Nell’ambito delle misure volte a garantire una tutela specifica della vittima del reato, l’ordinamento penale italiano prevede, tra le altre, la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, di cui all’art. 282 ter c.p.p.

La misura in esame ha un carattere duplice, in quanto consente al giudice di prescrivere all’autore del reato di non avvicinarsi a luoghi determinati, ovvero di mantenere una certa distanza dai predetti luoghi o dalla stessa persona offesa, anche disponendo particolari modalità di controllo, mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici.

La finalità dell’istituto è evidente: tutelare l’incolumità della persona offesa, sia nella sfera fisica che in quella psichica, impedendo la reiterazione delle condotte delittuose ed evitando alla vittima il turbamento derivante dall’incontro con l’indagato o dalla vicinanza dello stesso.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Sebbene sia una misura di portata generale, quindi, applicabile per qualsiasi reato, essa trova applicazione soprattutto in relazione ai reati di stalking, violenza sessuale, lesioni aggravate e maltrattamenti in famiglia.

Si tratta, infatti, di fattispecie delittuose contraddistinte dalla particolare vulnerabilità della persona offesa, in quanto destinataria di condotte di violenza persistenti e invasive, nonché caratterizzate dall’assillante ricerca di contatto con la vittima in qualsiasi luogo la stessa si trovi, tali da rendere necessaria l’adozione del provvedimento cautelare, suscettibile di applicazione immediata.

Giova sottolineare, inoltre, che la disposizione in esame si inserisce in un quadro normativo finalizzato al contrasto della violenza domestica e di genere, attuato con la L. n. 154/2001, che ha introdotto la misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare di cui all’art. 282 bis c.p.p., nonché con il D.L. n. 11/2009 che, oltre ad aver previsto la misura in oggetto, ha introdotto il reato di atti persecutori, ed infine con la più recente Legge sul femminicidio e con il cd. Codice Rosso.

Nonostante la disposizione in parola appaia di formulazione sufficientemente lineare, è sorto un problema interpretativo riguardante le modalità di attuazione della misura, tanto ciò è vero che, nell’ottobre scorso, si è reso necessario l’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 39005/2021.

Il contrasto giurisprudenziale

Un primo indirizzo giurisprudenziale, partendo proprio dal dato letterale dell’art. 282 ter c.p.p., in cui si parla di “luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa”, ritiene che spetti al Giudice indicare sempre in modo specifico e dettagliato i luoghi il cui l’accesso è precluso all’indagato destinatario della misura restrittiva.

Infatti, l’applicazione del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, senza una chiara individuazione degli stessi, avrebbe un connotato talmente generico e indefinito da comportare, da un lato, un’eccessiva e ingiustificata compressione della libertà personale e di movimento dell’indagato e, dall’altro lato, di rendere meno agevole il controllo delle prescrizioni imposte.

Il secondo indirizzo giurisprudenziale, invece, fornisce una chiave di lettura della norma partendo dalla finalità che la stessa assume, ovvero garantire la sicurezza della vittima attraverso la creazione di un vero e proprio “schermo di protezione” attorno ad essa, affinché la medesima possa vivere liberamente la propria quotidianità.

Ne consegue, quindi, che la previsione di un divieto di avvicinamento limitato solo a luoghi statici e predefiniti, in taluni casi, potrebbe non essere sufficiente a garantire una tutela piena ed effettiva della vittima, posto che nell’ambito della misura cautelare lo stesso Legislatore distingue in maniera netta due ipotesi, ovvero il divieto di avvicinamento ai luoghi o alla persona.

Ebbene, nel caso in cui venga disposto il divieto di avvicinamento alla persona offesa, il Giudice deve comunque indicare anche i luoghi oggetto del divieto oppure è sufficiente che indichi soltanto la distanza da tenere rispetto alla persona offesa ovunque essa si trovi?

La soluzione delle Sezioni Unite

Nel dirimere la questione, le Sezioni Unite hanno preso in esame la struttura della diversa misura di cui all’art. 282 bis c.p.p., ove è previsto che, in aggiunta all’allontanamento dell’indagato dalla casa familiare, possa essere disposto il divieto di avvicinamento a luoghi determinati -come ad esempio il luogo di lavoro, il domicilio della famiglia di origine o dei prossimi congiunti della persona offesa-, sempre che sussista l’esigenza di una tutela “rafforzata” della vittima.

Similarmente, anche nel caso in esame la norma consente di graduare l’applicazione delle prescrizioni in base all’intensità del rischio a cui è esposta la vittima, attraverso la predisposizione dell’obbligo di mantenere una certa distanza sia da taluni luoghi che dalla persona offesa in quanto tale, e ciò in conformità alla normativa sovranazionale e, nella specie, alla Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio UE n. 2001 del 13.12.2011.

Ne consegue, pertanto, che la misura cautelare del divieto di avvicinamento alla persona offesa è caratterizzata da prescrizioni autonome che possono essere disposte in alternativa oppure congiuntamente, ad esito del giudizio di bilanciamento degli interessi coinvolti e purché risultino strettamente necessarie a garantire la protezione della vittima, in accordo con la previsione dell’art. 13 della Costituzione e dei limiti applicabili alla libertà dell’indagato.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Da un punto di vista pratico, quindi, potranno delinearsi due ipotesi differenti.

La prima ipotesi ricorre quando il Giudice decida di prescrivere il divieto di avvicinamento a luoghi determinati, poiché in tal caso la misura si applica a prescindere dalla presenza fisica della persona offesa e richiede sempre la chiara e precisa indicazione dei luoghi interdetti.

Ciò sta a significare che la violazione della misura imposta si realizza anche nel caso in cui l’indagato si rechi in uno dei suddetti luoghi e la persona offesa non sia presente in quel momento.

Peraltro, tale condotta, oltre a comportare un aggravamento della misura cautelare con altra più afflittiva, come gli arresti domiciliari o la custodia in carcere, è idonea a configurare un’autonoma fattispecie di reato, prevista nell’art. 387 bis c.p. e punita con la reclusione da sei mesi a tre anni.

Mentre, la seconda ipotesi -senza dubbio più gravosa per l’indagato, ma comunque conforme ai principi costituzionali- riguarda il caso in cui sia disposto il divieto di avvicinamento proprio alla persona offesa, giacché in questo caso non è necessaria una perimetrazione fissa del divieto che, pertanto, si estende a qualunque luogo si trovi la persona protetta.

In questa ipotesi il Giudice, valutati i criteri di adeguatezza e proporzionalità della misura, sarà tenuto semplicemente ad indicare la distanza che dovrà sempre essere mantenuta.

L’indagato, pertanto, dovrà tenersi a distanza dalla persona offesa, sia evitando di ricercare qualsiasi contatto con la stessa e sia, nel caso di incontro casuale, allontanandosi immediatamente e ristabilendo la distanza imposta.

Claudia Piroddu, Avvocato

Il Natale in negozio

Dicembre è il mese più atteso, non solo dai bimbi che aspettano il Natale con i doni ma, anche, dagli imprenditori che, come me e la mia socia Roberta Baioni, gestiscono attività commerciali.

In questo periodo, infatti, si raccolgono i frutti di undici mesi di investimenti – non soltanto economici ma anche in termini di impegno ed aspettative – e si devono concentrare tutti gli sforzi per non vanificare il lavoro preparatorio.

Quest’ultimo inizia a gennaio, con le fiere di settore che propongono con largo anticipo quelle che saranno le tendenze per gli addobbi degli alberi e della casa.

Il mio compito è proprio quello di fare la buyer per la mia società: mi occupo, quindi, degli acquisti per il negozio Sirene, naviganti e sognatori e, pur essendo un compito molto impegnativo e delicato, lo faccio con piacere e divertimento. Giovanna Diana, Imprenditrice

Questo compito, poi, è strettamente legato all’esposizione, anzi, ne è il preludio.

L’esposizione è un altro aspetto rilevante per la buona riuscita degli investimenti, perché la gestione corretta dello spazio del negozio e la cura nella scelta della merce da esporre attirano ed incuriosiscono maggiormente le clienti.

Esporre in modo elegante e creativo è sicuramente uno dei miei punti di forza e l’ambiente così creato accoglie e avvolge le clienti, rendendo il lavoro di un anno un successo.

Sono tante le persone che frequentano il nostro negozio e, delle volte, possono crearsi delle tensioni quando, per vari motivi, vengono inavvertitamente rotti degli oggetti dai clienti.

Ho una regola: evitare imbarazzi alle persone per cui, ogni qualvolta accade che un oggetto venga rotto, rassicuro la cliente e non addebito nessun costo, a meno che la cliente stessa non insista per ripagare il danno, ed in quel caso l’importo viene comunque decurtato del – 50%.

Infatti, anche se la legge mi consente di chiedere il pagamento dell’intera somma, sono convinta che una brava imprenditrice debba andare incontro ai propri clienti, soprattutto nei momenti che possono generare tensione ed imbarazzo.

Il periodo natalizio, come detto e come ovvio, è dedicato ai regali.

Questi, purtroppo, non sempre sono adatti a chi li riceve o, semplicemente, può capitare che non siano di gradimento.

In questo caso è bene ricordare per tempo che i cambi della merce si possono effettuare entro il 31 dicembre sempre e solo con la presentazione dello scontrino fiscale, che noi abbiamo cura di consegnare con l’apposita custodia.Giovanna Diana, Imprenditrice

Tra l’altro, il cambio o il reso degli acquisti fatti è una pratica che noi decidiamo di seguire perché capiamo le esigenze delle clienti e vogliamo che siano sempre soddisfatte.

Per questo motivo, anche se la legge non ci impone alcun obbligo – perché siamo un locale commerciale e gli acquisti avvengono direttamente in negozio e non, ad esempio, online – riconosciamo sempre alle clienti la possibilità di effettuare il reso, dietro presentazione dello scontrino fiscale.

Non è un lavoro facile il mio, richiede molta passione e tanto tempo da dedicare a tutti gli aspetti che, in questo focus, ho descritto solo in parte.

Ma non lo cambierei perché mi piace farlo in modo impeccabile e professionale.

E questo, alla fine, da i suoi frutti.

Giovanna Diana, Imprenditrice

Sono nata e cresciuta a Cagliari, e con la mia socia di origine lombarda, Roberta Baioni, ho creato Sirene, naviganti e sognatori, piccolo ma prezioso store al centro della città.

L’attività ha, ormai, 22 anni ed è ben inserita nelle mete dello shopping.

Siamo presenti anche sui principali social dove abbiamo acquisito un discreto consenso.

Il negozio si trova a Cagliari, in via Sebastiano Satta n.64.

Focus di diritto tributario • Avv. Francesco Sanna

Trattamento fiscale degli omaggi natalizi

Come ogni anno le festività natalizie e di fine anno sono per le aziende l’occasione di consegnare degli omaggi ai propri clienti e ai dipendenti.
Ma quale è il trattamento fiscale a loro riservato?

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

Acquisti e truffe online

Oggigiorno, lo shopping online rappresenta una modalità di acquisto ormai consolidata e sempre più in espansione, che consente di selezionare con semplicità i prodotti desiderati per poi riceverli comodamente a casa propria, talvolta, con notevole risparmio in termini di tempo e di denaro.

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Focus di diritto civile • Avv. Viola Zuddas

Cosa fare in caso di regalo non gradito?

Specialmente durante le feste può capitare di ricevere regali che non siano di proprio gradimento e, in questi casi, spesso ci si chiede se sia possibile cambiare quanto ricevuto e, eventualmente, cosa si debba fare.

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Iva e vendite a distanza: le nuove regole dell’e-commerce

Le festività natalizie, si sa, rappresentano quel momento dell’anno in cui i consumatori non badano a spese.
Negli ultimi anni e, in particolare, con l’avvento della pandemia mondiale, delle sue varianti ed annesse restrizioni negli spostamenti, il modo di acquistare è stato totalmente rivoluzionato.

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La disabilità può essere definita come la condizione personale di chi, a causa di una o più menomazioni ovvero a causa di minorazioni fisiche e/o intellettuali, ha una ridotta capacità d’interazione con l’ambiente sociale circostante.

Detta condizione è, con tutta evidenza, causa di una ridotta autonomia nello svolgimento delle attività quotidiane e di partecipazione alla vita sociale al pari degli altri individui.

Per questo motivo è necessaria una tutela maggiore nei confronti di questa categoria da parte del legislatore e, in generale, da parte delle Istituzioni alle quali è affidato il compito di creare condizioni ottimali e rimuovere gli ostacoli che impediscono, di fatto, la libera determinazione degli individui.Avv. Eleonora Pintus, Diritto Internazionale e Diritto dell’Unione Europea

In questo articolo ci proponiamo di affrontare una breve disamina del fitto quadro normativo sulla tutela dei disabili, che assume forte rilevanza tanto sul piano della regolamentazione sovranazionale che nazionale, e delle sue recentissime evoluzioni.

Tra diritto internazionale e diritto dell’unione europea

In particolare, l’Unione europea ha iniziato a occuparsi di disabilità fin dalla seconda metà degli anni Settanta senza, tuttavia, adottare atti di carattere vincolante. Ciò in quanto i Trattati allora vigenti non prevedevano alcun trasferimento dei poteri relativi alla regolamentazione dei diritti dei disabili all’Unione Europea, restando, come tali, estranei al contesto normativo europeo.

È solo con l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam che la Comunità Europea (così chiamata all’epoca) ha acquisito il potere di intervenire in materia ed adottare misure dirette a combattere le discriminazioni  sulla base della disabilità (come previsto dall’articolo 19 TFUE).

Detto potere è venuto rafforzandosi nel 2009, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona – che ha introdotto una modifica nella parte attinente la procedura legislativa necessaria ad adottare misure in materia di disabilità – e ancor più con la ratifica della “Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità” la quale ha spinto l’Ue ad includere la tutela e promozione dei diritti delle persone con disabilità tra le sue azioni prioritarie.

Detta Convenzione – ratificata dall’Unione ed entrata a far parte delle sue fonti normative con rango di fonte intermedia – è stata adottata il 13 dicembre 2006 dall’Assemblea generale dell’Onu la quale imputa la condizione di disabilità alla presenza nella società di barriere di carattere ambientale e sociale.

Essa, pertanto, impone agli Stati aderenti di tenere una condotta attiva atta ad eliminare tutti gli ostacoli che impediscono al disabile di vivere nella società in condizione paritarie.

I pilastri attorno ai quali ruota il testo della Convenzione sono infatti quelli di dignità, autonomia individuale, accessibilità, inclusione nella società, eguaglianza e accettazione della disabilità come parte della diversità umana; il fine è dunque quello di creare condizioni per la partecipazione del disabile alla vita sociale e dell’inclusione dello stesso in tutti i rapporti sociali, quale condizione necessaria per la salvaguardia del suo equilibrio fisico e psichico.

Ma quali sono le garanzie concretamente riconosciute al disabile nell’ambito dell’ordinamento interno?

La tutela del disabile nel diritto interno

Si deve alla normativa sovranazionale e, in particolare, alle direttive europee, il riconoscimento e l’affermazione dell’eguaglianza nei confronti degli individui disabili da parte del legislatore nazionale ed il riconoscimento di diritti fondamentali.

Tra questi, occorre senz’altro richiamare la direttiva dell’UE 2000/78/CE che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, recepita nell’ordinamento italiano con D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216, come corretto dal D.Lgs. 2 agosto 2003, n. 256.

Ancora, al fine di agevolare la mobilità del disabile, il legislatore europeo ha adottato vari regolamenti sui diritti dei passeggeri a mobilità ridotta sui principali mezzi di trasporto i quali, per natura stesso dell’atto, entrano a far parte direttamente dell’ordinamento nazionale.

Tuttavia, ancora oggi, sebbene a livello europeo siano state adottate norme dirette a ridurre ancor più le barriere della società che fanno da ostacolo alla piena integrazione degli individui affetti da disabilità, il legislatore nazionale non ha ancora provveduto a dar luogo alle attività necessarie al recepimento delle stesse: basti pensare alla direttiva n. 2102/2016 UE relativa all’accessibilità dei siti web e delle applicazioni mobili degli enti pubblici o, ancora alla direttiva del 17 aprile 2019 n. 882 sui requisiti di accessibilità dei prodotti e dei servizi il cui termine di recepimento era previsto per lo scorso 28 giugno 2021.

La ricca normativa richiamata – la cui complessità meriterebbe un’analisi ancora più approfondita – suggerisce la necessità di un impegno costante e sinergico dell’UE e dei suoi Stati membri i quali sono chiamati a migliorare la situazione socioeconomica delle persone con disabilità, sulla base del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, sulla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e, altresì, in forza della sopra menzionata Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (UNCRPD) di cui l’Unione europea e tutti i suoi Stati membri sono parti contraenti.

Sorge allora spontaneo domandarsi in che modo lo Stato si stia adoperando al fine di garantire che tutte le persone con disabilità, indipendentemente dal sesso, dalla razza o dall’origine etnica, dalla religione o dalle convinzioni personali, dall’età o dall’orientamento sessuale, possano godere dei loro diritti umani, avere pari opportunità e parità di accesso alla società e all’economia, essere in grado di decidere come e con chi vivere, circolare liberamente nell’UE indipendentemente da limiti fisici e dalle loro esigenze di assistenza.

