Come è noto, l’Isola di Lampedusa è stata, ancora una volta, al centro della scena mediatica a seguito degli sbarchi, avvenuti tra l’11 e il 13 settembre scorso, di circa settemila persone provenienti per lo più da Nigeria, Sierra Leone, Sudan, Ciad, Tunisia, Guinea e Camerun.  

Si tratta, forse, di uno dei più impattanti episodi di immigrazione irregolare che, per riportare le parole del Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi “pone in questi giorni il Paese e l’intera Europa di fronte a una sfida difficilissima”.  

In questo breve contributo si intende affrontare una problematica giuridica inerente all’evento degli sbarchi irregolari e spesso ignorata a fronte di questioni di natura meramente politica: i diritti dei migranti, da una parte, e gli obblighi delle autorità preposte, dall’altra, in caso di attraversamento irregolare delle frontiere esterne dell’Unione Europea. 

Il diritto dei migranti di essere informati: obbligo di informativa delle autorità

In primo luogo, giunti nelle frontiere di uno Stato membro dell’Unione, è necessario che le Autorità procedano all’identificazione del migrante e richiedente asilo. 

Nella specie, non appena sia presentata una domanda di protezione internazionale ai sensi dell’articolo 20, paragrafo 2, del Regolamento n. 604/2013 in uno Stato membro, le Autorità competenti dello stesso devono informare il richiedente dell’applicazione del presente regolamento. In particolare, le Autorità preposte devono specificare :  

  1. Le finalità del presente regolamento e le conseguenze dell’eventuale presentazione di un’altra domanda in uno Stato membro diverso, nonché le conseguenze dello spostarsi da uno Stato membro a un altro durante le fasi in cui si determina lo Stato membro competente e in cui è esaminata la domanda di protezione internazionale.
  2. I criteri di determinazione dello Stato membro competente. Al riguardo, è fondamentale informare il richiedente della sussistenza di una gerarchia di criteri per la determinazione dello Stato competente nelle varie fasi della procedura e la loro durata. E bene sottolineare, infatti, che non necessariamente lo Stato di primo approdo è quello competente ad esaminare la domanda, potendo questo criterio essere derogato da altri diretti a soddisfare interessi preminenti di natura umanitaria o per ricongiungimento familiare.
  3. Durante il colloquio, il richiedente deve essere informato del diritto di presentare informazioni relative alla presenza di familiari, parenti o persone legate da altri vincoli di parentela negli altri Stati membri. In tali casi, infatti, se un familiare di un richiedente ha presentato in uno Stato membro una domanda di protezione internazionale sulla quale non è ancora stata adottata una prima decisione di merito, l’esame della domanda di protezione internazionale compete a detto Stato membro, sempre che gli interessati abbiano espresso tale desiderio per iscritto. 
  4. Deve esse inoltre informato della possibilità di impugnare una decisione di trasferimento e, ove possibile, di chiedere la sospensione del trasferimento.
  5. I richiedenti asilo e i migranti fermati alle frontiere esterne devono inoltre fornire le proprie impronte digitali a fini identificativi. Ebbene, la raccolta di tali dati deve essere accompagnata dalla contestuale spiegazione, da parte delle Autorità, dei motivi per i quali si procede alla raccolta dei dati e la durata del trattamento. Del pari, il richiedente deve essere messo al corrente del diritto di accedere ai propri dati, di chiedere che tali dati siano rettificati se inesatti o che siano cancellati se trattati illecitamente, nonché le procedure da seguire per esercitare tali diritti, compresi gli estremi delle autorità di cui all’articolo 35 del sopracitato Regolamento e delle autorità nazionali garanti per la protezione dei dati personali che sono responsabili in merito alla tutela dei dati personali. 

Le impronte verranno poi memorizzate in un database dell’UE «Eurodac» (European Asylum Dactyloscopy,), ossia  un sistema per il confronto delle impronte digitali  che memorizza, tratta e confronta le impronte digitali di richiedenti asilo e migranti fermati alle frontiere esterne. Trattasi di un sistema che ha come fine principale, oltre che monitorare i flussi e gli spostamenti del migrante, quello di contribuire alla determinazione dello Stato membro dell’UE cui spetta il compito di esaminare una richiesta di asilo.  

Come devono essere fornite le informazioni ? 

Come precisato dal Regolamento di Dublino, le informazioni devono essere fornite al richiedente per iscritto, in una lingua che il richiedente comprende o che ragionevolmente si suppone a lui comprensibile. A questo fine, le Autorità al momento della raccolta delle impronte digitali, devono fornire un opuscolo contenente le informazioni redatte in un linguaggio chiaro, trasparente e conciso e in un formato facilmente accessibile. Ove necessario per la corretta comprensione del richiedente, le informazioni sono fornite anche oralmente, ad esempio in relazione con il colloquio personale, e in presenza di un interprete nel caso in cui le barriere linguistiche non consentano il facile acceso all’informativa. 

Garanzie Procedurali

Per concludere questa breve disamina sui diritti dei migranti e richiedenti asilo ed annessi obblighi delle Autorità competenti, appare opportuno qui precisare quali ulteriori strumenti sono posti a disposizione del richiedente dal Regolamento di Dublino. 

In particolare, il richiedente deve essere informato che, allorquando lo Stato membro richiesto accetta di prendere o riprendere in carico un richiedente, lo Stato membro richiedente notifica all’interessato la decisione di trasferirlo verso lo Stato membro competente e, se del caso, di non esaminare la sua domanda di protezione internazionale.  

In tali casi, il richiedente deve sapere che, laddove egli sia rappresentato da un avvocato o un altro consulente legale, gli Stati membri possono scegliere di notificare la decisione a tale avvocato o consulente legale invece che all’interessato e, se del caso, comunicare la decisione all’interessato. Tale decisione, deve contenere informazioni sui mezzi di impugnazione disponibili, compreso quello sul diritto di chiedere l’effetto sospensivo, ove applicabile, e sui termini per esperirli e sui termini relativi all’esecuzione del trasferimento e contiene, se necessario, le informazioni relative al luogo e alla data in cui l’interessato deve presentarsi, nel caso in cui si rechi nello Stato membro competente con i propri mezzi.  

Qualora invece l’interessato non sia assistito o rappresentato da un avvocato o da un altro consulente legale, gli Stati membri lo informano dei principali elementi della decisione e mezzi di impugnazione disponibili e dei termini per esperirli, in una lingua che il richiedente capisce o che è ragionevole supporre possa capire. 

Avvocato Eleonora Pintus

La cd. “Plastic tax” o tassa sulla plastica monouso è stata introdotta con la Legge di bilancio 2020, commi 634-658, e consiste in un’imposta, già applicata in altri Stati europei, sul consumo dei manufatti in plastica con singolo impiego, denominati con l’acronimo “MACSI”, da attuarsi in seguito all’emanazione delle disposizioni attuative da parte dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli. 

Nel corso degli anni, l’entrata in vigore della plastic tax –originariamente prevista per il mese di luglio 2020- ha subito diverse proroghe e, in ultimo, la Legge di bilancio 2023 ha disposto l’ulteriore rinvio al 1 gennaio 2024.  

L’imposta ha una duplice finalità che consiste, da un lato, nel recuperare gettito erariale e dall’altro lato, nel promuovere la riduzione della produzione e del consumo di plastica non riciclabile, nonché del conseguente impatto ambientale.  

Infatti, prima ancora di individuare i prodotti e i soggetti ai quali risulta applicabile l’imposta, giova sottolineare che l’introduzione di costi aggiuntivi sui beni contenenti materiale plastico non possa non avere impatto anche sul consumatore e, pertanto, sul prezzo finale del prodotto. 

Sebbene il meccanismo della tassazione che colpisce la produzione abbia la finalità di incentivare un cambiamento dei materiali utilizzati ad es. nel packaging o in generale negli imballaggi, d’altra parte questo non basta, poiché risulta necessario introdurre anche misure volte ad indirizzare i processi di produzione verso materiali riciclabili. 

Ad ogni modo, con l’introduzione del tributo viene data attuazione alla Direttiva europea del 5 giugno 2019 n. 2019/904/UE che sancisce il divieto di utilizzo di manufatti in plastica (come ad es. posate, piatti, cannucce etc.) e, al contempo, obbliga gli Stati membri ad adottare misure finalizzate a ridurre il consumo di alcuni prodotti in plastica monouso per i quali non esiste alternativa, nonché a monitorare il consumo di tali prodotti e le misure adottate.   

Fatta questa doverosa premessa, occorre chiarire quali siano i prodotti a cui può essere applicata l’imposta di nuova formulazione.  

Al fine di delimitare l’ambito di applicazione della Plastic tax, l’art. 1, comma 634 della Legge di bilancio 2020, innanzi tutto, individua e racchiude i prodotti per i quali è previsto il pagamento dell’imposta nell’acronimo “MACSI”.Avv. Claudia Piroddu, Penalista

In particolare, si parla di manufatti con singolo impiego che hanno o sono destinati ad avere funzione di contenimento, protezione, manipolazione o consegna di merci o prodotti alimentari, purché gli stessi: 

  1. siano realizzati, anche in forma di fogli, pellicole o strisce, con l’impiego, anche parziale, di materie plastiche costituite da polimeri organici di origine sintetica;
  2. non siano ideati, progettati o immessi sul mercato per compiere più trasferimenti durante il loro ciclo di vita o per essere riutilizzati per lo stesso scopo per il quale sono stati ideati.

Rientrano nella nozione in esame anche i dispositivi realizzati, anche solo in parte, con materie plastiche che consentono la chiusura, la commercializzazione o la presentazione dei medesimi MACSI o di manufatti costituiti con materie diverse dalla plastica, nonché i prodotti semilavorati e le cd. preforme, ovvero i prodotti ottenuti dallo stampaggio di PET destinati ad essere utilizzati come contenitori di bevande o bottiglie. 

Sono esclusi dall’applicazione dell’imposta i MACSI compostabili, i dispositivi medici e i MACSI adibiti a contenere e proteggere preparati medicinali. 

Non si può far a meno di notare che si tratti di una definizione in grado di ricomprendere nell’ambito della tassazione un’ampia tipologia di beni, ossia tanto quelli realizzati con un vero e proprio impiego di materie plastiche, quanto quelli realizzati dalla commistione di materiale plastico e materiale di altra natura, come tale non imponibile. 

Pertanto, stante l’oggettiva difficoltà di fornire una nozione univoca, al fine di individuare con certezza i prodotti destinatari dell’imposta, nell’art. 1, co. 651, della disposizione sopra richiamata, viene stabilito che sia l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli a dover procedere alla concreta identificazione dei MACSI mediante l’indicazione per ciascuna merce dei corrispondenti codici della nomenclatura combinata. 

L’imposta e le sanzioni

La Plastic tax è fissata al valore di 0,45 euro per ogni chilogrammo venduto di prodotti di plastica monouso o MACSI, tuttavia, è prevista, altresì, una soglia di esenzione dell’imposta, che, pertanto, non sarà applicabile qualora l’importo dovuto sia inferiore o pari a 25 euro, e ciò è frutto di un parziale correttivo alla normativa originaria in cui veniva indicata una soglia inferiore. 

L’obbligazione tributaria sorge al momento della produzione, dell’importazione definitiva nel territorio nazionale, ovvero dell’introduzione dei predetti beni nel medesimo territorio da altri Paesi UE e diviene esigibile all’atto di immissione in consumo dei MACSI nel territorio italiano. 

È bene precisare che l’immissione in consumo dei MACSI si verifica all’atto della loro cessione, sia con riferimento alle merci prodotte in Italia e sia a quelle provenienti da Paesi europei o Stati terzi e ciò tanto nel caso in cui l’acquisto sia effettuato nell’esercizio di attività economica, quanto da parte del consumatore privato.  

Il pagamento dell’imposta è previsto a carico del fabbricante (per i MACSI realizzati nel territorio nazionale), dell’acquirente nell’esercizio di attività economica o del cedente qualora i prodotti siano acquistati dal consumatore privato (per i MACSI provenienti da Paesi UE), dell’importatore (per i MACSI provenienti da Paesi terzi), nonché dei committenti italiani o esteri che cedono i prodotti ad altri soggetti nazionali.Avv. Claudia Piroddu, Penalista

L’accertamento dell’imposta dovuta viene effettuato sulla base di dichiarazioni trimestrali contenenti tutti gli elementi necessari per determinare il debito d’imposta, presentate dai soggetti obbligati all’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, entro la fine del mese successivo al trimestre cui la dichiarazione di riferisce.      

È, dunque, la stessa Agenzia delle Dogane e dei Monopoli ad essere tenuta a svolgere attività di accertamento, verifica e controllo dell’imposta, con facoltà di accedere presso di impianti di produzione, nonché la Guardia di Finanza, alla quale è demandato il consueto compito di verificare la regolarità delle dichiarazioni e dei pagamenti effettuati. 

