La diffusione del virus COVID-19 ha notoriamente inciso sul nostro stile di vita europeo.

Al fine di tenere sotto controllo la pandemia, gli Stati hanno infatti dovuto adottare una serie di restrizioni senza precedenti che hanno avuto, e continuano ad avere, un costo elevato per i singoli individui e le famiglie, oltre che per le imprese.

Dette restrizioni, non solo hanno comportato una drastica interruzione nel commercio ma hanno altresì sospeso il libero esercizio del diritto alla libera circolazione e altri diritti fondamentali in tutta l’UE.

Ebbene, proprio la possibilità di tornare a circolare e muoversi liberamente all’interno dello spazio europeo (e non solo), rappresenta uno dei principali auspici dei singoli e, al contempo, uno dei principali obiettivi dei Governi.

Ma in questo scenario, chi, tra Stati membri e Unione Europea, può adottare misure di carattere vincolante a livello sanitario, al fine di superare gli ostacoli che la pandemia ha frapposto tra i singoli e l’esercizio dei diritti fondamentali quali, tra gli altri, quello proprio alla libertà di circolazione?

Al riguardo, è importante ricordare che in materia sanitaria la responsabilità primaria per la tutela della salute e, in particolare, per la gestione dei sistemi sanitari rimane in capo agli Stati membri dell’Unione Europea. Ciò significa che, a livello nazionale, i singoli Stati hanno piena competenza decisionale in ambito sanitario.

Tuttavia, sebbene detta materia rientri tra quelle di competenza degli Stati membri, l’art. 4 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) riconosce comunque a quest’ultima un certo margine di intervento, seppur concorrente, nel predetto settore: difatti, nonostante l’Unione non sia chiamata a definire le politiche sanitarie, né l’organizzazione e la fornitura di servizi sanitari e di assistenza medica, la sua azione è fondamentale per integrare le politiche nazionali; e ciò, non solo per tutelare e migliorare la salute e la sanità pubblica in termini di prevenzione e gestione della malattie, o per garantire la parità di accesso a un’assistenza sanitaria moderna ed efficiente per tutti i cittadini europei, ma anche, e soprattutto, al fine di coordinare le gravi minacce sanitarie che coinvolgono più di un paese membro dell’UE.

In tali casi, in conformità al dettato di cui all’articolo 168, par. 5 del TFUE, l’Unione Europea può perfino adottare atti legislativi vincolanti per proteggere e migliorare la salute umana quali “in particolare per lottare contro i grandi flagelli che si propagano oltre frontiera, misure concernenti la sorveglianza, l’allarme e la lotta contro gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero”.

Ebbene, proprio in virtù di tale espresso potere attribuito dai Trattati all’Unione, la Commissione Europea, in data 17 marzo 2021, ha avanzato una proposta legislativa al Parlamento Europeo ed al Consiglio affinché, mediante procedura legislativa ordinaria (che prevede, nel processo di formazione dell’atto legislativo, un intervento paritario del Parlamento e del Consiglio), venga adottato un “Certificato verde digitale” (Digital green certificate), riconosciuto in tutti gli Stati membri dell’UE, che consenta ai cittadini europei di poter tornare a viaggiare già a partire dalla prossima estate.

Il fine è, dunque, quello di agevolare la libera ( e sicura) circolazione dei cittadini nell’UE durante la pandemia da COVID-19 .

Secondo la proposta avanzata dalla Commissione, il certificato sarà disponibile sia in formato digitale che cartaceo e consentirà alle autorità di uno Stato membro di effettuare un controllo rapido e semplice del certificato rilasciato in un altro Stato membro.

Sul documento, che sarà valido in tutti i paesi europei, dovrà essere riportata una quantità minima di dati necessari quali, ad esempio, la data di vaccinazione e il vaccino somministrato, se il soggetto ha ottenuto un risultato negativo al test, ovvero risulta guarito, oppure se risulta in attesa di sottoporsi a test.

Ma come si ottiene tale certificato? Il ruolo dei governi nazionali

Una volta approvato l’atto legislativo a livello comunitario – che, alla luce della proposta legislativa presentata, dovrebbe avvenire mediante l’adozione di direttive tecniche – gli Stati europei saranno chiamati a dare attuazione alla normativa sui certificati digitali, alla luce del quadro tecnico definito a livello europeo.

Le autorità nazionali, dunque, saranno direttamente responsabili del rilascio del certificato secondo le modalità che riterranno più opportune (come, ad esempio, mediante consegna da parte delle strutture ospedaliere, o direttamente dai centri di test anti-covid, o da parte di altra autorità sanitaria) ma sempre e comunque nel rispetto del quadro tecnico e delle finalità proprie della normativa europea.

