Il viaggio è parte essenziale della nostra vita.

Si viaggia per motivi di studio, lavoro, vacanza e non solo.

Ebbene, anche durante un viaggio all’estero potrebbe sopraggiungere la necessità di acquistare un farmaco prescritto con ricetta dal proprio medico.

In questi casi, al fine di ottenere il medicinale in un altro Stato membro dell’Unione Europea, è sufficiente presentare la prescrizione rilasciata dal medico curante nazionale?

La risposta è affermativa.

L’artico 11 della Direttiva n. 2011/24 relativa ai diritti dei pazienti all`assistenza sanitaria transfrontaliera (recepita in Italia con d.lgs. n.38/2014) prevede un reciproco riconoscimento delle ricette all`interno dell`UE.Avv. Eleonora Pintus, Diritto dell’Unione Europea

La normativa suddetta ammette che il medico di base possa rilasciare una ricetta utilizzabile in un altro paese dell’UE, nota anche come “ricetta transfrontaliera”, al fine di ottenere il medicinale prescritto anche oltre i confini nazionali.

Al fine di agevolare l’accesso ad un’assistenza sanitaria transfrontaliera sicura e di qualità nell’Unione, e a garantire la mobilità dei pazienti, non è stato previsto un unico modello in tutta Europa ma resta prerogativa degli Stati membri adottare un proprio modello di ricetta destinata ad essere utilizzata in un altro Paese dell’UE.

Tuttavia, al fine di ottenere il farmaco oggetto di prescrizione medica in un altro Stato, è necessario che la ricetta – generalmente cartacea – contenga alcune essenziali, ed imprescindibili, informazioni:

  • i dati del paziente: nome e cognome (scritti entrambi per esteso) e data di nascita;
  • la data di emissione;
  • i dati del medico che prescrive il medicinale;
  • i dati del medicinale prescritto: nome comune – come previsto dalla direttiva di esecuzione n. 2012/52 comportante misure destinate ad agevolare il riconoscimento delle ricette mediche emesse in un altro Stato membro – preferibile al nome commerciale (giacché questo può variare a seconda dei Paesi); formato; quantità; concentrazione e posologia.

Vi è da dire che, in ogni caso, il riconoscimento della ricetta medica non pregiudica le norme nazionali che regolano la prescrizione e la fornitura di medicinali.Avv. Eleonora Pintus, Diritto dell’Unione Europea

Ciò significa che le stesse prescrizioni soggiacciono alle norme nazionali del Paese nel quale vengono presentate per l’acquisto del farmaco e, dunque, che i medicinali saranno dispensati in linea con la normativa nazionale.

Ad esempio, in alcuni Sati il numero di giorni della posologia potrebbe variare, oppure, laddove la ricetta presentata, secondo la normativa del Paese di destinazione, non fosse più valida , il farmacista non è tenuto a dispensare il farmaco.

Allo stesso modo, il riconoscimento di una prescrizione non pregiudica il diritto del farmacista, in base al diritto nazionale, di rifiutarsi, per motivi di carattere etico, di dispensare il medicinale prescritto in un altro Stato membro.

In conclusione, e al di là dei limiti dettati dalla normativa nazionale dello Stato di destinazione, se la ricetta contiene tutte le informazioni necessarie, la farmacia è tenuta a rilasciare il farmaco e, in caso di rifiuto, è prevista la possibilità per il paziente di contattare lo sportello nazionale per l’assistenza sanitaria all’estero del Paese in questione.

Eleonora Pintus, Avvocato

Nei giorni scorsi hanno destato molto clamore gli arresti e le misure cautelari disposte dal GIP del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere nei confronti dei 144 agenti della polizia penitenziaria coinvolti nelle brutali violenze avvenute nella casa circondariale “Francesco Uccella“, ai danni di numerosi detenuti, tra cui anche un disabile con ridotta capacità di movimento.

Tali fatti si erano verificati il 6 aprile 2020, in occasione delle proteste organizzate dai detenuti delle diverse strutture carcerarie della penisola, innescatesi a seguito delle forti restrizioni imposte per contrastare l’epidemia Covid-19.

Pur a fronte di un eloquente filmato registrato all’interno del carcere campano che ritrae alcune delle condotte contestate agli odierni indagati, non v’è dubbio che si tratti di una vicenda ancora in corso di indagini, per la quale dovrà, dunque, attendersi l’esito dell’iter giudiziario per accertare le varie responsabilità di natura penale e disciplinare.

Tuttavia, quanto accaduto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, per le modalità delle condotte, nonché per la qualifica di pubblici ufficiali rivestita dagli autori delle stesse, per certi versi, ricorda il violento pestaggio avvenuto la sera del 21 luglio 2001, durante il G8 di Genova, nella tristemente nota Scuola Diaz.

Dal momento che si era trattato di atti degradanti e connotati da particolare crudeltà, su più fronti, si parlò di una vera e propria “tortura di Stato” messa in atto nei confronti dei malcapitati manifestanti.

Eppure, in quel preciso momento storico, l’ordinamento penale italiano non prevedeva una fattispecie di reato ad hoc; pertanto, i dirigenti, i funzionari e gli agenti di polizia coinvolti vennero processati, oltre che per falso ideologico e abuso d’ufficio, per reati minori come lesioni e percosse, puniti, quindi, con pene lievi.

In conseguenza dei fatti accaduti durante il G8 di Genova, con la sentenza del 7 aprile 2015 (Caso Cestaro c/ Italia), lo Stato italiano venne condannato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, affermando che quanto compiuto dalle forze dell’ordine italiane nell’irruzione alla Diaz dovesse essere qualificato come “tortura”, ha sanzionato l’inadeguatezza e l’incapacità dell’ordinamento italiano a prevenire e reprimere proprio i reati di tortura, in violazione dell’art. 3 della CEDU. Avv. Claudia Piroddu, Penalista • Avv. Eleonora Pintus, Penalista, Internazionalista

 

Cosa si intende per “reato di tortura”?

Tra i numerosi atti internazionali dei quali l’Italia risulta firmataria che vietano gli atti di tortura – o, comunque, trattamenti inumani e degradanti – occorre menzionare la Convenzione ONU del 1984, ratificata dall’Italia con la Legge n. 498 del 1988, con l’obbligo di legiferare in merito, che definisce come tortura “qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti … al fine di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla, intimorirla o far pressione su si lei … qualora siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale“.

Peraltro, anche la Costituzione italiana prevede nell’art. 13, comma 4, un obbligo di repressione dei fatti di violenza commessi nei confronti di persone sottoposte a restrizioni di libertà.

Nonostante ciò, solo a seguito di un tortuoso e lungo iter parlamentare conclusosi con la Legge n. 110 del 2017 si è giunti all’introduzione nel codice penale dei reati di tortura e di istigazione alla tortura, previsti rispettivamente negli articoli 613 bis e 613 ter c.p., collocati nel Titolo XII del codice penale, riguardante i delitti contro la persona e contro la libertà morale.

Nella specie, l’art. 613 bis c.p. punisce con la reclusione da 4 a 10 anni chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, vigilanza, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, qualora il fatto è commesso mediante più condotte o se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.

Al secondo comma dell’art. 613 bis c.p. è prevista una specifica ipotesi -punita più severamente con la pena della reclusione da 5 a 12 anni- che ricorre allorquando gli atti di tortura siano perpetrati dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di un pubblico servizio, con abuso di poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio. Avv. Claudia Piroddu, Penalista • Avv. Eleonora Pintus, Penalista, Internazionalista

Restano, invece, esclusi dall’ambito della fattispecie gli atti compiuti nell’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti, quindi, la disposizione non pregiudica in alcun modo l’intervento delle forze dell’ordine che operino legittimamente.

A ben vedere, quindi, la normativa penale interna ha recepito solo parzialmente il dettato della Convenzione ONU contro la tortura.

La differenza più evidente riguarda proprio la connotazione della fattispecie de qua sia come reato comune che può essere commesso da chiunque a prescindere dalla qualifica rivestita –ipotesi, quest’ultima, contemplata solo dall’ordinamento italiano- e sia come reato proprio, realizzato dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio.

Come vedremo a breve, la distinzione non è di poco conto e si riverbera sull’individuazione della natura del reato commesso dal soggetto qualificato, classificabile per taluni come reato autonomo e in altri casi come mera circostanza aggravante.

 

La più recente giurisprudenza sul reato di tortura

Al momento, vi sono diverse pronunce di merito e di legittimità che risultano senz’altro utili per delineare l’ambito di applicabilità del reato di tortura e per individuarne in maniera precisa gli elementi costitutivi.

A tale riguardo, pare opportuno segnalare la pronuncia n. 47079 dell’8 luglio 2019, con la quale la Corte di Cassazione si è espressa a seguito del ricorso proposto avverso l’ordinanza del Tribunale della Libertà dei Minori di Taranto, in ordine alle violenze commesse da un gruppo di giovani ai danni di un anziano disabile nel Comune di Manduria.

Nell’occasione, i Supremi Giudici hanno evidenziato che il bene giuridico protetto dalla norma in esame deve individuarsi nella “libertà morale o psichica, comunemente intesa come diritto dell’individuo di autodeterminarsi liberamente, in assenza di coercizioni psichiche“.

Si tratta, altresì, di un reato eventualmente abituale che si configura anche in presenza di due sole condotte poste in essere in un minimo lasso temporale, purché siano connotate da violenze esercitate sulle persone o sulle cose e minacce gravi, tali cioè da cagionare a chi le subisce un trauma psichico.