Quanto alle sanzioni applicabili, la norma distingue alcune ipotesi, ovvero: 

  1. in caso di mancato pagamento è prevista una sanzione amministrativa pari al quintuplo della tassa evasa e in misura comunque non inferiore a 250 euro;
  2. in caso di ritardato pagamento è prevista una sanzione amministrativa corrispondente al 25% dell’imposta dovuta, per un importo non inferiore a 150 euro;
  3. in caso di tardiva presentazione della dichiarazione trimestrale è prevista una sanzione da 250 a 2.500 euro.

Da ultimo, giova precisare che la norma introduce anche un sistema di incentivi per le imprese. 

Nella specie, è previsto un credito di imposta per le imprese, attive nel settore delle materie plastiche, che abbiano proceduto all’adeguamento tecnologico della produzione di manufatti biodegradabili e compostabili, secondo gli standard prefissati. 

Si tratta di un credito di imposta, utilizzabile in compensazione, previsto nella misura del 10% delle spese sostenute per l’adeguamento, fino ad un importo massimo di 20 mila euro per ciascun beneficiario, che dovrà essere indicato nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo di imposta nel corso del quale interviene il provvedimento di concessione e in quelle relative ai periodi di imposta successivi fino a quando se ne conclude l’utilizzo.

Avv. Claudia Piroddu

 

Reddito di libertà: una misura a sostegno delle donne vittime di violenza

La Convenzione di Istanbul (maggio 2011), all’interno della definizione di violenza domestica, insieme alle più conosciute forme di violenza fisica, sessuale e psicologica, inserisce la violenza economica.  

L’indipendenza economica, infatti, è un aspetto rilevante, anche se spesso poco evidenziato, delle situazioni di subalternità in ambito relazionale e domestico. 

Nel contesto socio culturale italiano e non solo, le donne molto spesso hanno difficoltà ad individuare la violenza economica come un abuso perché culturalmente è considerato normale che una donna non lavori.Claudio Casti, Operatore Patronato Inac Cagliari

La marcata differenza nella gestione del denaro all’interno del nucleo familiare spesso va di pari passo con la separazione dei ruoli all’interno dello stesso. Questa separazione a sua volta alimenta un circolo vizioso che rafforza la posizione di subalternità: dalle statistiche redatte grazie ai dati raccolti nei Centri antiviolenza, una donna su tre subisce violenza economica (dati aggiornati al 2021), ma i numeri reali potrebbero essere ben più alti.  

Il fenomeno non è ben conosciuto e le donne spesso si rivolgono a un centro antiviolenza solo quando la forma di violenza che subiscono si fa più eclatante.  

Lo sportello Mia Economia di Fondazione Pangea ha stilato un identikit delle vittime di violenza economica. Gli abusi si verificano a tutti i livelli socio-economici, sono vissuti da donne di ogni classe e livello di reddito e riguardano principalmente la fascia d’età tra i 40 e i 60 anni. 

Lo stato emergenziale del 2020 e il conseguente periodo di lockdown hanno portato maggiormente all’attenzione pubblica i casi limite di violenza di genere all’interno del contesto familiare, mettendo anche in luce situazioni di prevaricazione psicologica ed economica. 

Le motivazioni che possono spingere a non abbandonare il nucleo familiare e a sopportare i soprusi di un compagno violento sono spesso riconducibili al fatto che lo stesso è l’unico percettore di reddito della famiglia.Claudio Casti, Operatore Patronato Inac Cagliari

In questo contesto trova finalmente applicazione il D.P.C.M. del 17 dicembre 2020, ex art. 105 – bis del decreto Rilancio 34/2020, che introduce il cosiddetto Reddito di Libertà (Rdl) per le donne vittime di violenza, per cui viene stanziato un fondo di 9 milioni di euro. Ulteriori somme integrative possono essere stanziate dalle singole Regioni/Province autonome ad integrazione di quanto spettante, come indicato dal messaggio INPS 1053 del 7 marzo 2022. 

Partendo dal presupposto che un primo passo verso l’uscita dalla posizione di subalternità parte dal raggiungimento dell’indipendenza economica, il Reddito di Libertà è volto proprio ad agevolare un percorso di emancipazione delle donne vittime di violenza e in condizione di povertà nonché il sostegno per l’istruzione e la formazione dei figli minori, e opera parallelamente al percorso di emancipazione e autonomia intrapreso presso il Centro antiviolenza.  

Emerge dalle statistiche dei Centri antiviolenza che una donna su tre che vi si presenta, lo fa con i figli, fatto non marginale che evidenzia l’importanza del supporto offerto dalla misura Rdl.  

Il contributo economico viene erogato dalle Regioni per tramite dei Comuni, su domanda presso l’Ufficio dei Servizi Sociali e consiste in 400 euro mensili non imponibili, spettanti per un massimo di 12 mensilità.Claudio Casti, Operatore Patronato Inac Cagliari

Il contributo non è incompatibile con altre prestazioni a sostegno del reddito erogate dall’INPS o eventuale pensione di invalidità, e spetta alle donne cittadine italiane, cittadine della Comunità Europea, o extracomunitarie munite di regolare permesso di soggiorno. Rientrano inoltre tra le beneficiarie le cittadine straniere con status di rifugiate politiche o protezione sussidiaria. 

Alla domanda andrà allegata la dichiarazione del responsabile legale del Centro antiviolenza che ha preso in carico la vittima di violenza, e la dichiarazione dello stato di bisogno straordinario ed urgente, firmata dal responsabile del Servizio Sociale di riferimento. 

Claudio Casti, Operatore Patronato Inac Cagliari

Sono nato a Cagliari nel 1981, dopo gli studi in biologia, dal 2008 ho lavorato al Caf – Cia e al Patronato Inac nelle sedi di Cagliari, San Sperate e Sestu.
Dal 2014 sono operatore nella sede provinciale del Patronato Inac di Cagliari.
 

 

 

Focus di diritto civile  • Avv. Francesco Sanna

Matrimonio forzato e violenza di genere

La Corte di Cassazione ha stabilito, con l’ordinanza del 20 aprile 2022 n. 12647, che la violenza fisica e psichica esercitate contro una donna per costringerla a convolare a nozze configura una vera e propria fattispecie di violenza di genere. 

In generale, la violenza in parola rientra tra quelle oggetto di riconoscimento di protezione internazionale e così il matrimonio imposto con la coercizione fisica e psichica consumate nei confronti di una donna, costituisce violenza di genere. 

Secondo la giurisprudenza del Supremo Collegio – in ossequio a quanto sancito dalla Convenzione di Istanbul – l’obbligo a contrarre matrimonio non si può considerare come fatto di natura privata ma rientra nell’ambito della violenza di genere e qu8ndi meritevole di piena tutela.Avv. Francesco Sanna, Diritto Civile

Ciò vale anche se la donna in questione è sottoposta a codici di comportamento, come il Codice del Kanun, applicato nelle aree rurali del nord dell’Albania, dove la posizione della donna – ancora oggi purtroppo – è di completa sottomissione all’uomo. 

I fatti oggetto di causa 

Una donna albanese, fuggita dall’Albania perché i familiari le volevano imporre il matrimonio con un uomo vent’anni più grande di lei, aveva chiesto il riconoscimento della protezione internazionale e, in particolare, dello status di rifugiata e, in via subordinata, il riconoscimento della protezione sussidiaria e, in via di ulteriore subordine, il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari. 

La competente commissione territoriale aveva respinto l’istanza e la donna decise di presentare contro questo provvedimento ricorso davanti al Tribunale. 

In precedenza aveva cercato di opporsi scappando di casa senza successo ed era stata sottoposta a violenze fisiche e psicologiche, oltrechè a minacce da parte del padre che deteneva illegalmente armi da fuoco. 

La povera ragazza, come ultimo disperato tentativo di sottrarsi al matrimonio forzato, si era rifugiata in un convento di suore che l’avevano aiutata a fuggire in Italia il giorno prima della data fissata per le nozze. 

Il Tribunale, pur considerando credendo alla versione dei fatti resi dalla donna, suffragati della documentazione prodotta, rigettavano il ricorso. 

La decisione del Tribunale 

Secondo i giudici di merito, il Paese di origine della ragazza aveva garantito idonee forme di protezione e il matrimonio imposto non poteva considerarsi alla stessa stregua di una forma di persecuzione, presupposto necessario ai fini del riconoscimento dello status di rifugiata. 

Ancora, secondo il Tribunale, la protezione sussidiaria poteva essere concessa se si fosse dimostrato che la giovane era sottoposta alla disciplina del Codice del Kanun. 

Questo codice impone alla donna una posizione di sottomissione rispetto all’uomo, al punto di essere definita come “niente altro che un otre da riempire”.Avv. Francesco Sanna, Diritto Civile

La soggezione al codice sopra menzionato avrebbe integrato un danno grave che la legge avrebbe potuto e dovuto punire, ma secondo i giudici, nel caso specifico, la ragazza avrebbe potuto ignorare il Codice del Kanun. 

Ragion per cui il Tribunale aveva rigettato le richieste della giovane donna. 

L’ordinanza della Corte di Cassazione 

Di converso la Suprema Corte di Cassazione ha considerato fondato il ricorso della ragazza ritenendo il decreto impugnato affetto da inemendabili errori di diritto. 

La Corte ha censurato, per quanto qui di interesse, il decreto impugnato laddove definisce il racconto della richiedente asilo come una semplice vicenda endofamiliare di natura privatistica. 

Sul punto, la giurisprudenza di legittimità (Cass. 12333/2017; Cass. 16172/2021), in casi simili, ha affermato che il matrimonio coartato e la reiterata violenza fisica e psichica integrano una violenza di genere.Avv. Francesco Sanna, Diritto Civile

I Supremi Giudici hanno ricordato come il matrimonio imposto al quale si sommano atti di violenza fisica e psichica, costituisca un motivo di riconoscimento della protezione internazionale. Difatti. il matrimonio imposto e la violenza fisica e psichica consumata ai danni di una donna integrano una violenza di genere e, come tali, rientrano tra le ipotesi di riconoscimento della protezione internazionale (Cass. 15466/2014, Cass. 25873/2013, Cass. 25463/2016, Cass. 28152/2017). 

Sempre secondo i Giudici della Cassazione, il Tribunale avrebbe ignorato le norme contenute nella Convenzione di Istanbul del 2011 (ratificata dall’Italia con legge 77/2013) sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. 

I giudici di merito, escludendo il riconoscimento della protezione internazionale, hanno sbagliato a considerare decisivo il provvedimento temporaneo assunto dallo Stato di origine della donna, senza valutare il prosieguo della vicenda, vale a dire, la fuga in convento e la partenza per l’Italia il giorno precedente alle nozze.Avv. Francesco Sanna, Diritto Civile

Hanno sbagliato ad escludere la ricorrente dai soggetti meritevoli di tutela pur ammettendo che era stata privata della libertà di autodeterminarsi, come scegliere se e chi sposare. 

Alla luce di quanto sopra motivato, la Cassazione ha accolto il ricorso e ha cassato la decisione con rinvio dopo avere considerato le fonti relative alla condizione delle donne in Albania, in particolare, il rapporto annuale 2017/2018 di Amnesty International sull’inadeguatezza delle misure di protezione delle donne dalla violenza domestica. 

In virtù ed in ossequio alla decisione del Supremo Collegio, il giudice del rinvio dovrà riesaminare i fatti e dare applicazione ai principi di diritto sopra sanciti, al fine di stabilire: 

“se, in caso di rientro nel Paese di origine, esista la certezza, la probabilità, o anche l’unico rischio, per la richiedente asilo, di subire nuovamente atti di violenza di genere, per aver opposto, nell’esercizio della sua fondamentale libertà di autodeterminazione, un rifiuto ad un matrimonio combinato, subendo, di conseguenza, atti di violenza fisica e psichica.”

 

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

La violenza economica può integrare il reato di maltrattamenti?

Prima di esaminare i principali orientamenti giurisprudenziali in tema di maltrattamenti contro i familiari e conviventi, occorre premettere che la violenza domestica e di genere si manifesta attraverso molteplici modalità e, pertanto, non può essere circoscritta esclusivamente alle condotte di violenza fisica, ma vi rientrano anche quei comportamenti finalizzati ad esercitare un controllo sulla vittima, tanto sul piano psicologico, quanto sotto il profilo economico, attraverso la privazione dei mezzi di sussistenza. 

In particolare, la Convenzione di Istanbul, ratificata con la L. 27 giugno 2013, n. 77, all’art. 3, sancisce il diritto delle donne a vivere libere da qualsiasi forma di violenza e prevaricazione. 

