione dei prodotti cosmetici nel territorio dell’Unione Europea soggiace ad una disciplina particolarmente stringente in materia di sicurezza.
A tal riguardo, meritano di essere trattate le recenti novità legislative introdotte dal Regolamento (UE) 2021/1902 che modifica proprio gli allegati II, III e V del regolamento (CE) n. 1223/2009 .

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Dopo la sentenza n. 257/21 con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge della Regione Sardegna 13 luglio 2020, n. 21 di cui abbiamo trattato qualche tempo fa (clicca qui per un approfondimento: www.forjus.it), la Corte Costituzionale è tornata ad esprimersi sulla pianificazione urbanistica comunale (in particolare per ciò che concerne il cosiddetto “Piano Casa”) e quella paesaggistica operata dalla Regione Sardegna. 

Anche in questo caso, la vicenda prende le mosse dal ricorso promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri avente ad oggetto delle previsioni della Regione Sardegna che derogherebbero alla pianificazione urbanistica comunale e a quella paesaggistica e agevolerebbero «la massiccia trasformazione edificatoria del territorio, anche in ambiti di pregio», con il conseguente «grave abbassamento del livello della tutela del paesaggio». 

La posizione del Governo

Il ricorso presentato dall’avvocatura Generale dello Stato è piuttosto complesso ed è articolato in molteplici motivi di impugnazione riguardanti diversi articoli della legge della Regione Sardegna 18 gennaio 2021, n. 1, recante “Disposizioni per il riuso, la riqualificazione ed il recupero del patrimonio edilizio esistente ed in materia di governo del territorio. Misure straordinarie urgenti e modifiche alle leggi regionali n. 8 del 2015, n. 23 del 1985, n. 24 del 2016 e n. 16 del 2017”. 

Senza voler entrare eccessivamente nel dettaglio, ciò che accomuna e fonda tutti i motivi di impugnazione è il convincimento che la Regione avrebbe esercitato unilateralmente la propria potestà legislativa statutaria nella materia edilizia e urbanistica, sottraendosi all’obbligo di copianificazione con lo Stato. 

Sul punto è importante ricordare che il coordinamento tra Stato e Regione è necessario, soprattutto, quando vengano in rilievo interessi generali riconducibili alla competenza esclusiva statale nella materia della conservazione ambientale e paesaggistica. 

Come si legge nella premessa del ricorso, inoltre, l’avvocatura Generale dello Stato ricorda che l’art. 3, lettera f) dello Statuto speciale per la Sardegna attribuisce alla Regione la potestà legislativa nella materia edilizia e urbanistica che comprende anche la «pianificazione del paesaggio in senso lato», ma la assoggetta al rispetto delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica, come quelle dettate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio. 

Per ragioni legate alla complessità del ricorso e della sentenza, in questo articolo ci soffermeremo unicamente sulle impugnazioni aventi ad oggetto le disposizioni relative al cosiddetto “Piano Casa”, che riguardano principalmente la proroga del termine per completare le edificazioni e, altresì, la possibilità di incrementi volumetrici al di fuori delle prescrizioni del piano paesaggistico. 

Per quanto riguarda il primo aspetto controverso, deve ricordarsi che originariamente il termine per completare le edificazioni in zona agricola «nei casi in cui non sarebbe possibile ottenere il rinnovo del titolo edilizio ormai divenuto inefficace, a causa di una sopravvenuta disciplina pianificatoria incompatibile» era fissato al 31 dicembre 2020, mentre l’impugnata disposizione della Regione Sardegna disporrebbe la proroga del termine alla data del 31 dicembre 2023. 

Secondo la difesa statale, dunque, la Regione avrebbe violato le norme fondamentali di riforma economico-sociale di competenza legislativa esclusiva dello Stato soprattutto per quanto riguarda la «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni valevoli sull’intero territorio nazionale», salvando dalla decadenza del titolo edilizio nel caso di mancato rispetto dei termini per l’ultimazione delle opere. 