È stato precisato, inoltre, che la scelta del Legislatore italiano di identificare la tortura come reato realizzabile anche dal privato risulti più conforme alla realtà criminologica italiana e soprattutto consenta di fornire una nozione più ampia di tortura, consistente nel cagionare ad un soggetto indifeso intense sofferenze a prescindere dalla qualifica soggettiva dell’autore della condotta. Avv. Claudia Piroddu, Penalista • Avv. Eleonora Pintus, Penalista, Internazionalista

Tuttavia, proprio in merito alla qualifica rivestita dall’autore del reato, si è originato un interessante contrasto giurisprudenziale.

Invero, un primo indirizzo considera il reato di tortura commesso dal pubblico ufficiale come una mera circostanza aggravante della fattispecie comune prevista nel primo comma dell’art. 613 bis c.p., mentre un secondo orientamento connota tale ipotesi come fattispecie autonoma, in virtù del maggiore disvalore degli atti di tortura posti in essere dal soggetto preposto a garantire il rispetto della sicurezza e dei diritti della persona.

Del resto, non può trascurarsi che, qualora la condotta venisse qualificata come reato circostanziato, verrebbe vanificata la portata punitiva della norma, laddove, attraverso il meccanismo di bilanciamento delle circostanze di cui all’art. 69 c.p., sarebbe astrattamente possibile ridurre drasticamente la pena applicabile.

In tal senso, si può comprendere la portata della recentissima sentenza pronunciata il 17 febbraio 2021 dal GUP di Siena, in merito ai fatti di tortura commessi nel carcere di San Gimignano da parte di dieci agenti penitenziari nei confronti di un detenuto tunisino.

Nell’occasione, il Giudice di prime cure, proprio sulla base delle argomentazioni poc’anzi richiamate, ha specificato che la cd. tortura di stato, ovvero quella realizzata dalle forze dell’ordine, sia da considerarsi a tutti gli effetti una fattispecie autonoma di reato e, come tale, deve essere punita più severamente rispetto ai fatti commessi dal privato.

Solo in questo modo, infatti, il reato assumerebbe una connotazione più vicina a quella contenuta nella Convenzione ONU e garantirebbe una risposta punitiva più decisa dinnanzi a tali fatti gravissimi, finora rimasti per lo più nell’ombra, benché, purtroppo, sempre più frequenti.

Claudia PirodduEleonora Pintus, Avvocati

Nel nostro articolo dal titolo “Viaggiare in Europa con il Certificato verde digitale: la proposta legislativa della Commissione Europea” (per ogni approfondimento clicca su https://www.forjus.it/2021/04/15/viaggiare-in-europa-con-il-certificato-verde-digitale-la-proposta-legislativa-della-commissione-europea/) abbiamo parlato della proposta avanzata dalla Commissione Europea per l’adozione di un “certificato di viaggio” riconosciuto in tutti gli Stati membri dell’UE e finalizzato a consentire ai cittadini europei di tornare a viaggiare in maniera libera e sicura in tutta Europea in un momento storico ancora dominato dalla pandemia da COVID-19 e dalle sue varianti.

Il 14 giugno scorso, a seguito di un rapido iter legislativo, il Parlamento Europeo ed il Consiglio hanno approvato la predetta proposta di legge e oggi il Certificato Verde digitale è una realtà.

Il nuovo Regolamento UE 2021/953, insieme al Regolamento UE 2021/954 applicabile ai cittadini di paesi terzi regolarmente soggiornanti o residenti nel territorio dell’Unione Europea, definisce a livello sovranazionale regole comuni direttamente applicabili in tutti gli stati europei per il rilascio , la verifica e l’accettazione di certificati COVID digitali che potranno essere utilizzati per spostarsi in Europa. Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista

Anche in Italia, dal 1 luglio, e per la durata di un anno,  la Certificazione verde COVID-19 sarà valida come certificato europeo (EU digital COVID certificate) e renderà più semplice viaggiare da e verso tutti i Paesi dell’Unione Europea e dell’area Schengen.

Ma vediamo insieme, più nel dettaglio, cos’è questo certificato, quali condizione occorre soddisfare per ottenerlo e quali sono le modalità per entrarne in possesso

Anzitutto, è opportuno specificare che si tratta di una Certificazione in formato digitale e stampabile, emessa soltanto dalla piattaforma nazionale del Ministero della Salute, che contiene un QR Code necessario per verificarne l’autenticità e la validità.

La Certificazione attesta una delle seguenti condizioni:

  • aver fatto la vaccinazione anti COVID-19 nello Stato membro di rilascio del certificato (certificato di vaccinazione);
  • essere negativi al test molecolare o antigenico rapido nelle ultime 48 ore;
  • essere guariti dal COVID-19 negli ultimi sei mesi.

Ottenere il Certificate pass è semplice e prevede pochi passaggi.

Si precisa fin da ora che, a tal fine, sono stati previsti più canali, con o senza identità digitale, cui l’interessato può accedere in piena autonomia o con un aiuto.

Come anzidetto, in Italia è il Ministero della Salute a rilasciare la Certificazione verde COVID-19 attraverso la Piattaforma nazionale, sulla base dei dati trasmessi dalle Regioni e Province Autonome.

Dopo la vaccinazione oppure un test negativo o, ancora, in caso di guarigione da COVID-19, il Certificato verde viene emesso automaticamente .

A questo punto, l’utente riceverà un messaggio via SMS o via email ai contatti comunicati al momento della somministrazione del vaccino o del test o quando è stato rilasciato il certificato di guarigione.

Detto messaggio contiene un codice di autenticazione da usare sui canali che lo richiedono e brevi istruzioni per recuperare la certificazione.

Per entrare in possesso del Certificato in modo autonomo, possono essere utilizzati vari canali, quali: il sito del Ministero della Salute, con accesso tramite identità digitale (Spid/Cie) oppure con Tessera Sanitaria o con il Documento di identità insieme al codice univoco ricevuto via email o SMS; tramite l’App “Immuni” e l’App “IO” o nel Fascicolo sanitario elettronico.

Tuttavia, chi non dispone di strumenti digitali, può ottenere il certificato sia in versione digitale sia cartacea con la Tessera Sanitaria e con l’aiuto di un intermediario quale il medico di medicina generale, pediatra di libera scelta, farmacista.

L’emissione della Certificazione è gratuita per tutti ed è disponibile in diverse lingue quali l’italiano, l’inglese e per i territori dove vige il bilinguismo, anche in francese o in tedesco.

Ma il Certificato Verde digitale consente davvero di viaggiare liberamente, senza rischiare di essere sottoposti ad eventuali restrizioni nel Paese di destinazione?

La risposta è negativa.

Al riguardo deve specificarsi che, come sancito dall’art. 3 paragrafo 5 del Regolamento 953/2020 “Il presente certificato non è un documento di viaggio (…) Prima di mettersi in viaggio, verificare le misure sanitarie pubbliche applicabili e le relative restrizioni applicabili nel luogo di destinazione.”

Ebbene, il dettato normativo appare molto chiaro: è fatta salva la competenza degli Stati di imporre restrizioni alla libera circolazione.

Ed infatti, come anche ribadito espressamente dall’articolo 11 del medesimo Regolamento, gli Stati possono imporre restrizioni alla libera circolazione, quali ulteriori test in relazione ai viaggi per l’infezione da SARS-CoV-2 o la quarantena o l’autoisolamento in relazione ai viaggi, purché siano necessarie e proporzionate allo scopo di tutelare la salute pubblica in risposta alla pandemia.

In tali casi, qualora uno Stato membro imponga, in conformità del diritto dell’Unione, ai titolari dei certificati, di sottoporsi, dopo l’ingresso nel suo territorio, alle suddette restrizioni o ad altre a seguito, per esempio, di un rapido peggioramento della situazione epidemiologica in uno Stato membro o in una regione – in particolare a causa di una variante di SARS-CoV-2 che desti particolare preoccupazione – lo Stato deve immediatamente informare la Commissione e gli altri Stati membri, se possibile 48 ore prima dell’introduzione di tali nuove restrizioni, dei motivi e della loro portata.

In conclusione, appare chiaro che l’introduzione di un approccio comune per il rilascio, la verifica e l’accettazione dei certificati COVID-19 miri a concretizzare e agevolare la graduale revoca di tutte le restrizioni finora adottate in modo coordinato, pur lasciando impregiudicata la competenza degli Stati membri di imporre eventuali limitazioni alla libera circolazione, in conformità del diritto dell’Unione, per contenere la diffusione del virus.

Eleonora Pintus, Avvocato

Lo scorso 22 giugno, il Vaticano ha inviato al Governo italiano una nota verbale chiedendo, in sostanza, che il DDL Zan venga modificato nella parte in cui «si stabilisce la criminalizzazione delle condotte discriminatorie per motivi “fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere”» perché «avrebbero l’effetto di incidere negativamente sulle libertà assicurate alla Chiesa cattolica e ai suoi fedeli dal vigente regime concordatario

Ora, la notizia della nota e dei sui contenuti, ripresa dai giornali, e poi da esponenti del mondo politico oltre che degli operatori del diritto, ha suscitato non poche polemiche.

Di fatti, se da un lato vi è chi sostiene che la predetta nota, in quanto atto diplomatico spesso usato dagli Stati, non costituisca affatto un atto di ingerenza, d’altra parte, invece, vi è chi sostiene che, al di là della sua qualificazione normativa, si tratti di un atto “ontologicamente” molto invasivo in quanto intrinsecamente idoneo ad esercitare una forte pressione su una legge ancora in fase di discussione.