Di talché, tutti i cittadini potranno iniziare a viaggiare liberamente e muoversi nello spazio comunitario senza dover soggiacere alle restrizioni attualmente in vigore quali l’obbligo di quarantena o di effettuare un test posto in essere per limitare la diffusione da Covid-19.

In ogni caso, è importante sottolineare che, come precisato dalla stessa Commissione Europea nella proposta legislativa, il possesso di un certificato non rappresenta un presupposto indispensabile per esercitare il diritto alla libera circolazione o altri diritti fondamentali.
Pertanto, anche alle persone prive di tale documento sarà consentito di viaggiare ma, al fine di prevenire l’eventuale diffusione del contagio, esse dovranno sottostare alle restrizioni nazionali del paese di destinazione eventualmente in vigore.

Quali sono le prossime tappe?

Il Parlamento Europeo ed il Consiglio sono chiamati ad accelerare le discussioni e raggiungere un accordo sulle proposte della Commissione relative all’adozione di un certificato verde digitale.

Dopodiché, toccherà agli Stati adottare tutte le misure necessarie per procedere alla distribuzione logistica dei certificati stessi, tanto per il rilascio che per la verifica, oltre che per apportare le modifiche necessarie ai sistemi sanitari nazionali.

Con l’approvazione del Certificato, dunque, i cittadini europei potranno esercitare nuovamente appieno il diritto alla libera circolazione e altri diritti fondamentali in tutta l’UE mediante un approccio coordinato alla libera circolazione.

Il Parlamento Europeo ed il Consiglio sono chiamati ad accelerare le discussioni e raggiungere un accordo sulle proposte della Commissione Europea relative all’adozione di un Certificato verde digitale che consenta ai cittadini degli Stati membri, e non solo, di poter circolare liberamente. Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista

Eleonora Pintus, Avvocato

Ormai da mesi sentiamo parlare del cosiddetto “Superbonus 110%” per le ristrutturazioni delle nostre abitazioni: si tratta, nello specifico, di un’agevolazione statale che permette di detrarre tutte le spese affrontate per lavori di efficientamento energetico con un’aliquota del 110%.

Pertanto, non vi è dubbio che rappresenta per tutte le figure coinvolte nel processo edilizio (dal committente ai progettisti, dagli impresari agli istituti di credito) un’ottima opportunità per eseguire, a costi contenuti, degli specifici interventi in ambito di riqualificazione energetica, e non solo.

Il “Superbonus 110%”, quindi, consente la realizzazione di tutte quelle lavorazioni che aumentano le prestazioni termiche della nostra casa e che, contestualmente, ne diminuiscono i consumi, tra le quali la più diffusa è rappresentata dalla realizzazione di un cappotto termico necessario per la coibentazione dell’involucro di un edificio.

Prima di entrare nel merito delle lavorazioni ammesse alla detrazione, è opportuno precisare che il quadro normativo, seppur ormai ampiamente definito, è in continua evoluzione: la grande portata dell’intervento lo rende, inevitabilmente, un tema complesso da affrontare tant’è che l’Agenzia delle Entrate e gli altri enti preposti (E.N.E.A. e Mi.S.E.) hanno emanato circolari e risoluzioni per fornire chiarimenti interpretativi della normativa di riferimento, ovvero il D. L. 19 maggio 2020, n. 34, il cosiddetto “Decreto Rilancio”.

Inoltre, in considerazione delle molteplici casistiche che possono crearsi in un panorama edilizio vario e complesso come quello italiano è comprensibile che, almeno nella fase iniziale, vi siano delle incertezze ed un po’ di diffidenza nei confronti della fisiologica burocrazia insita in un intervento di queste proporzioni.

Tuttavia, il “Superbonus 110%” rappresenta davvero un’ottima possibilità e, pertanto, è necessario che il committente, prima di dare esecuzione ad un qualsiasi intervento sul proprio immobile, si affidi ad un professionista che, attraverso la realizzazione di uno studio di fattibilità, valuti la sussistenza dei requisiti richiesti dalla normativa per accedere alla detrazione. Carlo Murtas, Architetto

In questo breve articolo, dunque, non voglio entrare nel dettaglio delle singole e differenti casistiche che potrebbero incontrarsi, ma darò delle indicazioni in maniera chiara e semplice per aiutare a comprendere le caratteristiche principali di questo strumento.