Per quanto riguarda il secondo aspetto controverso, ovvero quello legato alla possibilità di incrementi volumetrici, secondo l’avvocatura Generale dello Stato la Regione avrebbe travalicato i limiti della propria competenza, ponendo in essere un’attività non rispettosa del principio di leale collaborazione poiché avrebbe permesso incrementi volumetrici eludendo il piano paesaggistico regionale (il cosiddetto P.P.R.) «e potenzialmente in deroga ad esso», anche per quanto riguarda le strutture destinate all’esercizio di attività turistico-ricettive, sanitarie e socio-sanitarie», pure in aree vincolate. 

La posizione della Regione

La Regione Sardegna, costituitasi in giudizio, ha chiesto di dichiarare improcedibili, inammissibili, irricevibili o comunque non fondate le questioni di legittimità costituzionale promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri. 

Si sostiene, infatti, che non venga adeguatamente valorizzata la potestà legislativa che compete alla Regione autonoma della Sardegna nella materia dell’edilizia e dell’urbanistica, con riguardo anche a profili di tutela paesistico-ambientale, rispetto alla quale la medesima ha il potere / dovere di redazione ed approvazione dei piani paesaggistici. 

Per quanto riguarda il primo aspetto controverso, ovvero la proroga al 2023 del termine per completare le edificazioni, la Regione afferma l’inammissibilità dell’eccezione sul presupposto che non sarebbe stata richiamata puntualmente la normativa oggetto di proroga e ciò non consentirebbe di conoscere il reale fondamento delle censure mosse. 

Per quanto riguarda il secondo aspetto controverso, ovvero quello concernente gli incrementi volumetrici, la legislazione statale non vieterebbe di computare i volumi condonati e, pertanto, dalla previsione impugnata dal Governo non deriverebbe alcun ampliamento volumetrico in deroga alla pianificazione paesaggistica, posto che la Regione ben potrebbe intervenire anche sulla disciplina del paesaggio medesimo. 

Inoltre, il legislatore regionale consentirebbe unicamente l’ultimazione di edifici legittimamente realizzati nel rispetto degli standard urbanistici vigenti per le zone agricole, mentre sarebbero escluse le aree contraddistinte da pericolosità idraulica o da frana elevata o molto elevata, o gravate da un vincolo di inedificabilità assoluta: pertanto, la Regione non avrebbe travalicato i limiti di sua competenza né, tantomeno, derogato alle prescrizioni del piano paesaggistico regionale che riguarderebbero tutt’altri beni. 

La decisione della Corte Costituzionale

Con la sentenza n.24/2022, la Corte Costituzionale ha respinto le eccezioni preliminari sollevate dalla Regione in ordine alla presunta intempestività del ricorso proposto ed ha accolto parte dei motivi di impugnazione proposti nel ricorso presentato dal Presidente del Consiglio dei ministri. 

La sentenza si presenta piuttosto lunga ed articolata (cliccando il seguente link è possibile leggerla per intero: www.cortecostituzionale.it) e nel suo dispositivo esamina, in primo luogo, le questioni di legittimità costituzionale che attengono alla normativa edilizia e urbanistica e poi quelle che attengono alla normativa regionale che interferisce in misura prevalente con la tutela paesaggistica. 

Per quanto riguarda le prime, nell’esercizio della competenza primaria nella materia edilizia e urbanistica la Regione autonoma Sardegna incontra un doppio limite: quello delle previsioni contenute nel Testo Unico dell’edilizia e quello, ancor più significativo, della tutela ambientale, garantita dalla normativa statale e realizzata attraverso la redazione dei piani paesaggistici.Avv. Viola Zuddas, Civilista

Per questo motivo, le doglianze sollevate dal Governo con l’impugnazione delle disposizioni relative al cosiddetto “Piano Casa” sono fondate. 