Tanto che, proprio ad arginarne gli effetti, è intervenuta la replica del Presidente del Consiglio Mario Draghi il quale ha chiarito che l’Italia è uno Stato laico, non confessionale e che, quindi, ha il potere di legiferare liberamente, seppur nel rispetto dei principi costituzionali e degli impegni internazionali assunti, tra i quali vi è il Concordato con la Chiesa.Avv. Viola Zuddas, Civilista

Ma cosa si intende per laicità dello Stato?

Questo principio, in realtà, non è sancito in modo espresso nella Costituzione ma deriva dall’opera interpretativa della Corte costituzionale che con la storica sentenza del 12 aprile 1989, n. 203 ha ritenuto che dalle norme costituzionali riguardanti il fenomeno religioso si potessero desumere diverse garanzie e, in particolare:

  • salvaguardia della libertà di religione in regime di pluralismo confessionale e culturale,
  • pari protezione alla coscienza delle persone che si riconoscano in una fede o in nessuna,
  • equidistanza ed imparzialità rispetto a tutte le confessioni religiose.

Ebbene, come abbiamo già analizzato nei nostri precedenti articoli (https://www.forjus.it/2021/05/17/perche-litalia-ha-bisogno-del-ddl-zan/ e https://www.forjus.it/2021/05/20/ddl-zan-novita-legislative-e-risvolti-pratici-parte-2/), il DDL Zan è volto a promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione nonché a contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere, in attuazione dei princìpi di eguaglianza e di pari dignità sociale sanciti dalla Costituzione.

Non si vede, dunque, come il DDL Zan nella sua attuale formulazione possa incidere negativamente sulle libertà assicurate alla Chiesa ed ai suoi fedeli.

È, poi, importante ricordare che il nostro Paese si colloca al 35° posto in Europa per la lotta alle discriminazioni fondate sul sesso proprio perché non vi è un sistema legislativo in grado di assicurare efficacemente l’inclusione delle persone LGBTIQ nella società o che si occupi di reprimere con risolutezza atteggiamenti discriminatori, stigmatizzanti e violenti nei loro confronti.

Legge anti LGBTIQ in Ungheria: atto di ingerenza da parte degli Stati membri dell’Unione Europea?

Nello scenario europeo, una “querelle” dello stesso si è scatenata a seguito dell’approvazione da parte del parlamento ungherese di una legge che vieta la condivisione di qualsiasi contenuto che promuova l’omosessualità o il cambio di sesso a chiunque abbia meno di 18 anni.

In occasione de Consiglio Europeo tenutosi lo scorso 24 giugno, numerosi Capi di Stato e di Governo dei Paesi membri dell’Unione hanno immediatamente manifestato la loro ferma opposizione al premier Ungherese rispetto alla predetta legge, in quanto considerata un vero e proprio attentato alla democrazia, all’uguaglianza e alla libertà.

Ebbene, dette contestazioni sono state da taluni qualificate come atto di ingerenza statale nei confronti di un altro Stato sovrano, al pari del discusso intervento Vaticano sul ben noto Ddl Zan.

Al riguardo, non appare superfluo precisare che il principio di non ingerenza, fondamentale per il mantenimento di relazioni internazionali pacifiche tra gli Stati, ribadito anche nell’Atto di Helsinki del 1975, pone l’obbligo a carico di tutti gli Stati di non interferire negli affari interni di un altro Stato e trova il suo fondamento nel principio che stabilisce l’uguaglianza sovrana fra gli stessi.
Ora, al di là della discutibilità nella forma e nella sostanza della nota Vaticana, le recenti contestazioni mosse dagli Stati Europei e dalle Istituzioni UE nei confronti del governo ungherese non sembrano potersi qualificare come atti di ingerenza da parte di attori statuali e non statuali nei confronti di un altro Stato sovrano.

L’eccepita violazione del suddetto principio è, invero, totalmente avulsa da qualsivoglia ragione di carattere giuridico se si pensa che gli Stati membri dell’Unione possono attivare, ai sensi dell’art. 7 del Trattato sull’Unione Europea (TUE), già una procedura di pre-allarme allorquando vi sia un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro dei valori di cui all’art. 2, ossia della dignità umana, libertà, democrazia, uguaglianza, rispetto dei diritti umani e delle minoranze su cui si fonda l’Unione.

In forza di detta procedura vengono indirizzate allo Stato membro in questione delle raccomandazioni e, solo in caso di constatazione dell’esistenza di una violazione grave e persistente, il Consiglio può decidere di sospendere alcuni diritti nei confronti di quest’ultimo.

Trattasi nientemeno che dei valori che ogni Stato europeo che domanda di diventare membro dell’Unione deve rispettare ed impegnarsi a promuovere.

Ebbene, proprio le predette condizioni per l’ammissione, oltre al rispetto e gli adattamenti ai trattati su cui è fondata l’Unione Europea, formano l’oggetto di un accordo tra gli Stati membri dell’Unione e lo Stato richiedente e sottoposto a ratifica – così entrando a far parte dei singoli ordinamenti nazionali – da tutti gli Stati contraenti, con conseguente obbligo in capo agli stessi di adempiervi dando piena attuazione al contenuto.

Gli Stati aderenti, dunque, assumono un vero e proprio obbligo in quanto non solo devono dimostrare di rispettare i valori di cui all’art. 2 TUE, ma assumono altresì l’impegno formale di promuoverli, insieme ai Trattati istitutivi, tanto sul piano interno che su quello internazionale.

La violazione degli obblighi da parte degli Stati membri dei Trattati e dei principi ivi sanciti, che può estrinsecarsi sia mediante condotte commissive – ad esempio, come nel caso ungherese, adottando atti normativi interni contrari ai trattati e ai suoi principi – che omissive – ossia omettendo di compiere qualunque condotta necessaria alla promozione e attuazione degli atti comunitari e dei principi -, consente tanto a ciascuno degli Stati membri quanto alla Commissione di attivare il cd. ricorso per inadempimento o infrazione davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Ad esito del giudizio, la Corte potrà comminare allo Stato accertato inadempiente il pagamento di una sanzione.

In conclusione, il complesso quadro normativo brevemente riportato consente di affermare che le contestazioni mosse al governo ungherese da parte degli Stati membri (a differenza dell’intervento Vaticano) non siano affatto qualificabili come atti di ingerenza ma, al contrario, eccezioni pressoché legittime della violazione dei principi e valori oggetto degli accordi di adesione e dei Trattati istitutivi da parte dello Stato Ungherese che, in quanto Paese membro, è giuridicamente obbligato al loro rispetto e promozione anche all’interno dell’ordinamento nazionale mediante l’emanazione di norme che siano lo specchio di quei valori che costituiscono la colonna vertebrale dell’Unione Europea.Avv. Eleonora Pintus, Internazionalista e diritto dell’Unione Europea

Eleonora PintusViola Zuddas, Avvocati

L’amore ai tempi del Covid

È ormai trascorso oltre un anno dall’inizio della pandemia da COVID-19 che ha modificato profondamente le abitudini di vita delle persone. La grande incertezza sul futuro ha ingenerato condizioni di forte stress sfociando spesso in stati emotivi difficili da gestire: allerta, preoccupazione, sgomento, sino ad arrivare a manifestazioni disfunzionali quali ansia, panico e addirittura sintomi post-traumatici.

La quarantena, necessaria per fronteggiare l’emergenza, ha sconvolto e continua a sconvolgere gli equilibri famigliari. Dai dati emerge chiaramente come la coppia sia una delle categorie maggiormente colpite. Secondo l’Associazione Nazionale Divorzisti Italiani, l’aumento nel numero di separazioni tra il 2019 ed il 2020 è stato pari al 60%.

Tra i principali motivi di tensione annoveriamo la permanenza forzata tra le mura domestiche, causa smart working o perdita del lavoro, il maggiore coinvolgimento nelle attività scolastiche dei figli nonché la nuova organizzazione dei tempi e degli spazi, o ancor peggio l’impossibilità di ricavarne di propri.

All’estremo opposto ci sono le situazioni di distanziamento forzato.

Le cause sono molteplici: professioni, come quelle sanitarie, che espongono al rischio di contagio ed obbligano all’isolamento domiciliare permanente o altre che costringono al lavoro in sedi distanti da casa e risentono dalle attuali limitazioni, di natura pratica e legale, agli spostamenti a lungo raggio.

Ma l’isolamento forzato e prolungato, tanto quanto la distanza, sono solo fattori di malessere esterni alla coppia.
Essi possono fungere da amplificatore di un disagio preesistente senza essere la reale causa di un’eventuale crisi.

Disagi e conflitti di varia natura sono infatti parte integrante di ogni relazione senza necessariamente minacciarne la stabilità.

Si parla di crisi solo quando il disagio è duraturo ed accompagnato da un sentimento di impotenza, conseguenza di innumerevoli tentativi di appianamento andati a vuoto.

Per comprendere le dinamiche interne ad un rapporto sentimentale dobbiamo necessariamente far riferimento alla teoria dell’attaccamento. Esiste infatti un filo diretto tra la qualità del legame instaurato con le figure significative dell’infanzia (caregivers) ed i legami instaurati in età adulta. Questo perché il bambino in base alle esperienze vissute costruisce degli schemi mentali chiamati MOI (Modelli Operativi Interni) che si porterà dietro, per dirlo con le parole di Bowlby, dalla culla alla tomba. Dott.ssa Stefania Persico, psicologa e psicoterapeuta

I MOI vengono costantemente impiegati dall’individuo come chiave di lettura nella rappresentazione di sé, nelle interazioni con gli altri e nell’interpretazione del mondo. Sono un patrimonio di memorie relazionali implicite che rimangono attive per tutta la vita e che ci portano a ricercare, anche nella scelta del partner, le esperienze che conosciamo. Ciò non significa che il nostro destino sia già scritto. Esperienze emozionali e relazionali correttive, ripetendosi nel tempo, possono sovrascriversi totalmente o parzialmente ai modelli precedentemente appresi e modificarli.