Prima di tutto, come anticipato, occorre precisare che i principali soggetti beneficiari di questa agevolazione sono, per ciò che qui interessa, le persone fisiche proprietarie di immobili ed i condomini.

Inoltre, la normativa di riferimento prevede due macro categorie di interventi agevolabili: quelli cosiddetti “trainanti” e quelli cosiddetti “trainati”.

Gli interventi “trainanti” sono quelli principali e, di conseguenza, obbligatori per poter ottenere la detrazione fiscale del 110%, tra i quali si possono menzionare quelli di isolamento termico sugli involucri (ad esempio, realizzazione del cappotto termico).

Gli interventi “trainati”, invece, sono quelli aggiuntivi, la cui relativa spesa, pertanto, potrà essere detratta solo se viene contestualmente realizzato almeno un intervento principale; tra questi possono ricordarsi quelli di efficientamento energetico (ad esempio, realizzazione di infissi esterni).

Come anticipato precedentemente, per accedere al “Superbonus 110%” è opportuno che il professionista incaricato esegua uno studio di fattibilità specifico per quel determinato immobile che, partendo dalla valutazione della conformità urbanistica ed edilizia e dalla diagnosi energetica, mira a verificare la sussistenza dei requisiti necessari prescritti dalla normativa di riferimento.

Se lo studio di fattibilità dovesse dare esito positivo in tutte le sue fasi, si potrà procedere con la fase progettuale definitiva ed avviare la pratica di detrazione.

Il vantaggio principale del “Superbonus”, come sappiamo, è la possibilità di vedersi riconoscere la detrazione fiscale nella misura del 110% e, altresì, di poter optare per la cessione del credito corrispondente alla detrazione maturata oppure scegliere un contributo anticipato sotto forma di sconto in fattura.

In conclusione, il “Superbonus 110%” rappresenta sicuramente un’ottima opportunità per tutti coloro che hanno intenzione di effettuare lavori di efficientamento energetico della propria abitazione poiché abbatte notevolmente i relativi costi di esecuzione.

Carlo Murtas, Architetto

Sono laureato in architettura delle costruzioni ed esercito la professione di architetto presso Hinternos, il mio studio di Cagliari, in viale Diaz n. 29.

Hinternos è uno studio multidisciplinare di architettura nel quale si affrontano progetti che spaziano dalla piccola scala del design alle ristrutturazioni di interni ed efficientamento energetico degli edifici.

Focus di diritto tributario Avv. Francesco Sanna

Superbonus 110%: accertamento e dubbi circa il Giudice competente in caso di controversia
In ordine alla disciplina dei controlli riferiti al Superbonus questi sono demandati a più soggetti con competenze diverse.

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

Profili di rilevanza penale: le false attestazioni
Per l’ottenimento del beneficio fiscale, c.d. Superbonus 110%, previsto dalla L. 17 luglio 2020, n. 77, e riconosciuto sotto forma di detrazione delle spese sostenute per la realizzazione di interventi di ristrutturazione destinati al miglioramento energetico degli immobili, nonché alla riduzione del rischio sismico, la Legge richiede il rilascio di talune attestazioni da parte di soggetti qualificati.

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Focus di diritto civile • Avv. Viola Zuddas

Ristrutturazione dell’immobile e Superbonus 110%
In materia di Condominio negli edifici è importante sottolineare, anzitutto, che ci si trova davanti ad una situazione complessa, in cui le singole unità immobiliari coesistono con le cosiddette parti comuni.
In un Condominio, quindi, ciascun condomino è proprietario di uno o più appartamenti ed è, altresì, comproprietario, insieme agli altri, delle parti comuni dell’edificio.

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Focus di diritto internationale • Avv. Eleonora Pintus

Superbonus 110%: i residenti all’estero possono beneficiarne?
Ti sarai forse chiesto se il Superbonus sia destinato esclusivamente ai cittadini italiani residenti in Italia oppure se anche coloro che vivono all’estero abbiano la possibilità di beneficiarne.

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Il matrimonio omosessuale è un fenomeno relativamente recente, ammesso, ormai, in molti Paesi di cultura affine a quella dello Stato italiano.

Tuttavia, poiché le fonti sovranazionali non impongono uno specifico e determinato modello di matrimonio, gli Stati restano liberi di prevedere o meno, all’interno del proprio ordinamento, il matrimonio di persone dello stesso sesso.

Difatti, come anche riconosciuto tanto dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo quanto dalla Corte di Giustizia, nel rispetto delle diverse tradizioni giuridiche e sociali degli Stati, non è possibile imporre una nozione di matrimonio.