Il nuovo disegno di legge delega in materia di disabilità

A tal riguardo, giova sottolineare che proprio al fine di dare piena attuazione alla Convenzione Onu sui diritti dei disabili, oltre che al contenuto della Strategia sui diritti delle persone con disabilità 2021-2030 adottata dalla Commissione nel marzo 2021, il 27 ottobre 2021 il Consiglio dei Ministri ha approvato il disegno di legge delega in materia di disabilità.

La riforma intende porre al centro la persona con le sue esigenze, le sue relazioni, un progetto di vita personalizzato e partecipato, come previsto e voluto dalla convenzione ONU  sui diritti delle persone con disabilità ratificata dallo Stato Italiano con la legge 3 marzo 2009 n.18, insieme al c.d. “Protocollo Opzionale” (cioè il Protocollo con cui si individuano le modalità di rilevazione e censura internazionale delle violazioni della Convenzione da parte di ciascuno Stato), facendo diventare la Convenzione vincolante e sottoponendo lo Stato italiano anche al controllo periodico del Comitato ONU sui diritti delle persone con disabilità rispetto all’effettiva esecuzione della Convenzione stessa.

Come da comunicato del Consiglio dei Ministri, il disegno di legge delega in materia di disabilità, che rientra tra le riforme e azioni chiave previste dal  Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), prevede un intervento nei seguenti settori:

  • definizioni della condizione di disabilità, riassetto e semplificazione della normativa di settore;
  • accertamento e certificazione della condizione di disabilità e revisione dei suoi processi valutativi;
  • valutazione multidimensionale della disabilità, progetto personalizzato e vita indipendente;
  • informatizzazione dei processi valutativi e di archiviazione;
  • riqualificazione dei servizi pubblici in materia di inclusione e accessibilità;
  • istituzione di un Garante nazionale delle disabilità.

Il DDL “recante delega in materia di disabilità” prevede perfino il potenziamento dei servizi e delle infrastrutture sociali necessarie a sormontare le barriere burocratiche che si pongono come principale ostacolo fra il paziente e la fruizione dei servizi.

In tal senso, il Governo nell’ottica della semplificazione, è altresì delegato a predisporre procedimenti più snelli, trasparenti ed efficienti di riesame e di rivalutazione delle condizioni di disabilità.

Ecco perché è stata prevista altresì l’istituzione del Garante nazionale delle disabilità il quale dovrà occuparsi di raccogliere le istanze e fornire adeguata assistenza a tali soggetti qualora, ad esempio, subiscano violazioni dei propri diritti; in tali casi, dovrà formulare raccomandazioni e pareri alle amministrazioni interessate sulle segnalazioni raccolte, anche in relazione a specifiche situazioni e nei confronti di singoli enti.

Al fine di rimuovere ostacoli sociali e garantire una sostanziale eguaglianza fra tutti i cittadini, il Governo mira, dunque, a realizzare un’azione ad ampio spettro, ivi comprendendo la promozione di campagne di sensibilizzazione e di comunicazione, necessarie per rafforzare una cultura basata sulla tutela ed il rispetto dei diritti delle persone.Avv. Eleonora Pintus, Diritto Internazionale e Diritto dell’Unione Europea

Eleonora Pintus, Avvocato

Il quadro delle violenze e molestie nel mondo del lavoro

Secondo l’Istat (2018), in Italia un milione e 404 mila donne hanno subito nel corso della loro vita molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro. In un rapporto pubblicato da WeWorld e Ipsos in occasione della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, il 70% delle donne intervistate dichiara di aver subito una qualche forma di molestia in ambito lavorativo in Italia.

Un’iniziativa dell’Espresso e della CGIL inaugurata questa settimana, #lavoromolesto, si unisce a questi studi con l’obiettivo di raccogliere le testimonianze di molestie sul lavoro, includendo minacce, comportamenti offensivi e umilianti che violano la dignità delle lavoratrici, da parte di superiori e colleghi. Il progetto sottolinea che la maggior parte delle vittime e survivor non parlano delle proprie esperienze. È importante precisare che la responsabilità non deve mai pesare sulle vittime e survivor, ma su un sistema che deve porre le condizioni necessarie perché si sentano tutelate, perché le loro voci siano credute e ascoltate, perché ci siano delle procedure che prendano sul serio le loro denunce (all’interno di un’azienda o tramite le forze dell’ordine). Questa responsabilità è del governo e dei datori di lavoro.

I dati a livello nazionale e regionale in tutto il mondo e le esperienze di survivor e vittime mostrano una realtà assordante:

  1. Le violenze e le molestie sul lavoro impregnano tutti i settori, tutti i contesti, tutti i paesi
  2. Le donne, le persone con disabilità[1], le persone razzializzate, le persone LGBTQI+, le lavoratrici migranti, le persone che lavorano nel settore informale e che hanno un lavoro precario sono le più esposte. In questo contesto, l’intersezione delle identità diventa un fattore di vulnerabilità aggiunta, e ogni gruppo va considerato come fortemente eterogeneo.
  3. Dove esistono delle leggi solide e interessanti, c’è comunque ancora tanto da fare da parte dei governi per potersi assicurare che siano messe in pratica, e che i datori di lavoro si prendano le loro responsabilità in materia di prevenzione e protezione del personale, come rivendicato dai sindacati, dai movimenti e associazioni femministe di tutto il mondo.

Quale cornice normativa a livello internazionale?

Nel 2019, una Convenzione internazionale contro la violenza e le molestie nel mondo del lavoro è stata adottata dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL). Concretamente, questo significa che gli stati membri dell’ONU, sindacati e datori di lavoro hanno intrapreso delle negoziazioni per arrivare a un documento che offra un quadro normativo in materia. Per poterla applicare a livello nazionale, ogni governo deve poi ratificarla, effettuando i cambiamenti legislativi necessari per portarsi in pari con le misure indicate dal trattato internazionale.

La Convenzione 190 è accompagnata dalla Raccomandazione 206, che ha il ruolo di indicare e guidare gli stati membri nell’applicazione della Convenzione a livello nazionale. Fornisce infatti delle linee guida e degli esempi di misure che sarebbe fondamentale integrare per poter veramente proteggere le vittime e survivor di violenze e molestie, e per poter effettuare una concreta prevenzione.

Il 29 ottobre 2021 l’Italia ha completato il processo di ratifica, secondo paese in Europa e nono al mondo. Cosa significa per le lavoratrici e lavoratori italianə? Questo dipende dai cambiamenti che saranno intrapresi per rinforzare le leggi esistenti e la loro applicazione.Ludovica Anedda, Specializzata in uguaglianza di genere

Cosa offre di innovativo questo trattato internazionale? 

La Convenzione 190 e la Raccomandazione 206 hanno quattro dimensioni che sono particolarmente importanti:

  1. La definizione di violenze e molestie sul lavoro è molto ampia, rispetto alla maggior parte delle legislazioni nazionali. L’articolo 1 legge:

« a) l’espressione “violenza e molestie” nel mondo del lavoro indica un insieme di pratiche e di comportamenti inaccettabili, o la minaccia di porli in essere, sia in un’unica occasione, sia ripetutamente, che si prefiggano, causino o possano comportare un danno fisico, psicologico, sessuale o economico, e include la violenza e le molestie di genere;

« b) l’espressione “violenza e molestie di genere” indica la violenza e le molestie nei confronti di persone in ragione del loro sesso o genere, o che colpiscano in modo sproporzionato persone di un sesso o genere specifico, ivi comprese le molestie sessuali. »

E in Italia? Proprio in questi giorni il Senato sta discutendo un testo per l’introduzione del reato di molestia o di molestia sessuale. Lo stesso testo apporterebbe la modifica del codice delle pari opportunità introducendo sulle molestie una formulazione che includa anche gli atti indesiderati « anche se verificatisi in un’unica occasione » (art. 1 del D.D.L. 665).

  1. Nella Convenzione 190, la definizione fa riferimento a tutti i settori, nel pubblico, nel privato, nell’economia formale e informale, in aree urbane e rurali, e per tutte le lavoratrici e lavoratori, senza distinzione legata al tipo di contratto. Inoltre, intende come “mondo del lavoro” il posto di lavoro stesso, ma anche i luoghi connessi al lavoro come luoghi destinati a pause, bagni e spogliatoi, ma anche durante gli spostamenti per recarsi al lavoro o per il rientro dal lavoro, include lo smart working e le molestie e violenze online.

Questa dimensione diventa particolarmente rilevante nel contesto attuale in cui lo “smart working” forzato durante la pandemia ha cambiato per molte persone la realtà lavorativa in Italia e in tutto il mondo.

  1. La Convenzione 190 e la Raccomandazione 206 sottolineano l’importanza di considerare le persone e i gruppi che sono più a rischio di essere esposti alle violenze e molestie nel mondo del lavoro. Questo include le donne, le persone con disabilità, le persone razzializzate, le persone LGBTQI+, le lavoratrici migranti, le persone che lavorano nel settore informale, e non solo. Una settimana dopo il Transgender day of remembrance (TDOR), giornata per commemorare le vittime dell’odio transfobico, così come tutti i giorni dell’anno, è importante ricordarci che le persone transgender e non binarie sono particolarmente esposte alle violenze di genere, e questo include le violenze e le molestie sul lavoro, che si aggiungono alle multeplici forme di discriminazione che affrontano nel quotidiano.

In Italia è necessario finanziare e intraprendere studi e analisi che permettano di avere una visione più chiara di questa diversità di esperienze, in modo da poter concretamente adattare e applicare la legislazione e le misure dei datori di lavoro in tutti i settori.

In Italia, il D.D.L. Zan sul contrasto all’omolesbobitransfobia, all’abilismo e al sessismo, affossato al Senato proprio qualche giorno prima della conclusione della ratifica della Convenzione 190 da parte del Ministero per il Lavoro e le Politiche Sociali, sarebbe stato in questo contesto uno strumento essenziale e complementare per contrastare violenze e molestie nel mondo del lavoro.

  1. Un punto essenziale di questo trattato internazionale è il fatto che sottolinea l’impatto della violenza domestica sul mondo del lavoro.

Anche se questo collegamento non sembra immediatamente automatico, ci sono diversi motivi per cui è importante parlare di violenza domestica quando parliamo del mondo del lavoro.

  • Il posto di lavoro è il primo luogo dove l’aggressore può facilmente trovare la vittima perchè, anche se stesse cercando di scappare, per necessità, se non è tutelata dal datore di lavoro e dallo stato, dovrà presentarsi a lavoro per non perderlo. Per questo motivo, la vittima/survivor deve avere l’opportunità di assentarsi senza subire delle conseguenze sul proprio impiego. In questo contesto, la legge italiana ha una misura che permette di prendere dei giorni di assenza retruibiti. Un’altra misura essenziale in questo contesto sarebbe il diritto alla mobilità geografica, che esiste per esempio in Spagna.
  • Può capitare che una vittima e survivor, a causa delle violenze subite, si debba assentare o segua degli orari irregolari per poter, ad esempio, fare delle visite mediche o sporgere una denuncia: la vittima e survivor deve essere protetta dal rischio di perdere il lavoro e di essere licenziata. Misure di protezione dal licenziamento sono assenti nella maggior parte dei paesi del mondo, compresa l’Italia, con delle eccezioni in Nuova Zelanda e in Australia.
  • Il lavoro ha un ruolo essenziale nella vita della vittima e survivor: la violenza domestica è spesso fortemente legata alla violenza economica e al controllo economico da parte del compagno violento: perdere il lavoro significherebbe per la vittima e survivor perdere la possibilità di essere economicamente indipendente per poter scappare dalla situazione di violenza e poter intraprendere dei percorsi di recupero e ricostruzione di sè.
  • Il confine tra luogo di lavoro e domicilio è sempre più sfocato nel contesto attuale della pandemia del COVID-19, in cui tantə lavoratori e lavoratrici si sono trovati obbligatə a lavorare da casa, con uno “smart working” forzato: le vittime di violenza domestica si sono trovate in un lockdown con i propri aggressori.

In una società che sminuisce, ignora, invisibilizza e zittisce le vittime e survivor delle violenze di genere, in cui la cultura dello stupro impregna tutte le sue dimensioni, dal discorso politico e giornalistico, a ciò che viene rappresentato nei film, nelle fiction e nei programmi televisivi, è assolutamente fondamentale avere un quadro legale solido. Ma non è abbastanza.Ludovica Anedda, Specializzata in uguaglianza di genere

Sta a tuttə noi ascoltare, sostenere e amplificare giorno dopo giorno le voci di vittime e survivor, e mettere in discussione i nostri comportamenti e quelli delle persone che ci sono attorno. Ma sta al governo rinforzare le leggi, assicurarsi che queste siano applicate e valutate, che i datori di lavoro e le imprese italiane anche nelle loro filiere estere rispettino la normativa e integrino le misure necessarie per prevenire queste violenze e proteggere il personale, che le associazioni femministe che si occupano della protezione e del supporto per le vittime e survivor e i centri anti-violenza siano sostenuti e finanziati.

[1] Per un approfondimento sull’uso dei termini “persone con disabilità” o “persone disabili”, vedere l’articolo dell’attivista Sofia Righetti: https://m.facebook.com/sofiarighetti

Ludovica Anedda, Specializzata in uguaglianza di genere

Sono laureata in relazioni internazionali, con un Master in analisi di politiche pubbliche, e dal 2019 lavoro a Parigi con l’ONG di solidarietà internazionale CARE, in cui mi occupo di advocacy e influenza politica nell’ambito dell’uguaglianza di genere. Più precisamente, collaborando con altre organizzazioni, associazioni femministe e sindacati, sviluppo e presento raccomandazioni dettagliate per il governo francese, soprattutto per l’integrazione di un approccio di genere nella politica estera della Francia.

Nell’ultimo anno, mi sono particolarmente occupata di una campagna a livello nazionale per la ratifica da parte della Francia della Convenzione 190 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) contro la violenza e le molestie nel mondo del lavoro.

Precedentemente, sono stata consulente sulle politiche educative e di genere dell’Unione Europea a Bruxelles, e ho avuto delle esperienze professionali presso l’agenzia dell’Unione Europea che si occupa di uguaglianza di genere (EIGE) e presso l’agenzia dell’ONU specializzata nella protezione dei diritti umani (OHCHR).

Come progetto personale, ho iniziato una newsletter per poter accompagnare soprattutto giovanə professionistə nella ricerca di opportunità di lavoro nell’ambito dell’uguaglianza di genere e della protezione dei diritti LGBTQI+. Tramite questa newsletter, curo delle liste di Gender Jobs in ONG e associazioni, nel settore pubblico, nel settore privato, in organizzazioni internazionali.

Focus di diritto civile • Avv. Francesco Sanna

Il Piano Strategico Nazionale sulla violenza maschile contro le donne

Il 18 novembre scorso, Elena Bonetti, Ministro per le pari opportunità e la famiglia, ha presentato al Consiglio dei Ministri il Piano Strategico Nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2021-2023, ovvero un documento di programmazione strategica per la definizione ed attuazione di politiche integrate ed efficaci.

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

Il fenomeno del “mobbing” e la tutela penale

Con il termine “mobbing” si intendono quelle forme di violenza e abuso -per lo più di natura psicologica-, maturate in ambito lavorativo, che possono manifestarsi attraverso offese, molestie, assegnazione di orari di lavoro o incarichi particolarmente gravosi oppure, al contrario, di mansioni inferiori rispetto al ruolo ricoperto dalla vittima, nonché mediante continui rimproveri o critiche aggressive e del tutto ingiustificate.

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Focus di diritto civile • Avv. Viola Zuddas

Le misure economiche a sostegno delle vittime di violenza di genere

L’espressione “violenza di genere” descrive tutte quelle forme di violenza che riguardano le persone discriminate in base al sesso.

Essa comprende, quindi, la violenza psicologica, quella fisica e sessuale, gli atti persecutori (il cosiddetto “stalking”) ed, infine, anche il femminicidio.

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Combattere la violenza di genere e domestica nell’Unione Europea

La violenza di genere e quella domestica, che vede come vittime principali le donne e le ragazze, resta una delle principali problematiche nell’Unione Europea e per la cui eliminazione l’Unione si sta impegnando, ormai da tempo, nell’adozione di valide ed adeguate soluzioni.

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Le scorse settimane, nell’articolo dal titolo “Acquisto di farmaci in Europa con presentazione di ricetta medica nazionale” abbiamo analizzato quali siano i diritti spettanti al cittadino europeo che necessiti di un farmaco, prescritto dal proprio medico di base, in un altro Paese membro dell’Unione Europea (potrai leggere l’articolo cliccando sul seguente https://www.forjus.it/2021/10/13/acquisto-di-farmaci-in-europa-mediante-presentazione-di-ricetta-medica-nazionale/).

Durante un soggiorno temporaneo in un altro Paese dell’UE per motivi di vacanza, lavoro o studio, potrebbe, però, perfino capitare di ammalarsi del tutto inaspettatamente e, dunque, di avere bisogno di cure mediche impreviste.

In questi casi, di quali diritti godono i cittadini dell’Unione Europea?

Secondo la Direttiva n. 2011/24/UE concernente l’applicazione dei diritti dei pazienti relativi all’assistenza sanitaria transfrontaliera e il Regolamento n. 987/2009 che stabilisce le modalità di applicazione del regolamento (CE) n. 883/2004 relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, in quanto cittadino dell’UE, ogni individuo che necessita di essere visitato da un medico o perfino di essere ricoverato in ospedale, gode degli stessi diritti delle persone assicurate nel paese in cui si trova e, come tale, ha diritto alle cure mediche fornite dal servizio sanitario.