Quando due persone entrano in relazione portano all’interno della coppia i propri MOI ed il proprio stile di attaccamento (sicuro, insicuro-evitante, insicuro-ambivalente, disorganizzato). Senza entrare nei dettagli di queste complesse ed ampiamente studiate categorie, è facilmente intuibile come legami sicuri possano generalmente offrire superiori livelli di benessere psicologico rispetto a legami insicuri. Questi ultimi generano spesso malessere e disagio per la minore disponibilità di strategie di coping (l’affrontare/il fronteggiare le difficoltà) da impiegare nei momenti di crisi.

Ad esempio, se un individuo con uno stile di attaccamento insicuro-ambivalente si considera immeritevole di amore difficilmente riuscirà a fidarsi del partner: vivrà, pertanto, il rapporto con la costante paura di essere abbandonato mettendo in atto meccanismi di controllo, continua ricerca di rassicurazione e manifestando livelli incontrollabili di gelosia.

Adulti con uno stile disorganizzato, estremamente disfunzionale, vivranno invece un rapporto caratterizzato da forte instabilità, accesi conflitti sino ad arrivare a comportamenti di sopraffazione e violenza.

In estrema sintesi, la coppia entra in crisi nel momento in cui non riesce più a rinegoziare il legame attraverso discussioni e litigi costruttivi, smette di essere cooperativa e sente di non disporre più delle risorse necessarie al raggiungimento di un compromesso che garantisca una relazione sentimentale gratificante. Dott.ssa Stefania Persico, psicologa e psicoterapeuta

Come già accennato, la pandemia da COVID-19 ha solo esacerbato conflitti esistenti, rompendo equilibri già fragili. Con molta probabilità, la maggior parte delle crisi ad essa attribuite erano già in corso in fase pre-pandemica. Banalmente però, quando si è concentrati su molteplici attività come lavorare, fare la spesa, portare i figli a scuola, andare in palestra, uscire con gli amici, vedere i parenti non si ha il tempo per soffermarsi sulle difficoltà relazionali.
Solo nel momento in cui parte di questi fattori di distrazione sono improvvisamente venuti meno non è stato più possibile per molte coppie continuare a negare l’evidenza.

In ambito psicologico, la crisi non ha necessariamente un’accezione negativa. Al contrario, viene considerata un’opportunità di cambiamento, di crescita, di ridefinizione della propria identità e della propria autostima.

Per evitare di cadere preda del dolore e dell’angoscia è però indispensabile riorientarsi.
La terapia individuale o di coppia rappresenta un notevole aiuto in tal senso.
Consente infatti di analizzare la situazione da un punto di vista differente, quello di uno specialista con l’esperienza e gli strumenti necessari per farlo con distacco ed obiettività.

La terapia aiuta ad operare scelte più consapevoli nella direzione del cambiamento costruttivo e di un’evoluzione personale e del rapporto. Aiuta anche, quando altre strade non sembrano più percorribili, a maturare una scelta di separazione ed affrontare in maniera meno dolorosa e distruttiva la riorganizzazione del sistema che la dissoluzione di un rapporto inevitabilmente comporta.

Stefania Persico, Psicologa e psicoterapeuta

Mi sono laureata con il massimo dei voti in Psicologia con indirizzo Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni  Sociali presso l’Università degli Studi di Cagliari.

Ho conseguito la specializzazione quadriennale in psicoterapia della Gestalt ed in seguito mi sono formata come Terapeuta EMDR. Esercito la libera professione e l’attività di perito presso il mio studio di Cagliari in via Alghero 29.

Focus di diritto civile, diritto di famiglia Avv. Francesco Sanna

Conflittualità tra i coniugi e affidamento dei figli
Dal focus della dott.ssa Stefania Persico abbiamo appreso che la convivenza forzata o il distanziamento obbligatorio, imposti entrambi da ragioni sanitarie, ha causato l’aumento della conflittualità all’interno della coppia e, spesso, ha portato alla dolorosa decisione di separarsi.

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

Il reato di maltrattamenti in famiglia: presupposti e “violenza assistita”
Il tema dei maltrattamenti in famiglia, specie negli ultimi anni e, in particolare, durante il periodo delle restrizioni imposte dalla pandemia di Covid-19, ha assunto sempre maggiore rilievo, anche a fronte dell’aumento considerevole delle richieste di assistenza da parte delle vittime di violenza domestica e di genere.

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Focus di diritto civile, diritto di famiglia • Avv. Viola Zuddas

Il tradimento e l’addebito della separazione
Come già anticipato dalla Dott.ssa Stefania Persico nel suo focus, la pandemia da COVID-19 ha modificato profondamente le abitudini di vita delle persone e la quarantena, indispensabile per fronteggiare l’emergenza sanitaria, ha sconvolto gli equilibri familiari.

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Litigi tra genitori – figli e disaccordo al vaccino. L’intervento dell’Unione Europea sui diritti dei minori.
È noto che le restrizioni derivanti dall’emergenza da Covid-19 hanno messo a dura prova il nostro stile di vita e la nostra quotidianità.

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Il caso

Era il 2 luglio 2020 quando un gruppo di pescatori Sardi di Sorso decide di prendere il largo verso il Capo di Roccapina, a poche miglia dalla Corsica, nei pressi degli Isolotti dei Monaci.

Detta area si inserisce nella riserva naturale delle Bocche di Bonifacio (réserve naturelle des Bouches de Bonifacio), classificata come Area specialmente protetta di interesse mediterraneo sita tra Corsica e Sardegna (per maggiori informazioni sulle Aree Marine Protette, leggi l’ultimo articolo di Forjus su https://www.forjus.it/2021/06/07/le-aree-marine-protette-criticita-e-tutela-penale/)

In quell’occasione, secondo la ricostruzione fornita da “l’Office de l’environnement de la Corse” (Ufficio dell’ambiente della Corsica), autorità francese che si occupa della vigilanza dell’area protetta, il gommone, con a bordo quattro pescatori, avrebbe violato l’area – così accedendo in acque di competenza francese – dove è severamente vietata ogni attività di caccia e pesca.

Tra le contestazioni mosse ai pescatori, oltre alla violazione di un’area protetta privi di autorizzazione, si inseriscono anche quelle di minaccia e resistenza a pubblico ufficiale.

Nei giorni scorsi, l’autorità Giudiziaria francese ha dunque emesso nei confronti dei tre uomini (uno dei quattro asseritamente presenti non è stato identificato) un “Mandato di arresto Europeo” (MAE), a seguito del quale gli stessi sono stati arrestati e sottoposti a custodia cautelare presso il carcere di Bancali.

La richiesta di consegna: il mandato d’arresto europeo (MAE)

Ma cosa è il MAE e come funziona?

Il mandato d’arresto europeo è una procedimento giudiziario “di consegna” finalizzato all’esercizio dell’azione penale o all’esecuzione di una pena.

La procedura consiste nell’emissione di un mandato da parte di un’autorità giudiziaria di uno Stato membro (emittente) perché si proceda all’ arresto di una persona ricercata in un altro Stato membro e la si consegni al primo Stato affinché possa essere esercitata l’azione penale o, in caso di condanna, ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privativa della libertà.

Detto meccanismo, nettamente semplificato rispetto al più noto procedimento di estradizione, opera mediante un contatto diretto delle autorità giudiziarie, basandosi sul principio del riconoscimento reciproco delle decisioni penali.

Al di là dei diritti che, in tali casi, debbono necessariamente essere garantiti agli imputati – quali, a titolo esemplificativo, il diritto di nomina di un difensore e quello di traduzione degli atti in una delle lingue ufficiali dello stato membro di esecuzione, ivi compreso il MAE – la peculiarità di tale procedura risiede nel fatto che il MAE può operare solo per fatti puniti dalla legge dello Stato emittente con una pena detentiva o con misure di sicurezza privative della libertà della durata massima non inferiore a dodici mesi ovvero, in caso di condanna o applicazione di una misura di sicurezza, allorquando sia stata pronunciata una condanna non inferiore a quattro mesi.
Ebbene, è lecito chiedersi se un Paese possa rifiutare la consegna della persona oggetto del mandato.

La risposta è affermativa.
In tal caso, si possono distinguere tra:

  • motivi obbligatori: ad esempio quando la persona è stata già giudicata per lo stesso reato (principio del ne bis in idem), oppure se si tratta di minori (dunque soggetti che non hanno compiuto l’età prevista per la responsabilità penale nel paese d’esecuzione) o, ancora, in caso di amnistia;
  • motivi facoltativi: ad esempio, in caso di assenza di doppia incriminazione per i reati che non siano compresi tra le 32 fattispecie penali di cui all’articolo 2, paragrafo 2, della decisione quadro sul MAE (tra i quali, reati di stupro, omicidio volontario, terrorismo, ecc); se sussiste giurisdizione territoriale, oppure in caso di procedura penale in corso nel paese dell’esecuzione ovvero per intervenuta prescrizione.

Per l’esecuzione del MAE sono previsti termini rigorosi, che dipendono dal fatto che il ricercato acconsenta o meno alla propria consegna.