D’altra parte, però, le stesse Corti sovranazionali – e, più di recente, anche quelle Nazionali – sembrano voler sostenere e favorire il complesso normativo degli Stati più innovatori, tanto da affermare che anche il matrimonio omosessuale è pur sempre un matrimonio e, al contempo, una relazione tra persone dello stesso sesso è una relazione familiare che deve essere necessariamente tutelata.

Nello Stato Italiano, ad esempio, non è ammesso il matrimonio tra persone dello stesso sesso in quanto, l’istituto del matrimonio ha, quale presupposto inderogabile, la diversità di sesso tra i nubendi.

Ma cosa accade, allora, nelle ipotesi in cui una coppia di cittadini italiani o di cittadino italiano e straniero abbia suggellato la propria unione in un Paese che ammette e riconosce l’istituto del matrimonio tra coppie same-sex? A tale unione può essere riconosciuto, a certi effetti, lo status derivante da un matrimonio omosessuale contratto fuori dalla “restrizioni” del proprio Paese?

La risposta è (parzialmente) affermativa.


Riqualificazione del matrimonio contratto all’estero in unione civile secondo la legge italiana

Il dibattito relativo al riconoscimento in Italia del matrimonio omosessuale tra stranieri è stato nettamente ridimensionato grazie all’introduzione di apposita disciplina internazionalprivatistica: il nuovo art. 32 bis della l. 218/1995 attuativo della legge n. 76/2016, conosciuta anche come “Legge Cirinnà”, detta una norma con la quale viene esteso il riconoscimento alle coppie same-sex, che abbiano contratto matrimonio all’estero, gli effetti dell’”unione civile” regolata dalla legge italiana.

Detta norma, dunque, riqualifica il matrimonio estero in unione civile, non discostandosi in termini sostanziali da quanto già operato, in precedenza, dalla giurisprudenza, allorquando non esisteva ancora una disciplina giuridica delle unioni civili.

Se, dunque, da una parte, vi è un riconoscimento dei matrimoni omosessuali transnazionali contratti all’estero, d’altra parte, detto riconoscimento non avviene mediante l’inquadramento dello stesso nell’istituto del “contratto matrimoniale” ma si verifica un’automatica conversione nello schema dell’”unione civile”.

Ciò significa che lo status e gli effetti derivanti da un matrimonio same-sex contratto all’estero da cittadini italiani o da coppia internazionale possono, sì, essere
riconosciuti dall’ordinamento statale, ma nei limiti ed entro gli effetti propri dell’istituto dell’unione.

Appare pertanto evidente che, pur avendo il legislatore nazionale voluto riconoscere alcuni effetti sostanziali del matrimonio omosessuale straniero, lo ha fatto riservando, formalmente, l’istituto del matrimonio solo alle persone di diverso sesso.

Gli effetti derivanti da un matrimonio same-sex contratto all’estero da cittadini italiani o da coppia internazionale possono essere riconosciuti dall’ordinamento statale, ma nei limiti ed entro gli effetti propri dell’istituto dell’unione civile.Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista

Eleonora Pintus, Avvocato

Nello spazio Europeo, connotato dalla libera circolazione di merci, persone, servizi e capitali, sono sempre più frequenti i casi in cui, all’insorgere di una controversia, sia necessario stabilire il diritto applicabile, nonché l’autorità giurisdizionale competente a decidere nel merito.

Problema, questo, che si pone, altresì, in tema di separazione e divorzio di coppie definite come “internazionali”, ossia coppie di diversa nazionalità ovvero della stessa nazionalità ma che hanno contratto matrimonio in uno Stato diverso rispetto a quello di origine o, più comunemente, hanno deciso di installare la vita coniugale in un altro Stato membro dell’Unione Europea – o anche Stato terzo – rispetto a quello in cui hanno contratto matrimonio.

In tali casi, la maggiore difficoltà deriva, indiscutibilmente, dalla molteplicità e diversità delle legislazioni in materia di scioglimento del vincolo coniugale. Basti pensare che, a differenza dell’ordinamento italiano, vi sono altri ordinamenti che non considerano l’istituto del divorzio, ed altri che, pur contemplandolo, non conoscono, d’altra parte, quello della separazione personale dei coniugi (come, ad esempio, l’ordinamento rumeno).

Va da sé che in uno scenario normativo particolarmente articolato, ove si intrecciano norme di diritto interno, diritto comunitario ed internazionale, non è certamente agevole orientarsi senza incorrere nel rischio di perdere la rotta.

Cosa accade se, ad esempio, al momento della domanda di divorzio i coniugi hanno trasferito la propria residenza oppure se la legge astrattamente applicabile subordina il divorzio a condizioni troppo restrittive?