È opportuno evidenziare che i sistemi di assistenza sanitaria e di previdenza sociale  variano da un Paese dell’UE all’altro. In alcuni Paesi può essere necessario pagare il medico o l’ospedale direttamente per le cure ricevute, anche se normalmente non occorre farlo nel proprio paese.

In questi casi, al fine ottenere l’accesso all’assistenza sanitaria pubblica e il rimborso dei costi sostenuti in maniera più semplice, il cittadino dovrà essere munito della “tessera europea di assicurazione malattia” (c.d. TEAM) , generalmente rilasciata insieme alla tessera sanitaria nazionale o altrimenti da richiedere all’ente assicurativo competente prima della partenza.Avv. Eleonora Pintus, Diritto dell’Unione Europea

Ma che cos’è la tessera europea di assicurazione malattia?

È una tessera gratuita che dà diritto all’assistenza sanitaria statale – dunque fornita da medici e ospedali convenzionati con il sistema sanitario pubblico e non anche privati – in caso di permanenza temporanea in uno dei 27 Stati membri dell’UE, in Islanda, in Liechtenstein, in Norvegia e in Svizzera, alle stesse condizioni e allo stesso costo degli assistiti del paese in cui ci si trova (in alcuni casi anche gratuitamente).

Le prestazioni coperte comprendono, ad esempio, quelle fornite in connessione a malattie croniche o già in corso, nonché a una gravidanza e a un parto.

La tessera rappresenta la  prova del fatto che si è assicurati in uno dei Paesi dell’Unione Europea.

Dunque, laddove il cittadino dovesse avere bisogno di essere visitato da un medico o ricoverato in ospedale durante un viaggio in un altro Paese dell’Unione, se munito della tessera europea di assicurazione malattia (TEAM) sarà più semplice ottenere l’accesso all’assistenza sanitaria pubblica e, per gli eventuali costi sostenuti, richiedere il rimborso delle spese.

Ciò significa che se le cure mediche sono gratuite per i residenti locali, anche il “paziente-viaggiatore” non dovrà pagarle. In caso contrario, invece, egli potrà richiedere il rimborso all’ ente nazionale del Paese in cui si trova oppure, al rientro, all’ente assicurativo del paese di residenza.

Occorre qui sottolineare che la TEAM non è un’assicurazione di viaggio e, come tale, non copre l’assistenza sanitaria privata né altri costi, quali il volo di rientro al proprio Paese di provenienza, né copre i costi del viaggio realizzato al solo scopo di ottenere cure mediche.

Cosa accada laddove, invece, il cittadino dovesse essere sprovvisto di Tessera europea di assicurazione malattia?

Ebbene, in questi casi, oppure nelle ipotesi in cui la struttura ospedaliera non rientrasse nel sistema TEAM (ad esempio perché privato), il cittadino potrebbe essere chiamato a pagare gli eventuali costi delle cure ricevute.

In ogni caso, è bene ricordare che, anche in tale ipotesi, il cittadino avrà la possibilità di richiedere il rimborso al proprio ente sanitario al rientro nel Paese di residenza, tanto per le cure fornite da strutture pubbliche quanto da quelle private, ma a condizioni diverse.

Nella specie, saranno rimborsate soltanto le cure astrattamente fruibili nel Paese di origine ed entro il limite dei costi ivi fissati, anche se di importo inferiore rispetto a quanto pagato.

In conclusione, dunque, se il cittadino è in possesso della tessera europea di assicurazione malattia, nei casi in cui le cure mediche fossero gratuite per i cittadini di quel Paese, anche il paziente – viaggiatore non dovrebbe pagarle, in quanto il medico o la struttura ospedaliera dovrebbe fornire le cure alle stesse condizioni previste per i cittadini dello Stato visitato.

In caso contrario, la fattura sarà comunque pagata dal Paese in cui il cittadino è assicurato oppure, se la fattura è stata inviata successivamente al proprio rientro, il cittadino potrà chiedere il rimborso al sistema sanitario nazionale.

Eleonora Pintus, Avvocato

L’HACCP alla base della sicurezza alimentare

L’HACCP acronimo di hazard analisys critical control point, in italiano analisi dei pericoli e dei punti critici di controllo, non è altro che una metodologia costruita e sviluppata durante l’era spaziale (anni ’70) per poter proteggere chi consuma bevande e alimenti.

Tutto, infatti, parte da protocolli generati per tutelare la salute degli astronauti e conferire loro delle nozioni che permettessero di conservare e manipolare adeguatamente gli alimenti eliminando così i più comuni rischi generati non solo da una possibile contaminazione legata all’operatore (colui che ha a che fare con l’alimento), ma anche alla conservazione -quindi rispettare tempi e temperature.

L’HACCP, oltre ad imporre delle regole comportamentali, mette in evidenza come correggere i problemi che potrebbero presentarsi lungo il percorso dei prodotti commestibili. Federica Adamo, Consulente e formatore

Ciò che rappresenta il pericolo nell’alimento o nella bevanda è un agente che può essere già presente o che per contatto va a contaminare ciò che consumiamo: può essere, ad esempio, un agente microbiologico (ad esempio un batterio, un virus, un parassita o una muffa), un agente chimico (ad esempio una sostanza chimica tipo pesticida o un banale detergente usato per la pulizia delle superfici) e/o un agente fisico (ad esempio una scheggia o una pietrolina).

L’HACCP ci fornisce delle regole ben precise di comportamento, conservazione e manipolazione degli alimenti, cosicché questi possano essere consumati senza arrecare alcun tipo di danno.

L’HACCP, quindi, consente il controllo completo della filiera alimentare dal produttore primario (contadino e allevatore) al trasportatore, al grossista; dalla manipolazione alla conservazione, alla vendita ed alla somministrazione: una catena che in ogni fase va attentamente valutata e documentata così da non perdere mai, e poi mai, quello che è il controllo su alimenti e bevande, per consentire il consumo di alimenti sani per tutti!

Lo scopo è appunto quello di ottenere alimenti sani per tutti: il consumatore finale deve avere la garanzia su ciò che consuma e questa è conferita dalla metodologia che tutti andranno ad applicare.Federica Adamo, Consulente e formatore

Come già precisato, nasce negli anni ’70 negli Stati Uniti d’America e poco alla volta va a diffondersi in altri paesi: visto e considerato che i risultati iniziano ad arrivare, nel 2004 l’Unione Europea con il “pacchetto igiene” inizia a normare e delineare i punti da tenere sotto controllo della filiera, ma non solo infatti indica anche come l’Operatore Alimentarista deve comportarsi (ciò che deve o non deve fare).

L’operatore alimentarista che fino agli anni ’90 non possedeva nozioni su come comportarsi, ma veniva solamente controllato il suo stato di salute (libretto sanitario poi sospeso), ora si ritrova a fare i conti con la formazione.

La formazione diventa obbligatoria così da avere operatori consapevoli di ciò che avviene e di ciò che potrebbero causare.

Questa diventa un’arma importantissima contro il diffondersi di malattia di origine alimentare, le cosiddette “tossinfezioni” che causano patologie non solo gastrointestinali, ma a volte parecchio gravi come cecità, artrite reattiva, sindrome emolitica uremica, cancro, aborto ed altri fino ad arrivare anche alla morte.

Questo per evidenziare che sicuramente non è il mal di pancia la nostra preoccupazione primaria.

La formazione affiancata da un manuale di autocontrollo dell’attività diventa quindi l’arma per contrastare le tossinfezioni anche se, purtroppo, ancora oggi molti operatori sottovalutano l’importanza della conoscenza e non considerano quest’aspetto, che invece accompagna la consapevolezza di ciò che si fa, e per questo è obbligatorio.

La formazione è obbligatoria ai sensi del REG CE 852/04 e, precisamente, il D.Lgs 197/2003 prevede delle sanzioni in caso di mancata formazione che ovviamente servirebbero da deterrente ma, purtroppo, sono ancora troppi gli operatori che provano a sottrarsi ai loro doveri fino a che non vi sia l’intervento dell’apposito organo di vigilanza.

Federica Adamo, Consulente e formatore

Sono laureata in Tossicologia dell’alimento, dell’ambiente e del farmaco, oltre ad avere i titoli di formatore e di RSPP (responsabile del servizio di protezione e prevenzione). Sono consulente e formatore in materia di sicurezza sul lavoro e in igiene degli alimenti.

Amo relazionarmi con tutte le figure, creare relazioni di lavoro durevoli e di supporto.

La tecnologia, soprattutto ora visto i tempi complicati da diversi aspetti, ci aiuta nel continuare ad essere uniti, collegati ed a interagire anche a distanza.

Servizio di sostegno alle imprese, è nato per aiutare e supportare nano, micro, piccole, medie e grandi imprese. Vi guida, indicandovi le soluzioni più idonee alle vostre necessità, fornendovi assistenza vera e propria a 360 gradi su numerosi fronti.

I servizi offerti sono:

  • Consulenze aziendali nella valutazione dei rischi D.Lgs 81/08 (DVR)
  • Organizzazione e gestione corsi obbligatori sulla sicurezza sul lavoro secondo indicazioni Acc. Stato e Regioni e non
  • Docente/formatore in materia di sicurezza sul lavoro
  • Docente/formatore corsi anti-incendio e emergenza ed evacuazione
  • Valutazioni ambientali
  • Affiancamento imprenditori per apertura muove attività
  • Consulenza e disbrigo pratiche per gestione Ispettive da parte di organi di vigilanza
  • Realizzazione e gestione di sistemi integrati per la sicurezza
  • Docente/formatore HACCP
  • Consulente HACCP relativamente alla gestione ed analisi di prodotti alimentari
  • Affiancamento e stesura nel manuale HACCP per tutte le tipologie di attività
Focus di diritto civile • Avv. Francesco Sanna

La figura dell’operatore del settore alimentare (OSA)

L’operatore del settore alimentare è una figura di primaria importanza nell’assicurare le adeguate misure di sicurezza lungo tutta la filiera alimentare.

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

La frode alimentare nel codice penale

Quando si parla di “frode alimentare” si fa riferimento genericamente alla produzione e alla commercializzazione di alimenti non conformi alle norme vigenti.

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Focus di diritto civile • Avv. Viola Zuddas

Il danno da intossicazione alimentare

Da una decina d’anni sono state introdotte in Italia nuove regole, rivolte principalmente agli operatori del settore alimentare, volte a disciplinare in maniera più compiuta la pratica dell’etichettatura dei prodotti alimentari e le dichiarazioni nutrizionali dei singoli prodotti.

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Il controllo sugli operatori alimentari secondo la normativa UE

La politica di sicurezza alimentare dell’Unione europea (UE) ha come obiettivo principale quello di proteggere i consumatori, garantendo al contempo il regolare funzionamento del mercato unico.

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Il viaggio è parte essenziale della nostra vita.

Si viaggia per motivi di studio, lavoro, vacanza e non solo.

Ebbene, anche durante un viaggio all’estero potrebbe sopraggiungere la necessità di acquistare un farmaco prescritto con ricetta dal proprio medico.

In questi casi, al fine di ottenere il medicinale in un altro Stato membro dell’Unione Europea, è sufficiente presentare la prescrizione rilasciata dal medico curante nazionale?

La risposta è affermativa.

L’artico 11 della Direttiva n. 2011/24 relativa ai diritti dei pazienti all`assistenza sanitaria transfrontaliera (recepita in Italia con d.lgs. n.38/2014) prevede un reciproco riconoscimento delle ricette all`interno dell`UE.Avv. Eleonora Pintus, Diritto dell’Unione Europea

La normativa suddetta ammette che il medico di base possa rilasciare una ricetta utilizzabile in un altro paese dell’UE, nota anche come “ricetta transfrontaliera”, al fine di ottenere il medicinale prescritto anche oltre i confini nazionali.

Al fine di agevolare l’accesso ad un’assistenza sanitaria transfrontaliera sicura e di qualità nell’Unione, e a garantire la mobilità dei pazienti, non è stato previsto un unico modello in tutta Europa ma resta prerogativa degli Stati membri adottare un proprio modello di ricetta destinata ad essere utilizzata in un altro Paese dell’UE.

Tuttavia, al fine di ottenere il farmaco oggetto di prescrizione medica in un altro Stato, è necessario che la ricetta – generalmente cartacea – contenga alcune essenziali, ed imprescindibili, informazioni:

  • i dati del paziente: nome e cognome (scritti entrambi per esteso) e data di nascita;
  • la data di emissione;
  • i dati del medico che prescrive il medicinale;
  • i dati del medicinale prescritto: nome comune – come previsto dalla direttiva di esecuzione n. 2012/52 comportante misure destinate ad agevolare il riconoscimento delle ricette mediche emesse in un altro Stato membro – preferibile al nome commerciale (giacché questo può variare a seconda dei Paesi); formato; quantità; concentrazione e posologia.

Vi è da dire che, in ogni caso, il riconoscimento della ricetta medica non pregiudica le norme nazionali che regolano la prescrizione e la fornitura di medicinali.Avv. Eleonora Pintus, Diritto dell’Unione Europea

Ciò significa che le stesse prescrizioni soggiacciono alle norme nazionali del Paese nel quale vengono presentate per l’acquisto del farmaco e, dunque, che i medicinali saranno dispensati in linea con la normativa nazionale.

Ad esempio, in alcuni Sati il numero di giorni della posologia potrebbe variare, oppure, laddove la ricetta presentata, secondo la normativa del Paese di destinazione, non fosse più valida , il farmacista non è tenuto a dispensare il farmaco.

Allo stesso modo, il riconoscimento di una prescrizione non pregiudica il diritto del farmacista, in base al diritto nazionale, di rifiutarsi, per motivi di carattere etico, di dispensare il medicinale prescritto in un altro Stato membro.

In conclusione, e al di là dei limiti dettati dalla normativa nazionale dello Stato di destinazione, se la ricetta contiene tutte le informazioni necessarie, la farmacia è tenuta a rilasciare il farmaco e, in caso di rifiuto, è prevista la possibilità per il paziente di contattare lo sportello nazionale per l’assistenza sanitaria all’estero del Paese in questione.

Eleonora Pintus, Avvocato

Dopo 20 anni dall’arrivo degli Stai Uniti, la mattina del 15 agosto 2021 i Talebani sono entrati a Kabul proclamando la nascita del nuovo “Emirato Islamico dell’Afghanistan”, usando lo stesso nome del Paese prima dell’arrivo degli americani nel 2001.

A soli 24 giorni dalla presa della città, e la successiva autoproclamazione dell’Emirato, i talebani hanno annunciato il nuovo Governo.

Con tutta evidenza, ci troviamo dinnanzi ad un gruppo insurrezionale che ha preso le armi contro il Governo effettivo e legittimo in carica per finalità politiche ed al fine di sostituirsi al medesimo.

Ma l’auto-proclamato Stato Islamico da parte degli “Insorti” Talebani può essere effettivamente considerato come un soggetto di diritto internazionale titolare di autonomi diritti ed obblighi mentre la rivoluzione è ancora in corso?

Per poter rispondere a tale quesito occorre, preliminarmente, fare alcune precisazioni.

In primo luogo, deve evidenziarsi che il Diritto internazionale riconosce quali soggetti di diritto dotati di personalità giuridica, oltre che gli Stati – per la cui costituzione, in estrema sintesi, devono sussistere i presupposti dell’ indipendenza, della esistenza di una popolazione permanente e di un governo effettivo – anche alcuni enti o organizzazioni collettive che, pur carenti di taluni requisiti propri degli Stati, sono dotati di effettività ed indipendenza rispetto ad altri ordinamenti giuridici.

Tra questi rientrano anche i Movimenti insurrezionali che aspirano a sostituirsi al Governo al potere.

Ma chi sono i Movimenti insurrezionali?

I Movimenti insurrezionali sono entità organizzate che conducono la propria lotta contro il Governo in carica ad un livello di intensità tale da emanciparsi, almeno temporaneamente, dal controllo dello Stato colpito dall’insurrezione.

Affinché un gruppo insurrezionale ottenga uno status nel diritto internazionale è necessario che sia dotato di un’organizzazione stabile idonea a gestire le relazioni internazionali ed abbia un controllo effettivo sulla popolazione e sul territorio.Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista

Dunque, se il Movimento avrà successo, la sua soggettività andrà a consolidarsi con quella dello Stato di cui ha preso il potere e si trasformerà nel nuovo Governo mentre, in caso contrario, perderà la soggettività e tornerà ad essere considerato come un mero gruppo di ribelli.

Oltre che temporanea, la soggettività dei movimenti insurrezionali è anche parziale nel senso che agli insorti, che effettivamente controllano una parte di territorio, si applicano soltanto alcune delle norme consuetudinarie che si applicano agli Stati quali, ad esempio, quelle sulla conclusione dei trattati internazionali e sulle immunità di organi di stati stranieri.

Ebbene, sorge spontaneo chiedersi se in tali casi gli altri Stati possano intervenire a favore del governo legittimo destituito con la forza.

La risposta è affermativa.

Nel diritto internazionale si ritiene, comunemente, che gli altri Stati possano intervenire a favore ed in sostegno del governo legittimo trattandosi di ordinaria cooperazione tra gli Stati.

Al contrario, ogni forma di assistenza ai “ribelli” è vietata in quanto viene considerata come una forma di interferenza indebita negli affari interni di un altro Stato.

È naturalmente molto complesso identificare l’esatto omento in cui i movimenti insurrezionali acquistano la personalità giuridica internazionale proprio a causa della effettiva difficoltà di riscontrare i presupposti sopra indicati.