Nei casi in cui il ricercato acconsente alla propria consegna, la decisione definitiva sull’esecuzione del MAE dovrà essere presa entro dieci giorni dalla comunicazione del consenso (articolo 17, paragrafo 2, della decisione quadro sul MAE).

Nei casi in cui, invece, il ricercato non acconsente alla propria consegna, la decisione definitiva sull’esecuzione del MAE dovrà essere presa entro sessanta giorni dall’arresto del ricercato (articolo 17, paragrafo 3, della decisione quadro sul MAE).

In ogni caso, dopo l’arresto del ricercato sulla base del MAE, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione deve decidere se mantenere l’imputato in stato di custodia o metterlo in libertà fino alla decisione sull’ esecuzione del MAE.Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista

La custodia non è, quindi, sempre indispensabile e la persona può essere messa in libertà provvisoria in qualsiasi momento ai sensi della legislazione nazionale dello Stato membro di esecuzione.
Se la persona non è mantenuta in custodia, l’autorità competente dello Stato membro di esecuzione deve adottare le più opportune misure per evitarne la fuga.

Dette misure possono comprendere, ad esempio, il divieto di viaggio, la sorveglianza elettronica oppure l’obbligo di presentarsi periodicamente a un’autorità.

Il rifiuto di consegna dei pescatori di Sorso: la decisione del Giudice

Ebbene, tornando al caso dei pescatori di Sorso, è proprio quest’ultima misura che il Giudice incaricato dell’esecuzione nel corso dell’udienza tenutasi lo scorso 7 giugno 2021 ha deciso di applicare.

In detta occasione, infatti, i tre pescatori hanno negato il loro consenso alla consegna e, contestualmente, hanno richiesto che venissero applicate nei loro confronti misure cautelari attenuate.

Il giudice dell’esecuzione, ritenuto che l’arresto – avvenuto, come detto, su mandato di arresto europeo da parte della Francia – e le misure cautelari siano stati applicati ai giovani nei termini e alle condizioni di legge, le ha confermate, accogliendo, al contempo, le richieste avanzate dalla difesa di parte.

Ed infatti, al fine di scongiurare ogni pericolo di fuga – in attuazione dell’articolo 12 della decisione quadro sul MAE – l’autorità giudiziaria ha revocato la misura cautelare della custodia cautelare in carcere sostituendola con quella dell’obbligo di firma.

In merito all’eventuale consegna, bisognerà invece attendere la prossima decisione dell’autorità giudiziaria del Tribunale di Sassari, chiamata a dare esecuzione ad ogni mandato d’arresto europeo in base al principio del riconoscimento reciproco e in conformità alle disposizioni della decisione quadro sul MAE.

Eleonora Pintus, Avvocato

La maternità surrogata, nota anche come gestazione per altri o utero in affitto, è una tecnica di procreazione assistita in cui una donna, la gestante, porta in grembo un concepito di cui, però, non sarà considerata come madre legale.

Nella maternità surrogata possono essere coinvolte da due fino a cinque persone. Vi può essere una sola persona, senza partner, che mette a disposizione il proprio seme e ricorre a questa pratica con una donna gestante. Può ricorrere a tale tecnica di procreazione una coppia composta da uomo e donna che usa il proprio materiale genetico, ovvero quello dell’uomo della coppia e quello della madre gestazionale.

Altresì, vi può ricorrere una coppia omosessuale composta da due uomini o due donne.

Orbene, detta prassi, è considerata illegale in numerosi Paesi, ivi compresa l’Italia dove, la maternità surrogata è una pratica condannata penalmente.

Infatti, la legge n.40 del 2004 all’art. 12 comma 6 punisce con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità.

Ebbene, dette preclusioni nazionali hanno indotto, negli anni, numerosi coppie a recarsi nei Paesi che ammettono tale pratica al fine di ottenere un figlio da maternità surrogata.

Ma, in tal caso, una volta portato a compimento il processo di gestazione e a seguito della nascita del figlio, lo Stato d’origine è tenuto a riconoscere il legame di filiazione e, per l’effetto, procedere alla trascrizione nei registri dello stato civile dell’atto di nascita straniero?

La confusa questione della legittimità della trascrizione dei suddetti atti ha tenuto banco nelle aule di giustizia, fino ad arrivare alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

In particolare, con l’ultimissima sentenza del 18 maggio 2021, nel caso Valdìs e altri v. Islanda, la Corte Europea ha riconosciuto la legittimità della decisione delle autorità islandesi che hanno negato a una coppia di sue cittadine la genitorialità di un minore nato da madre americana le quali, tornate in Islanda, hanno visto rigettare la richiesta di trascrizione dell’atto di nascita (ottenuto negli Stati Uniti) nei pubblici registri islandesi .

Difatti, poiché vige in Islanda il divieto di ricorrere alla maternità surrogata, prima la Corte Distrettuale e, successivamente, quale giudice di ultima istanza, anche la Corte Suprema islandese, hanno affermato che “in Islanda la madre naturale è la madre e le autorità non hanno l’obbligo di riconoscere i richiedenti come genitori”.

Alla luce di tale decisione, il bambino è stato considerato quale “minore non accompagnato” ma, al fine di garantirne la massima tutela, veniva sottoposto alla custodia delle due donne.

Ebbene, la Corte Europea ha ritenuto che la sentenza della Corte Suprema islandese non fosse né “arbitraria” né “irragionevole”, in quanto trova il proprio fondamento nella legge islandese che, stante l’espresso divieto, non può essere aggirata.

D’altra parte, la Corte ha riconosciuto che la predetta decisione non fosse, in ogni caso, lesiva dei diritti e della tutela del minore in quanto, poiché lo Stato ha disposto l’affidamento del minore alla coppia, sono state adottate tutte le misure necessarie ed idonee a “salvaguardare la vita familiare delle ricorrenti”.

Con la pronuncia dello scorso maggio, dunque, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha sancito il principio secondo cui gli Stati sono legittimati a rifiutare di trascrivere l’atto di nascita di bambini nati da madre surrogata. Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista

Detto principio ricalca quello già precedentemente espresso nel caso “Paradiso e Campanelli c. Italia” secondo cui, laddove non vi sia alcun legame di sangue tra genitori e figli, non può essere riconosciuto un rapporto di filiazione; legame che, invece, sussiste rispetto ai genitori biologici.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha così affermato la legittimità del diniego di trascrizione e il divieto di maternità surrogata in quanto non rappresentano, in sé, una violazione dell’articolo 8 della Convenzione Europe dei Diritti dell’Uomo che tutela il rispetto alla vita privata e familiare.

In conclusione, secondo la Corte EDU, il divieto di maternità surrogata ed il rifiuto di trascrizione degli atti di nascita stranieri, non solo è legittimo e rientra nella discrezionalità riconosciuta agli Stati, ma risponde perfino all’esigenza di effettiva protezione delle donne che potrebbero trovarsi in una posizione di debolezza e subire pressioni a causa della surrogazione, nonché dei diritti dei minori, tra i quali si dovrebbe annoverare quello di conoscere i propri genitori naturali.

Eleonora Pintus, Avvocato

Come cambia l’approccio all’acquisto della casa ai tempi del Covid

Il Covid-19 ha avuto un impatto molto forte nel settore immobiliare, così come in qualsiasi altro ambito lavorativo: sta infatti contribuendo a rivedere la geografia della domanda e le necessità abitative dei potenziali acquirenti.

Durante la quarantena tante persone hanno realizzato di vivere in una casa che effettivamente non è funzionale nella suddivisione degli spazi e magari è lontana da aree verdi o dal mare: durante questi mesi, quindi, la presenza di spazi troppo esigui e privi di una terrazza o di un giardino ha sicuramente accentuato la sensazione di chiusura.

Ad essere cambiate sono quindi le priorità domestiche.

Ecco che a mutare è l’approccio del cliente al concetto stesso di casa.

Il nostro lavoro ci porta ad avere a che fare con una moltitudine di persone, cerchiamo di entrare in sintonia con ognuno di loro per riuscire a capire esattamente che cosa vogliono e che cosa cercano: dopotutto li supportiamo nell’acquisto più importante della loro vita.

Tante persone, famiglie o single e tanti budget. Che cosa li accomuna? I nuovi requisiti che la loro futura casa deve avere.

I mesi di quarantena hanno portato a vivere le quattro mura domestiche in maniera poliedrica: la casa si è trasformata anche in palestra o scuola di cucina o ristorante e a questo si è unito il nuovo modo di lavorare, lo smart- working, che ha comportato la necessità di riorganizzare gli ambienti interni.

Emerge, dunque, un quadro del tutto nuovo, una casa dalle mille sfaccettature.

Le persone, pertanto, hanno iniziato a cercare fondamentalmente immobili con spazi più ampi, soluzioni indipendenti o semi-indipendenti, nelle vicinanze di aree verdi o vicino alla spiaggia, con metrature più generose anche per la nuova necessità del lavoro da casa.Tiziana Mereu, Agente immobiliare

Nelle richieste che gestiamo compare come condicio sine qua non almeno una di queste caratteristiche.

La costante dello smart working ha fatto sorgere, poi, la necessità di avere un vano ad esso completamente dedicato dove sarà possibile sopperire alla mancanza di privacy registrata durante il lockdown.

Se prima della pandemia si viveva la casa unicamente a fine giornata come un semplice dormitorio e si dava scarsa importanza a certi aspetti, ora, i nuovi tempi che stiamo vivendo, ci portano a riscoprire l’importanza di possedere un giardino o ampi balconi e terrazze come estensione dello spazio interno.

Questo garantisce più libertà di movimento dentro e fuori casa.