Infatti, l’art. 15 del T.U. dell’edilizia disciplina l’efficacia temporale e la decadenza del permesso di costruire: quest’ultimo decade quando i lavori non siano cominciati entro un termine che non può essere superiore a un anno dal rilascio del titolo, o non siano ultimati entro un termine che non può superare i tre anni dall’inizio dei lavori. 

Nel delimitare l’arco temporale di validità dei titoli edilizi, la normativa statale detta standard uniformi e si rivela di cruciale importanza in un ordinato governo del territorio, che non può tollerare difformità tra Regioni con riguardo all’aspetto prioritario della durata e dell’efficacia dei titoli edilizi. 

La normativa regionale, infatti, nel prolungare i termini entro i quali è possibile richiedere il permesso di costruire per completare le costruzioni nelle zone agricole, anche quando il titolo sia decaduto e non possa essere rinnovato, deroga in maniera indiscriminata alla decadenza sancita dalla legislazione statale, senza richiedere le tassative condizioni individuate dal T.U. dell’edilizia. 

In questa prospettiva, si può cogliere come le disposizioni regionali siano lesive delle prescrizioni statali che si pongono come norme fondamentali di riforma economico-sociale che, in quanto tali, vincolano la potestà legislativa primaria della Regione autonoma Sardegna nella materia dell’edilizia e dell’urbanistica. 

Per quanto riguarda le questioni di legittimità costituzionale che attengono alla normativa regionale che interferisce in misura prevalente con la tutela paesaggistica, la Corte Costituzionale afferma che il sistema della pianificazione paesaggistica, che deve essere salvaguardato nella sua impronta unitaria e nella sua forza vincolante, rappresenta attuazione dell’art. 9 Cost. ed è funzionale a una tutela organica e di ampio respiro, che non tollera interventi frammentari e incoerenti.Avv. Viola Zuddas, Civilista

La peculiarità del bene giuridico ambiente, nella cui complessità ricade anche il paesaggio, «riverbera i suoi effetti anche quando si tratta di Regioni speciali o di Province autonome», con l’ulteriore precisazione, però, che qui occorre tener conto degli statuti speciali di autonomia. 

Lo statuto speciale attribuisce alla Regione autonoma Sardegna la potestà legislativa primaria nella materia «edilizia ed urbanistica», nella quale è espressamente ricompresa «la redazione e l’approvazione dei piani territoriali paesistici» fermo restando, però, il vincolo per la Regione al rispetto del principio di co-pianificazione. 

È, dunque, precluso al legislatore regionale derogare alle prescrizioni del piano paesaggistico senza una previa rideterminazione dei suoi contenuti con lo Stato. 

Viola Zuddas, Avvocato

Sport e Pandemia: la capacità del non arrendersi mai

Ricordo ancora le emozioni dei giorni in cui i notiziari parlavano del dilagare di una nuova malattia in Cina, di cui era responsabile la variante di un Virus che già tempo addietro aveva messo in ginocchio la popolazione mondiale. 

I pensieri comuni erano per la gran parte “Tanto è lontano, non arriverà mai da noi”, “è solo un’influenza” “In Europa siamo molto più attenti all’igiene: figuriamoci se qui può svilupparsi”. 

Ma non avevamo ancora finito di pronunciare queste frasi, che il primo caso Covid venne verificato anche in Italia. 

La convinzione di restare al di fuori dell’influenza del virus era talmente forte che, non appena ci siamo resi conto che aveva colpito anche noi, si è trasformata in terrore. 

Lo sport che insegno ormai da anni, il CrossFit, si è sempre svolto all’interno di posti grandi, areati e dotati di attrezzatura ad uso individuale per i Workout (gli allenamenti) previsti durante l’ora di lezione. Nonostante questo, anche adottando maggiori accorgimenti legati alla pulizia degli attrezzi e dei locali, e un maggiore contingentamento degli allievi, non potevamo garantire al 100% le interferenze tra le persone: siamo una Community, lo Sport è l’emblema della socialità e il nostro compito e dovere come allenatori, è quello di tutelare la salute dei nostri allievi a 360 gradi. 