Ora, tornando al più recente caso dell’autoproclamato Emirato Islamico, alla luce di tutto quanto detto, appare evidente che la mera “auto-proclamazione” da parte dei Talebani non abbia alcuna conseguenza giuridica e, come tale, non sia atto idoneo e sufficiente a trasformare il Movimento Insurrezionale nel nuovo Governo dello Stato consolidando la sua soggettività con quella dello Stato.

D’altra parte, ci si chiede se, invece. il riconoscimento da parte degli altri Stati – di cui in questi giorni si sente parlare spesso – possa avere delle conseguenze giuridiche e, dunque, possa influire sulla acquisto della personalità giuridica, come nel caso che ci occupa, del Movimento Insurrezionale al punto da incidere nella consolidazione della soggettività del Movimento con quella dello Stato.

Cos’è il “Riconoscimento internazionale”?

Il riconoscimento è un atto unilaterale attraverso il quale uno Stato esprime la propria opinione sull’esistenza di un fatto giuridico internazionale (nel caso di specie, il riconoscimento dell’esistenza di un Movimento insurrezionale).

Secondo i principi consolidati del diritto internazionale, il riconoscimento ha un valore meramente dichiarativo della personalità giuridica internazionale e non anche “costitutiva” posto che l’acquisizione della soggettività di uno Stato ovvero di un Movimento insurrezionale è un fatto oggettivo che si verifica solo in presenza dei requisiti che sopra abbiamo descritto, come anche confermato dalla Commissione d’Arbitrato durante la conferenza per la Pace in Jugoslavia nel 1992.

La concessione del riconoscimento incide per lo più sulla presenza dell’ente nella vita delle relazioni internazionali, ossia della sua effettiva partecipazione alla Comunità internazionali attraverso l’attivazione di rapporti amichevoli, di cooperazione e di collaborazione, nel rispetto dei principi fondamentali della Comunità, quali il rispetto dei diritti umani.

Insomma, anche a fronte del riconoscimento da parte degli altri Stati della Comunità Internazionale, non si avrebbe alcuna conseguenza dal punto di vista della soggettività internazionale del gruppo di Insorti trattandosi, con tutta evidenza, di un atto non sufficiente alla “costituzione” di un nuovo soggetto di diritto internazionale.

In conclusione, dunque, sarà necessario attendere l’evoluzione delle vicende in corso per stabilire se, alla luce dei principi internazionalistici, l’autoproclamato Governo talebano consoliderà la sua soggettività con quella dello Stato di cui ha preso il potere e si trasformerà nell’effettivo nuovo Governo.

Eleonora Pintus, Avvocato

Patrick Zaki, attivista e ricercatore egiziano impegnato nella lotta per i diritti umani, il 7 febbraio 2020, è stato prelevato dagli agenti dell’Agenzia di sicurezza nazionale egiziana all’aeroporto del Cairo e arrestato.

Al momento dell’arresto Zaki stava frequentando un master internazionale all’università di Bologna ed era attivista presso l’organizzazione non governativa “Egyptian initiative for personal rights”, una delle poche organizzazioni indipendenti per i diritti umani ancora attiva in Egitto.

Ebbene, dopo più di un anno dalla sua incarcerazione, Patrick Zaki non è stato sottoposto ad alcun processo e la sua detenzione cautelare è stata addirittura prolungata di ulteriori 45 giorni sebbene la sua situazione di salute, sia fisica – in quanto sottoposto ad atti di tortura – che psicologica, come riferito dai legali, appaia particolarmente critica.

Dal punto di vista della diplomazia, sono stati numerosi i tentativi diretti ad ottenere una immediata reazione da parte delle autorità egiziane: il 18 dicembre 2020, il Parlamento europeo, a seguito dell’approvazione di una proposta di risoluzione comune sulle violazioni dei diritti umani in Egitto, ha invitato gli Stati membri a prendere in considerazione la possibilità di adottare misure restrittive mirate nei confronti di funzionari egiziani responsabili delle violazioni più gravi nel Paese.

Gli stessi deputati dell’Europarlamento hanno chiesto la scarcerazione immediata e incondizionata di Zaki nonché di altri prigionieri politici, oltre ad aver evidenziato l’esigenza di una reazione diplomatica comune e coesa da parte dell’Unione.

Allo stesso modo, anche il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni unite in una nota diplomatica ha manifestato la più profonda preoccupazione “per la traiettoria assunta dai diritti umani in Egitto” tanto che gli stessi Stati firmatari, tra cui gli Stati Uniti e l’Italia, hanno chiesto allo Stato egiziano di porre fine ad ogni sorta di persecuzione di attivisti, oppositori politici, giornalisti ed il loro immediato rilascio.

I tentativi diplomatici, ad oggi, non hanno sortito i risultati auspicati.

Ecco che, però, dove non arriva la diplomazia, interviene il diritto.

Le gravi condizioni in cui versa l’attivista Patrick Zaki in ragione del regime di detenzione cui è sottoposto nel carcere di massima sicurezza di Tora, noto a livello internazionale per le condizioni degradanti ed inumane, oltre che per gli atti di violenza in ragione dei continui abusi perpetrati ai danni dei detenuti, configurano il ricorrere di una circostanza di eccezionale interesse del nostro Paese di per sé idonea alla concessione della cittadinanza.

Il comma 2 dell’articolo 9 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, dispone, infatti, che: “Con decreto del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato e previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro degli affari esteri, la cittadinanza può essere concessa allo straniero quando questi abbia reso eminenti servizi all’Italia, ovvero quando ricorra un eccezionale interesse dello Stato”.

Così, il 14 aprile 2021, è stata discussa la mozione sulla concessione della cittadinanza italiana a Patrick Zaki e sulle iniziative per la sua liberazione, successivamente approvata dalla Camera con 358 voti a favore e 30 astenuti.

La mozione chiede al Governo il conferimento della cittadinanza italiana; domanda, questa, sulla quale l’esecutivo non si è espresso ufficialmente sebbene, al contempo, si stia adoperando con maggiore vigore in tutte le sedi europee e internazionali perché l’Egitto provveda al rilascio di Patrick George Zaki.

Ma quali sono i vantaggi che, sul piano pratico, determinerebbe l’eventuale riconoscimento della cittadinanza?

Anzitutto, la prima forma di tutela “naturale” ontologicamente connessa alla cittadinanza è rappresentata dalla protezione consolare.

Con ciò si intende l’aiuto fornito da un Paese ai suoi cittadini che vivono o si trovano all’estero e hanno bisogno di assistenza, anche, come nel caso di specie, nelle ipotesi di arresto o detenzione, come espressamente sancito dalla Convenzione di Vienna del 1963.

Nel caso della protezione consolare, lo Stato d’origine coadiuva i propri cittadini nel far valere e tutelare i propri diritti in base all’ordinamento giuridico del Paese in cui questi si trovano.

In particolare, il riconoscimento della protezione consolare prevede che i funzionari dell’Ambasciata o del Consolato rendano visita al detenuto, diano avvisi alla famiglia di questi, lo assistano nella ricerca di un legale ovvero intervengano al fine di dar luogo alle operazioni di trasferimento in Italia qualora il connazionale sia detenuto in Paesi aderenti alla Convenzione di Strasburgo del 1983 sul trasferimento dei detenuti o con cui siano in vigore accordi bilaterali.

Tuttavia, non tutti gli Stati membri dell’UE hanno un’ambasciata o un consolato in ogni paese terzo.

Ebbene, in tali casi, ai sensi dell’articolo 20, paragrafo 2, lettera c), e dall’articolo 23 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e dall’articolo 46 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE è consentito al cittadino di uno Stato europeo il diritto di chiedere l’aiuto dell’ambasciata o del consolato di qualsiasi altro Stato membro dell’Unione.

In tali casi, infatti, gli Stati membri sono obbligati ad assistere i cittadini dell’UE che non hanno rappresentanza alle stesse condizioni dei propri cittadini.

Ora, se la protezione consolare mira a tutelare il cittadino in caso di arresto o detenzione, è automatico chiedersi, invece, quali siano gli strumenti di tutela riconosciuti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni e dagli usi internazionali in tutti i casi in cui, ad esempio, un cittadino venga condannato in uno Stato terzo.

Tra questi, occorre anzitutto menzionare lo strumento dell’estradizione che, nell’ambito dell’ordinamento interno, è regolato dall’art. 13 c.p.

L’estradizione, è un procedimento in forza del quale un soggetto viene trasferito da uno Stato all’altro al fine di essere sottoposto ad un processo penale.

Il ricorso all’estradizione è sottoposto ad alcuni limiti che attengono al soggetto che deve essere estradato, al tipo di reato per cui l’estradizione è richiesta, oltre che al tipo di pena che può essere applicata nello Stato richiedente o in quello ricevente.

Quanto al primo limite, oltre che nella norma in esame, gli artt. 10 e 26 della Costituzione sanciscono il divieto di estradizione del soggetto che rivesta la qualità di cittadino o dello straniero per i reati politici, nonché nel caso in cui il reato sia punito con pena capitale.

Ebbene, fatti salvi i suddetti limiti, e purché non sussista un espresso divieto, l’estradizione può essere concessa anche quando così è disposto da convenzioni internazionali tra gli Stati e dagli stessi ratificate.

Tornando al caso di specie, occorre evidenziare che non sussiste un trattato bilaterale tra l’Italia e l’Egitto in materia di estradizione che consenta l’automatica estradizione di un cittadino italiano o egiziano dall’Italia verso l’Egitto o viceversa.

Da ciò consegue che, anche nell’ipotesi in cui dovesse essere riconosciuta la cittadinanza all’attivista Zaki non sussisterebbero, in ogni caso, le condizioni per procedere alla sua estradizione.

Tuttavia, ciò non significa che non possa essere richiesto e concesso il rilascio del medesimo.

Infatti, costituisce consolidata prassi internazionale quella per cui, pur in assenza di un accordo internazionale, sulla base del principio di reciprocità, uno Stato concede l’estradizione nell’ipotesi in cui lo Stato richiedente, in circostanze analoghe, abbia fatto o si impegni a fare altrettanto.

D’altra parte, un ulteriore strumento azionabile dal nostro Paese – che non deve essere confuso con quello dell’estradizione – è il meno noto “Trasferimento delle persone condannate”.

Tra Italia e Egitto, infatti, è attualmente in vigore, a partire dall’anno 2013, un accordo bilaterale sul trasferimento delle persone condannate in forza del quale può essere richiesto che i cittadini italiani condannati in Egitto, nonché ai cittadini egiziani condannati in Italia che facciano richiesta di scontare la pena nel proprio Paese d’origine vengano ivi trasferiti.

In conclusione, alla luce del breve quadro sopra delineato, sono evincibili i numerosi benefici connessi al riconoscimento e concessione della cittadinanza all’attivista e ricercatore Patrick Zaki, tanto sul piano della diplomazia, quanto, eventualmente, sul piano delle azioni giudiziarie italiane.
Sebbene, infatti, gli strumenti di tutela siano limitati e spesso criticati a causa della loro scarsa efficacia, in casi come questo possono costituire indubbiamente una valida alternativa ed un’ancora di salvezza.Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista

Eleonora Pintus, Avvocato

Nei giorni scorsi hanno destato molto clamore gli arresti e le misure cautelari disposte dal GIP del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere nei confronti dei 144 agenti della polizia penitenziaria coinvolti nelle brutali violenze avvenute nella casa circondariale “Francesco Uccella“, ai danni di numerosi detenuti, tra cui anche un disabile con ridotta capacità di movimento.

Tali fatti si erano verificati il 6 aprile 2020, in occasione delle proteste organizzate dai detenuti delle diverse strutture carcerarie della penisola, innescatesi a seguito delle forti restrizioni imposte per contrastare l’epidemia Covid-19.

Pur a fronte di un eloquente filmato registrato all’interno del carcere campano che ritrae alcune delle condotte contestate agli odierni indagati, non v’è dubbio che si tratti di una vicenda ancora in corso di indagini, per la quale dovrà, dunque, attendersi l’esito dell’iter giudiziario per accertare le varie responsabilità di natura penale e disciplinare.

Tuttavia, quanto accaduto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, per le modalità delle condotte, nonché per la qualifica di pubblici ufficiali rivestita dagli autori delle stesse, per certi versi, ricorda il violento pestaggio avvenuto la sera del 21 luglio 2001, durante il G8 di Genova, nella tristemente nota Scuola Diaz.

Dal momento che si era trattato di atti degradanti e connotati da particolare crudeltà, su più fronti, si parlò di una vera e propria “tortura di Stato” messa in atto nei confronti dei malcapitati manifestanti.

Eppure, in quel preciso momento storico, l’ordinamento penale italiano non prevedeva una fattispecie di reato ad hoc; pertanto, i dirigenti, i funzionari e gli agenti di polizia coinvolti vennero processati, oltre che per falso ideologico e abuso d’ufficio, per reati minori come lesioni e percosse, puniti, quindi, con pene lievi.

In conseguenza dei fatti accaduti durante il G8 di Genova, con la sentenza del 7 aprile 2015 (Caso Cestaro c/ Italia), lo Stato italiano venne condannato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, affermando che quanto compiuto dalle forze dell’ordine italiane nell’irruzione alla Diaz dovesse essere qualificato come “tortura”, ha sanzionato l’inadeguatezza e l’incapacità dell’ordinamento italiano a prevenire e reprimere proprio i reati di tortura, in violazione dell’art. 3 della CEDU. Avv. Claudia Piroddu, Penalista • Avv. Eleonora Pintus, Penalista, Internazionalista

 

Cosa si intende per “reato di tortura”?

Tra i numerosi atti internazionali dei quali l’Italia risulta firmataria che vietano gli atti di tortura – o, comunque, trattamenti inumani e degradanti – occorre menzionare la Convenzione ONU del 1984, ratificata dall’Italia con la Legge n. 498 del 1988, con l’obbligo di legiferare in merito, che definisce come tortura “qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti … al fine di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla, intimorirla o far pressione su si lei … qualora siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale“.

Peraltro, anche la Costituzione italiana prevede nell’art. 13, comma 4, un obbligo di repressione dei fatti di violenza commessi nei confronti di persone sottoposte a restrizioni di libertà.

Nonostante ciò, solo a seguito di un tortuoso e lungo iter parlamentare conclusosi con la Legge n. 110 del 2017 si è giunti all’introduzione nel codice penale dei reati di tortura e di istigazione alla tortura, previsti rispettivamente negli articoli 613 bis e 613 ter c.p., collocati nel Titolo XII del codice penale, riguardante i delitti contro la persona e contro la libertà morale.

Nella specie, l’art. 613 bis c.p. punisce con la reclusione da 4 a 10 anni chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, vigilanza, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, qualora il fatto è commesso mediante più condotte o se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.

Al secondo comma dell’art. 613 bis c.p. è prevista una specifica ipotesi -punita più severamente con la pena della reclusione da 5 a 12 anni- che ricorre allorquando gli atti di tortura siano perpetrati dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di un pubblico servizio, con abuso di poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio. Avv. Claudia Piroddu, Penalista • Avv. Eleonora Pintus, Penalista, Internazionalista

Restano, invece, esclusi dall’ambito della fattispecie gli atti compiuti nell’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti, quindi, la disposizione non pregiudica in alcun modo l’intervento delle forze dell’ordine che operino legittimamente.

A ben vedere, quindi, la normativa penale interna ha recepito solo parzialmente il dettato della Convenzione ONU contro la tortura.

La differenza più evidente riguarda proprio la connotazione della fattispecie de qua sia come reato comune che può essere commesso da chiunque a prescindere dalla qualifica rivestita –ipotesi, quest’ultima, contemplata solo dall’ordinamento italiano- e sia come reato proprio, realizzato dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio.

Come vedremo a breve, la distinzione non è di poco conto e si riverbera sull’individuazione della natura del reato commesso dal soggetto qualificato, classificabile per taluni come reato autonomo e in altri casi come mera circostanza aggravante.

 

La più recente giurisprudenza sul reato di tortura

Al momento, vi sono diverse pronunce di merito e di legittimità che risultano senz’altro utili per delineare l’ambito di applicabilità del reato di tortura e per individuarne in maniera precisa gli elementi costitutivi.

A tale riguardo, pare opportuno segnalare la pronuncia n. 47079 dell’8 luglio 2019, con la quale la Corte di Cassazione si è espressa a seguito del ricorso proposto avverso l’ordinanza del Tribunale della Libertà dei Minori di Taranto, in ordine alle violenze commesse da un gruppo di giovani ai danni di un anziano disabile nel Comune di Manduria.

Nell’occasione, i Supremi Giudici hanno evidenziato che il bene giuridico protetto dalla norma in esame deve individuarsi nella “libertà morale o psichica, comunemente intesa come diritto dell’individuo di autodeterminarsi liberamente, in assenza di coercizioni psichiche“.

Si tratta, altresì, di un reato eventualmente abituale che si configura anche in presenza di due sole condotte poste in essere in un minimo lasso temporale, purché siano connotate da violenze esercitate sulle persone o sulle cose e minacce gravi, tali cioè da cagionare a chi le subisce un trauma psichico.

È stato precisato, inoltre, che la scelta del Legislatore italiano di identificare la tortura come reato realizzabile anche dal privato risulti più conforme alla realtà criminologica italiana e soprattutto consenta di fornire una nozione più ampia di tortura, consistente nel cagionare ad un soggetto indifeso intense sofferenze a prescindere dalla qualifica soggettiva dell’autore della condotta. Avv. Claudia Piroddu, Penalista • Avv. Eleonora Pintus, Penalista, Internazionalista

Tuttavia, proprio in merito alla qualifica rivestita dall’autore del reato, si è originato un interessante contrasto giurisprudenziale.