Mi rendo conto, in base alle richieste che riceviamo, che le persone hanno riscoperto la necessità di coltivare un hobby o delle passioni come, ad esempio, un orto (in giardino o in balcone poco importa).

Si tratta di una vera e propria rivincita per queste pertinenze, che prima, in particolare il giardino a causa della manutenzione che richiede, venivano snobbate.

A essere cambiata è anche la domanda dei single: se prima puntavano sui bilocali, piccoli, pratici e facilmente gestibili, ora si orientano su abitazioni leggermente più grandi, che consentono loro di destinare una parte della casa al già citato smart working o da dedicare allo svago.

L’incertezza di viaggiare e le limitazioni alle valvole di sfogo hanno messo per ognuno, nessuno escluso, al centro di tutto la casa, che deve essere dotata di tutti i comfort e dove ogni dettaglio non può essere trascurato.

La casa oggi più che mai deve rispecchiare quello che siamo e deve permetterci di esprimerci senza chiusure o limitazioni di spazio.

 

Tiziana Mereu, Agente immobiliare

Sono laureata in giurisprudenza e attualmente esercito la professione presso l’agenzia Intesa Immobiliare di Quartu Sant’Elena, in via Cagliari n. 40b. Sin dai tempi dell’università appassionata di immobili e arredo, dopo una parentesi da consulente del lavoro abilitato, ha prevalso la passione per questo mondo.

Con l’agenzia immobiliare forniamo servizi di compravendita, locazione, consulenza mutui, sempre in costante aggiornamento e sempre mettendo al primo posto le esigenze del cliente.

Focus di diritto tributario Avv. Francesco Sanna

Imposta di registro per l’acquisto della prima casa
In generale, l’agevolazione fiscale per l’acquisto della prima casa è disciplinata dal D.P.R. n. 131/1986.
L’articolo 1, parte I, nota II-bis della Tabella allegata a detto decreto e ss.mm. sancisce l’applicazione dell’imposta di registro nel termine fisso del 2% nel caso in cui il trasferimento avvenga tra privati e abbia ad ‹‹oggetto case di abitazione, ad eccezione di quelle di categoria catastale A1, A8 e A9, ove ricorrano le condizioni di cui alla nota II-bis).››.

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

L’agente immobiliare non comunica il difetto di abitabilità dell’immobile: è truffa contrattuale
Cosa accade nel caso in cui si acquista un immobile nella convinzione che lo stesso abbia determinate caratteristiche e, successivamente, si scopre che l’abitazione non corrisponde alle informazioni fornite dal venditore o dall’agente immobiliare al momento della vendita?

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Focus di diritto civile, contratti • Avv. Viola Zuddas

Quando spetta la provvigione al mediatore immobiliare?
Il mediatore è colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare, senza essere legato ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza.

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Focus di diritto internazionale e dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Esiste un diritto all’abitazione?
Il diritto “alla casa” si inserisce nell’ambito di una “tutela multilivello di diritti”, che coinvolge fonti internazionali, comunitarie e nazionali.

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Le modifiche al codice penale

Il disegno di legge Zan, composto da dieci articoli, ha l’espressa finalità di prevenire e contrastare la discriminazione e la violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità, mediante un intervento di modifica al codice penale.

In particolare, sono due gli articoli ad essere interessati dal DDL ZAN, ovvero l’art. 604 bis e l’art. 604 ter c.p., originariamente introdotti con la cd. Legge Mancino.

Nella formulazione attuale, l’art. 604 bis punisce chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico e chi istiga a commettere o commette atti discriminazione o violenza per gli stessi motivi.

La norma punisce, inoltre, chi partecipa, presta assistenza, promuove o dirige associazioni o gruppi che incitano alla discriminazione o alla violenza basata sui motivi razziali o religiosi.

L’art. 604 ter c.p., invece, prevede un’apposita circostanza aggravante applicabile nel caso di reati commessi con finalità discriminatorie.

Ebbene, se, da un lato, il DDL ZAN non introduce alcuna modifica relativa al reato di propaganda – che rimane, quindi, limitato alle sole ipotesi di odio razziale o etnico – dall’altro lato, interviene sia in merito al reato di istigazione che avendo riguardo alla commissione di atti di discriminazione e violenza.

In parole semplici, si tratta di un intervento volto ad ampliare le norme già esistenti, destinato però ad aggiungere alle discriminazioni o violenze per motivi razziali, etniche e religiose, anche quelle fondate sul sesso, sull’orientamento sessuale e identità di genere, nonché sulla disabilità. Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista • Avv. Claudia Piroddu, Penalista

La Legge, inoltre, prevede l’introduzione di una specifica circostanza aggravante applicabile a quelle condotte criminose che risultano motivate da omotransfobia ed abilismo che, ad oggi, non sono previste espressamente in nessuna norma del codice penale.

Infatti, nonostante l’art. 61 c.p., che disciplina le circostanze aggravanti comuni applicabili a qualsiasi fattispecie, preveda l’aggravante di “aver agito per motivi abbietti o futili“, questa, tuttavia, ha ad oggetto ipotesi diverse che ricorrono solo laddove la condotta sia sorretta da motivi perversi o sproporzionati, entrambe difficilmente applicabili al caso in esame.

Ebbene, la critica maggiore che viene sollevata al disegno di legge riguarda la presunta limitazione della libertà di espressione che le modifiche normative introdurrebbero.

Ma è davvero così?

Libertà di espressione e reati di opinione

La libera manifestazione del pensiero, come principio fondante di uno stato democratico, è tutelata dall’art. 21 della Costituzione italiana, nel quale si precisa che “tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione“.

Poter esprimere idee e pensieri, tuttavia, non significa poterlo fare in maniera indiscriminata, ad esempio, con modalità offensive o violente.

Vi sono, quindi, dei limiti previsti proprio per tutelare anche le libertà altrui, ossia l’onore, la reputazione, l’incolumità o l’integrità fisica e psichica delle persone coinvolte, solo per citarne alcune.

Deve poi aggiungersi che il codice penale e alcune leggi speciali puniscono i cd. reati di opinione, che tutelano valori morali, spirituali e ideali, intesi come beni super- individuali, ossia riconducibili all’intera società.

Ne sono un esempio, il reato di attentato contro l’integrità, l’indipendenza e l’unità dello Stato, il reato di attentato contro la Costituzione dello Stato o i reati di vilipendio, nonché il reato di apologia di genocidio e del fascismo che, nella specie, punisce chiunque pubblicamente esalti esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche.

Fatta questa doverosa premessa, pare opportuno precisare che il DDL ZAN garantisce la libertà di opinione, senza metterla in discussione né limitarla.

In particolare, l’art. 4 prevede espressamente che “sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti“.

Ciò significa che è ben possibile continuare ad esprimere liberamente idee e convinzioni personali, condivisibili o meno, purché la libertà di espressione del singolo non sconfini nell’istigazione all’odio e alla violenza per motivi inerenti al sesso, all’identità di genere o all’orientamento sessuale.

Peraltro, è necessario aggiungere che la norma non contempla né disciplina in alcun modo la “maternità surrogata” e la “transizione di genere“, ma introduce, invece, la definizione di “identità di genere“, quale estrinsecazione della libera espressione di sé, mutuandola dalla giurisprudenza europea e dal diritto sovrannazionale.

Invero, nell’art. 1, lett. d), il DDL stabilisce che “per identità di genere si intende l’i­dentificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corri­spondente al sesso, indipendentemente dal­l’aver concluso un percorso di transizione“.

Come preannunciato, si tratta di una definizione introdotta per la prima volta dal Parlamento europeo e dal Consiglio con la Direttiva n. 95 del 2011 ove, rilevata l’esigenza di introdurre una definizione comune del motivo di persecuzione costituito dall’ “appartenenza a un determinato gruppo sociale”, è stato specificato che ai fini della definizione di un determinato gruppo sociale, occorre tenere debito conto degli aspetti connessi al sesso del richiedente, tra cui l’identità di genere e l’orientamento sessuale.

Una più approfondita definizione è stata poi inserita nella Direttiva 2012/29 UE, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato.

In particolare, nell’invitare gli Stati membri a migliorare la legislazione e le misure concrete di sostegno per il riconoscimento e la protezione delle vittime, la Direttiva in esame ha riservato particolare attenzione alle “vittime della violenza di genere”, con ciò intendendosi “la violenza diretta contro una persona a causa del suo genere, della sua identità di genere o della sua espressione di genere o che colpisce in modo sproporzionato le persone di un particolare genere”.

La violenza punibile è, dunque, quella che “può provocare un danno fisico, sessuale, emotivo o psicologico, o una perdita economica alla vittima. La violenza di genere è considerata una forma di discriminazione e una violazione delle libertà fondamentali della vittima e comprende la violenza nelle relazioni strette, la violenza sessuale (…), la tratta di esseri umani, la schiavitù e varie forme di pratiche dannose, quali i matrimoni forzati, la mutilazione genitale femminile e i cosiddetti «reati d’onore»”.

È evidente, dunque, che l’introduzione del concetto di “identità di genere” da un punto di vista giuridico non è certamente nuova ma ha trovato ampio riconoscimento già a livello sovranazionale. Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista • Avv. Claudia Piroddu, Penalista

Ebbene, nonostante ciò, sebbene l’Italia abbia recepito la Direttiva n. 29 del 2012 con il Decreto legislativo del 15 dicembre 2015 n. 212, ad oggi risulta l’unico Paese tra quelli fondatori dell’Unione Europea a non aver adottato una normativa per contrastare penalmente l’odio e la violenza per motivi inerenti al sesso, all’identità di genere o all’orientamento sessuale.