Sebbene nel codice penale italiano non compaia una vera e propria definizione di “violenza domestica”, la stessa, in linea con quanto stabilito dalla Convenzione poc’anzi menzionata, deve essere intesa come l’insieme dei comportamenti vessatori volti a ledere la dignità della persona, limitandone la sfera di autodeterminazione, fino a ridurla ad essere un mero strumento di soddisfacimento dei bisogni del soggetto maltrattante.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

A tale riguardo, giova precisare che il reato di maltrattamenti previsto nell’art. 572 c.p. –applicabile sia ai membri del nucleo familiare che alle “famiglie di fatto”, nonché ogni qual volta i soggetti siano legati da rapporti di reciproca assistenza e protezione, ivi compresi i luoghi di lavoro (si veda, Cass. pen., sent. n. 51591/2016)- si caratterizza, sotto il profilo materiale, nel compimento di una serie di atti di violenza fisica e psicologica, reiterati nel tempo. 

Invero, trattandosi di un reato necessariamente abituale, le condotte devono inserirsi in un contesto unitario, suscettibile di imporre alla vittima un contesto di vita opprimente ed insostenibile. 

Con riferimento all’elemento psicologico, è richiesto il dolo, che consiste nella volontà dell’autore delle condotte di sottomettere la persona offesa, negandole la libertà e la dignità. 

Attraverso la norma in esame, quindi, il Legislatore ha voluto introdurre uno strumento di tutela della dignità personale dei componenti della famiglia e della tollerabilità della convivenza tra gli stessi. 

I comportamenti ascrivibili al delitto di maltrattamenti possono consistere in percosse, lesioni, offese, minacce, umiliazioni, sofferenze morali e violazioni della sfera sessuale della vittima, così da ingenerare una sopraffazione sistematica e da rendere la convivenza particolarmente dolorosa e degradante. 

Ebbene, la violenza economica subita dal coniuge o dal convivente, all’evidenza, ben può costituire una delle modalità attraverso le quali si esplica il reato di maltrattamenti previsto nel citato art. 572 c.p., essendo una condotta astrattamente idonea ad integrare gli elementi costitutivi del delitto de quo.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Sul punto, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18937 del 10 gennaio 2016, ha, tuttavia, ribadito che la privazione delle disponibilità economiche, consistente, ad esempio, nell’impedire alla persona offesa l’uso del bancomat o del conto corrente, nonché nell’impedire alla stessa di essere economicamente indipendente dal soggetto maltrattante o nel concederle, sempre sotto costante controllo, limitate somme di denaro da destinare solamente all’acquisto di beni di prima necessità, è soltanto una delle numerose modalità di maltrattamento previste dalla norma incriminatrice. 

In altri termini, affinché la cd. violenza economica sia idonea ad integrare il reato di maltrattamenti è necessario che la medesima si configuri come condotta vessatoria e che, quindi, sia inserita all’interno di una cornice abituale di violenza fisica e/o psicologica. 

Nella specie, giova sottolineare, infatti, che le decisioni aventi ad oggetto la gestione delle spese inerenti il ménage familiare, anche nell’ipotesi in cui non siano pienamente condivise da entrambi i coniugi, non possono di per sé integrare il reato di maltrattamenti, a meno che non costituiscano il frutto di comprovati atti di violenza fisica o di prevaricazione psicologica, suscettibili di provocare un vero e proprio stato di prostrazione psico-fisica della vittima (si veda, Cass. pen., sent. n. 43960/2015). 

In conclusione, le condotte di privazione delle disponibilità economiche, anche quelle perpetrate in un contesto sociale agiato,  per poter integrare in reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. devono essere inserite in una condotta criminosa più ampia, tali cioè da configurare condotte abituali che ledono la dignità personale di chi le subisce e da rendere scarsamente tollerabile la prosecuzione della convivenza.   

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Focus di diritto civile • Avv. Viola Zuddas

La violenza di genere ed i maltrattamenti economici

La violenza contro le donne rappresenta una violazione dei diritti umani che ha varie e preoccupanti sfaccettature poiché colpisce tantissimi e diversi aspetti della vita di chi la subisce. 

Come abbiamo avuto modo di analizzare nei precedenti articoli e focus sul tema, ci sono diverse forme di violenza: accanto a quella fisica, che si distingue per l’impiego di forza volta a sopraffare fisicamente una persona attraverso anche botte e percosse, c’è la violenza psicologica che si caratterizza per comportamenti o atteggiamenti idonei ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di un danno ingiusto, consistenti in minacce, insulti, umiliazioni, atti denigratori di vario tipo, ecc. 

Ad ogni forma di violenza ovviamente sono collegati effetti differenti che incidono -a breve o a lungo termine- su diversi aspetti della vita della persona, come ad esempio sulla salute fisica, mentale e altresì su quella sessuale. 

La violenza, peraltro, può avere pure risvolti negativi sulla sfera economica perché, come già anticipato, ha diverse sfaccettature e può nascondersi anche dietro azioni dal carattere puramente omissivo che non si ripercuotono sull’integrità psico – fisica della vittima ma, appunto, su aspetti patrimoniali. 

Questo discorso è tanto più vero quanto è più marcato il divario economico tra i due compagni o tra i due coniugi e, a maggior ragione, nell’ipotesi in cui vi sia una vera e propria dipendenza economica da parte di uno nei confronti dell’altro. 

Difatti, generalmente le vittime di questo tipo di violenza non hanno fonti di guadagno proprie e per poter far fronte alle spese quotidiane sono costrette a chiedere somme di denaro al compagno / coniuge che le elargisce non senza rimostranze o, nei casi con maggiore conflittualità, oppone addirittura un netto rifiuto. 

In un simile contesto, dunque, può accadere che il compagno/coniuge economicamente più forte impedisca all’altro di raggiungere la propria indipendenza, magari semplicemente scoraggiando delle scelte di vita, di lavoro o di studio che potrebbero portare un certo grado di soddisfazione anche economica.Avv. Viola Zuddas, Diritto Civile

Questo può avvenire attraverso una serie di condotte, spesso molto differenti tra loro e quindi difficilmente riconoscibili a prima vista, che però mirano ad impedire all’altro la partecipazione alla gestione delle finanze familiari e, come detto, a privarlo di adeguate risorse economiche. 

Tra queste le più diffuse, e quindi note, sono: 

  • non fornire alcuna informazione sul conto corrente e negarvi l’accesso,
  • controllo ossessivo delle spese sostenute dall’altro, magari anche dietro presentazione di scontrini e fatture per verificarne gli importi,
  • nessuna elargizione di denaro contante se non nella misura strettamente necessaria per far fronte a delle spese irrinunciabili per la gestione della casa e, comunque, già preventivate e concordate,
  • non fornire alcuna indicazione circa la situazione economico – patrimoniale propria né del nucleo familiare, in maniera tale da tenere all’oscuro l’altro su tutte le questioni economiche concernenti il ménage familiare,
  • ritardo nella corresponsione del denaro per far fronte alle spese necessarie, ecc. 

Queste sono solo alcune delle condotte che vengono poste in essere e che, assieme ad altri fattori tipici, concorrono ad integrare i cosiddetti “maltrattamenti economici”. 

Come già detto, si tratta di una forma di violenza che viene esercitata contro una persona dipendente economicamente che spesso è la propria compagna o la propria moglie: pertanto, queste condotte rientrano a pieno titolo nella violenza di genere. 

Sul punto è importante ricordare che si parla di “violenza di genere” per descrivere tutte quelle forme di violenza che riguardano le persone discriminate in base al sesso e che, in un modo o in un altro, riflettono la disparità di potere e di condizione su cui si fonda il rapporto tra uomo e donna, ed in cui quest’ultima è in posizione subordinata al primo.Avv. Viola Zuddas, Diritto Civile

Si parla, in sostanza, di struttura o sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale. 

Ci sono, ovviamente, casi in cui le violenze sono esercitate anche contro gli uomini – e , si badi bene, sono altrettanto esecrabili – però costituiscono una percentuale talmente irrisoria che il fenomeno non è valutato come una fattispecie a sé, tipica e riconoscibile come, al contrario, avviene nei casi di violenza contro le donne o, più nello specifico, di femminicidio. 

Al riguardo, deve precisarsi che l’aumento dei casi di violenza di genere ha spinto il Legislatore nazionale ad agire sotto un duplice profilo:  

  • da una parte ha inteso reprimere più duramente alcuni delitti: pensiamo, ad esempio, alla Legge sul femminicidio ed al cosiddetto Codice Rosso che prevedono un inasprimento della pena comminata per alcuni delitti come il reato di minaccia, di violenza sessuale e di stalking, 
  • dall’altra, invece, si è concentrato per riconoscere maggiore tutela per le vittime: pensiamo, ad esempio, all’istituzione dei fondi a sostegno delle donne vittime di violenza e degli orfani di crimini domestici non autosufficienti economicamente. 

Tuttavia, in tema di maltrattamenti economici il Legislatore italiano (disattendendo i principi UE sanciti con la Convenzione di Istanbul) non ha ancora adottato delle misure specifiche che consentano alla donna che ne è vittima di ottenere in tempi rapidi una tutela efficace, giacché disposizioni come quelle previste in tema di maltrattamenti in famiglia richiedono, comunque, che vengano posti in essere anche atti di violenza fisica o di prevaricazione psicologica. 

Non sempre, però, ciò accade perché i maltrattamenti economici sono espressione subdola della violenza di genere e, tendenzialmente, sono connotati da attività di carattere omissivo che, comunque, non incidono sull’integrità fisica della vittima. 

In sostanza, dunque, la “sola” violenza economica non è sufficiente per la configurazione di alcuna fattispecie delittuosa e, conseguentemente, per far ottenere tutela alla donna. 

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Il Fondo sociale Europeo Plus a tutela delle donne

Come rilevato dalla recente Proposta di direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’8 marzo 2022 sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza di genere “Per violenza contro le donne si intende una violenza di genere perpetrata nei confronti di una donna in quanto tale o che colpisce per antonomasia le donne”.

Per violenza, dunque, si intendono tutti gli atti di violenza di genere che provocano o potrebbero provocare danni o qualunque espressione di sofferenze fisiche, sessuali, psicologiche ed anche economiche perpetrate a danno delle donne, ivi compresa la mera minaccia di metterle in pratica Questo tipo di violenza affonda le sue radici nella disparità di genere che, solo a partire dagli anni 90, è stata considerata una forma di discriminazione nei confronti delle donne e una violazione dei diritti umani. Oggi, la violenza di genere nei confronti delle donne è al centro del dibattito politico e oggetto di tutela multilivello, tanto nazionale quanto europeo ed internazionale. 

In questo contesto, come anche evidenziato nel Focus dell’esperto del mese, “la Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa per la prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul)”, adottata nel 2011 ed entrata in vigore nel 2014, rappresenta il principale strumento giuridico vincolante in vigore per la protezione delle donne vittime di violenza, per la prevenzione delle forme di violenza di genere e violenza domestica.  

Sebbene a livello Europeo nessuno strumento giuridico si occupa in modo specifico della violenza contro le donne e della violenza domestica, ve ne sono alcuni particolarmente rilevanti che stabiliscono norme generali applicabili anche a questa categoria di vittime di violenza la cui espressione può assumere varie forme. A titolo esemplificativo si può menzionare: la direttiva 2012/29/UE “direttiva sui diritti delle vittime”; le direttiva 2011/99/UE (“direttiva sull’ordine di protezione europeo”) e il regolamento (UE) n. 606/2013 (“regolamento sul riconoscimento reciproco”),che consentono il riconoscimento transfrontaliero degli ordini di protezione emessi a norma del diritto nazionale; la direttiva 2004/80/CE del Consiglio (“direttiva sull’indennizzo”) che consente alle vittime di reati intenzionali violenti di chiedere un risarcimento da parte dello Stato; le “direttive sulla parità di genere” che stabiliscono che le molestie sessuali e a sfondo sessuale sul lavoro sono contrarie al principio della parità di trattamento tra uomini e donne. 

Le disposizioni vigenti a livello dell’Unione e nazionale si sono rivelate del tutto insufficienti ed inefficaci a combattere e prevenire efficacemente la violenza contro le donne e la violenza domestica. Quest’ultima, in particolare, è un grave problema sociale che, con difficoltà, emerge dal contesto delle mura domestiche ove può manifestarsi in svariate forme tra le quali, come anticipato, oltre che di carattere fisico, sessuale, e psicologico, può declinarsi nelle forme della violenza di tipo economico. Detta condotta, può manifestarsi con comportamenti diretti a limitare o negare l’accesso alle risorse economiche e familiari, o controllare l’utilizzo del denaro, o ancora impedire di avere un lavoro e un’entrata finanziaria personale, al fine di esercitare sulla vittima un controllo indiretto e renderla incapace di esercitare la propria indipendenza e individualità. 