Invero, un primo indirizzo considera il reato di tortura commesso dal pubblico ufficiale come una mera circostanza aggravante della fattispecie comune prevista nel primo comma dell’art. 613 bis c.p., mentre un secondo orientamento connota tale ipotesi come fattispecie autonoma, in virtù del maggiore disvalore degli atti di tortura posti in essere dal soggetto preposto a garantire il rispetto della sicurezza e dei diritti della persona.

Del resto, non può trascurarsi che, qualora la condotta venisse qualificata come reato circostanziato, verrebbe vanificata la portata punitiva della norma, laddove, attraverso il meccanismo di bilanciamento delle circostanze di cui all’art. 69 c.p., sarebbe astrattamente possibile ridurre drasticamente la pena applicabile.

In tal senso, si può comprendere la portata della recentissima sentenza pronunciata il 17 febbraio 2021 dal GUP di Siena, in merito ai fatti di tortura commessi nel carcere di San Gimignano da parte di dieci agenti penitenziari nei confronti di un detenuto tunisino.

Nell’occasione, il Giudice di prime cure, proprio sulla base delle argomentazioni poc’anzi richiamate, ha specificato che la cd. tortura di stato, ovvero quella realizzata dalle forze dell’ordine, sia da considerarsi a tutti gli effetti una fattispecie autonoma di reato e, come tale, deve essere punita più severamente rispetto ai fatti commessi dal privato.

Solo in questo modo, infatti, il reato assumerebbe una connotazione più vicina a quella contenuta nella Convenzione ONU e garantirebbe una risposta punitiva più decisa dinnanzi a tali fatti gravissimi, finora rimasti per lo più nell’ombra, benché, purtroppo, sempre più frequenti.

Claudia PirodduEleonora Pintus, Avvocati

Nel nostro articolo dal titolo “Viaggiare in Europa con il Certificato verde digitale: la proposta legislativa della Commissione Europea” (per ogni approfondimento clicca su https://www.forjus.it/2021/04/15/viaggiare-in-europa-con-il-certificato-verde-digitale-la-proposta-legislativa-della-commissione-europea/) abbiamo parlato della proposta avanzata dalla Commissione Europea per l’adozione di un “certificato di viaggio” riconosciuto in tutti gli Stati membri dell’UE e finalizzato a consentire ai cittadini europei di tornare a viaggiare in maniera libera e sicura in tutta Europea in un momento storico ancora dominato dalla pandemia da COVID-19 e dalle sue varianti.

Il 14 giugno scorso, a seguito di un rapido iter legislativo, il Parlamento Europeo ed il Consiglio hanno approvato la predetta proposta di legge e oggi il Certificato Verde digitale è una realtà.

Il nuovo Regolamento UE 2021/953, insieme al Regolamento UE 2021/954 applicabile ai cittadini di paesi terzi regolarmente soggiornanti o residenti nel territorio dell’Unione Europea, definisce a livello sovranazionale regole comuni direttamente applicabili in tutti gli stati europei per il rilascio , la verifica e l’accettazione di certificati COVID digitali che potranno essere utilizzati per spostarsi in Europa. Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista

Anche in Italia, dal 1 luglio, e per la durata di un anno,  la Certificazione verde COVID-19 sarà valida come certificato europeo (EU digital COVID certificate) e renderà più semplice viaggiare da e verso tutti i Paesi dell’Unione Europea e dell’area Schengen.

Ma vediamo insieme, più nel dettaglio, cos’è questo certificato, quali condizione occorre soddisfare per ottenerlo e quali sono le modalità per entrarne in possesso

Anzitutto, è opportuno specificare che si tratta di una Certificazione in formato digitale e stampabile, emessa soltanto dalla piattaforma nazionale del Ministero della Salute, che contiene un QR Code necessario per verificarne l’autenticità e la validità.

La Certificazione attesta una delle seguenti condizioni:

  • aver fatto la vaccinazione anti COVID-19 nello Stato membro di rilascio del certificato (certificato di vaccinazione);
  • essere negativi al test molecolare o antigenico rapido nelle ultime 48 ore;
  • essere guariti dal COVID-19 negli ultimi sei mesi.

Ottenere il Certificate pass è semplice e prevede pochi passaggi.

Si precisa fin da ora che, a tal fine, sono stati previsti più canali, con o senza identità digitale, cui l’interessato può accedere in piena autonomia o con un aiuto.

Come anzidetto, in Italia è il Ministero della Salute a rilasciare la Certificazione verde COVID-19 attraverso la Piattaforma nazionale, sulla base dei dati trasmessi dalle Regioni e Province Autonome.

Dopo la vaccinazione oppure un test negativo o, ancora, in caso di guarigione da COVID-19, il Certificato verde viene emesso automaticamente .

A questo punto, l’utente riceverà un messaggio via SMS o via email ai contatti comunicati al momento della somministrazione del vaccino o del test o quando è stato rilasciato il certificato di guarigione.

Detto messaggio contiene un codice di autenticazione da usare sui canali che lo richiedono e brevi istruzioni per recuperare la certificazione.

Per entrare in possesso del Certificato in modo autonomo, possono essere utilizzati vari canali, quali: il sito del Ministero della Salute, con accesso tramite identità digitale (Spid/Cie) oppure con Tessera Sanitaria o con il Documento di identità insieme al codice univoco ricevuto via email o SMS; tramite l’App “Immuni” e l’App “IO” o nel Fascicolo sanitario elettronico.

Tuttavia, chi non dispone di strumenti digitali, può ottenere il certificato sia in versione digitale sia cartacea con la Tessera Sanitaria e con l’aiuto di un intermediario quale il medico di medicina generale, pediatra di libera scelta, farmacista.

L’emissione della Certificazione è gratuita per tutti ed è disponibile in diverse lingue quali l’italiano, l’inglese e per i territori dove vige il bilinguismo, anche in francese o in tedesco.

Ma il Certificato Verde digitale consente davvero di viaggiare liberamente, senza rischiare di essere sottoposti ad eventuali restrizioni nel Paese di destinazione?

La risposta è negativa.

Al riguardo deve specificarsi che, come sancito dall’art. 3 paragrafo 5 del Regolamento 953/2020 “Il presente certificato non è un documento di viaggio (…) Prima di mettersi in viaggio, verificare le misure sanitarie pubbliche applicabili e le relative restrizioni applicabili nel luogo di destinazione.”

Ebbene, il dettato normativo appare molto chiaro: è fatta salva la competenza degli Stati di imporre restrizioni alla libera circolazione.

Ed infatti, come anche ribadito espressamente dall’articolo 11 del medesimo Regolamento, gli Stati possono imporre restrizioni alla libera circolazione, quali ulteriori test in relazione ai viaggi per l’infezione da SARS-CoV-2 o la quarantena o l’autoisolamento in relazione ai viaggi, purché siano necessarie e proporzionate allo scopo di tutelare la salute pubblica in risposta alla pandemia.

In tali casi, qualora uno Stato membro imponga, in conformità del diritto dell’Unione, ai titolari dei certificati, di sottoporsi, dopo l’ingresso nel suo territorio, alle suddette restrizioni o ad altre a seguito, per esempio, di un rapido peggioramento della situazione epidemiologica in uno Stato membro o in una regione – in particolare a causa di una variante di SARS-CoV-2 che desti particolare preoccupazione – lo Stato deve immediatamente informare la Commissione e gli altri Stati membri, se possibile 48 ore prima dell’introduzione di tali nuove restrizioni, dei motivi e della loro portata.

In conclusione, appare chiaro che l’introduzione di un approccio comune per il rilascio, la verifica e l’accettazione dei certificati COVID-19 miri a concretizzare e agevolare la graduale revoca di tutte le restrizioni finora adottate in modo coordinato, pur lasciando impregiudicata la competenza degli Stati membri di imporre eventuali limitazioni alla libera circolazione, in conformità del diritto dell’Unione, per contenere la diffusione del virus.

Eleonora Pintus, Avvocato

Lo scorso 22 giugno, il Vaticano ha inviato al Governo italiano una nota verbale chiedendo, in sostanza, che il DDL Zan venga modificato nella parte in cui «si stabilisce la criminalizzazione delle condotte discriminatorie per motivi “fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere”» perché «avrebbero l’effetto di incidere negativamente sulle libertà assicurate alla Chiesa cattolica e ai suoi fedeli dal vigente regime concordatario

Ora, la notizia della nota e dei sui contenuti, ripresa dai giornali, e poi da esponenti del mondo politico oltre che degli operatori del diritto, ha suscitato non poche polemiche.

Di fatti, se da un lato vi è chi sostiene che la predetta nota, in quanto atto diplomatico spesso usato dagli Stati, non costituisca affatto un atto di ingerenza, d’altra parte, invece, vi è chi sostiene che, al di là della sua qualificazione normativa, si tratti di un atto “ontologicamente” molto invasivo in quanto intrinsecamente idoneo ad esercitare una forte pressione su una legge ancora in fase di discussione.

Tanto che, proprio ad arginarne gli effetti, è intervenuta la replica del Presidente del Consiglio Mario Draghi il quale ha chiarito che l’Italia è uno Stato laico, non confessionale e che, quindi, ha il potere di legiferare liberamente, seppur nel rispetto dei principi costituzionali e degli impegni internazionali assunti, tra i quali vi è il Concordato con la Chiesa.Avv. Viola Zuddas, Civilista

Ma cosa si intende per laicità dello Stato?

Questo principio, in realtà, non è sancito in modo espresso nella Costituzione ma deriva dall’opera interpretativa della Corte costituzionale che con la storica sentenza del 12 aprile 1989, n. 203 ha ritenuto che dalle norme costituzionali riguardanti il fenomeno religioso si potessero desumere diverse garanzie e, in particolare:

  • salvaguardia della libertà di religione in regime di pluralismo confessionale e culturale,
  • pari protezione alla coscienza delle persone che si riconoscano in una fede o in nessuna,
  • equidistanza ed imparzialità rispetto a tutte le confessioni religiose.

Ebbene, come abbiamo già analizzato nei nostri precedenti articoli (https://www.forjus.it/2021/05/17/perche-litalia-ha-bisogno-del-ddl-zan/ e https://www.forjus.it/2021/05/20/ddl-zan-novita-legislative-e-risvolti-pratici-parte-2/), il DDL Zan è volto a promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione nonché a contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere, in attuazione dei princìpi di eguaglianza e di pari dignità sociale sanciti dalla Costituzione.

Non si vede, dunque, come il DDL Zan nella sua attuale formulazione possa incidere negativamente sulle libertà assicurate alla Chiesa ed ai suoi fedeli.

È, poi, importante ricordare che il nostro Paese si colloca al 35° posto in Europa per la lotta alle discriminazioni fondate sul sesso proprio perché non vi è un sistema legislativo in grado di assicurare efficacemente l’inclusione delle persone LGBTIQ nella società o che si occupi di reprimere con risolutezza atteggiamenti discriminatori, stigmatizzanti e violenti nei loro confronti.

Legge anti LGBTIQ in Ungheria: atto di ingerenza da parte degli Stati membri dell’Unione Europea?

Nello scenario europeo, una “querelle” dello stesso si è scatenata a seguito dell’approvazione da parte del parlamento ungherese di una legge che vieta la condivisione di qualsiasi contenuto che promuova l’omosessualità o il cambio di sesso a chiunque abbia meno di 18 anni.

In occasione de Consiglio Europeo tenutosi lo scorso 24 giugno, numerosi Capi di Stato e di Governo dei Paesi membri dell’Unione hanno immediatamente manifestato la loro ferma opposizione al premier Ungherese rispetto alla predetta legge, in quanto considerata un vero e proprio attentato alla democrazia, all’uguaglianza e alla libertà.

Ebbene, dette contestazioni sono state da taluni qualificate come atto di ingerenza statale nei confronti di un altro Stato sovrano, al pari del discusso intervento Vaticano sul ben noto Ddl Zan.

Al riguardo, non appare superfluo precisare che il principio di non ingerenza, fondamentale per il mantenimento di relazioni internazionali pacifiche tra gli Stati, ribadito anche nell’Atto di Helsinki del 1975, pone l’obbligo a carico di tutti gli Stati di non interferire negli affari interni di un altro Stato e trova il suo fondamento nel principio che stabilisce l’uguaglianza sovrana fra gli stessi.
Ora, al di là della discutibilità nella forma e nella sostanza della nota Vaticana, le recenti contestazioni mosse dagli Stati Europei e dalle Istituzioni UE nei confronti del governo ungherese non sembrano potersi qualificare come atti di ingerenza da parte di attori statuali e non statuali nei confronti di un altro Stato sovrano.

L’eccepita violazione del suddetto principio è, invero, totalmente avulsa da qualsivoglia ragione di carattere giuridico se si pensa che gli Stati membri dell’Unione possono attivare, ai sensi dell’art. 7 del Trattato sull’Unione Europea (TUE), già una procedura di pre-allarme allorquando vi sia un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro dei valori di cui all’art. 2, ossia della dignità umana, libertà, democrazia, uguaglianza, rispetto dei diritti umani e delle minoranze su cui si fonda l’Unione.

In forza di detta procedura vengono indirizzate allo Stato membro in questione delle raccomandazioni e, solo in caso di constatazione dell’esistenza di una violazione grave e persistente, il Consiglio può decidere di sospendere alcuni diritti nei confronti di quest’ultimo.

Trattasi nientemeno che dei valori che ogni Stato europeo che domanda di diventare membro dell’Unione deve rispettare ed impegnarsi a promuovere.

Ebbene, proprio le predette condizioni per l’ammissione, oltre al rispetto e gli adattamenti ai trattati su cui è fondata l’Unione Europea, formano l’oggetto di un accordo tra gli Stati membri dell’Unione e lo Stato richiedente e sottoposto a ratifica – così entrando a far parte dei singoli ordinamenti nazionali – da tutti gli Stati contraenti, con conseguente obbligo in capo agli stessi di adempiervi dando piena attuazione al contenuto.

Gli Stati aderenti, dunque, assumono un vero e proprio obbligo in quanto non solo devono dimostrare di rispettare i valori di cui all’art. 2 TUE, ma assumono altresì l’impegno formale di promuoverli, insieme ai Trattati istitutivi, tanto sul piano interno che su quello internazionale.

La violazione degli obblighi da parte degli Stati membri dei Trattati e dei principi ivi sanciti, che può estrinsecarsi sia mediante condotte commissive – ad esempio, come nel caso ungherese, adottando atti normativi interni contrari ai trattati e ai suoi principi – che omissive – ossia omettendo di compiere qualunque condotta necessaria alla promozione e attuazione degli atti comunitari e dei principi -, consente tanto a ciascuno degli Stati membri quanto alla Commissione di attivare il cd. ricorso per inadempimento o infrazione davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Ad esito del giudizio, la Corte potrà comminare allo Stato accertato inadempiente il pagamento di una sanzione.

In conclusione, il complesso quadro normativo brevemente riportato consente di affermare che le contestazioni mosse al governo ungherese da parte degli Stati membri (a differenza dell’intervento Vaticano) non siano affatto qualificabili come atti di ingerenza ma, al contrario, eccezioni pressoché legittime della violazione dei principi e valori oggetto degli accordi di adesione e dei Trattati istitutivi da parte dello Stato Ungherese che, in quanto Paese membro, è giuridicamente obbligato al loro rispetto e promozione anche all’interno dell’ordinamento nazionale mediante l’emanazione di norme che siano lo specchio di quei valori che costituiscono la colonna vertebrale dell’Unione Europea.Avv. Eleonora Pintus, Internazionalista e diritto dell’Unione Europea

Eleonora PintusViola Zuddas, Avvocati

L’amore ai tempi del Covid

È ormai trascorso oltre un anno dall’inizio della pandemia da COVID-19 che ha modificato profondamente le abitudini di vita delle persone. La grande incertezza sul futuro ha ingenerato condizioni di forte stress sfociando spesso in stati emotivi difficili da gestire: allerta, preoccupazione, sgomento, sino ad arrivare a manifestazioni disfunzionali quali ansia, panico e addirittura sintomi post-traumatici.

La quarantena, necessaria per fronteggiare l’emergenza, ha sconvolto e continua a sconvolgere gli equilibri famigliari. Dai dati emerge chiaramente come la coppia sia una delle categorie maggiormente colpite. Secondo l’Associazione Nazionale Divorzisti Italiani, l’aumento nel numero di separazioni tra il 2019 ed il 2020 è stato pari al 60%.

Tra i principali motivi di tensione annoveriamo la permanenza forzata tra le mura domestiche, causa smart working o perdita del lavoro, il maggiore coinvolgimento nelle attività scolastiche dei figli nonché la nuova organizzazione dei tempi e degli spazi, o ancor peggio l’impossibilità di ricavarne di propri.

All’estremo opposto ci sono le situazioni di distanziamento forzato.

Le cause sono molteplici: professioni, come quelle sanitarie, che espongono al rischio di contagio ed obbligano all’isolamento domiciliare permanente o altre che costringono al lavoro in sedi distanti da casa e risentono dalle attuali limitazioni, di natura pratica e legale, agli spostamenti a lungo raggio.

Ma l’isolamento forzato e prolungato, tanto quanto la distanza, sono solo fattori di malessere esterni alla coppia.
Essi possono fungere da amplificatore di un disagio preesistente senza essere la reale causa di un’eventuale crisi.