In questo contesto, il DDL ZAN consentirebbe, indubbiamente, di contrastare a livello penale questo tipo di fenomeni.

Eleonora PintusClaudia Piroddu, Avvocati
Diffamazione sui social: responsabilità diretta e dei provider alla luce della normativa interna e Comunitaria

La diffusione di internet e, ancora più, la nascita dei social network, se da un lato ha apportato numerosi benefici tra i quali, la rapida e capillare circolazione delle informazioni, nonché la nascita di nuove professioni, come quella dell’influencer, d’altra parte, soprattutto nell’ultima decade, ha comportato il notevole aumento degli illeciti commessi dagli utenti del web.

La casistica è variegata: si passa dalla sostituzione di persona, alla diffamazione a mezzo internet, all’accesso abusivo al sistema informatico, al cyber bullismo o, ancora, alla pedopornografia.

In particolare, sempre più frequenti sono le condotte di diffamazione perpetrate tramite l’uso dei social network che all’evidenza risultano facilitate dalla possibilità, per un numero notevole di utenti della rete, di esprimere del tutto liberamente, e senza vaglio preventivo, commenti e giudizi, talvolta connotati da carattere volgare e offensivo, o ancora, mediante la semplice diffusione di fake news.

Sebbene la Legge italiana riconosca e tuteli il diritto alla libera manifestazione del pensiero, lo stesso incontra un chiaro limite dinnanzi alle condotte che trasmodano nell’offesa dell’altrui immagine e reputazione, che, dunque, assumono rilevanza penale.

Al riguardo, la Giurisprudenza di Legittimità è concorde nel ritenere che la diffusione di un messaggio diffamatorio pubblicato sulla bacheca di Facebook, ovvero sulla piattaforma Instagram -ad esempio, nelle modalità di commento ad una foto- integra l’ipotesi di diffamazione aggravata, ai sensi dell’art. 595, comma terzo, c.p., sotto il profilo dell’offesa arrecata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa. Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista • Avv. Claudia Piroddu, Penalista

La potenziale offesa insita nel commento, infatti, è senza dubbio capace di raggiungere un numero indeterminato di persone -quale elemento costitutivo della fattispecie in esame- e, pertanto, è evidente che colui il quale abbia coscientemente e volontariamente “postato” il commento diffamatorio sarà chiamato a rispondere del reato di diffamazione aggravata poc’anzi menzionato.

Dette condotte sono state perfino sottoposte anche al vaglio della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo la quale, come affermato in un caso recente, ha confermato che integra una violazione dell’articolo 8 della Cedu -che tutela il diritto al rispetto della vita privata, incluso quello alla reputazione- la pubblicazione di un’immagine manipolata sul social network Instagram.

I giudici, nel caso di specie, hanno superato i confini “classici” della diffamazione -intesa quale offesa di carattere verbale- affermando che la tutela della reputazione va assicurata anche a chi subisce accuse diffamatorie su Instagram sotto forma di manipolazione di un’immagine.

Ma la complessità del fenomeno della diffamazione a mezzo internet fa sorgere un ulteriore ed inevitabile quesito: in questi casi, è possibile ascrivere una responsabilità anche al cd. “provider”, ossia il prestatore di servizio della società dell’informazione?

Difatti, sebbene questi siano certamente responsabili degli illeciti posti in essere in prima persona, il problema sorge, allorquando, l’illecito venga commesso da soggetti terzi, in quanto l’ordinamento penale italiano non prevede una responsabilità per fatto altrui.

La normativa di riferimento è contenuta nel D. Lgs. del 9 aprile 2003 n. 70, emanato in attuazione della Direttiva europea sul commercio elettronico 2000/31/CE, relativa a taluni aspetti giuridici della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico.

Dalla lettura della normativa in esame, si evince l’assenza di un obbligo generale di sorveglianza ex ante per i providers i quali, ai sensi dell’art. 17 del menzionato decreto, sono sollevati da un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano; né grava sui medesimi un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite.

In tal senso, l’art. 14 della Direttiva non lascia spazio ad alcun dubbio: “Gli Stati membri provvedono affinché, nella prestazione di un servizio della società dell’informazione consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non sia responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore: a) non sia effettivamente al corrente del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illegalità dell’attività o dell’informazione, o b) non appena al corrente di tali fatti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso“.

Ebbene, l’eventuale mancata collaborazione con le autorità potrebbe, infatti, comportare non solo il riconoscimento di una responsabilità civile in capo ai medesimi degli eventuali danni cagionati dalla sussistenza e mancata rimozione dell’illecito ma, altresì, delle conseguenze da un punto di vista del diritto penale.

Sul punto, la più recente giurisprudenza di legittimità, ha affermato che: “risponde a titolo di concorso nel delitto di diffamazione commesso da terzi il gestore di un sito internet che, venuto a conoscenza dell’esistenza di un articolo diffamatorio pubblicato da altri, mantiene consapevolmente tale contenuto sul sito, consentendo che lo stesso eserciti la sua efficacia diffamatoria” (Cass. pen., sez. V, n. 54946/2016). Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista • Avv. Claudia Piroddu, Penalista

Quanto, invece, alla figura del blogger -nonostante la stessa risulti distinta da quella del provider, poiché l’amministratore del blog si limita a mettere a disposizione uno spazio virtuale in cui gli utenti possono interagire con la pubblicazione di commenti- è stata delineata una responsabilità, per certi versi, assimilabile a quella finora esaminata.

Partendo dal presupposto che non vi è una norma che prevede in capo al blogger degli appositi obblighi impeditivi di eventi offensivi riguardanti l’altrui reputazione, tuttavia, il blogger che non si attiva tempestivamente per rimuovere commenti offensivi pubblicati da terzi sul suo blog commette anch’egli il reato di diffamazione.

Infatti, secondo l’indirizzo giurisprudenziale più recente, la predetta condotta è equiparata non già al mancato impedimento dell’evento diffamatorio, bensì ad una vera e propria condivisione consapevole del contenuto lesivo dell’altrui reputazione anche da parte del gestore del blog, che, non provvedendo alla rimozione del post offensivo, ne ha consentito un’ulteriore divulgazione.

In conclusione, l’esigenza di tutelare la vittima per i danni alla propria immagine e reputazione, hanno fatto giungere la quasi totalità degli ordinamenti alla conclusione di attribuire, oltre che al singolo, anche al service provider o al blogger la responsabilità per illeciti derivanti dal materiale immesso e non rimosso o dalle dichiarazioni effettuate dagli internauti in spazi virtuali a questi messi a disposizione e gestiti dai primi.

Eleonora PintusClaudia Piroddu, Avvocati

La diffusione del virus COVID-19 ha notoriamente inciso sul nostro stile di vita europeo.

Al fine di tenere sotto controllo la pandemia, gli Stati hanno infatti dovuto adottare una serie di restrizioni senza precedenti che hanno avuto, e continuano ad avere, un costo elevato per i singoli individui e le famiglie, oltre che per le imprese.

Dette restrizioni, non solo hanno comportato una drastica interruzione nel commercio ma hanno altresì sospeso il libero esercizio del diritto alla libera circolazione e altri diritti fondamentali in tutta l’UE.

Ebbene, proprio la possibilità di tornare a circolare e muoversi liberamente all’interno dello spazio europeo (e non solo), rappresenta uno dei principali auspici dei singoli e, al contempo, uno dei principali obiettivi dei Governi.

Ma in questo scenario, chi, tra Stati membri e Unione Europea, può adottare misure di carattere vincolante a livello sanitario, al fine di superare gli ostacoli che la pandemia ha frapposto tra i singoli e l’esercizio dei diritti fondamentali quali, tra gli altri, quello proprio alla libertà di circolazione?

Al riguardo, è importante ricordare che in materia sanitaria la responsabilità primaria per la tutela della salute e, in particolare, per la gestione dei sistemi sanitari rimane in capo agli Stati membri dell’Unione Europea. Ciò significa che, a livello nazionale, i singoli Stati hanno piena competenza decisionale in ambito sanitario.

Tuttavia, sebbene detta materia rientri tra quelle di competenza degli Stati membri, l’art. 4 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) riconosce comunque a quest’ultima un certo margine di intervento, seppur concorrente, nel predetto settore: difatti, nonostante l’Unione non sia chiamata a definire le politiche sanitarie, né l’organizzazione e la fornitura di servizi sanitari e di assistenza medica, la sua azione è fondamentale per integrare le politiche nazionali; e ciò, non solo per tutelare e migliorare la salute e la sanità pubblica in termini di prevenzione e gestione della malattie, o per garantire la parità di accesso a un’assistenza sanitaria moderna ed efficiente per tutti i cittadini europei, ma anche, e soprattutto, al fine di coordinare le gravi minacce sanitarie che coinvolgono più di un paese membro dell’UE.

In tali casi, in conformità al dettato di cui all’articolo 168, par. 5 del TFUE, l’Unione Europea può perfino adottare atti legislativi vincolanti per proteggere e migliorare la salute umana quali “in particolare per lottare contro i grandi flagelli che si propagano oltre frontiera, misure concernenti la sorveglianza, l’allarme e la lotta contro gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero”.

Ebbene, proprio in virtù di tale espresso potere attribuito dai Trattati all’Unione, la Commissione Europea, in data 17 marzo 2021, ha avanzato una proposta legislativa al Parlamento Europeo ed al Consiglio affinché, mediante procedura legislativa ordinaria (che prevede, nel processo di formazione dell’atto legislativo, un intervento paritario del Parlamento e del Consiglio), venga adottato un “Certificato verde digitale” (Digital green certificate), riconosciuto in tutti gli Stati membri dell’UE, che consenta ai cittadini europei di poter tornare a viaggiare già a partire dalla prossima estate.