Cosicché, prima ancora che venisse espressamente emanato un Decreto che ce lo imponesse, abbiamo deciso, per senso di responsabilità, di chiudere; ma quello che avremmo pensato sarebbe durato una sola settimana, si è trasformato in un tempo indefinito. 

Uno degli insegnamenti che attraverso il CrossFit trasmettiamo ai nostri allievi, è lo sviluppo della capacità di adattamento alle situazioni e ai cambiamenti, cercando in ogni modo di uscire e non stallare nella propria routine ma piuttosto di essere pronti per ciò che non si conosce e non si può comprendere (prepare for the Unknown and the unknowable). Così, dopo un primo momento di disorientamento e tentativi disordinati di fare allenamenti in videochiamata, ci siamo organizzati e abbiamo iniziato le nostre lezioni online attraverso l’uso di piattaforme studiate apposta per consentire l’incontro simultaneo, a distanza, di un alto numero di utenti. 

La risposta è stata incredibile e gratificante: in un momento in cui sembravamo aver perso tutto, ecco che avevamo qualcosa; in un momento in cui per la maggior parte di noi la vita si alternava tra letto, tavola, divano e serie TV, la nostra giornata era nuovamente scandita da un momento di attività e socialità, attraverso le classi online. 

Questo non solo ci ha permesso di restare uniti, ma ha rafforzato i legami tra noi e i nostri ragazzi. Loro ci hanno sostenuto in tutti i modi, ci hanno appoggiato e non ci hanno mai abbandonato, ripagando tutti gli sforzi compiuti per difendere gli obiettivi del nostro lavoro: garantire la loro sicurezza, salvaguardare la loro salute ed educarli a trovare, in ogni situazione, la forza, la volontà e il modo di prendersi cura di sé. 

Nonostante alla fine siamo risultati essere uno dei primi settori ad aver chiuso in entrambi i lockdown, uno degli ultimi ad essere coinvolti nella riapertura e siamo stati costretti a lavorare all’aperto con l’adozione dei colori delle Regioni, mettendo mano ai risparmi per poter adattare il nostro lavoro alle norme in continuo cambiamento che ci sono state imposte, abbiamo saputo reagire ogni volta nel pieno rispetto delle regole e della tutela dei nostri iscritti.

Laura Macciò, Istruttrice FIDAL & FIPE L1, CF – L2 

Da sempre nel mondo dello sport, dopo una Laurea in Ingegneria, ho cominciato a lavorare nel settore del Fitness dove opero ormai da 15 anni. 

Ho conseguito il primo Livello come allenatrice di Atletica Leggera e Sollevamento Pesi nelle rispettive federazioni Coni, nonché le Certificazioni ufficiali per diventare Trainer CrossFit. 

Questo altro non è che un programma di rafforzamento e condizionamento fisico mirato ad acquisire benessere completo e generale. E’ definito “lo sport del fitness” e consiste nello svolgere “movimenti funzionali ad alta intensità costantemente variati”. 

Attualmente insegno a Nettuno in provincia di Roma, al Box certificato CrossFit 4112. 

Credo fermamente in quello che faccio perché, attraverso il CrossFit, riesco ogni giorno a portare le persone che alleno a compiere un passo verso il loro miglioramento e il superamento dei propri limiti. Questo metodo infatti, grazie alla adattabilità e versatilità dei movimenti che utilizza, permette di allenarsi a chiunque e in qualsiasi condizione (non solo in termini di condizioni fisiche, ma anche di livello di Fitness generale). 