Disagi e conflitti di varia natura sono infatti parte integrante di ogni relazione senza necessariamente minacciarne la stabilità.

Si parla di crisi solo quando il disagio è duraturo ed accompagnato da un sentimento di impotenza, conseguenza di innumerevoli tentativi di appianamento andati a vuoto.

Per comprendere le dinamiche interne ad un rapporto sentimentale dobbiamo necessariamente far riferimento alla teoria dell’attaccamento. Esiste infatti un filo diretto tra la qualità del legame instaurato con le figure significative dell’infanzia (caregivers) ed i legami instaurati in età adulta. Questo perché il bambino in base alle esperienze vissute costruisce degli schemi mentali chiamati MOI (Modelli Operativi Interni) che si porterà dietro, per dirlo con le parole di Bowlby, dalla culla alla tomba. Dott.ssa Stefania Persico, psicologa e psicoterapeuta

I MOI vengono costantemente impiegati dall’individuo come chiave di lettura nella rappresentazione di sé, nelle interazioni con gli altri e nell’interpretazione del mondo. Sono un patrimonio di memorie relazionali implicite che rimangono attive per tutta la vita e che ci portano a ricercare, anche nella scelta del partner, le esperienze che conosciamo. Ciò non significa che il nostro destino sia già scritto. Esperienze emozionali e relazionali correttive, ripetendosi nel tempo, possono sovrascriversi totalmente o parzialmente ai modelli precedentemente appresi e modificarli.

Quando due persone entrano in relazione portano all’interno della coppia i propri MOI ed il proprio stile di attaccamento (sicuro, insicuro-evitante, insicuro-ambivalente, disorganizzato). Senza entrare nei dettagli di queste complesse ed ampiamente studiate categorie, è facilmente intuibile come legami sicuri possano generalmente offrire superiori livelli di benessere psicologico rispetto a legami insicuri. Questi ultimi generano spesso malessere e disagio per la minore disponibilità di strategie di coping (l’affrontare/il fronteggiare le difficoltà) da impiegare nei momenti di crisi.

Ad esempio, se un individuo con uno stile di attaccamento insicuro-ambivalente si considera immeritevole di amore difficilmente riuscirà a fidarsi del partner: vivrà, pertanto, il rapporto con la costante paura di essere abbandonato mettendo in atto meccanismi di controllo, continua ricerca di rassicurazione e manifestando livelli incontrollabili di gelosia.

Adulti con uno stile disorganizzato, estremamente disfunzionale, vivranno invece un rapporto caratterizzato da forte instabilità, accesi conflitti sino ad arrivare a comportamenti di sopraffazione e violenza.

In estrema sintesi, la coppia entra in crisi nel momento in cui non riesce più a rinegoziare il legame attraverso discussioni e litigi costruttivi, smette di essere cooperativa e sente di non disporre più delle risorse necessarie al raggiungimento di un compromesso che garantisca una relazione sentimentale gratificante. Dott.ssa Stefania Persico, psicologa e psicoterapeuta

Come già accennato, la pandemia da COVID-19 ha solo esacerbato conflitti esistenti, rompendo equilibri già fragili. Con molta probabilità, la maggior parte delle crisi ad essa attribuite erano già in corso in fase pre-pandemica. Banalmente però, quando si è concentrati su molteplici attività come lavorare, fare la spesa, portare i figli a scuola, andare in palestra, uscire con gli amici, vedere i parenti non si ha il tempo per soffermarsi sulle difficoltà relazionali.
Solo nel momento in cui parte di questi fattori di distrazione sono improvvisamente venuti meno non è stato più possibile per molte coppie continuare a negare l’evidenza.

In ambito psicologico, la crisi non ha necessariamente un’accezione negativa. Al contrario, viene considerata un’opportunità di cambiamento, di crescita, di ridefinizione della propria identità e della propria autostima.

Per evitare di cadere preda del dolore e dell’angoscia è però indispensabile riorientarsi.
La terapia individuale o di coppia rappresenta un notevole aiuto in tal senso.
Consente infatti di analizzare la situazione da un punto di vista differente, quello di uno specialista con l’esperienza e gli strumenti necessari per farlo con distacco ed obiettività.

La terapia aiuta ad operare scelte più consapevoli nella direzione del cambiamento costruttivo e di un’evoluzione personale e del rapporto. Aiuta anche, quando altre strade non sembrano più percorribili, a maturare una scelta di separazione ed affrontare in maniera meno dolorosa e distruttiva la riorganizzazione del sistema che la dissoluzione di un rapporto inevitabilmente comporta.

Stefania Persico, Psicologa e psicoterapeuta

Mi sono laureata con il massimo dei voti in Psicologia con indirizzo Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni  Sociali presso l’Università degli Studi di Cagliari.

Ho conseguito la specializzazione quadriennale in psicoterapia della Gestalt ed in seguito mi sono formata come Terapeuta EMDR. Esercito la libera professione e l’attività di perito presso il mio studio di Cagliari in via Alghero 29.

Focus di diritto civile, diritto di famiglia Avv. Francesco Sanna

Conflittualità tra i coniugi e affidamento dei figli
Dal focus della dott.ssa Stefania Persico abbiamo appreso che la convivenza forzata o il distanziamento obbligatorio, imposti entrambi da ragioni sanitarie, ha causato l’aumento della conflittualità all’interno della coppia e, spesso, ha portato alla dolorosa decisione di separarsi.

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

Il reato di maltrattamenti in famiglia: presupposti e “violenza assistita”
Il tema dei maltrattamenti in famiglia, specie negli ultimi anni e, in particolare, durante il periodo delle restrizioni imposte dalla pandemia di Covid-19, ha assunto sempre maggiore rilievo, anche a fronte dell’aumento considerevole delle richieste di assistenza da parte delle vittime di violenza domestica e di genere.

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Focus di diritto civile, diritto di famiglia • Avv. Viola Zuddas

Il tradimento e l’addebito della separazione
Come già anticipato dalla Dott.ssa Stefania Persico nel suo focus, la pandemia da COVID-19 ha modificato profondamente le abitudini di vita delle persone e la quarantena, indispensabile per fronteggiare l’emergenza sanitaria, ha sconvolto gli equilibri familiari.

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Litigi tra genitori – figli e disaccordo al vaccino. L’intervento dell’Unione Europea sui diritti dei minori.
È noto che le restrizioni derivanti dall’emergenza da Covid-19 hanno messo a dura prova il nostro stile di vita e la nostra quotidianità.

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Il caso

Era il 2 luglio 2020 quando un gruppo di pescatori Sardi di Sorso decide di prendere il largo verso il Capo di Roccapina, a poche miglia dalla Corsica, nei pressi degli Isolotti dei Monaci.

Detta area si inserisce nella riserva naturale delle Bocche di Bonifacio (réserve naturelle des Bouches de Bonifacio), classificata come Area specialmente protetta di interesse mediterraneo sita tra Corsica e Sardegna (per maggiori informazioni sulle Aree Marine Protette, leggi l’ultimo articolo di Forjus su https://www.forjus.it/2021/06/07/le-aree-marine-protette-criticita-e-tutela-penale/)

In quell’occasione, secondo la ricostruzione fornita da “l’Office de l’environnement de la Corse” (Ufficio dell’ambiente della Corsica), autorità francese che si occupa della vigilanza dell’area protetta, il gommone, con a bordo quattro pescatori, avrebbe violato l’area – così accedendo in acque di competenza francese – dove è severamente vietata ogni attività di caccia e pesca.

Tra le contestazioni mosse ai pescatori, oltre alla violazione di un’area protetta privi di autorizzazione, si inseriscono anche quelle di minaccia e resistenza a pubblico ufficiale.

Nei giorni scorsi, l’autorità Giudiziaria francese ha dunque emesso nei confronti dei tre uomini (uno dei quattro asseritamente presenti non è stato identificato) un “Mandato di arresto Europeo” (MAE), a seguito del quale gli stessi sono stati arrestati e sottoposti a custodia cautelare presso il carcere di Bancali.

La richiesta di consegna: il mandato d’arresto europeo (MAE)

Ma cosa è il MAE e come funziona?

Il mandato d’arresto europeo è una procedimento giudiziario “di consegna” finalizzato all’esercizio dell’azione penale o all’esecuzione di una pena.

La procedura consiste nell’emissione di un mandato da parte di un’autorità giudiziaria di uno Stato membro (emittente) perché si proceda all’ arresto di una persona ricercata in un altro Stato membro e la si consegni al primo Stato affinché possa essere esercitata l’azione penale o, in caso di condanna, ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privativa della libertà.

Detto meccanismo, nettamente semplificato rispetto al più noto procedimento di estradizione, opera mediante un contatto diretto delle autorità giudiziarie, basandosi sul principio del riconoscimento reciproco delle decisioni penali.

Al di là dei diritti che, in tali casi, debbono necessariamente essere garantiti agli imputati – quali, a titolo esemplificativo, il diritto di nomina di un difensore e quello di traduzione degli atti in una delle lingue ufficiali dello stato membro di esecuzione, ivi compreso il MAE – la peculiarità di tale procedura risiede nel fatto che il MAE può operare solo per fatti puniti dalla legge dello Stato emittente con una pena detentiva o con misure di sicurezza privative della libertà della durata massima non inferiore a dodici mesi ovvero, in caso di condanna o applicazione di una misura di sicurezza, allorquando sia stata pronunciata una condanna non inferiore a quattro mesi.
Ebbene, è lecito chiedersi se un Paese possa rifiutare la consegna della persona oggetto del mandato.

La risposta è affermativa.
In tal caso, si possono distinguere tra:

  • motivi obbligatori: ad esempio quando la persona è stata già giudicata per lo stesso reato (principio del ne bis in idem), oppure se si tratta di minori (dunque soggetti che non hanno compiuto l’età prevista per la responsabilità penale nel paese d’esecuzione) o, ancora, in caso di amnistia;
  • motivi facoltativi: ad esempio, in caso di assenza di doppia incriminazione per i reati che non siano compresi tra le 32 fattispecie penali di cui all’articolo 2, paragrafo 2, della decisione quadro sul MAE (tra i quali, reati di stupro, omicidio volontario, terrorismo, ecc); se sussiste giurisdizione territoriale, oppure in caso di procedura penale in corso nel paese dell’esecuzione ovvero per intervenuta prescrizione.

Per l’esecuzione del MAE sono previsti termini rigorosi, che dipendono dal fatto che il ricercato acconsenta o meno alla propria consegna.

Nei casi in cui il ricercato acconsente alla propria consegna, la decisione definitiva sull’esecuzione del MAE dovrà essere presa entro dieci giorni dalla comunicazione del consenso (articolo 17, paragrafo 2, della decisione quadro sul MAE).

Nei casi in cui, invece, il ricercato non acconsente alla propria consegna, la decisione definitiva sull’esecuzione del MAE dovrà essere presa entro sessanta giorni dall’arresto del ricercato (articolo 17, paragrafo 3, della decisione quadro sul MAE).

In ogni caso, dopo l’arresto del ricercato sulla base del MAE, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione deve decidere se mantenere l’imputato in stato di custodia o metterlo in libertà fino alla decisione sull’ esecuzione del MAE.Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista

La custodia non è, quindi, sempre indispensabile e la persona può essere messa in libertà provvisoria in qualsiasi momento ai sensi della legislazione nazionale dello Stato membro di esecuzione.
Se la persona non è mantenuta in custodia, l’autorità competente dello Stato membro di esecuzione deve adottare le più opportune misure per evitarne la fuga.

Dette misure possono comprendere, ad esempio, il divieto di viaggio, la sorveglianza elettronica oppure l’obbligo di presentarsi periodicamente a un’autorità.

Il rifiuto di consegna dei pescatori di Sorso: la decisione del Giudice

Ebbene, tornando al caso dei pescatori di Sorso, è proprio quest’ultima misura che il Giudice incaricato dell’esecuzione nel corso dell’udienza tenutasi lo scorso 7 giugno 2021 ha deciso di applicare.

In detta occasione, infatti, i tre pescatori hanno negato il loro consenso alla consegna e, contestualmente, hanno richiesto che venissero applicate nei loro confronti misure cautelari attenuate.

Il giudice dell’esecuzione, ritenuto che l’arresto – avvenuto, come detto, su mandato di arresto europeo da parte della Francia – e le misure cautelari siano stati applicati ai giovani nei termini e alle condizioni di legge, le ha confermate, accogliendo, al contempo, le richieste avanzate dalla difesa di parte.

Ed infatti, al fine di scongiurare ogni pericolo di fuga – in attuazione dell’articolo 12 della decisione quadro sul MAE – l’autorità giudiziaria ha revocato la misura cautelare della custodia cautelare in carcere sostituendola con quella dell’obbligo di firma.

In merito all’eventuale consegna, bisognerà invece attendere la prossima decisione dell’autorità giudiziaria del Tribunale di Sassari, chiamata a dare esecuzione ad ogni mandato d’arresto europeo in base al principio del riconoscimento reciproco e in conformità alle disposizioni della decisione quadro sul MAE.

Eleonora Pintus, Avvocato

La maternità surrogata, nota anche come gestazione per altri o utero in affitto, è una tecnica di procreazione assistita in cui una donna, la gestante, porta in grembo un concepito di cui, però, non sarà considerata come madre legale.

Nella maternità surrogata possono essere coinvolte da due fino a cinque persone. Vi può essere una sola persona, senza partner, che mette a disposizione il proprio seme e ricorre a questa pratica con una donna gestante. Può ricorrere a tale tecnica di procreazione una coppia composta da uomo e donna che usa il proprio materiale genetico, ovvero quello dell’uomo della coppia e quello della madre gestazionale.

Altresì, vi può ricorrere una coppia omosessuale composta da due uomini o due donne.

Orbene, detta prassi, è considerata illegale in numerosi Paesi, ivi compresa l’Italia dove, la maternità surrogata è una pratica condannata penalmente.

Infatti, la legge n.40 del 2004 all’art. 12 comma 6 punisce con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità.

Ebbene, dette preclusioni nazionali hanno indotto, negli anni, numerosi coppie a recarsi nei Paesi che ammettono tale pratica al fine di ottenere un figlio da maternità surrogata.

Ma, in tal caso, una volta portato a compimento il processo di gestazione e a seguito della nascita del figlio, lo Stato d’origine è tenuto a riconoscere il legame di filiazione e, per l’effetto, procedere alla trascrizione nei registri dello stato civile dell’atto di nascita straniero?

La confusa questione della legittimità della trascrizione dei suddetti atti ha tenuto banco nelle aule di giustizia, fino ad arrivare alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

In particolare, con l’ultimissima sentenza del 18 maggio 2021, nel caso Valdìs e altri v. Islanda, la Corte Europea ha riconosciuto la legittimità della decisione delle autorità islandesi che hanno negato a una coppia di sue cittadine la genitorialità di un minore nato da madre americana le quali, tornate in Islanda, hanno visto rigettare la richiesta di trascrizione dell’atto di nascita (ottenuto negli Stati Uniti) nei pubblici registri islandesi .

Difatti, poiché vige in Islanda il divieto di ricorrere alla maternità surrogata, prima la Corte Distrettuale e, successivamente, quale giudice di ultima istanza, anche la Corte Suprema islandese, hanno affermato che “in Islanda la madre naturale è la madre e le autorità non hanno l’obbligo di riconoscere i richiedenti come genitori”.

Alla luce di tale decisione, il bambino è stato considerato quale “minore non accompagnato” ma, al fine di garantirne la massima tutela, veniva sottoposto alla custodia delle due donne.

Ebbene, la Corte Europea ha ritenuto che la sentenza della Corte Suprema islandese non fosse né “arbitraria” né “irragionevole”, in quanto trova il proprio fondamento nella legge islandese che, stante l’espresso divieto, non può essere aggirata.

D’altra parte, la Corte ha riconosciuto che la predetta decisione non fosse, in ogni caso, lesiva dei diritti e della tutela del minore in quanto, poiché lo Stato ha disposto l’affidamento del minore alla coppia, sono state adottate tutte le misure necessarie ed idonee a “salvaguardare la vita familiare delle ricorrenti”.

Con la pronuncia dello scorso maggio, dunque, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha sancito il principio secondo cui gli Stati sono legittimati a rifiutare di trascrivere l’atto di nascita di bambini nati da madre surrogata. Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista

Detto principio ricalca quello già precedentemente espresso nel caso “Paradiso e Campanelli c. Italia” secondo cui, laddove non vi sia alcun legame di sangue tra genitori e figli, non può essere riconosciuto un rapporto di filiazione; legame che, invece, sussiste rispetto ai genitori biologici.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha così affermato la legittimità del diniego di trascrizione e il divieto di maternità surrogata in quanto non rappresentano, in sé, una violazione dell’articolo 8 della Convenzione Europe dei Diritti dell’Uomo che tutela il rispetto alla vita privata e familiare.

In conclusione, secondo la Corte EDU, il divieto di maternità surrogata ed il rifiuto di trascrizione degli atti di nascita stranieri, non solo è legittimo e rientra nella discrezionalità riconosciuta agli Stati, ma risponde perfino all’esigenza di effettiva protezione delle donne che potrebbero trovarsi in una posizione di debolezza e subire pressioni a causa della surrogazione, nonché dei diritti dei minori, tra i quali si dovrebbe annoverare quello di conoscere i propri genitori naturali.