Il fine è, dunque, quello di agevolare la libera ( e sicura) circolazione dei cittadini nell’UE durante la pandemia da COVID-19 .

Secondo la proposta avanzata dalla Commissione, il certificato sarà disponibile sia in formato digitale che cartaceo e consentirà alle autorità di uno Stato membro di effettuare un controllo rapido e semplice del certificato rilasciato in un altro Stato membro.

Sul documento, che sarà valido in tutti i paesi europei, dovrà essere riportata una quantità minima di dati necessari quali, ad esempio, la data di vaccinazione e il vaccino somministrato, se il soggetto ha ottenuto un risultato negativo al test, ovvero risulta guarito, oppure se risulta in attesa di sottoporsi a test.

Ma come si ottiene tale certificato? Il ruolo dei governi nazionali

Una volta approvato l’atto legislativo a livello comunitario – che, alla luce della proposta legislativa presentata, dovrebbe avvenire mediante l’adozione di direttive tecniche – gli Stati europei saranno chiamati a dare attuazione alla normativa sui certificati digitali, alla luce del quadro tecnico definito a livello europeo.

Le autorità nazionali, dunque, saranno direttamente responsabili del rilascio del certificato secondo le modalità che riterranno più opportune (come, ad esempio, mediante consegna da parte delle strutture ospedaliere, o direttamente dai centri di test anti-covid, o da parte di altra autorità sanitaria) ma sempre e comunque nel rispetto del quadro tecnico e delle finalità proprie della normativa europea.

Di talché, tutti i cittadini potranno iniziare a viaggiare liberamente e muoversi nello spazio comunitario senza dover soggiacere alle restrizioni attualmente in vigore quali l’obbligo di quarantena o di effettuare un test posto in essere per limitare la diffusione da Covid-19.

In ogni caso, è importante sottolineare che, come precisato dalla stessa Commissione Europea nella proposta legislativa, il possesso di un certificato non rappresenta un presupposto indispensabile per esercitare il diritto alla libera circolazione o altri diritti fondamentali.
Pertanto, anche alle persone prive di tale documento sarà consentito di viaggiare ma, al fine di prevenire l’eventuale diffusione del contagio, esse dovranno sottostare alle restrizioni nazionali del paese di destinazione eventualmente in vigore.

Quali sono le prossime tappe?

Il Parlamento Europeo ed il Consiglio sono chiamati ad accelerare le discussioni e raggiungere un accordo sulle proposte della Commissione relative all’adozione di un certificato verde digitale.

Dopodiché, toccherà agli Stati adottare tutte le misure necessarie per procedere alla distribuzione logistica dei certificati stessi, tanto per il rilascio che per la verifica, oltre che per apportare le modifiche necessarie ai sistemi sanitari nazionali.

Con l’approvazione del Certificato, dunque, i cittadini europei potranno esercitare nuovamente appieno il diritto alla libera circolazione e altri diritti fondamentali in tutta l’UE mediante un approccio coordinato alla libera circolazione.

Il Parlamento Europeo ed il Consiglio sono chiamati ad accelerare le discussioni e raggiungere un accordo sulle proposte della Commissione Europea relative all’adozione di un Certificato verde digitale che consenta ai cittadini degli Stati membri, e non solo, di poter circolare liberamente. Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista

Eleonora Pintus, Avvocato

Nello spazio Europeo, connotato dalla libera circolazione di merci, persone, servizi e capitali, sono sempre più frequenti i casi in cui, all’insorgere di una controversia, sia necessario stabilire il diritto applicabile, nonché l’autorità giurisdizionale competente a decidere nel merito.

Problema, questo, che si pone, altresì, in tema di separazione e divorzio di coppie definite come “internazionali”, ossia coppie di diversa nazionalità ovvero della stessa nazionalità ma che hanno contratto matrimonio in uno Stato diverso rispetto a quello di origine o, più comunemente, hanno deciso di installare la vita coniugale in un altro Stato membro dell’Unione Europea – o anche Stato terzo – rispetto a quello in cui hanno contratto matrimonio.

In tali casi, la maggiore difficoltà deriva, indiscutibilmente, dalla molteplicità e diversità delle legislazioni in materia di scioglimento del vincolo coniugale. Basti pensare che, a differenza dell’ordinamento italiano, vi sono altri ordinamenti che non considerano l’istituto del divorzio, ed altri che, pur contemplandolo, non conoscono, d’altra parte, quello della separazione personale dei coniugi (come, ad esempio, l’ordinamento rumeno).

Va da sé che in uno scenario normativo particolarmente articolato, ove si intrecciano norme di diritto interno, diritto comunitario ed internazionale, non è certamente agevole orientarsi senza incorrere nel rischio di perdere la rotta.

Cosa accade se, ad esempio, al momento della domanda di divorzio i coniugi hanno trasferito la propria residenza oppure se la legge astrattamente applicabile subordina il divorzio a condizioni troppo restrittive?

A quali norme, in questi casi, occorre appellarsi al fine di individuare il giudice competente e la legge applicabile in sede di divorzio transnazionale?

Il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea

Sul punto, la Corte di Giustizia è stata interpellata da un giudice nazionale, in via pregiudiziale, al fine di interpretare e chiarire la portata dell’art. 10 del Regolamento n. 1259/2010, relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata nel settore della legge applicabile al divorzio e alla separazione personale.
Tale procedura è stata attivata alla luce di un caso presentato a un Tribunale rumeno.

Nel caso di specie, due cittadini rumeni contraevano matrimonio in Romania e, successivamente, trasferivano la propria residenza in Italia. Dopo aver presentato domanda di divorzio nanti il Tribunale della Romania, il Giudice investito della causa riconosceva, sulla base dell’art. 3 del Regolamento n. 2201/2003, la propria competenza generale a conoscere della domanda di divorzio e, al contempo, sulla base dell’art. 8 del Regolamento n. 1259/2010, individuava quale legge applicabile alla controversia quella italiana. Ciò in quanto, al momento della proposizione della domanda di divorzio, la residenza abituale dei coniugi si trovava proprio in Italia.
Tuttavia, poiché secondo il diritto italiano, in una tal circostanza, la domanda di divorzio può essere avanzata soltanto a seguito di previa separazione dei coniugi – nella specie mai intervenuta – i Giudici respingevano la domanda.

Una delle parti decideva, dunque, di impugnare la sentenza affermando che, poiché la legge italiana è particolarmente restrittiva con riguardo alle condizioni richieste per divorziare (ossia il previo intervento di una pronuncia di separazione giudiziale o omologa), nel caso di specie ben avrebbe dovuto applicarsi alla domanda di divorzio la legge rumena (ossia la legge del foro), in quanto più semplice e meno restrittiva.

Alla luce di detta contestazione, il Giudice di merito sottoponeva alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la questione pregiudiziale circa l’esatta interpretazione dell’art. 10 del Regolamento n. 1259/2010. Detta norma, dal carattere del tutto residuale, dispone espressamente che: “Qualora la legge applicabile ai sensi dell’articolo 5 o dell’articolo 8 non preveda il divorzio o non conceda a uno dei coniugi, perché appartenente all’uno o all’altro sesso, pari condizioni di accesso al divorzio o alla separazione personale, si applica la legge del foro”.

Nel caso di separazione o divorzio di una coppia internazionale, occorre stabilire quale sia l’autorità giurisdizionale competente e la legge applicabile alla luce del diritto interno e comunitario. Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista

In particolare, il Tribunale chiedeva se l’espressione “la legge applicabile ai sensi dell’articolo 5 o dell’articolo 8 non prevede il divorzio” debba essere interpretata in modo restrittivo – per cui la legge del foro troverebbe applicazione esclusivamente nell’ipotesi in cui la legge (straniera) applicabile non preveda in nessun caso il divorzio – ovvero secondo un’interpretazione estensiva; ciò da cui consegue che la legge del foro trovi applicazione anche nelle ipotesi in cui pur contemplando la legge straniera il divorzio, esso viene subordinato a condizioni eccezionalmente restrittive, quali la previa separazione.

La Corte di Giustizia, sulla base di un’interpretazione ispirata ai principi fondamentali, ha affermato che l’art. 10 sopra citato deve essere interpretato nel senso che i termini “[q]ualora la legge applicabile ai sensi dell’articolo 5 o dell’articolo 8 non preveda il divorzio” riguardano unicamente le situazioni in cui la legge straniera applicabile non prevede il divorzio in alcuna forma” (Corte giustizia UE, sez. I, 16 luglio 2020, n. 249).

Sulla scia di tale impostazione, la Corte di Giustizia ha riconosciuto, nel caso di specie, la giurisdizione del Giudice rumeno a pronunciare il divorzio tra cittadini rumeni residenti da anni in Italia ma con applicazione della legge italiana.

Ciò in quanto, alla luce del principio espresso, la legge straniera (in questo caso quella italiana) dovrà trovare applicazione anche se contiene condizioni più restrittive rispetto a quella del foro, poiché un caso di tal genere – ove la legge straniera applicabile consente di chiedere il divorzio solo nell’ipotesi in cui sia stata previamente pronunciata una sentenza di separazione – non può assolutamente essere assimilato al caso in cui in un ordinamento non sia previsto, tout court, l’istituto del divorzio.

Eleonora Pintus, Avvocato