Focus di diritto tributario • Avv. Francesco Sanna

Il regime fiscale delle ASD e SSD

Il D. Lgs. 28 febbraio 2021, n. 36, intitolato “riforma delle disposizioni in materia di enti sportivi dilettantistici e professionisti e in materia di lavoro sportivo” e la cui entrata in vigore è – in parte – stata rinviata, definisce l’associazione e la società sportiva dilettantistiche come quel soggetto giuridico, affiliato ad una Federazione sportiva nazionale, ad una Disciplina sportiva associata o ad Ente di promozione sportiva, che svolge, senza scopo di lucro, attività sportiva nonché la formazione, la didattica, la preparazione e l’assistenza all’attività sportiva. 

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

Sport e carcere

Come abbiamo visto nel Focus a cura di Laura Macciò, la pandemia ha avuto delle ripercussioni gravissime anche nel settore dello sport, tanto per gli operatori –che per lunghi periodi hanno dovuto cessare qualsiasi attività in presenza– quanto in termini di salute psicofisica di chi lo pratica. 

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Focus di diritto civile • Avv. Viola Zuddas

Lo sport per l’inclusione e l’uguaglianza di genere

Noi tutti sappiamo che lo sport è uno degli strumenti più importanti che abbiamo a disposizione per migliorare la nostra condizione fisica e psicologica e, in generale, la salute: l’attività fisica, infatti, riveste un ruolo primario di tipo preventivo e, altresì, terapeutico nel trattamento di alcune condizioni e patologie. 

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Ue e sport: i finanziamenti del 2022

Lo sport è uno dei settori di più recente intervento dell’Unione Europea. 
La sua competenza in materia non è di carattere esclusivo ma diretto a sostenere e rafforzare quella dei singoli Stati membri. 

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Con la sentenza n. 257/21, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge della Regione Sardegna 13 luglio 2020, n. 21, recante “Norme di interpretazione autentica del Piano paesaggistico regionale”, il cosiddetto “P.P.R.”, attraverso il quale la Regione aveva dato avvio ad iniziative unilaterali in ordine alla pianificazione del territorio sardo, interessandosi in particolare al tratto costiero dell’asse viario Sassari-Alghero ritenuto di preminente interesse per lo sviluppo economico dell’isola. 

La vicenda prende le mosse dal ricorso promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri che, appunto, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 della predetta Legge, eccependo che le iniziative assunte dalla Regione Sardegna – oltre a violare il principio di leale collaborazione tra Stato e Regione – eccederebbero «l’ambito della competenza statutaria della Regione autonoma della Sardegna» e contrasterebbero con gli artt. 3, 9, 117, commi primo – quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU)-, e secondo, lettera s), della Costituzione.  

Secondo l’Avvocatura Generale dello Stato, quindi, l’interpretazione data dalla Regione Sardegna sarebbe contrastante con il principio della leale collaborazione, che deve permeare i rapporti con lo Stato, e per di più potrebbe in concreto causare un allargamento delle maglie dei vincoli urbanistici e paesaggistici, consentendo edificazioni e incrementi volumetrici con grave danno per il territorio. 

Cos’è il Piano Paesaggistico?

Prima di esaminare più accuratamente la vicenda, è opportuno fare chiarezza sul Piano Paesaggistico Regionale. 

Ebbene, sul sito della Regione Sardegna (clicca il link per un approfondimento:sardegnaterritorio.it) si legge che il P.P.R. nasce per la difesa dell’ambiente e del territorio e consiste in un moderno quadro legislativo che guida e coordina la pianificazione e lo sviluppo sostenibile dell’isola partendo dalle sue coste.  