Eleonora Pintus, Avvocato

Come cambia l’approccio all’acquisto della casa ai tempi del Covid

Il Covid-19 ha avuto un impatto molto forte nel settore immobiliare, così come in qualsiasi altro ambito lavorativo: sta infatti contribuendo a rivedere la geografia della domanda e le necessità abitative dei potenziali acquirenti.

Durante la quarantena tante persone hanno realizzato di vivere in una casa che effettivamente non è funzionale nella suddivisione degli spazi e magari è lontana da aree verdi o dal mare: durante questi mesi, quindi, la presenza di spazi troppo esigui e privi di una terrazza o di un giardino ha sicuramente accentuato la sensazione di chiusura.

Ad essere cambiate sono quindi le priorità domestiche.

Ecco che a mutare è l’approccio del cliente al concetto stesso di casa.

Il nostro lavoro ci porta ad avere a che fare con una moltitudine di persone, cerchiamo di entrare in sintonia con ognuno di loro per riuscire a capire esattamente che cosa vogliono e che cosa cercano: dopotutto li supportiamo nell’acquisto più importante della loro vita.

Tante persone, famiglie o single e tanti budget. Che cosa li accomuna? I nuovi requisiti che la loro futura casa deve avere.

I mesi di quarantena hanno portato a vivere le quattro mura domestiche in maniera poliedrica: la casa si è trasformata anche in palestra o scuola di cucina o ristorante e a questo si è unito il nuovo modo di lavorare, lo smart- working, che ha comportato la necessità di riorganizzare gli ambienti interni.

Emerge, dunque, un quadro del tutto nuovo, una casa dalle mille sfaccettature.

Le persone, pertanto, hanno iniziato a cercare fondamentalmente immobili con spazi più ampi, soluzioni indipendenti o semi-indipendenti, nelle vicinanze di aree verdi o vicino alla spiaggia, con metrature più generose anche per la nuova necessità del lavoro da casa.Tiziana Mereu, Agente immobiliare

Nelle richieste che gestiamo compare come condicio sine qua non almeno una di queste caratteristiche.

La costante dello smart working ha fatto sorgere, poi, la necessità di avere un vano ad esso completamente dedicato dove sarà possibile sopperire alla mancanza di privacy registrata durante il lockdown.

Se prima della pandemia si viveva la casa unicamente a fine giornata come un semplice dormitorio e si dava scarsa importanza a certi aspetti, ora, i nuovi tempi che stiamo vivendo, ci portano a riscoprire l’importanza di possedere un giardino o ampi balconi e terrazze come estensione dello spazio interno.

Questo garantisce più libertà di movimento dentro e fuori casa.

Mi rendo conto, in base alle richieste che riceviamo, che le persone hanno riscoperto la necessità di coltivare un hobby o delle passioni come, ad esempio, un orto (in giardino o in balcone poco importa).

Si tratta di una vera e propria rivincita per queste pertinenze, che prima, in particolare il giardino a causa della manutenzione che richiede, venivano snobbate.

A essere cambiata è anche la domanda dei single: se prima puntavano sui bilocali, piccoli, pratici e facilmente gestibili, ora si orientano su abitazioni leggermente più grandi, che consentono loro di destinare una parte della casa al già citato smart working o da dedicare allo svago.

L’incertezza di viaggiare e le limitazioni alle valvole di sfogo hanno messo per ognuno, nessuno escluso, al centro di tutto la casa, che deve essere dotata di tutti i comfort e dove ogni dettaglio non può essere trascurato.

La casa oggi più che mai deve rispecchiare quello che siamo e deve permetterci di esprimerci senza chiusure o limitazioni di spazio.

 

Tiziana Mereu, Agente immobiliare

Sono laureata in giurisprudenza e attualmente esercito la professione presso l’agenzia Intesa Immobiliare di Quartu Sant’Elena, in via Cagliari n. 40b. Sin dai tempi dell’università appassionata di immobili e arredo, dopo una parentesi da consulente del lavoro abilitato, ha prevalso la passione per questo mondo.

Con l’agenzia immobiliare forniamo servizi di compravendita, locazione, consulenza mutui, sempre in costante aggiornamento e sempre mettendo al primo posto le esigenze del cliente.

Focus di diritto tributario Avv. Francesco Sanna

Imposta di registro per l’acquisto della prima casa
In generale, l’agevolazione fiscale per l’acquisto della prima casa è disciplinata dal D.P.R. n. 131/1986.
L’articolo 1, parte I, nota II-bis della Tabella allegata a detto decreto e ss.mm. sancisce l’applicazione dell’imposta di registro nel termine fisso del 2% nel caso in cui il trasferimento avvenga tra privati e abbia ad ‹‹oggetto case di abitazione, ad eccezione di quelle di categoria catastale A1, A8 e A9, ove ricorrano le condizioni di cui alla nota II-bis).››.

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

L’agente immobiliare non comunica il difetto di abitabilità dell’immobile: è truffa contrattuale
Cosa accade nel caso in cui si acquista un immobile nella convinzione che lo stesso abbia determinate caratteristiche e, successivamente, si scopre che l’abitazione non corrisponde alle informazioni fornite dal venditore o dall’agente immobiliare al momento della vendita?

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Focus di diritto civile, contratti • Avv. Viola Zuddas

Quando spetta la provvigione al mediatore immobiliare?
Il mediatore è colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare, senza essere legato ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza.

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Focus di diritto internazionale e dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Esiste un diritto all’abitazione?
Il diritto “alla casa” si inserisce nell’ambito di una “tutela multilivello di diritti”, che coinvolge fonti internazionali, comunitarie e nazionali.

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Le modifiche al codice penale

Il disegno di legge Zan, composto da dieci articoli, ha l’espressa finalità di prevenire e contrastare la discriminazione e la violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità, mediante un intervento di modifica al codice penale.

In particolare, sono due gli articoli ad essere interessati dal DDL ZAN, ovvero l’art. 604 bis e l’art. 604 ter c.p., originariamente introdotti con la cd. Legge Mancino.

Nella formulazione attuale, l’art. 604 bis punisce chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico e chi istiga a commettere o commette atti discriminazione o violenza per gli stessi motivi.

La norma punisce, inoltre, chi partecipa, presta assistenza, promuove o dirige associazioni o gruppi che incitano alla discriminazione o alla violenza basata sui motivi razziali o religiosi.

L’art. 604 ter c.p., invece, prevede un’apposita circostanza aggravante applicabile nel caso di reati commessi con finalità discriminatorie.

Ebbene, se, da un lato, il DDL ZAN non introduce alcuna modifica relativa al reato di propaganda – che rimane, quindi, limitato alle sole ipotesi di odio razziale o etnico – dall’altro lato, interviene sia in merito al reato di istigazione che avendo riguardo alla commissione di atti di discriminazione e violenza.

In parole semplici, si tratta di un intervento volto ad ampliare le norme già esistenti, destinato però ad aggiungere alle discriminazioni o violenze per motivi razziali, etniche e religiose, anche quelle fondate sul sesso, sull’orientamento sessuale e identità di genere, nonché sulla disabilità. Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista • Avv. Claudia Piroddu, Penalista

La Legge, inoltre, prevede l’introduzione di una specifica circostanza aggravante applicabile a quelle condotte criminose che risultano motivate da omotransfobia ed abilismo che, ad oggi, non sono previste espressamente in nessuna norma del codice penale.

Infatti, nonostante l’art. 61 c.p., che disciplina le circostanze aggravanti comuni applicabili a qualsiasi fattispecie, preveda l’aggravante di “aver agito per motivi abbietti o futili“, questa, tuttavia, ha ad oggetto ipotesi diverse che ricorrono solo laddove la condotta sia sorretta da motivi perversi o sproporzionati, entrambe difficilmente applicabili al caso in esame.

Ebbene, la critica maggiore che viene sollevata al disegno di legge riguarda la presunta limitazione della libertà di espressione che le modifiche normative introdurrebbero.

Ma è davvero così?

Libertà di espressione e reati di opinione

La libera manifestazione del pensiero, come principio fondante di uno stato democratico, è tutelata dall’art. 21 della Costituzione italiana, nel quale si precisa che “tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione“.

Poter esprimere idee e pensieri, tuttavia, non significa poterlo fare in maniera indiscriminata, ad esempio, con modalità offensive o violente.

Vi sono, quindi, dei limiti previsti proprio per tutelare anche le libertà altrui, ossia l’onore, la reputazione, l’incolumità o l’integrità fisica e psichica delle persone coinvolte, solo per citarne alcune.

Deve poi aggiungersi che il codice penale e alcune leggi speciali puniscono i cd. reati di opinione, che tutelano valori morali, spirituali e ideali, intesi come beni super- individuali, ossia riconducibili all’intera società.

Ne sono un esempio, il reato di attentato contro l’integrità, l’indipendenza e l’unità dello Stato, il reato di attentato contro la Costituzione dello Stato o i reati di vilipendio, nonché il reato di apologia di genocidio e del fascismo che, nella specie, punisce chiunque pubblicamente esalti esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche.

Fatta questa doverosa premessa, pare opportuno precisare che il DDL ZAN garantisce la libertà di opinione, senza metterla in discussione né limitarla.

In particolare, l’art. 4 prevede espressamente che “sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti“.

Ciò significa che è ben possibile continuare ad esprimere liberamente idee e convinzioni personali, condivisibili o meno, purché la libertà di espressione del singolo non sconfini nell’istigazione all’odio e alla violenza per motivi inerenti al sesso, all’identità di genere o all’orientamento sessuale.

Peraltro, è necessario aggiungere che la norma non contempla né disciplina in alcun modo la “maternità surrogata” e la “transizione di genere“, ma introduce, invece, la definizione di “identità di genere“, quale estrinsecazione della libera espressione di sé, mutuandola dalla giurisprudenza europea e dal diritto sovrannazionale.

Invero, nell’art. 1, lett. d), il DDL stabilisce che “per identità di genere si intende l’i­dentificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corri­spondente al sesso, indipendentemente dal­l’aver concluso un percorso di transizione“.

Come preannunciato, si tratta di una definizione introdotta per la prima volta dal Parlamento europeo e dal Consiglio con la Direttiva n. 95 del 2011 ove, rilevata l’esigenza di introdurre una definizione comune del motivo di persecuzione costituito dall’ “appartenenza a un determinato gruppo sociale”, è stato specificato che ai fini della definizione di un determinato gruppo sociale, occorre tenere debito conto degli aspetti connessi al sesso del richiedente, tra cui l’identità di genere e l’orientamento sessuale.

Una più approfondita definizione è stata poi inserita nella Direttiva 2012/29 UE, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato.

In particolare, nell’invitare gli Stati membri a migliorare la legislazione e le misure concrete di sostegno per il riconoscimento e la protezione delle vittime, la Direttiva in esame ha riservato particolare attenzione alle “vittime della violenza di genere”, con ciò intendendosi “la violenza diretta contro una persona a causa del suo genere, della sua identità di genere o della sua espressione di genere o che colpisce in modo sproporzionato le persone di un particolare genere”.

La violenza punibile è, dunque, quella che “può provocare un danno fisico, sessuale, emotivo o psicologico, o una perdita economica alla vittima. La violenza di genere è considerata una forma di discriminazione e una violazione delle libertà fondamentali della vittima e comprende la violenza nelle relazioni strette, la violenza sessuale (…), la tratta di esseri umani, la schiavitù e varie forme di pratiche dannose, quali i matrimoni forzati, la mutilazione genitale femminile e i cosiddetti «reati d’onore»”.

È evidente, dunque, che l’introduzione del concetto di “identità di genere” da un punto di vista giuridico non è certamente nuova ma ha trovato ampio riconoscimento già a livello sovranazionale. Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista • Avv. Claudia Piroddu, Penalista

Ebbene, nonostante ciò, sebbene l’Italia abbia recepito la Direttiva n. 29 del 2012 con il Decreto legislativo del 15 dicembre 2015 n. 212, ad oggi risulta l’unico Paese tra quelli fondatori dell’Unione Europea a non aver adottato una normativa per contrastare penalmente l’odio e la violenza per motivi inerenti al sesso, all’identità di genere o all’orientamento sessuale.

In questo contesto, il DDL ZAN consentirebbe, indubbiamente, di contrastare a livello penale questo tipo di fenomeni.

Eleonora PintusClaudia Piroddu, Avvocati
Diffamazione sui social: responsabilità diretta e dei provider alla luce della normativa interna e Comunitaria

La diffusione di internet e, ancora più, la nascita dei social network, se da un lato ha apportato numerosi benefici tra i quali, la rapida e capillare circolazione delle informazioni, nonché la nascita di nuove professioni, come quella dell’influencer, d’altra parte, soprattutto nell’ultima decade, ha comportato il notevole aumento degli illeciti commessi dagli utenti del web.

La casistica è variegata: si passa dalla sostituzione di persona, alla diffamazione a mezzo internet, all’accesso abusivo al sistema informatico, al cyber bullismo o, ancora, alla pedopornografia.

In particolare, sempre più frequenti sono le condotte di diffamazione perpetrate tramite l’uso dei social network che all’evidenza risultano facilitate dalla possibilità, per un numero notevole di utenti della rete, di esprimere del tutto liberamente, e senza vaglio preventivo, commenti e giudizi, talvolta connotati da carattere volgare e offensivo, o ancora, mediante la semplice diffusione di fake news.

Sebbene la Legge italiana riconosca e tuteli il diritto alla libera manifestazione del pensiero, lo stesso incontra un chiaro limite dinnanzi alle condotte che trasmodano nell’offesa dell’altrui immagine e reputazione, che, dunque, assumono rilevanza penale.

Al riguardo, la Giurisprudenza di Legittimità è concorde nel ritenere che la diffusione di un messaggio diffamatorio pubblicato sulla bacheca di Facebook, ovvero sulla piattaforma Instagram -ad esempio, nelle modalità di commento ad una foto- integra l’ipotesi di diffamazione aggravata, ai sensi dell’art. 595, comma terzo, c.p., sotto il profilo dell’offesa arrecata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa. Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista • Avv. Claudia Piroddu, Penalista

La potenziale offesa insita nel commento, infatti, è senza dubbio capace di raggiungere un numero indeterminato di persone -quale elemento costitutivo della fattispecie in esame- e, pertanto, è evidente che colui il quale abbia coscientemente e volontariamente “postato” il commento diffamatorio sarà chiamato a rispondere del reato di diffamazione aggravata poc’anzi menzionato.

Dette condotte sono state perfino sottoposte anche al vaglio della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo la quale, come affermato in un caso recente, ha confermato che integra una violazione dell’articolo 8 della Cedu -che tutela il diritto al rispetto della vita privata, incluso quello alla reputazione- la pubblicazione di un’immagine manipolata sul social network Instagram.

I giudici, nel caso di specie, hanno superato i confini “classici” della diffamazione -intesa quale offesa di carattere verbale- affermando che la tutela della reputazione va assicurata anche a chi subisce accuse diffamatorie su Instagram sotto forma di manipolazione di un’immagine.

Ma la complessità del fenomeno della diffamazione a mezzo internet fa sorgere un ulteriore ed inevitabile quesito: in questi casi, è possibile ascrivere una responsabilità anche al cd. “provider”, ossia il prestatore di servizio della società dell’informazione?

Difatti, sebbene questi siano certamente responsabili degli illeciti posti in essere in prima persona, il problema sorge, allorquando, l’illecito venga commesso da soggetti terzi, in quanto l’ordinamento penale italiano non prevede una responsabilità per fatto altrui.

La normativa di riferimento è contenuta nel D. Lgs. del 9 aprile 2003 n. 70, emanato in attuazione della Direttiva europea sul commercio elettronico 2000/31/CE, relativa a taluni aspetti giuridici della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico.

Dalla lettura della normativa in esame, si evince l’assenza di un obbligo generale di sorveglianza ex ante per i providers i quali, ai sensi dell’art. 17 del menzionato decreto, sono sollevati da un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano; né grava sui medesimi un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite.

In tal senso, l’art. 14 della Direttiva non lascia spazio ad alcun dubbio: “Gli Stati membri provvedono affinché, nella prestazione di un servizio della società dell’informazione consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non sia responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore: a) non sia effettivamente al corrente del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illegalità dell’attività o dell’informazione, o b) non appena al corrente di tali fatti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso“.

Ebbene, l’eventuale mancata collaborazione con le autorità potrebbe, infatti, comportare non solo il riconoscimento di una responsabilità civile in capo ai medesimi degli eventuali danni cagionati dalla sussistenza e mancata rimozione dell’illecito ma, altresì, delle conseguenze da un punto di vista del diritto penale.

Sul punto, la più recente giurisprudenza di legittimità, ha affermato che: “risponde a titolo di concorso nel delitto di diffamazione commesso da terzi il gestore di un sito internet che, venuto a conoscenza dell’esistenza di un articolo diffamatorio pubblicato da altri, mantiene consapevolmente tale contenuto sul sito, consentendo che lo stesso eserciti la sua efficacia diffamatoria” (Cass. pen., sez. V, n. 54946/2016). Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista • Avv. Claudia Piroddu, Penalista

Quanto, invece, alla figura del blogger -nonostante la stessa risulti distinta da quella del provider, poiché l’amministratore del blog si limita a mettere a disposizione uno spazio virtuale in cui gli utenti possono interagire con la pubblicazione di commenti- è stata delineata una responsabilità, per certi versi, assimilabile a quella finora esaminata.