Al fine di garantire una maggior tutela, l’Unione Europea non solo mira fornire un quadro giuridico generale in grado di combattere efficacemente la violenza contro le donne e la violenza domestica in tutta l’Unione introducendo misure riguardanti la definizione dei reati e delle pene irrogabili, la protezione delle vittime e l’accesso alla giustizia, la prevenzione, il coordinamento e la cooperazione, ma mira a fornire diretta assistenza alle vittime mediante strumenti di assistenza economica e finanziaria che possano aiutarle a raggiungere una dimensione di indipendenza economica. 

Il Fondo Sociale Europeo Plus

Tra gli strumenti di più recente attuazione che tiene conto delle esigenze specifiche delle donne non possiamo non richiamare il Fondo sociale europeo Plus. Si tratta di un programma di finanziamento che intende aiutare gli Stati membri non solo ad affrontare l’emergenza causata dalla pandemia di coronavirus, ma soprattutto a ottenere elevati livelli di occupazione e una protezione sociale equa.  

Il fondo mira a prestare particolare tutela alle donne attraverso il finanziamento di progetti nelle regioni dell’UE per offrire loro nuove opportunità attraverso l’accesso a finanziamenti, l’assistenza personalizzata o la consulenza per aiutarle ad avviare un’impresa.  

Il 25 agosto la Commissione ha approvato il nuovo il Programma Regionale del Fondo Sociale Europeo Plus per il periodo di programmazione comunitaria 2021-2027 seguito, a livello regionale, dall’approvazione del “PR FSE+ Sardegna” che ha consentito alla Regione Sardegna di ottenere una dote finanziaria notevole, di 744 milioni di euro. Si tratta di uno strumento fondamentale per raggiungere in Sardegna migliori condizioni in termini di occupazione, istruzione, formazione e politiche sociali che consentirà di migliorare la condizione occupazionale di migliaia di disoccupati sardi, e soprattutto di giovani e donne, attraverso il potenziamento dell’offerta formativa e dei servizi sociali per le fasce più fragili e vulnerabili.

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Domotica e sicurezza nelle abitazioni 

La domotica è la disciplina che ha come fine quello di controllare, gestire e automatizzare tutti gli aspetti di una abitazione attraverso l’uso della tecnologia. 

Lo smartphone, il tablet e gli assistenti vocali diventano i mezzi e l’estensione di un controllo costante sempre a portata di mano. 

La sicurezza tramite video sorveglianza è un settore di grande rilevanza della domotica odierna che, grazie alla presenza di numerosi dispositivi sul mercato, permette di controllare e interagire con la propria abitazione grazie ad internet, 24 ore al giorno, ovunque ci si trovi nel mondo. 

Le telecamere disponibili all’acquisto hanno qualità visive ad altissima definizione e funzionano egregiamente tramite wireless. Filippo Camboni, Ingegnere

In esterno le telecamere lavorano in sinergia con sensori ad infrarosso per la visione notturna: potenti luci led si accendono quando i sensori di movimento rilevano qualcuno o qualcosa, registrando un evento in sviluppo davanti all’abitazione. 

All’interno hanno sistemi ad infrarosso migliorati e la capacità di seguire gli spostamenti e “vedere” cosa succede ad ampio raggio. 

Il video in sé può contenere svariate informazioni personali e/o riguardanti terze persone, chiamati “metadati”: ad esempio i volti sono identificati non solo passivamente ma, anche, con il riconoscimento dell’identità della persona; le targhe automobilistiche sono lette e non solo video-registrate; la traccia audio con informazioni sensibili è aggiunta al video grazie ai microfoni integrati nei dispositivi; infine, compaiono gli orari di un dato avvenimento.Filippo Camboni, Ingegnere

Ma cosa accade se nel monitorare un’area privata si registrano anche immagini riguardanti ambienti comuni aperti al pubblico?

È sicuramente interessante analizzare il caso in cui il monitoraggio di un’area privata comporti l’acquisizione di video e/o immagini di parti comuni di passaggio di uno stabile, come nel caso di un posto auto privato in un cortile comune, aperto al pubblico, dove può transitare chiunque. 

Anzitutto, deve chiarirsi che, nel caso in cui venga rilevato il passaggio di una persona viene immediatamente trasmessa una notifica all’utente che può effettuare un controllo istantaneo accedendo alle immagini ed ai video acquisiti: questi possono essere salvati sia in locale sul proprio smartphone, sia sul cloud. 

Il cloud è uno spazio apposito, digitale, gestito dalle grandi compagnie informatiche dove vengono immagazzinati tutti i dati e le informazioni che, quindi, sono conservati ed utilizzabili dall’utente in qualunque momento.Filippo Camboni, Ingegnere

Il tempo di archiviazione e la disponibilità di spazio sono pressoché infiniti finché si acquista spazio sul cloud 

Tuttavia, la gestione del materiale digitale è definita da chi effettua la registrazione e dalle normative in vigore, che verranno trattate negli articoli degli avvocati di ForJus. 

In parallelo, anche le misure di sicurezza digitale si sono evolute con il crescere della tecnologia dei dispositivi. 

I produttori delle telecamere forniscono all’utente un dominio dedicato, il cui accesso alla visione “live” e delle registrazioni è reso possibile tramite delle credenziali personali. 

Devono essere scelti dall’utente un “nome” e una “password”, preferibilmente robusti, ovvero complicati, e non banali. 

Inoltre, si aggiunge la verifica in due passaggi, cioè un ulteriore livello di sicurezza che prevede che, nonostante l’inserimento dei dati di autenticazione sia corretto, venga inviato un codice univoco al numero di cellulare per confermare l’accesso e completare la procedura.Filippo Camboni, Ingegnere

Altresì, le grandi aziende informatiche propongono delle sicurezze ulteriori, da sommarsi a quelle dei produttori dei dispositivi, con dei servizi “Secure Video” il cui utilizzo permette una crittografia end-to-end, in cui i dati ai due estremi server-utente sono criptati e, dunque, non si può accedere come intermediari malevoli intercettandone i contenuti. 

Oltre a quanto già detto, è sempre raccomandato scegliere anche le password del sistema wi-fi solide ed effettuare sempre gli aggiornamenti dei sistemi in modo da chiudere falle informatiche per rendere più difficile possibile attingere ai dati personali. 

Filippo Camboni, Ingegnere meccanico

Ho conseguito la laurea in Ingegneria Meccanica con una prova finale sullo studio e validità di nuove applicazioni biomediche sulle protesi d’anca. 
In seguito con una votazione di 110/110 e Lode ho concluso la Laurea Magistrale in ingegneria Meccanica con particolare riferimento alla parte Gestionale e alla Progettazione meccanica.  

In collaborazione con Sardegna Ricerche ho portato avanti un progetto di sviluppo sulla valorizzazione di prodotti tipici sardi, realizzando dei dispositivi robotici per la raccolta e mondatura automatizzata dello zafferano. 
Inoltre ho aiutato per diversi anni nella didattica universitaria collaborando nel corso di Meccanica applicata alle Macchine svolgendo lezioni e assistenza.
In aggiunta, seguendo la passione per lo sport, che ho praticato da sempre provando varie discipline, ho ottenuto la certificazione di istruttore fitness riconosciuta dal CONI.

Dopo aver maturato varie esperienze nel settore dell’informatica ho scelto di approfondire il settore delle nuove tecnologie, con particolare attenzione allo studio della domotica, specialmente
wireless, con dispostivi innovativi di facile installazione. 

Il proposito è quello di gestire e controllare il dispendio termico degli edifici, migliorare il consumo energetico e utilizzare recenti impianti sulla sicurezza delle abitazioni.

Da qui l’idea di creare Smart Haus, un riferimento chiaro sulle possibilità attuali della domotica wireless
Lo scopo è mostrare attraverso spiegazioni mirate e video illustrativi come funzionano i dispositivi domotici e i loro possibili utilizzi e automazioni. 

Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Francesco Sanna

Glossario sul GDPR

Il tema oggetto del focus di questo mese presenta vari punti di contatto con la disciplina riguardante il diritto alla privacy, nonché l’utilizzo, la conservazione e la sicurezza dei dati che vengono acquisiti per mezzo delle tecnologie oramai di utilizzo comune nei vari contesti sociali.
Ciò premesso, pare utile fornire un glossario sui termini utilizzati nel regolamento sulla protezione dei dati (GDPR) n. 2016/67, in materia di trattamento dei dati personali e di
privacy.

  • «dato personale»: qualsiasi informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile («interessato»). Si considera identificabile la persona fisica che può essere identificata, direttamente o indirettamente, con particolare riferimento ad un dato identificativo come il nome, un numero di identificazione, dati relativi all’ubicazione, un identificativo online o a uno o più elementi caratteristici della sua identità fisica, genetica, psichica, economica, culturale o sociale; 
  •  «trattamento»: qualsiasi operazione o insieme di operazioni, compiute con o senza l’ausilio di processi automatizzati e applicate a dati personali o insiemi di dati personali, come la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la strutturazione, la conservazione, l’adattamento o la modifica, l’estrazione, la consultazione, l’uso, la comunicazione mediante trasmissione, diffusione o qualsiasi altra forma di messa a disposizione, il raffronto o l’interconnessione, la limitazione, la cancellazione o la distruzione; 
  • «limitazione di trattamento»: il contrassegno dei dati personali conservati con l’obiettivo di limitarne il trattamento in futuro; 
  • «profilazione»: qualsiasi forma di trattamento automatizzato di dati personali consistente nell’utilizzo di tali dati utile per la valutazione di aspetti personali relativi a una persona fisica, in particolare per analizzare o prevedere aspetti riguardanti il rendimento professionale, la situazione economica, la salute, le preferenze personali, gli interessi, l’affidabilità, il comportamento, l’ubicazione o gli spostamenti di detta persona fisica; 
  • «pseudonimizzazione»: il trattamento dei dati personali in una forma che impedisca l’identificazione dell’utente, a condizione che le informazioni aggiuntive siano conservate separatamente e soggette a misure tecniche e organizzative intese a garantire che tali dati personali non siano attribuiti ad una persona fisica identificata o identificabile; – «archivio»: qualsiasi insieme strutturato di dati personali accessibili secondo criteri determinati, indipendentemente dal fatto che tale insieme sia centralizzato, decentralizzato o ripartito in modo funzionale o geografico; 
  • «titolare del trattamento»: la persona fisica o giuridica, l’autorità pubblica, il servizio o altro organismo che, singolarmente o insieme ad altri, determina le finalità e i mezzi del trattamento di dati personali; quando le finalità e i mezzi di tale trattamento sono determinati dal diritto dell’Unione o degli Stati membri, il titolare del trattamento o i criteri specifici applicabili alla sua designazione possono essere stabiliti dal diritto dell’Unione o degli Stati membri; 
  • «responsabile del trattamento»: la persona fisica o giuridica, l’autorità pubblica, il servizio o altro organismo che tratta dati personali per conto del titolare del trattamento; 
  • «autorizzati»: persone fisiche autorizzate a compiere operazioni di trattamento dal Titolare o dal Responsabile; 
  • «Interessato»: persona fisica cui si riferiscono i dati personali; 
  • «terzo»: la persona fisica o giuridica, l’autorità pubblica, il servizio o altro organismo che non sia l’interessato, il titolare del trattamento, il responsabile del trattamento e le persone autorizzate al trattamento dei dati personali che operano sotto l’autorità diretta del titolare o del responsabile; 
  • «consenso dell’interessato»: qualsiasi manifestazione di volontà libera, specifica, informata e inequivocabile dell’interessato, con la quale lo stesso manifesta il proprio assenso, mediante dichiarazione o azione positiva inequivocabile, che i dati personali che lo riguardano siano oggetto di trattamento; 
  • «violazione dei dati personali»: la violazione di sicurezza che comporta accidentalmente o in modo illecito la distruzione, la perdita, la modifica, la divulgazione non autorizzata o l’accesso ai dati personali trasmessi, conservati o comunque trattati; 
  • «dati genetici»: i dati personali relativi alle caratteristiche genetiche ereditarie o acquisite di una persona fisica che forniscono informazioni univoche sulla fisiologia o sulla salute di detta persona fisica e che risultano in particolare dall’analisi di un campione biologico della persona fisica in questione; 
  • «dati biometrici»: i dati personali ottenuti da un trattamento tecnico specifico relativi alle caratteristiche fisiche, fisiologiche o comportamentali di una persona fisica che ne consentono o confermano l’identificazione univoca, quali l’immagine facciale o i dati dattiloscopici; 
  • «dati relativi alla salute»: i dati personali attinenti alla salute fisica o mentale di una persona fisica, compresa la prestazione di servizi di assistenza sanitaria, che rivelano informazioni relative al suo stato di salute; 
  • «dati identificativi»: i dati personali che permettono l’identificazione diretta dell’interessato; 
  • «dati sensibili»: i dati personali idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale. I dati di salute non possono essere diffusi. I dati sensibili sono oggetto di comunicazione, anche verso soggetti pubblici, solo se prevista da disposizioni di legge o di regolamento; – «dato anonimo»: il dato che in origine, o a seguito di trattamento, non può essere associato ad un interessato identificato o identificabile; 
  • «comunicazione»: il dare conoscenza dei dati personali ad uno o più soggetti determinati diversi dall’interessato, dal rappresentante del titolare nel territorio dello Stato, dal responsabile e dagli autorizzati, in qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione o consultazione; 
  • «Autorità Garante della protezione dei dati personali»: l’autorità pubblica indipendente deputata al controllo del rispetto della normativa vigente in materia di protezione dei dati personali. 
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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

L’installazione di un sistema di videosorveglianza può costituire reato?