Nello specifico, il P.P.R. persegue il fine di preservare, tutelare, valorizzare e tramandare alle generazioni future l’identità ambientale, storica, culturale e insediativa del territorio sardo; proteggere e tutelare il paesaggio culturale e naturale e la relativa biodiversità; assicurare la salvaguardia del territorio e promuoverne forme di sviluppo sostenibile al fine di conservarne e migliorarne le qualità.Avv. Viola Zuddas, Civilista

Affinché ciò avvenga nel modo migliore possibile, è imposta la pianificazione congiunta tra Regione e Ministero della cultura (“MiC”) per la tutela di alcuni beni ritenuti di interesse storico, culturale, archeologico e paesaggistico: in questo modo si dà attuazione a regole uniformi e condivise con il Governo centrale, sulla scorta del combinato disposto degli artt. 9 e 17 della Costituzione e del Codice dei beni culturali e del paesaggio. 

La posizione del Governo

Per ciò che riguarda la vicenda in oggetto, è bene precisare che l’art. 1, comma 2, della legge reg. Sardegna n. 21 del 2020 si occupa specificamente della disciplina della fascia costiera (considerata bene paesaggistico vincolato), per la cui pianificazione è necessaria una stretta collaborazione tra Stato e Regione che si inserisce in un progetto più ampio di pianificazione congiunta dell’intero territorio sardo. 

Secondo il Governo, la Regione avrebbe travalicato le proprie competenze statutarie, sottraendo unilateralmente alla copianficazione obbligatoria il tratto costiero dell’asse viario Sassari-Alghero che, come noto, riveste un ruolo strategico nel territorio insulare regionale, in quanto è a fortissima vocazione turistica. 

Detto tratto, peraltro, è inserito in un contesto ritenuto di particolare fragilità paesaggistica e dunque rientra tra i beni individuati dal P.P.R. e sottoposti – proprio per la loro natura di “beni paesaggistici” – a tutela individuale e mirata. 

Ebbene, in considerazione delle caratteristiche sopra richiamate, a parere del Governo, la Regione avrebbe anche sconfinato nella competenza legislativa esclusiva dello Stato nella materia della tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, poiché avrebbe inteso disciplinare autonomamente – e, dunque, non in maniera condivisa – la pianificazione dell’asse viario Sassari-Alghero, con un generale abbassamento di tutela che sarebbe stato potenzialmente idoneo ad incidere in maniera significativamente negativa sulle prospettive di sviluppo e turismo davvero sostenibili. 

La posizione della Regione  

La Regione Sardegna, invece, ha respinto le censure mosse dal Governo muovendo da quella che viene definita “interpretazione autentica” della Legge Regionale. 

In particolare, il legislatore regionale ha inteso sottrarre all’obbligo di pianificazione condivisa l’asse viario Sassari-Alghero sul presupposto che, attraverso la realizzazione di quattro corsie nello sviluppo geometrico del lotto n. 1, avrebbe creato «un’infrastruttura determinante per assicurare lo sviluppo sostenibile del territorio», dotata di «carattere strategico» e contraddistinta da «preminente interesse nazionale e regionale». 

Nelle intenzioni della Regione, inoltre, tale infrastruttura sarebbe dovuta essere conforme alle pregresse valutazioni di impatto ambientale e autorizzazioni paesistico-ambientali e, pertanto, non avrebbe arrecato alcun nocumento al territorio. 

Detti motivi, dunque, a parere della Regione sarebbero stati sufficienti per derogare alla disciplina del P.P.R. e per di più, data la loro importanza, le avrebbero consentito di esimersi dal coordinamento con il Governo. 

La decisione della Corte Costituzionale  

La Corte Costituzionale ha accolto il ricorso presentato dal Presidente del Consiglio dei ministri, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge della Regione Sardegna 13 luglio 2020, n. 21. 

A giudizio della Corte, infatti, l’adeguamento unilaterale del P.P.R. da parte della Regione Sardegna è dissonante rispetto al percorso prefigurato dal legislatore statale e originariamente condiviso con la stessa Regione, poiché contravviene al principio di leale collaborazione, il cui rilievo è confermato dallo stesso legislatore nazionale come norma di riforma economico – sociale che vincola l’autonomia speciale.Avv. Viola Zuddas, Civilista

Ricorda, la Corte, che le intese intercorse tra Regione e Stato erano proprio volte ad un’adeguata tutela e valorizzazione del paesaggio, funzionale ad una più ampia ed efficace salvaguardia dell’ambiente che, necessariamente, richiede la copianificazione degli interventi sul territorio soprattutto (ma non solo) quando questi ricadano su beni di interesse paesaggistico e, perciò, vincolati.