A quali norme, in questi casi, occorre appellarsi al fine di individuare il giudice competente e la legge applicabile in sede di divorzio transnazionale?

Il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea

Sul punto, la Corte di Giustizia è stata interpellata da un giudice nazionale, in via pregiudiziale, al fine di interpretare e chiarire la portata dell’art. 10 del Regolamento n. 1259/2010, relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata nel settore della legge applicabile al divorzio e alla separazione personale.
Tale procedura è stata attivata alla luce di un caso presentato a un Tribunale rumeno.

Nel caso di specie, due cittadini rumeni contraevano matrimonio in Romania e, successivamente, trasferivano la propria residenza in Italia. Dopo aver presentato domanda di divorzio nanti il Tribunale della Romania, il Giudice investito della causa riconosceva, sulla base dell’art. 3 del Regolamento n. 2201/2003, la propria competenza generale a conoscere della domanda di divorzio e, al contempo, sulla base dell’art. 8 del Regolamento n. 1259/2010, individuava quale legge applicabile alla controversia quella italiana. Ciò in quanto, al momento della proposizione della domanda di divorzio, la residenza abituale dei coniugi si trovava proprio in Italia.
Tuttavia, poiché secondo il diritto italiano, in una tal circostanza, la domanda di divorzio può essere avanzata soltanto a seguito di previa separazione dei coniugi – nella specie mai intervenuta – i Giudici respingevano la domanda.

Una delle parti decideva, dunque, di impugnare la sentenza affermando che, poiché la legge italiana è particolarmente restrittiva con riguardo alle condizioni richieste per divorziare (ossia il previo intervento di una pronuncia di separazione giudiziale o omologa), nel caso di specie ben avrebbe dovuto applicarsi alla domanda di divorzio la legge rumena (ossia la legge del foro), in quanto più semplice e meno restrittiva.

Alla luce di detta contestazione, il Giudice di merito sottoponeva alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la questione pregiudiziale circa l’esatta interpretazione dell’art. 10 del Regolamento n. 1259/2010. Detta norma, dal carattere del tutto residuale, dispone espressamente che: “Qualora la legge applicabile ai sensi dell’articolo 5 o dell’articolo 8 non preveda il divorzio o non conceda a uno dei coniugi, perché appartenente all’uno o all’altro sesso, pari condizioni di accesso al divorzio o alla separazione personale, si applica la legge del foro”.

Nel caso di separazione o divorzio di una coppia internazionale, occorre stabilire quale sia l’autorità giurisdizionale competente e la legge applicabile alla luce del diritto interno e comunitario. Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista

In particolare, il Tribunale chiedeva se l’espressione “la legge applicabile ai sensi dell’articolo 5 o dell’articolo 8 non prevede il divorzio” debba essere interpretata in modo restrittivo – per cui la legge del foro troverebbe applicazione esclusivamente nell’ipotesi in cui la legge (straniera) applicabile non preveda in nessun caso il divorzio – ovvero secondo un’interpretazione estensiva; ciò da cui consegue che la legge del foro trovi applicazione anche nelle ipotesi in cui pur contemplando la legge straniera il divorzio, esso viene subordinato a condizioni eccezionalmente restrittive, quali la previa separazione.

La Corte di Giustizia, sulla base di un’interpretazione ispirata ai principi fondamentali, ha affermato che l’art. 10 sopra citato deve essere interpretato nel senso che i termini “[q]ualora la legge applicabile ai sensi dell’articolo 5 o dell’articolo 8 non preveda il divorzio” riguardano unicamente le situazioni in cui la legge straniera applicabile non prevede il divorzio in alcuna forma” (Corte giustizia UE, sez. I, 16 luglio 2020, n. 249).

Sulla scia di tale impostazione, la Corte di Giustizia ha riconosciuto, nel caso di specie, la giurisdizione del Giudice rumeno a pronunciare il divorzio tra cittadini rumeni residenti da anni in Italia ma con applicazione della legge italiana.

Ciò in quanto, alla luce del principio espresso, la legge straniera (in questo caso quella italiana) dovrà trovare applicazione anche se contiene condizioni più restrittive rispetto a quella del foro, poiché un caso di tal genere – ove la legge straniera applicabile consente di chiedere il divorzio solo nell’ipotesi in cui sia stata previamente pronunciata una sentenza di separazione – non può assolutamente essere assimilato al caso in cui in un ordinamento non sia previsto, tout court, l’istituto del divorzio.

Eleonora Pintus, Avvocato