La Corte di Cassazione, in linea con le indicazioni fornite dal Garante della Privacy, si è pronunciata più volte e spesso in maniera contrastante sulle modalità di utilizzo degli impianti di videosorveglianza, al fine di contemperare, da un lato, le esigenze di tutela della persona e del patrimonio, e dall’altro lato di garantire la tutela della riservatezza, in armonia con i principi costituzionali.  

In particolare, pare utile soffermarsi sul tema della videosorveglianza nel condominio, avendo riguardo alle telecamere installate dal singolo condomino che, tuttavia, ad esempio, riprendano il viale di ingresso comune a più immobili e, quindi, utilizzato da tutti i proprietari oppure il parcheggio condominiale in cui sostano anche le altre auto. 

In questi casi, infatti, il condomino ha la possibilità di accertare la eventuale commissione di illeciti, ma altresì di controllare ciò che avviene, tanto nelle aree di sua esclusiva proprietà, quanto nelle parti comuni del condominio in uso ad altri soggetti. 

Dunque, tale condotta può costituire una violazione della privacy? 

Per rispondere al quesito occorre innanzi tutto prendere in esame la norma incriminatrice astrattamente applicabile, ovvero l’art. 615 bis c.p. rubricato “Interferenze illecite nella vita privata”.
L’articolo in oggetto punisce con la reclusione da 6 mesi a 4 anni “chiunque, mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonore, si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nei luoghi indicati nell’art. 614”.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

All’evidenza, la norma risulta astrattamente applicabile anche all’utilizzo di telecamere installate nella propria abitazione che, però, riprendano fatti della vita privata altrui che si svolgono in taluni luoghi soggetti a particolare tutela, ovvero il domicilio, la privata dimora o le appartenenze di essi. 

Questo principio è di facile comprensione con riferimento alle immagini che ritraggono, ad esempio, il terrazzo o la finestra del vicino, poiché in tale ipotesi la condotta risulta posta in essere in violazione dell’altrui riservatezza e, dunque, chiaramente illecita. 

Cosa accade, invece, quando le telecamere ritraggono il pianerottolo o il parcheggio comune a più soggetti? 

Si tratta di luoghi assimilabili alla nozione di “privata dimora” e come tali sottratti alle ingerenze esterne?  

Sul punto, non vi è univocità nelle pronunce della Corte di Cassazione. 

Un primo orientamento, meno restrittivo, sostiene che l’uso di telecamere installate all’interno della propria abitazione, che riprendono l’area condominiale destinata a parcheggio e il relativo ingresso, non configura il delitto di interferenze illecite nella vita privata di cui all’art. 615 bis c.p. (si veda: Cass., sent. n. 30191/2021). 

Invero, si tratterebbe di luoghi destinati all’uso di un numero indeterminato di persone e, pertanto, esclusi dalla tutela prevista dalla norma in esame, la quale presuppone, sia con riferimento al domicilio e sia alla privata dimora e alle appartenenze di essi, che sussista una particolare relazione tra il soggetto e l’ambiente in cui vive la sua vita privata, in modo da sottrarla ad ingerenze esterne, indipendentemente dalla sua presenza (si veda: Cass., sent. n. 44701/2008 e Cass., sent. 34151/2017). 

Il secondo orientamento, invece, colloca tali condotte nell’ambito di applicabilità dell’articolo 615 bis c.p., in quanto l’androne, le scale di un palazzo e il garage si considerano come “appartenenze” a luoghi di privata dimora, posto che trattasi di luoghi, pur non materialmente legati all’abitazione principale, che con essa abbiano un rapporto funzionale di servizio o accessorietà (si veda: Cass., sent. n. 34783/2022). 

Le pertinenze di una privata dimora rientrerebbero, pertanto, nel concetto di privata dimora, in quanto luoghi suscettibili di essere utilizzati in maniera apprezzabile e non occasionalmente per lo svolgimento della vita personale, che li rende, peraltro, non accessibili da terzi senza il consenso del titolare.  

In conclusione, alla luce della giurisprudenza citata e in mancanza un indirizzo maggioritario, è bene porre in essere taluni accorgimenti per un uso corretto e lecito di un sistema di videosorveglianza, la cui finalità resta quella di garantire la tutela della persona e del patrimonio, avendo cura di posizionare la telecamera in modo tale che l’inquadratura ritragga esclusivamente ciò che accade nel luogo di esclusiva pertinenza del soggetto interessato, senza alcuna interferenza nella vita privata altrui. 

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Focus di diritto civile, condominio • Avv. Viola Zuddas

I sistemi di videosorveglianza in Condominio

L’installazione di un impianto di videosorveglianza in Condominio deve avvenire, anzitutto, nel rispetto delle prescrizioni previste dal Codice Civile, dal Codice Penale e dalle linee guida del Garante della Privacy che, con il Regolamento n.2016/679, ha disciplinato compiutamente la materia.
Difatti, è stato previsto un articolato sistema per tutelare la sicurezza delle persone e delle cose dei condomini che potrebbero subire un serio pregiudizio dal trattamento illecito dei dati personali raccolti nel caso in cui, come purtroppo talvolta accade, questi siano impiegati per scopi estranei alle esigenze condominiali. 

A tale proposito, anzitutto, è bene segnalare che l’attività di videosorveglianza dev’essere effettuata nel rispetto del cosiddetto “principio di minimizzazione dei dati”, in base al quale: 

  • la scelta delle modalità di ripresa dev’essere effettuata in relazione alle finalità per le quali si raccolgono i dati, operando opportune distinzioni tra le aree condominiali, quelle di proprietà esclusiva di terzi e quelle aperte al pubblico,  
  • i dati trattati devono essere pertinenti e coerenti con le finalità per le quali si raccolgono, 
  • i dati trattati non devono essere eccedenti rispetto alle finalità per le quali si raccolgono. 

Da ciò ne consegue che, ad esempio, possono essere attivati sistemi di videosorveglianza che riguardino aree comuni, di pertinenza del Condominio, purché adeguatamente segnalati con appositi cartelli. 

A quest’ultimo riguardo, i cartelli devono contenere l’informativa del trattamento dei dati personali che può essere fornita utilizzando un modello semplificato, da posizionare prima dell’ingresso alla zona sorvegliata, che deve contenere, tra le altre informazioni: 

  • le indicazioni sul titolare del trattamento, 
  • le indicazioni sulla finalità perseguita, 
  • il rinvio a un testo completo contenente tutti gli elementi di cui all´art. 13 del Regolamento, con specifica indicazione di come e dove trovarlo (ad esempio, sul sito Internet del titolare del trattamento dei dati). 

Cosa serve per installare un sistema di videosorveglianza in Condominio? 

La legge di riforma della materia condominiale (Legge n.220/2012), poi, ha introdotto l’articolo 1122 ter c.c., rubricato “Impianti di videosorveglianza sulle parti comuni”, che regolamenta l’installazione sulle parti comuni dell’edificio di impianti volti a consentire la videosorveglianza sulle medesime. 

La norma in analisi, nello specifico, prescrive che le deliberazioni concernenti l’installazione sulle parti comuni dell’edificio di impianti volti a consentire la videosorveglianza su di esse sono approvate dall’assemblea con la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del valore dello stabile. 

Non è necessaria, dunque, una preventiva autorizzazione da parte del Garante della Privacy ma è unicamente sufficiente la deliberazione condominiale con la maggioranza prescritta dalla norma.  

Per quanto tempo possono essere conservate le immagini? 

Una volta raccolti, i dati non possono essere conservati per un tempo superiore a quanto sia strettamente necessario allo scopo per il quale sono stati acquisiti: il titolare del trattamento deve individuare i tempi di conservazione delle immagini tenuto conto del contesto e delle finalità del trattamento e, altresì, del rischio per la sicurezza e libertà delle persone e dei beni. 

Ci sono, però, delle specifiche disposizioni che prevedono espressamente determinati tempi di conservazione dei dati: pensiamo, ad esempio, alle immagini raccolte dai sistemi di videosorveglianza dei Comuni al fine di tutelare la sicurezza urbana, per le quali è prevista la conservazione fino a sette giorni dalla registrazione, salvo peculiari esigenze. 

Al di fuori di questi casi, però, generalmente le immagini vengono conservate per pochi giorni (uno o due) in considerazione del fatto che il Condominio si dota di sistemi di videosorveglianza per prevenire i furti e per accertare, nel caso in cui questi vengano commessi, chi siano i responsabili degli stessi: pertanto, è sufficiente un periodo limitato di conservazione, giacché tendenzialmente ci si accorge del danno in poco tempo. 

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Assistenti vocali invadenti: le linee guida UE

Come spiegato nel Focus del nostro collaboratore, la domotica è la disciplina che mira a migliorare la funzionalità delle nostre case grazie a un insieme di automazioni e tecnologie domestiche che consentono di gestire da remoto tutti gli apparecchi di un’abitazione tramite strumenti quali lo smartphone, il tablet e gli assistenti vocali. 

È evidente che, ogni tecnologia passibile di controllo a distanza, e in particolare gli assistenti vocali, è in grado di raccogliere un’enorme quantità di dati, quali: 

  • preferenze e le abitudini: relative allo stile di vita, ai consumi e agli interessi personali, stato emotivo; 
  • dati biometrici: quali la voce ed il timbro vocale; 
  • geolocalizzazione: posizione, il domicilio, l’indirizzo del posto di lavoro, i percorsi compiuti; 
  • tratti principali: (sesso, età, ecc.) dei soggetti che si trovano nello stesso ambiente dell’assistente vocale; 

L’aumento sempre più crescente della presenza di dispositivi smart nelle nostre case rende più elevato il rischio che tali dati possano essere utilizzati a vantaggio delle società al fine di creare distorsioni nel mercato. 

Ciò è quanto emerso da un primo report pubblicato dalla Commissione Europea a seguito di un’inchiesta sulla concorrenza e sulle potenziali questioni antitrust all’interno del mercato degli assistenti vocali e dei dispositivi “smart” per la domotica intelligente. 

Ad esito dell’inchiesta, la Commissione ha fatto sapere che le informazioni raccolte nell’indagine settoriale verranno utilizzati come base dei suoi lavori per l’attuazione della strategia digitale europea per l’elaborazione di linee guida a tutela della privacy e dell’antitrust; ciò al fine di rafforzare anche l’attuale disciplina sugli assistenti vocali.Avv. Eleonora Pintus, Diritto Internazionale e dell’Unione Europea

Linee guida 02/2021 sugli assistenti vocali virtuali

Il 7 luglio 2021 sono state adottate, in via definitiva, le Linee guida sugli assistenti vocali – cd. Linee Guida 02/2021 sugli assistenti vocali virtuali (o Virtual Voice Assistant – VVA) – al fine di regolare le modalità di raccolta dei dati personali degli utenti in un’ottica di massima trasparenza per l’utente. 

Le presenti linee guida prendono in considerazione le quattro finalità principali per cui i VVA trattano dati personali: l’esecuzione di richieste, il miglioramento del modello di apprendimento automatico dell’VVA, l’identificazione biometrica e la profilazione a fini di personalizzazione dei contenuti o della pubblicità. 

Occorre ricordare che gli assistenti vocali raccolgono e memorizzano enormi quantità di dati e informazioni personali, appartenenti sia all’utilizzatore che agli eventuali terzi presenti nello stesso ambiente dell’utilizzatore.  

Per tale ragione, al fine di prestare una maggior tutela, le Linee prescrivono ai fornitori/progettisti di VVA di implementare meccanismi di controllo dell’accesso per garantire la riservatezza, l’integrità e la disponibilità dei dati personali, che vadano oltre l’impostazione di una semplice password la quale, in alcuni casi, si rivela del tutto insufficiente. Come tale, laddove possibile, i progettisti dovrebbero valutare l’opportunità di applicare tecnologie in grado di filtrare i dati non necessari e garantire che sia registrata soltanto la voce dell’utente. 

Le Linee, dunque, non solo offrono spunti su come garantire una maggiore tutela dell’utente e dei terzi che entrano a contatto con i VVA, ma mira, altresì, a rendere edotti gli utenti stessi dei rischi e benefici connessi all’utilizzo di tali strumenti.  