Viola Zuddas, Avvocato

Con la Legge regionale n. 17 del 22 novembre 2021, la Giunta regionale sarda ha vietato il prelievo, la raccolta, la detenzione, il trasporto, lo sbarco e la commercializzazione degli esemplari di riccio di mare (cd. Paracentrotus lividus) e dei relativi prodotti derivati freschi, a decorrere dal sessantesimo giorno successivo all’entrata in vigore della disposizione e comunque fino alla data 30 aprile 2024. 

Unitamente al fermo della pesca, la Regione Sardegna ha, altresì, predisposto degli interventi a sostegno dei pescatori subacquei professionali, con uno stanziamento in totale di 2 milioni e 800 mila euro da ripartire nei tre anni. 

È stata ulteriormente prevista anche l’attivazione di un piano di monitoraggio scientifico, di concerto con gli operatori del settore, per valutare gli effetti della chiusura temporanea e l’avvio di attività di recupero ambientale, come la pulizia dei fondali e la rimozione delle attrezzature da pesca. 

Il provvedimento ha suscitato l’immediata reazione delle associazioni dei pescatori professionisti, che comprende circa 200 operatori, tant’è vero che nei giorni scorsi la Commissione Attività Produttive del Consiglio regionale ha valutato l’ipotesi di rinvio del fermo biologico a fine aprile 2022, per consentire la chiusura della stagione di pesca dei ricci di mare e, al contempo, la predisposizione di un adeguato piano di indennizzi destinati agli operatori del settore.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Vi è chi sostiene che l’efficacia di un provvedimento così rigoroso, che colpisce direttamente i pescatori professionisti, potrebbe essere vanificata in mancanza di adeguati controlli contro l’abusivismo ed, altresì, che sussiste la necessità di garantire l’effettivo e soprattutto tempestivo sostegno economico ai lavoratori.  

Peraltro, tra le ipotesi sul tavolo, vi è anche quella di impiegare i pescatori colpiti dalla drastica misura nelle attività alternative di recupero ambientale, come ad esempio quella della rimozione della plastica in mare, al fine di garantire gli indennizzi in tempi rapidi, ma, com’è ovvio, si tratta di attività per le quali occorre una programmazione strutturata.  

Sulla base di tali presupposti, nella tarda serata di ieri, il Consiglio regionale ha accolto le richieste degli operatori del settore è ha deciso per il rinvio del blocco della pesca al prossimo 15 aprile, confermando al contempo il fermo triennale, che viene, dunque, prorogato al 30 aprile 2025.   

Ad ogni modo, per comprendere meglio la questione, è necessario partire dalla finalità che ha determinato l’introduzione del fermo triennale. 

La Legge regionale n. 17 del 22 novembre 2021

Il provvedimento, approvato dalla Giunta regionale su proposta dell’assessore all’agricoltura Gabriella Murgia, si è reso necessario per consentire il ripopolamento della specie, messa a rischio dal massiccio prelievo effettuato negli ultimi anni e dallo sovrasfruttamento della risorsa che, qualora venisse perpetrato, potrebbe condurre all’estinzione commerciale della specie.  

Nel mondo, ogni anno, si consumano circa 75 mila tonnellate di ricci di mare e, solo in Italia, circa 2 mila tonnellate, provenienti principalmente da Puglia, Sicilia e Sardegna, ma proprio in quest’ultima regione il rischio di estinzione risulta particolarmente elevato.  