Partendo dal presupposto che non vi è una norma che prevede in capo al blogger degli appositi obblighi impeditivi di eventi offensivi riguardanti l’altrui reputazione, tuttavia, il blogger che non si attiva tempestivamente per rimuovere commenti offensivi pubblicati da terzi sul suo blog commette anch’egli il reato di diffamazione.

Infatti, secondo l’indirizzo giurisprudenziale più recente, la predetta condotta è equiparata non già al mancato impedimento dell’evento diffamatorio, bensì ad una vera e propria condivisione consapevole del contenuto lesivo dell’altrui reputazione anche da parte del gestore del blog, che, non provvedendo alla rimozione del post offensivo, ne ha consentito un’ulteriore divulgazione.

In conclusione, l’esigenza di tutelare la vittima per i danni alla propria immagine e reputazione, hanno fatto giungere la quasi totalità degli ordinamenti alla conclusione di attribuire, oltre che al singolo, anche al service provider o al blogger la responsabilità per illeciti derivanti dal materiale immesso e non rimosso o dalle dichiarazioni effettuate dagli internauti in spazi virtuali a questi messi a disposizione e gestiti dai primi.

Eleonora PintusClaudia Piroddu, Avvocati

Padel e tennis a Cagliari: dietro le quinte

Durante l’anno passato, nonostante la crisi sanitaria globale che ancora sta colpendo tantissimi ambiti produttivi, la città di Cagliari ha avuto la fortuna di ospitare alcuni eventi sportivi di rilievo internazionale, organizzati all’aperto o senza la presenza di pubblico a causa del picco di contagi invernale e dell’irrigidimento delle normative nazionali.

Nel mese di marzo, sullo sfondo del circolo di tennis di Monte Urpinu, si è svolto l’incontro di Coppa Davis tra Italia e Corea del Nord, purtroppo a porte chiuse e quindi senza il pubblico preventivato (3000 posti) in seguito alle restrizioni dovute al contenimento del contagio da Covid-19.
A settembre, sempre il TC Cagliari ha aperto le sue porte al World Padel Tour, evento internazionale dello sport più in voga degli ultimi anni; anche se con un pubblico limitato, si è potuto garantire ai giocatori il supporto dei tifosi, offrendo uno spettacolo del tutto nuovo e dando visibilità alla nostra splendida città che ha potuto godere delle dirette televisive di Sky e mostrare il suo volto anche grazie alla installazione di un campo temporaneo nella suggestiva location del Bastione di Saint Remy.

Il padel è tornato a Cagliari anche nel mese di dicembre, per le Cupra Fip Finals, che si sono disputate sempre al TC Cagliari e al Palapirastu di via Rockfeller, questa volta senza pubblico.
Anche nel 2021, ad aprile, la nostra città ha avuto l’onore di ospitare ancora una volta il grande tennis internazionale, organizzando una tappa del circuito ATP 250 sui campi del Tennis Club Cagliari.

Di norma, quando si sente parlare di eventi come questi, si pensa che l’organizzazione competa esclusivamente a professionisti del marketing o ai settori amministrativi delle società creative e, soprattutto, a chi si occupa della programmazione dal punto di vista della comunicazione e direzione artistica.
In realtà esiste una pianificazione, che avviene dietro le quinte, senza la quale gli eventi aperti al pubblico non potrebbero realizzarsi; è il lavoro che riguarda gli spazi e le strutture scelte per ospitare le manifestazioni che siano esse di natura sportiva, artistica, o congressuale.
È per questo che le società organizzatrici si rivolgono a tecnici del settore per ottenere le autorizzazioni necessarie allo svolgimento degli spettacoli in programma.

L’organizzazione di eventi e manifestazioni sportivi aperti al pubblico è regolamentata dalla legge italiana di pubblica sicurezza, R.D. 18 giugno 1931, n. 773, denominata TULPS ovvero Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. Con il regio decreto 6 maggio 1940, n. 635 è emanato il relativo regolamento di esecuzione (Regolamento di esecuzione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza). Elena Falqui, Ingegnere

La legge è tuttora in vigore e rimane il primo riferimento normativo per chi intende organizzare un evento pubblico.
Sinteticamente, il decreto impone la verifica dei luoghi dedicati agli eventi pubblici da parte di una commissione di vigilanza (CVLPS), comunale o provinciale in funzione del numero di spettatori. La commissione è composta da professionisti di diversi settori, ognuno dei quali si esprime per l’area di propria competenza (ad es. rappresentanti degli uffici dei Vigili del Fuoco, ASL, Questura, Genio civile, etc). Al di sotto dei 200 spettatori non viene convocata la commissione ma è sufficiente la certificazione di un tecnico abilitato.

Tutte le grandi manifestazioni che si sono svolte a Cagliari hanno quindi avuto necessità di un supporto tecnico, sia per la presentazione delle domande autorizzative che per la parte progettistica e la FIT mi ha affidato questo incarico, in virtù delle mie precedenti esperienze con la finale di FEDERATION CUP del 2013 -che si è svolta sempre a Cagliari- e ai vari anni di collaborazione con l’Architetto progettista degli allestimenti per gli Internazionali BNL d’Italia, al Foro Italico di Roma.

Nel dettaglio, la procedura per richiedere l’autorizzazione per una manifestazione sportiva prevede un primo passaggio all’ufficio comunale preposto al rilascio della determina, (ad esempio al Comune di Cagliari l’ufficio dedicato è quello della Pubblica istruzione, politiche giovanili e sport, al Comune di Roma il Dipartimento Sport e Politiche Giovanili). Il dirigente dell’Ente locale attiva l’”Avvio del procedimento” e, in base alla richiesta del proponente ed al numero di spettatori previsto, convoca la Commissione di Vigilanza.

Il tecnico incaricato dall’organizzazione provvede quindi ad inoltrare all’amministrazione tutti i documenti necessari per il controllo degli spazi dedicati al pubblico, fondamentali per l’ottenimento dell’autorizzazione dal punto di vista strutturale. Verranno quindi prodotti allegati grafici come piante, planimetrie dei sistemi di sicurezza con indicazioni delle vie d’esodo, relazioni strutturali e descrittive per tutte le aree pubbliche.
Molto importante è anche la documentazione relativa alla Circolare 7 giugno 2017 (Circolare Gabrielli) che rende obbligatoria la stesura di un piano Safety&Security per le manifestazioni pubbliche.
Contemporaneamente, il promotore produce adeguata documentazione per quanto riguarda gli aspetti amministrativi, contributivi e quelli strettamente legati alla natura dell’evento (ad esempio autorizzazioni delle Federazioni sportive e del CONI in ambito di eventi sportivi).

Una volta ricevuta tutta la documentazione richiesta, la CVLPS si riunisce per esaminare i progetti e i documenti prodotti e successivamente effettua un sopralluogo per riscontrare la conformità di quanto dichiarato.

A questo punto, se gli spazi, gli impianti e le strutture sono ritenuti adeguati e rispondenti alle prescrizioni normative, la Commissione rilascia il suo nulla osta per lo svolgimento della manifestazione tramite un parere positivo e l’amministrazione comunale può inviare l’autorizzazione generale per l’evento. Elena Falqui, Ingegnere

Il cantiere più impegnativo a cui mi sono dedicata, per la grande dimensione del progetto, è stato certamente quello riguardante l’allestimento delle grandi tribune temporanee previste per la Coppa Davis 2020 (2000 posti aggiunti a quelli preesistenti). Tale progetto mi ha coinvolta nella progettazione, nella direzione dei lavori e nel coordinamento della sicurezza; l’esperienza maturata in questa occasione mi ha permesso di gestire con maggiore padronanza i progetti successivi.

Considero un privilegio aver avuto l’opportunità di cimentarmi in queste esperienze professionali e sono grata per la fiducia che la mia Federazione ha riposto in me, consentendomi di affinare le mie competenze e di capire davvero quanto sia gratificante poter lavorare in un’organizzazione di questo livello.
Ma soprattutto, grazie al prezioso supporto e aiuto di colleghi esperti, ho avuto modo di comprendere pienamente quanto la categoria professionale a cui appartengo sia fondamentale nella realizzazione di eventi di così ampio respiro.

Elena Falqui, Ingegnere

Mi sono laureata nel 2007 in Tecnologie per La Conservazione e il Restauro dei Beni Culturali e nel 2010 in Ingegneria Edile, col massimo dei voti presso la facoltà di Ingegneria e Architettura di Cagliari; ho conseguito il Master di II livello in Progettazione di impianti sportivi presso la Sapienza a Roma nel 2011.
Ho svolto inizialmente l’attività di libero professionista presso uno studio privato e contemporaneamente presso lo studio di Ingegneria e Architettura di famiglia.
Nel 2012 ho intrapreso la mia prima esperienza a Roma, affiancando l’architetto incaricato, dal CONI e dalla FIT, della progettazione degli spazi del Foro Italico a Roma in occasione degli Internazionali BNL d’Italia. Nello stesso anno sono stata assunta dalla FIT, ho proseguito l’affiancamento col progettista degli IBI; ho svolto anche il ruolo di referente FIT per gli impianti sportivi di tennis in tutta Italia e ho fatto parte per alcuni anni della Commissione Impianti Sportivi; ho anche partecipato al gruppo di controllo sul “Fondo Rotativo FIT”, verificando, dal punto di vista tecnico, le richieste di finanziamenti dei circoli affiliati.
Dal 2019 sono diventata un collaboratore esterno della Federazione Italiana Tennis e tuttora proseguo il mio percorso nel mondo dello Sport.
Mi occupo principalmente della progettazione degli spazi, della direzione dei lavori, della sicurezza sia in fase di progettazione che esecuzione nei cantieri, della stesura di Piani Safety&Security e sono il referente nei rapporti con l’amministrazione locale durante la programmazione di manifestazioni sportive.

Focus di diritto tributario Avv. Francesco Sanna

Breve analisi delle agevolazioni fiscali riferite alle ASD e SSD
Premesso che la legge di riferimento sulle agevolazioni fiscali per le ASD e SSD, senza scopo di lucro, è la n. 398 del 16 dicembre 1991, con la circolare dell’Agenzia delle Entrate, n.18/E dell’1 agosto 2018, si deve evidenziare come Governo e CONI abbiano fatto chiarezza su tale materia.

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

Manifestazioni sportive: la responsabilità penale dell’organizzatore

Come abbiamo visto nell’articolo FOCUS dell’Ing. Elena Falqui, l’organizzazione di eventi e manifestazioni sportive aperte al pubblico presuppone il rilascio di un’apposita autorizzazione amministrativa, finalizzata a verificare che spazi, impianti e strutture siano conformi alle prescrizioni dettate dalla normativa di settore.

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Focus di diritto civile • Avv. Viola Zuddas

Le misure di contenimento del rischio nelle manifestazioni: cenni
Quando si organizzano delle manifestazioni sportive è di primaria importanza adottare tutte quelle cautele che consentano di salvaguardare l’incolumità e la sicurezza delle persone che vi prendono parte, sia in qualità di atleti che come pubblico.

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Focus di diritto internazionale • Avv. Eleonora Pintus

La Carta Internazionale per l’Educazione Fisica, l’Attività Fisica e lo Sport: interventi legislativi per la diffusione del patrimonio dell’UNESCO
“La pratica dell’educazione fisica, dell’attività fisica e dello sport è un diritto fondamentale per tutti.”
Si apre così la Carta Internazionale per l’Educazione Fisica, l’Attività Fisica e lo Sport, adottata durante la Conferenza Generale dell’UNESCO nel 1978, oggi riconosciuta come documento di riferimento che orienta il processo decisionale in campo sportivo.

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Con la recente conversione del D.L del 21 ottobre 2020, n. 130 nella L. 18 dicembre 2020, n. 173, è stato portato avanti l’iter di modifica dei Decreti Sicurezza (meglio noti come “Decreti Salvini”), spesso contestati perché contrastanti con i principi costituzionali e gli obblighi derivanti dalla normativa sovranazionale, nonché a causa delle notevoli difficoltà applicative e di coordinamento con la normativa in materia di diritto dell’immigrazione.

Le novità introdotte dalla legge in esame, a completamento delle sostanziali modifiche già apportate dal D.L. n. 130/2020, se da un lato sono dirette a garantire una tutela rafforzata in favore dei migranti, nel rispetto degli obblighi internazionali, dall’altro non rallentano i procedimenti di espulsione dei soggetti irregolari.

In questo contributo, ci soffermeremo, principalmente, su due dei numerosi interventi posti a completamento della nuova disciplina e tra loro certamente connessi: le modifiche in materia di diritto dell’immigrazione a tutela dei soggetti vulnerabili e i profili di interesse penalistico in materia di immigrazione.

Divieti di espulsione e di respingimento: disposizioni a tutela delle categorie vulnerabili

Con riguardo alle disposizioni in materia di categorie vulnerabili disciplinate all’articolo 19, comma 1 del Testo Unico dell’Immigrazione, la legge di conversione individua ulteriori e nuove ipotesi di divieto di espulsione.

In particolare, è fatto divieto di espulsione o respingimento dello straniero che, nello Stato di destinazione, rischi di essere perseguitato, oltre che per motivi di razza, sesso, lingua e religione – in ossequio ai principi sanciti dalla Convenzione di Ginevra del 1951 – anche a causa del proprio orientamento sessuale o della propria identità di genere (art. 1 co. 1 lett. e, n. 01).

Il riconoscimento del divieto di espulsione verso un Paese nel quale lo straniero possa subire persecuzioni in ragione del proprio orientamento sessuale, già fatto proprio dalla Giurisprudenza di legittimità e Costituzionale, rappresenta un enorme passo avanti nel processo di omologazione della normativa interna alla normativa europea ed internazionale.

Ancora, tra le novità che meritano di essere segnalate, occorre rilevare che il legislatore ha escluso che possa procedersi al respingimento o espulsione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che l’allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare dello straniero medesimo.

Detta disposizione sembrerebbe dunque diretta a salvaguardare la dimensione personale del migrante, allorquando l’ordine di espulsione o allontanamento possa comportare lo sradicamento dell’individuo dalla propria dimensione familiare e sociale.

A tal riguardo, ai fini di ogni più opportuna valutazione del rischio di violazione, la normativa in esame dispone espressamente che dovrà tenersi conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del soggiorno nel territorio nazionale, oltre che dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine.

Ciò detto, si evidenzia, altresì, che il legislatore non ha mancato di prestare attenzione alle condizioni di salute del migrante: difatti, tra le nuove ipotesi di divieto di espulsione è stata altresì annoverata quella in cui lo straniero versi in gravi condizioni psico-fisiche o sia affetto da gravi patologie.

Detta condizione, peraltro, costituisce il presupposto per il rilascio di un permesso di soggiorno per cure mediche, valido per il tempo attestato dalla certificazione sanitaria, rinnovabile per tutto il periodo in cui persistono le condizioni di salute predette ed ora anche convertibile in permesso di soggiorno per motivi di lavoro.

Tanto detto, occorre evidenziare che, ferma l’esigenza di garantire una tutela multilivello, con la Legge n. 173/2020, il legislatore ha contestualmente inserito nuove ipotesi di espulsione: lo straniero, infatti, oltre che nei casi di sicurezza nazionale ed ordine pubblico, potrà essere altresì allontanato qualora tale provvedimento risponda ad esigenze di protezione della salute nel rispetto della Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati, e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Profili di interesse penalistico in tema di immigrazione

Dal provvedimento in esame, come già in parte evidenziato, risulta del tutto evidente la volontà del legislatore di non rallentare né limitare i procedimenti espulsivi del migrante.
Difatti, se da un lato questi regolamenta favorevolmente i meccanismi dell’accoglienza e dell’integrazione, dall’altro disciplina con maggior rigore i profili di interesse penalistico in tema di immigrazione.

In particolare, tra questi, il decreto – come confermato dalla legge di conversione – dedica particolare attenzione ai delitti commessi all’interno dei centri di permanenza per i rimpatri (CPR).
Al riguardo, l’articolo 6 ha aggiunto il comma 7 bis all’art. 14 del Testo Unico dell’immigrazione, prevedendo una più rapida disciplina processuale per i delitti commessi con violenza alle persone o alle cose in occasione o a causa del trattenimento in un centro di permanenza per i rimpatri o durante la permanenza nelle strutture di primo soccorso e accoglienza.

In tutti questi casi, quando non è possibile procedere immediatamente all’arresto per ragioni di sicurezza o incolumità pubblica, il legislatore ha previsto che si potrà addirittura dar luogo all’arresto di colui che risulti essere l’autore, individuato anche sulla base di mera documentazione video-fotografica, entro le 48 ore successive ai fatti (cd. flagranza differita), con conseguente giudizio direttissimo; salvo che siano necessarie più approfondite indagini.

In conclusione, sebbene le disposizioni introdotte in sede di conversione con la L. n. 173/2020 mirino a riequilibrare il sistema alla luce dei principi costituzionali e internazionali, è forse ardito parlare di novità giacché i passi da compiere per eliminare gli effetti distorsivi introdotti dai precedenti decreti appaiono ancora numerosi.

Con la recente conversione del D.L del 21 ottobre 2020, n. 130 nella L. 18 dicembre 2020, n. 173, è stato portato avanti l’iter di modifica dei Decreti Sicurezza (meglio noti come “Decreti Salvini”), spesso contestati perché contrastanti con i principi costituzionali e gli obblighi derivanti dalla normativa sovranazionale, nonché a causa delle notevoli difficoltà applicative e di coordinamento con la normativa in materia di diritto dell’immigrazione.Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista

Eleonora Pintus, Avvocato