Ciò, ad esempio informandoli su quali dati sono stati memorizzati oppure offrendo soluzioni tecniche, come l’apprendimento di uno specifico linguaggio che consenta di impedire l’accensione accidentale dell’assistente o di eliminare tutte le parole, tranne quelle necessarie per far entrare in funzione l’assistente.

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Secondo il rapporto “HIV/AIDS surveillance in Europe 2021”, pubblicato a novembre 2021 dall’ECDC e dall’Ufficio europeo dell’OMS, nel 2020, in 46 dei 53 Paesi dell’OMS Europa sono state registrate ben 104.765 nuove diagnosi di HIV, tra cui 14.971 dai Paesi di Unione europea (UE) e Spazio economico europeo (SEE). 

L’infezione da HIV e l’AIDS continua, dunque, ad incidere in maniera esponenziale sulla salute e il benessere di milioni di persone anche nella Regione Europea dell’OMS. 

Per esigenze di carattere espositivo, escludendo fin da subito ogni volontà di compiere divulgazione scientifica in campo medico, appare necessario evidenziare che Hiv e Aids non sono la stessa cosa. 

L’Hiv (Human immunodeficiency virus) è un virus che distrugge un tipo di globuli bianchi responsabili della risposta immunitaria dell’organismo. La presenza di anticorpi anti-Hiv nel sangue viene definita sieropositività all’Hiv. L’infezione da Hiv non si manifesta con sintomi particolari ma si rivela attraverso gli effetti che il virus provoca direttamente sul sistema immunitario.   

L’Aids (Acquired immune deficiency sindrome), invece, costituisce uno stadio clinico avanzato dell’infezione da Hiv la quale può manifestarsi persino a distanza di anni nelle persone con HIV, ciò quando l’organismo perde la sua capacità di combattere anche le infezioni più banali (infezioni/malattie opportunistiche). 

I progressi della ricerca scientifica e l’uso della terapia antiretrovirale hanno reso possibile alle persone con Hiv di avere una buona qualità di vita. Difatti, sebbene ad oggi non esista una cura capace di eliminare completamente il virus dall’organismo e così guarire in via definitiva dall’infezione da HIV, la sottoposizione a terapie altamente efficaci – i cosiddetti farmaci antiretrovirali (ART, Anti-Retroviral Therapy) – permette di controllare l’infezione nel lungo periodo, trasformando l’HIV/AIDS in malattia cronica. 

Tuttavia, nonostante i progressi scientifici degli ultimi anni, a seguito dell’epidemia da COVID-19, è emerso l’enorme deficit delle strutture ospedaliere che, a causa altresì delle successive restrizioni di bilancio, hanno manifestato difficoltà nell’erogazione di servizi. In generale, il numero dei pazienti nelle strutture ospedaliere è aumentato e ciò ha conseguentemente imposto alle stesse strutture ed al personale sanitario operante di rivoluzionare l’erogazione delle prestazioni.Avv. Eleonora Pintus, Diritto Internazionale e dell’Unione Europea

Sanità digitale: le nuove sfide a sostegno dell’HIV e AIDS

Le nuove sfide globali a fronte di situazioni di emergenza (quali una pandemia globale) hanno aumentato le preoccupazioni sulla capacità degli ospedali di fornire terapie adeguate e costanti (anche) nella prevenzione dell’HIV.  

In tal senso si inserisce la lungimirante azione dell’Unione Europea che nell’ambito del programma “Horizon 2020” ha elaborato e finanziato il programma “EmERGE” (Evaluating mHealth technology in HIV to improve Empowerment and healthcare utilisation: Research and innovation to Generate Evidence for personalised care). 

EmERGE è, nello specifico, un’applicazione mobile (APP) e un portale web per la gestione dell’HIV che ha come obiettivo principale la creazione di una connessione virtuale tra paziente e medico attraverso una piattaforma sanitaria digitale conforme al GDPR.  

Questa si inserisce perfettamente in quella che viene comunemente definita come “mHealth” (mobile health, ossia “salute mobile”) che racchiude il più ampio concetto di cure mediche digitali o wireless, ossia la possibilità di accedere ai servizi sanitari preventivi, sorveglianza delle malattie, supporto al trattamento, monitoraggio delle epidemie e gestione delle malattie croniche da remoto attraverso dispositivi mobili, quali i telefoni cellulari. 

Ma come funziona?

La piattaforma mHealth è in inserita nel server all’interno del firewall dell’ospedale o della clinica ed è deputata alla ricezione dei dati dal database della clinica tramite un’API e successiva trasmissione all’applicazione scaricata sul dispositivo mobile Android o iOS del paziente. 

I dati possono riguardare risultati di esami, informazioni sui farmaci o anche appuntamenti.  

La “digitalizzazione della salute” ha sortito numerosi vantaggi anche per soggetti affetti da HIV. Secondo un recente studio condotto su un gruppo di pazienti sieropositivi, è stato sufficiente visitare i pazienti una volta all’anno, per poi controllare i risultati intermedi prima che venissero cifrati e inseriti nell’applicazione. I risultati dello studio non solo sono risultati soddisfacenti (in quanto il 99 % dei pazienti ha mantenuto una bassa carica virale) ma il monitoraggio da remoto ha perfino consentito di ridurre l’affluenza alle cliniche del 30 %.1 

EmERGE e GDPR: la tutela dei dati personali

La salute digitale impone necessariamente una “protezione rafforzata” nel trattamento di informazioni. Ciò ancor più se si tratta di informazioni delicate come lo sono quelle relative all’infezione da virus dell’immunodeficienza giacché dalla loro diffusione può derivare un grave pregiudizio per la vita privata e la dignità personale degli interessati.  

Appare dunque fondamentale ed imprescindibile che la Sanità digitalesi allinei al Regolamento Europeo sulla protezione dei dati personali. 

Ma accanto al GDPR, a livello nazionale occorre richiamare anche una normativa specifica in materia di HIV: si tratta della Legge 05 giugno 1990, n. 135 “Programma di interventi urgenti per la prevenzione e la lotta contro l’AIDS”. 

In particolare, l’art. 5 (Accertamento dell’infezione), espressamente integrato dal Codice Privacy, sancisce diritti fondamentali ed inderogabili del paziente nonché obblighi a carico dell’operatore sanitario. In particolare si legge che: 

  • L’operatore sanitario e ogni altro soggetto che viene a conoscenza di un caso di AIDS, ovvero di un caso di infezione da HIV, deve adottare ogni misura per garantire la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali dell’interessato, nonché della relativa dignità. 
  • Nessuno può essere sottoposto, senza il suo consenso, ad analisi dirette ad accertare l’infezione da HIV se non per motivi di necessità clinica nel suo interesse.  
  • La comunicazione di risultati di accertamenti diagnostici per infezione da HIV deve essere fornita esclusivamente al paziente interessato. 
  • I dati sulla sieropositività o di diagnosi di HIV sono riportabili in cartella solo con manifestazione del consenso del paziente. 

Possiamo dunque riconoscere che la medicina mobile sta contribuendo ad apportare innumerevoli vantaggi, per pazienti e strutture ospedaliere. La piattaforma è stata recentemente ampliata per includere anche la messaggistica bidirezionale e il video, ed è sempre più concreta la disponibilità di un modello di percorso digitale per la profilassi pre-esposizione per la prevenzione dell’HIV (PrEP).  

Grazie agli sforzi dell’Unione Europea, gli Stati membri hanno la possibilità di rendere più efficiente ed efficace la sanità pubblica e dare un importante contributo alla digitalizzazione dei servizi sanitari in tutta Europa. 

Eleonora Pintus, Avvocato

PNRR e sport: occasione di riqualificazione urbana

In seguito alla crisi globale derivata dalla pandemia da Covid-19, che ha travolto l’intero pianeta, la Commissione europea ha lavorato ad un piano di ripresa dedicato a tutti i paesi membri dell’Unione europea, volto a sanare i danni economici e sociali derivati dall’emergenza sanitaria. 

Con questi presupposti è nato lo strumento finanziario denominato NextGenerationEU, dedicato al finanziamento di interventi finalizzati allo sviluppo economico e alla crescita sostenibile dei paesi colpiti dalle difficoltà generate dal coronavirus. 

Il principale mezzo attuativo di questo pacchetto di finanziamenti europei è il RRF, Dispositivo per la ripresa e la resilienza, che ha consentito agli stati europei di presentare un proprio piano di investimenti, in linea con i principi del NGEU. 

L’Italia, uno dei paesi più colpiti dalla crisi economica, ha quindi progettato e dato vita al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), un piano che prevede sei missioni:  

  1. digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo, 
  2. rivoluzione verde e transizione ecologica,
  3. infrastrutture per una mobilità sostenibile,
  4. istruzione e ricerca,
  5. inclusione e coesione,
  6. salute.

La missione n.5, suddivisa in tre componenti, è fortemente legata al mondo dello sport, strumento di coesione sociale, e punta essenzialmente sulla realizzazione di nuove strutture e sulla ristrutturazione del patrimonio impiantistico sportivo esistente, mirando alla sostenibilità e alla socializzazione come mezzi per la riqualificazione di aree urbane destinate alla collettività.Elena Falqui, Ingegnere

L’investimento relativo all’edilizia sportiva si articola in due avvisi, dedicati a due gruppi denominati cluster 1/2 e 3, che differiscono per la tipologia dei Comuni destinatari e la configurazione delle proposte.  

Il cluster 3 è quello rivolto ai Comuni italiani che presentino progetti accompagnati dalla sponsorizzazione di una federazione sportiva, che manifesti e sottoscriva il proprio interesse negli interventi, al fine di garantire una maggiore promozione e una condivisione di livello nazionale, grazie alla partecipazione di enti che assicureranno la funzionalità degli impianti promossi. 

La manifestazione di interesse pubblicata dal governo, e destinata ai Comuni italiani, prevede un importo finanziabile pari a Euro 162.000.000,00, ed è destinata a progetti riguardanti impianti di proprietà pubblica, con un tetto di contributo di 4 milioni di euro a intervento; il bando indica la possibilità di individuare un singolo intervento, sia per i presentanti domanda, che per le Federazioni sportive, che possono esprimere il loro interesse su un unico progetto. Le domande di partecipazione dovevano essere consegnate entro il 22 aprile 2022, tramite invio alla pec del governo dedicata, con una prima descrizione dell’intervento proposto e delle finalità prefisse, l’indicazione dei soggetti coinvolti e della loro capacità economica, oltre ad un cronoprogramma per la realizzazione delle opere (per un approfondimento clicca il link: https://www.sport.governo.it/media/3380/cluster-3-avviso-pubblico-di-invito-a-manifestare-interesse.pdf). 

La procedura per l’ammissibilità delle istanze sarà improntata alla definizione di un quadro nazionale omogeneo, impostato sul censimento delle strutture sportive attualmente esistenti sul territorio, individuando quindi gli interventi che possano maggiormente rispondere alle finalità prescritte dal PNRR, per garantire la massima riposta in termini di ricrescita economica e sociale. 

I progetti che si aggiudicheranno il finanziamento avranno l’obbligo di andare in appalto e aggiudicazione entro il 31 marzo 2023 e dovranno concludersi con la fine lavori entro il 31 gennaio 2026. 

La riqualificazione dell’impiantistica sportiva, oltre alla creazione di nuovi poli dedicati allo sport che riconfigureranno e trasformeranno grandi aree cittadine, recuperando e valorizzando aree urbane in disuso, avrà inoltre un importante impatto relativamente all’opportunità di poter programmare e organizzare manifestazioni di vario livello da parte dei vari comuni italiani, che potranno contare su strutture adeguate sotto ogni profilo. 

Basti pensare che solo nel nostro comune di Cagliari sono presenti più di 30 impianti dedicati allo sport di proprietà pubblica con gestione diretta, convenzionata o in concessione, ma che la maggior parte di questi versa in pessime condizioni e ha urgente necessità di ristrutturazioni importanti e, punto fondamentale, non sono a norma per l’apertura al pubblico durante le manifestazioni di qualsiasi entità  poiché non certificate per la prevenzione degli incendi (Certificato di Prevenzione Incendi – CPI).Elena Falqui, Ingegnere

Gli eventi sportivi svolti nell’ultimo anno hanno avuto un riscontro molto positivo da parte del pubblico che, dopo le restrizioni degli ultimi anni, ha accolto con entusiasmo la recente riapertura a capienza piena degli impianti sportivi, come dimostrato, ad esempio, dagli Internazionali d’Italia di tennis di maggio di quest’anno, che hanno superato il record assoluto di partecipazione di spettatori della storia del torneo. 

Gli italiani hanno necessità di riscatto, di ripartenza e di socialità e lo sport è sicuramente uno dei mezzi principali per garantire questo processo e le manifestazioni di alto livello sono uno strumento per una crescita economica.