I ricci di mare, infatti, svolgono un ruolo importante tanto nel mantenimento dell’ecosistema marino quanto nel settore commerciale, ragion per cui, da un lato, occorre garantire la sopravvivenza degli stessi e, dall’altro lato, evitare una proliferazione incontrollata che potrebbe ridurre la biodiversità nelle zone interessate. 

Si tratta, quindi, di individuare un punto di equilibrio tra le esigenze degli operatori del settore -che devono far fronte a una richiesta sempre maggiore da parte del consumatore- e la necessità di tutelare l’ambiente.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Per tali ragioni, proprio in Sardegna, già da molti anni si è cercato di intervenire per arrestare il collasso della specie, attraverso l’introduzione del cd. fermo biologico, che comporta il divieto di pesca, vendita e consumo dei ricci di mare dal mese di maggio fino a giugno, ovvero durante il periodo di riproduzione. 

Il fermo temporaneo è accompagnato da una precisa regolamentazione dell’attività, nonché dei requisiti per il suo corretto svolgimento, sennonché la predetta misura non è stata sufficiente a ridurre il rischio di estinzione e ha reso inevitabile l’adozione del fermo triennale. 

Le violazioni della normativa vigente comportano l’applicazione di sanzioni sia di natura penale che amministrativa.   

Fermo biologico e pesca illegale 

Con l’espressione “pesca illegale” si intende la pesca esercitata senza il possesso di licenza o autorizzazione valide, nonché in violazione delle norme previste a livello internazionale, nazionale e regionale, come ad esempio la pesca praticata in zone dove è imposto il divieto, oppure con l’utilizzo di attrezzi non conformi e, altresì, quando non si rispetta il periodo di fermo pesca stabilito. 

Come si immagina, tale attività illecita determina delle ripercussioni pesantissime sull’ecosistema e cagiona un grave danno economico e biologico, in quanto genera delle distorsioni nel mercato legale e provoca il depauperamento degli stock ittici, con la distruzione degli habitat marini e la conseguente perdita della biodiversità.   

Dunque, al fine di tutelare le risorse biologiche il cui ambiente abituale o naturale di vita sono le acque marine, nonché di prevenire, scoraggiare ed eliminare la pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata, l’art. 7, co. 1, del D. Lvo. 19 gennaio 2012, n. 4, individua una vasta gamma di attività considerate illeciti penali e, pertanto, punite con l’arresto e la multa.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

In particolare, nel successivo art. 8, co. 1 e 2, del menzionato Decreto, viene sanzionato chi cattura specie di cui è vietata la pesca, utilizza materiale esplosivo, cattura e trasporta pesci storditi e uccisi con metodi vietati o pesca in acque di altri Stati, con la pena dell’arresto da 2 mesi a 2 anni e la multa fino a 12 mila euro. 

Inoltre, costituisce reato anche la sottrazione del pescato da altre attività di pesca, l’esercizio della pesca in spregio delle distanze stabilite dalla normativa vigente e, altresì, la detenzione, il trasporto e il commercio del raccolto ottenuto illegalmente, tutte condotte punite, a seguito di querela di parte, con l’arresto da 1 mese a 1 anno e la multa fino a 6 mila euro. 

Vi è poi l’applicazione di pene accessorie, come la confisca del pescato e dell’attrezzatura utilizzata per la pesca, nonché la sospensione o la revoca della licenza e la sospensione dell’esercizio commerciale. 

Al di fuori dalle ipotesi in cui la condotta costituisca reato, il D. Lvo n. 4/2012 prevede, inoltre, degli illeciti amministrativi, tra i quali rientra, per espressa previsione nell’art. 10, co. 1, lett. d), anche l’attività di pesca di stock ittici per i quali la pesca è sospesa ai fini del ripopolamento per la ricostituzione degli stessi.  

Tale condotta comporta nei confronti del trasgressore il pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria da un importo minimo di 2 mila euro ad un massimo di 12 mila euro. 

Claudia Piroddu, Avvocato