Elena Falqui, Ingegnere

Mi sono laureata nel 2007 in Tecnologie per la Conservazione e il Restauro dei Beni Culturali e nel 2010 in Ingegneria Edile, col massimo dei voti presso la facoltà di Ingegneria e Architettura di Cagliari; ho conseguito il Master di II livello in Progettazione di impianti sportivi presso la Sapienza a Roma nel 2011.
Ho svolto inizialmente l’attività di libero professionista presso uno studio privato e contemporaneamente presso lo studio di Ingegneria e Architettura di famiglia.
Nel 2012 ho intrapreso la mia prima esperienza a Roma, affiancando l’architetto incaricato, dal CONI e dalla FIT, della progettazione degli spazi del Foro Italico a Roma in occasione degli Internazionali BNL d’Italia.
Nello stesso anno sono stata assunta dalla FIT, ho proseguito l’affiancamento col progettista degli IBI; ho svolto anche il ruolo di referente FIT per gli impianti sportivi di tennis in tutta Italia e ho fatto parte per alcuni anni della Commissione Impianti Sportivi; ho anche partecipato al gruppo di controllo sul “Fondo Rotativo FIT”, verificando, dal punto di vista tecnico, le richieste di finanziamenti dei circoli affiliati.
Dal 2019 sono diventata un collaboratore esterno della Federazione Italiana Tennis e tuttora proseguo il mio percorso nel mondo dello Sport.
Da ottobre 2021 sono inserita nell’elenco del corpo nazionale dei Vigili del fuoco come professionista abilitata  alla progettazione antincendio.
Mi occupo principalmente della progettazione degli spazi, della direzione dei lavori, della sicurezza sia in fase di progettazione che esecuzione nei cantieri, della stesura di Piani Safety&Security e sono il referente nei rapporti con l’amministrazione locale durante la programmazione di manifestazioni sportive. 

 

Focus di diritto tributario • Avv. Francesco Sanna

PNRR e la riforma fiscale

A più di otto mesi dall’approvazione del Piano, si riconferma il consenso sul PNRR come grande occasione per il rilancio del Paese, ma aumenta la sfiducia sulla capacità del Governo di raggiungere gli obiettivi prefissati.
Questo è quanto emerge dal sondaggio e dall’analisi sui risultati effettuati da Ernst & Young. 

Oggi, l’83% (contro il 92% di settembre 2021) dei manager vede il PNRR come occasione unica per il rilancio del Paese.

Per il 32% dei manager italiani la riforma del fisco e della giustizia civile sono prioritarie per rendere l’Italia più attrattiva per gli investitori stranieri. A seguire la realizzazione di grandi infrastrutture tecnologiche (27%), riforma della giustizia amministrativa (27%) e realizzazione di grandi infrastrutture fisiche (21%) 

La riforma fiscale ed il riordino della tassazione sono ritenuti unanimemente questioni decisive per attrarre i capitali stranieri e quindi consentire la ripresa economica. E proprio in ragione della importanza e del mancato raggiungimento dei risultati prestabiliti si evidenzia un forte scontento per la situazione in cui versa il fisco.Francesco Sanna, Avvocato

Secondo le ultime rilevazioni, i manager chiedono (85%) maggiore stabilità della normativa, limitazione della decretazione d’urgenza (69%), coinvolgimento delle parti sociali nelle discussioni (58%) e rafforzamento di organico e competenze dell’amministrazione finanziaria (54%). 

Fiscalità e Green Deal: leva fondamentale per incentivare aziende e consumatori a comportamenti sostenibili, ma per l’84% dei manager serve maggiore uniformità tra i Paesi europei. 

Incentivi fiscali: l’80% degli intervistati ne riconosce i vantaggi per imprese e consumatori, ma sono necessari meccanismi di controllo mirati per evitare abusi, soprattutto relativamente all’ecobonus. 

Nel corso dell’evento tenutosi a Milano il 14 marzo 2022 i rappresentanti del mondo istituzionale, accademico e delle imprese nel corso dell’EY Tax Day, si sono confrontati sulle aspettative dell’opinione pubblica e dei manager rispetto all’impatto del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) sull’economia del Paese. 

Nel corso dell’evento, EY e SWG hanno presentato i risultati di un’indagine, condotta su un campione di oltre 1200 persone tra manager e opinione pubblica, che analizza la fiducia sull’impatto del Recovery Plan e sulla riforma fiscale, a svariati mesi dall’approvazione in via definitiva del PNRR.  

Un’ampia quota della popolazione e 1/3 dei manager intervistati affermano di non conoscere o comprendere i vari aspetti del Piano in maniera adeguata in quanto si rileva una moltiplicazione e diffusione delle informazioni ritenuta non ottimale. Dai dati si rileva inoltre una certa fiducia nei confronti dell’azione svolta dal Governo, soprattutto tra i manager intervistati. Anche in relazione al raggiungimento degli scopi previsti, oltre un terzo degli intervistati (ovvero 34% della popolazione e 36% dei manager) indica che gli obiettivi ad oggi conseguiti con il PNRR sono inferiori rispetto a quanto concordato in sede europea, suggerendo dunque un certo scetticismo generale sullo stato della sua attuazione. 

I dati dell’indagine illustrano quali sono le riforme percepite più importanti. Tra queste c’è quella del fisco e della giustizia civile (entrambe per il 32% dei manager) sono essenziali per aumentare l’attrattività del Paese nei confronti degli investitori esteri. 

Il sistema fiscale è uno dei temi centrali per il futuro del Paese. La possibilità di capire e quindi attuare l’imposizione tributaria nelle sue varie articolazioni è alla base del cosiddetto patto sociale e richiede semplificazioni oltre che nuove forme di ricerca del senso e del consenso, tanto in chiave domestica che di attrattività estera. Questa attenzione nasce da una valutazione particolarmente severa del sistema attuale che vede popolazione e manager allineati nel ritenere il sistema di oggi poco efficace, equo ed efficiente. Secondo l’85% dei manager e l’83% della popolazione la complessità del sistema fiscale italiano è un ostacolo alla competitività internazionale delle imprese italiane e, secondo l’86% dei manager, la sua complessità ostacola l’ingresso di imprese estere interessate a investire nel Paese. 

Le aspettative legate a una riforma del sistema più equo ed efficiente vanno innanzitutto nella direzione di una maggiore stabilità della normativa. Sono soprattutto i manager a chiedere (85%) maggiore stabilità, limitando il ricorso a decretazioni d’urgenza evitandone la retroattività (secondo il 69%), ma anche (58%) coinvolgendo le parti sociali nelle discussioni e mettendo a disposizione dei servizi personale più competente.

L’intero pacchetto di richieste si orienta fortemente verso un intervento per la creazione di un sistema fiscale stabile e affidabile che consenta di programmare le attività anche nel medio periodo e con il quale sia possibile costruire delle interlocuzioni positive a vari livelli.Francesco Sanna, Avvocato

Al netto di questa aspettativa, si constata che la riforma in corso non è ancora in grado di raggiungere gli obiettivi desiderati: solo poco più del 30% dei manager ritiene che il processo di riforma in atto sia vicino alle esigenze delle imprese e ancora meno (il 28%) reputa che favorisca la competitività delle imprese italiane. Sul fronte della giustizia tributaria, i manager intervistati concordano nella costruzione di un sistema più snello e semplice, con un maggiore livello di competenza e di professionalità dei vari attori e che consenta un’interlocuzione costante tra Stato e contribuenti ai vari livelli possibili. 

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

PNRR e prevenzione delle infiltrazioni mafiose

Il d.l. 6 novembre 2021 n. 152, denominato “Disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e per la prevenzione delle infiltrazioni mafiose”, così come convertito con la L. 29 dicembre 2021 n. 233, ha introdotto, per quanto qui di interesse, oltre alla riforma del processo penale mirata alla digitalizzazione e ad una serie di interventi per garantire maggiore celerità del procedimento, anche delle importanti novità in materia di misure di prevenzione antimafia, intervenendo sul cd. Codice antimafia.

Invero, proprio la previsione di ingenti investimenti inerenti il PNRR ha incrementato notevolmente il rischio di insorgenza di fenomeni di corruzione e di infiltrazioni mafiose nel settore imprenditoriale, al punto che si è reso necessario un rafforzamento delle strategie e delle misure di contrasto. 

L’obbiettivo della norma è quello, da un lato, di consentire alle imprese che operano lecitamente di partecipare ai bandi di gara previsti dal PNRR nel pieno rispetto delle regole della concorrenza e, dall’altro lato, di prevenire la partecipazione di soggetti legati alla criminalità organizzata, ciò anche attraverso l’implementazione del sistema di prevenzione antimafia e lo snellimento delle procedure. 

Innanzi tutto, la riforma introduce una modifica nel procedimento di rilascio delle misure interdittive antimafia, mediante l’inserimento di una fase di contradditorio preliminare con il soggetto interessato. 

Giova precisare che l’interdittiva antimafia è una misura di carattere preventivo applicabile nei confronti di imprenditori e società direttamente o indirettamente collegate con la criminalità organizzata, che comporta l’interdizione delle imprese destinatarie a contrarre la Pubblica Amministrazione o a ricevere erogazioni pubbliche. 

In particolare, l’informativa antimafia interdittiva è un provvedimento amministrativo che si fonda sugli accertamenti effettuati dagli organi di polizia ed è applicata dal Prefetto territorialmente competente, con lo scopo di tutelare l’ordine pubblico, la libera concorrenza tra le imprese e il buon andamento della Pubblica Amministrazione. 

Il provvedimento è applicabile nel caso in cui dall’esame degli elementi di indagine emerga un attuale, univoco e grave pericolo concreto di infiltrazione mafiosa nell’impresa, pertanto, non è richiesto l’accertamento “al di là del ragionevole dubbio” del compimento di una condotta penalmente rilevante, bensì è sufficiente la sussistenza del rischio di infiltrazioni mafiose, valutato in base al noto criterio del “più probabile che non”.  

A tale riguardo, il Consiglio di Stato con la sentenza dell’11 gennaio 2021, n. 383 ha precisato che ai fini della adozione dell’informativa antimafia: “da un lato, occorre non già provare l’intervenuta infiltrazione mafiosa, bensì soltanto la sussistenza di elementi sintomatico presuntivi dai quali – secondo un giudizio prognostico discrezionale – sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata; d’altro lato, detti elementi vanno considerati in modo unitario, e non atomistico, cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri”. 

Quanto alla riforma, come detto, viene introdotta una fase di contradditorio preliminare che, nella specie, prevede che qualora il Prefetto ritenga sussistenti i presupposti per l’applicazione del provvedimento de quo, purché non ricorrano esigenze di celerità, dà tempestiva comunicazione al destinatario, indicando un termine non superiore a 20 giorni, entro il quale quest’ultimo può far pervenire osservazioni scritte o chiedere l’audizione, al fine di chiarire la propria posizione. 

Tuttavia, la procedura deve concludersi entro 60 giorni dalla notifica della comunicazione, ad esito della quale il Prefetto può alternativamente rilasciare l’informazione antimafia liberatoria oppure disporre l’applicazione della misura di prevenzione collaborativa o adottare il provvedimento interdittivo. 

Tale procedura, che, all’evidenza, comporta una discovery delle informazioni raccolte dagli organi di polizia in merito alla posizione del soggetto interessato, proprio al fine di salvaguardare le esigenze di indagine, prevede una limitazione alla comunicazione di tutte quelle informazioni il cui disvelamento possa pregiudicare i procedimenti amministrativi o le attività processuali in corso.   

Il Decreto introduce, altresì, l’art. 94 bis del Cod. Antimafia che prevede nuove misure amministrative di prevenzione collaborativa, nel caso in cui si tratti di una agevolazione di tipo occasionale, già delineata nell’art. 34 bis. 

Lo scopo è quello di salvaguardare le imprese che appaiano solo marginalmente contaminate da presenze mafiose, consentendo alle stesse di adottare ogni misura utile per continuare ad operare legittimamente.   

In tale ipotesi, il Prefetto può prescrivere all’impresa, società o associazione interessata l’osservanza, per un periodo tra 6 e 12 mesi, di una o più misure organizzative per rimuovere e prevenire le cause di agevolazione, anche disponendo la nomina di uno o più esperti incaricati di coadiuvare il soggetto interessato nell’adozione delle predette misure. 

Qualora, alla scadenza del termine indicato, il Prefetto accerti il venir meno dell’agevolazione occasionale rilascia l’informazione antimafia liberatoria, mentre, in caso contrario, adotta l’informativa antimafia interdittiva.

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Focus di diritto civile, tutela della persona • Avv. Viola Zuddas

Il PNRR al servizio dello sport per l’inclusione sociale

Come chiarito dal Dipartimento per lo sport (clicca qui per un approfondimento: https://www.sport.governo.it/it/pnrr/sport-e-inclusione-sociale-avvisi-a-manifestare-interesse/ ) il PNRR si pone (anche) l’obiettivo di incrementare l’inclusione e l’integrazione sociale attraverso la realizzazione e/o la rigenerazione di impianti sportivi che favoriscano il recupero di aree urbane destinate alla collettività.

A tal fine, come già precisato dall’Ing. Elena Falqui nel suo focus, è previsto anche il coinvolgimento delle Federazioni che dovrebbe consentire di promuovere maggiormente la cultura sportiva e, in generale, la partecipazione allo sport, garantendo la medesima visibilità a tutte le discipline. 

In particolare, a tale scopo, sono stati identificati tre cluster di intervento, suddivisi in due avvisi pubblici di invito a manifestare interesse: 

  • Avviso 1, relativo ai cluster 1 e 2: è destinato ai Comuni capoluogo di Regione, ai Comuni capoluogo di Provincia con popolazione superiore ai 20.000 abitanti e ai Comuni con popolazione superiore ai 50.000 abitanti, per la realizzazione o la rigenerazione di impianto polivalente indoor, Cittadella dello sport o impianto natatorio. 
  • Avviso 2, relativo al cluster 3: è destinato a tutti i Comuni italiani ed è finalizzato alla realizzazione di nuovi impianti o alla rigenerazione di impianti esistenti che siano di interesse delle Federazioni Sportive Nazionali e delle Federazioni Sportive Paralimpiche, a livello nazionale, così come individuate dal Comitato Olimpico Nazionale Italiano e dal Comitato Italiano Paralimpico. 

Semplificando, quindi, al fine di promuovere l’inclusione e l’integrazione sociale i progetti finanziati con il PNRR dovranno sostenere: 

  • la costruzione e la riqualificazione di impianti sportivi ubicati in aree svantaggiate del Paese comprese le periferie metropolitane, 
  • la distribuzione di attrezzature sportive per le aree degradate ritenute necessarie per l’allestimento di strutture sportive che possano anche rimuovere gli squilibri economici e sociali, 
  • il completamento e l’adeguamento di impianti sportivi esistenti da destinare all’attività agonistica nazionale ed internazionale. 

Questi progetti, dunque, dovrebbero permettere, anzitutto, la creazione di nuovi posti di lavoro che potranno servire per rilanciare un settore che, negli ultimi anni, è entrato in crisi. 

Non vi è dubbio, infatti, che la pandemia ha avuto un profondo impatto anche sul mondo dello sport che ha subito – soprattutto tra l’anno 2020 ed il 2021- ingenti perdite economiche causate dalla impossibilità di realizzare eventi e competizioni sportive per ragioni legate alla sicurezza sanitaria.  

A ciò si aggiunga che la mancata organizzazione delle manifestazioni sportive ha causato degli importanti danni anche al settore del turismo sportivo, sia estivo che invernale, e di conseguenza su tutte le attività che hanno sempre gravitato attorno ad esso. 

Ebbene, i predetti progetti dovrebbero, altresì, consentire l’integrazione di persone svantaggiate o emarginate che potranno beneficiare, e quindi usufruire, di attrezzature ed impianti sportivi anche in aree periferiche delle città. 

Gli investimenti, infatti, serviranno a ridurre situazioni di emarginazione e degrado sociale attraverso la riqualificazione delle aree pubbliche e promuovendo attività sportive e, altresì, lo sviluppo della relativa cultura: valorizzando il potenziale di ogni territorio e rafforzando i servizi sociali di prossimità per il sostegno alle persone emarginate si mira, quindi, a colmare il cosiddetto “divario di cittadinanza”.

Qual è l’iter da seguire una volta presentato il progetto?

Come chiarito dal Dipartimento per lo sport (clicca qui per un approfondimento: https://www.sport.governo.it/media/3504/avviso-pubblico-sport-e-periferie-2022.pdf ) il Responsabile Unico del Procedimento (RUP) provvederà alla verifica della singola proposta progettuale pervenuta con riferimento: 

  • alla regolarità della trasmissione e  
  • alla verifica di ammissibilità formale della domanda in relazione alla sussistenza delle cause di esclusione. 

Successivamente, le proposte progettuali risultate ricevibili e ammissibili saranno valutate da un’apposita Commissione nominata con provvedimento del Capo del Dipartimento per lo sport, che attribuirà un punteggio in base ai diversi criteri di valutazione indicati nel relativo avviso. 

Infine, il finanziamento verrà erogato sulla base di apposita convenzione sottoscritta con firma digitale tra il Capo del Dipartimento per lo sport e il legale rappresentante del soggetto richiedente: tale convenzione sarà volta a disciplinare la realizzazione delle attività, i reciproci rapporti e responsabilità nonché le modalità di erogazione del contributo che, in ogni caso, verrà corrisposto in proporzione agli stati di avanzamento dei lavori, certificati dal direttore dei lavori e approvati dal RUP dell’ente beneficiario. 

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Next generation EU e PNRR: inclusione di soggetti fragili e vulnerabili 

Al fine di riparare i danni economici e sociali causati dall’emergenza sanitaria da COVID-19 e creare una solida base per una comune ripartenza europea, la Commissione europea, il Parlamento europeo e i leader dell’UE hanno concordato un piano di ripresa di carattere finanziario denominato NextGenerationEU, espressione di una nuova politica di coesione.

Trattasi del più grande pacchetto di risorse economiche temporaneo mai finanziato dall’UE pari 750 miliardi di euro pensato per stimolare una “ripresa sostenibile, uniforme, inclusiva ed equa” e diretta a garantire la possibilità di fare fronte a future ed impreviste esigenze. 

Per rendere l’Europa più verde, più digitale e più sicura, l’UE mette a disposizione degli stati i finanziamenti di NextGenerationEU non appena questi diventano disponibili e i progetti vengono realizzati e presentati alla Commissione Europea. 

In questo contesto si inserisce il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), lo strumento che traccia gli obiettivi, le riforme e gli investimenti che l’Italia intende realizzare grazie all’utilizzo dei fondi europei di Next Generation EU, per attenuare l’impatto economico e sociale della pandemia e rendere l’Italia un Paese più equo, green e inclusivo, con un’economia più competitiva, dinamica e innovativa. 

Tra i principali obiettivi del nuovo programma, vi è anche quello di rafforzare l’inclusione sociale, soprattutto dei soggetti fragili e vulnerabili. 

Come? 

In Italia, con Decreto n. 5 del 15 febbraio 2022 del Direttore Generale per la Lotta alla povertà e per la programmazione sociale, è stato adottato l’Avviso pubblico n. 1/2022 per presentare Proposte di intervento da parte degli Ambiti Territoriali Sociali da finanziare nell’ambito del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) finanziato dall’Unione europea - Next generation Eu. 

Di cosa si tratta?

L’Avviso intende favorire le attività di inclusione sociale di specifiche categorie di soggetti fragili e vulnerabili: famiglie e bambini, anziani non autosufficienti, disabili o anche persone senza dimora.  

La misura prevede interventi di rafforzamento dei servizi a supporto delle famiglie in difficoltà, soluzioni alloggiative, dotazioni strumentali a sostegno di persone anziane per garantire loro una vita autonoma e indipendente, forme di sostegno agli operatori sociali per fronteggiare il fenomeno del burn out ed ancora iniziative di housing sociale di carattere sia temporaneo che definitivo.   

In particolare, fra le attività previste per il sostegno degli anziani e dei disabili vi è il rafforzamento dei servizi sociali offerti dal territorio, come infermieri, caregiver, badanti per chi vive in casa – così da consentire loro di rimanere nello stesso luogo dove hanno vissuto per tutta la vita – nonché il rafforzamento delle strutture di ricovero per coloro che preferiscono allontanarsi dall’ambiente domestico. 

Questa linea di intervento consiste nella realizzazione e adattamento di abitazioni in cui potranno vivere gruppi di persone con disabilità, attraverso il reperimento di spazi ed ambienti esistenti. Ogni abitazione sarà strutturata e personalizzata mediante strumenti e tecnologie di domotica e interazione a distanza, in base alle necessità degli ospiti.  

È interessante rilevare che l’Avviso prevede la possibilità di attuare i progetti di intervento per soluzioni alloggiative anche mediante la destinazione a tale finalità di beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata.Francesco Sanna, Avvocato

La possibilità di utilizzo di immobili confiscati e sequestrati alla criminalità organizzata e in seguito trasferiti alla disponibilità degli Enti Pubblici, al fine di potenziare l’edilizia residenziale pubblica e migliorare i servizi di prossimità, concerne tutte le linee di attività e non solo quelle dedicate ai percorsi di autonomia per persone anziane e con disabilità.  

I destinatari dell’avviso sono gli Ambiti Territoriali Sociali (ATS), circa 600 – competenti alla presentazione di progetti singolarmente o anche di concerto, con individuazione di un ATS capofila assegnatario delle risorse – e i Comuni singoli. Le Regioni e Province Autonome avranno un ruolo di coordinamento e di programmazione per lo sviluppo dei sistemi sociali territoriali. 

A seguito della presentazione dei progetti, con il Decreto Direttoriale numero 98 del 9 maggio 2022, gli uffici del ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali hanno assegnato ai vari Ambiti territoriali sociali in Italia le risorse economiche, legate al PNRR, dirette a favorire le attività di inclusione sociale per soggetti fragili e vulnerabili, come famiglie e bambini, anziani non autosufficienti, disabili e persone senza dimora per oltre 1,25 miliardi di euro. 

​Qual è l’iter da seguire una volta presentato il progetto?  

Si segnala che al fine di rendere effettivo il piano europeo-nazionale, a partire dal 21 giugno 2022 sono disponibili i format delle schede progetto relative all’Avviso pubblico n. 1/2022 PNRR Next generation Eu, con relativi piani finanziari e cronoprogrammi, suddivise per le diverse linee di finanziamento. Le schede progetto dovranno essere caricate dai Comuni e Ambiti Territoriali Sociali (ATS) ammessi al finanziamento sull’applicativo gestionale che sarà messo a disposizione dall’ Amministrazione. Dopodiché, le schede progetto saranno oggetto di verifica in sede di sottoscrizione delle convenzioni. 

In conclusione, questo breve contributo, che presta maggiore attenzione alle categorie dei soggetti fragili e vulnerabili, si inserisce all’interno di una cornice più complessa che intende evidenziare come l’Unione Europea, con il suo programma di finanziamento, ha deciso di gettare le basi per il futuro dell’Europa. 

Il nome “Next generation” non è certamente un caso: è un investimento a favore e nell’interesse delle generazioni future affinché possano godere di economie e società più sostenibili, resilienti e pronte alle nuove sfide del domani. 

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Il 7 giugno 2022 è stato raggiunto l’accordo politico provvisorio tra il Consiglio dell’UE e il Parlamento europeo sul progetto di direttiva relativa a salari minimi adeguati nell’UE a seguito di proposta della Commissione europea del 28 ottobre 2020.  

I motivi che hanno spinto la Commissione a sollecitare l’intervento dei Legislatori trovano ragione nell’ormai radicato aumento della povertà e conseguenti diseguaglianze sociali riscontrabili nel variegato scenario europeo. 

Le cause sono molteplici ed eterogenee: le nuove tendenze strutturali che hanno rimodellato i mercati del lavoro, quali la digitalizzazione, l’aumento delle forme di lavoro atipiche, in particolare nel settore dei servizi, un aumento della percentuale di posti di lavoro a bassa qualifica e dunque a bassa retribuzione e, da ultimo, la crisi COVID-19 la quale ha colpito bruscamente tutti i settori economici, ma in particolare i settori trainati da lavoratori a basso salario, quali il commercio al dettaglio e il turismo. 

Le predette cause, riportate a titolo meramente esemplificativo, hanno senz’altro contribuito all’indebolimento delle strutture di contrattazione collettiva tradizionali cui è conseguito, inevitabilmente, un notevole aumento della povertà lavorativa e delle disuguaglianze salariali. 

Ecco che, alla luce di uno scenario poco confortante l’Unione si è attivata al fine di creare condizioni di base comuni per garantire che i lavoratori dell’UE abbiano accesso a opportunità di impiego e a salari minimi adeguati; condizione necessaria al fine di favorire una ripresa economica che sia al contempo sostenibile ed inclusiva. 

Gli obiettivi della direttiva proposta, che a breve esamineremo, sono del tutto coerenti con l’art. 31 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea secondo cui “Ogni lavoratore ha diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose”, ciò anche nei termini di garantire la riduzione del divario retributivo di genere. 

Anzitutto, è interessante sottolineare che secondo l’UE, al fine di migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle persone nel territorio dell’Unione, e dunque garantire loro dei salari equi che consentano di vivere una vita dignitosa, occorre adottare soluzioni differenti che tengano conto delle diverse tradizioni e dei diversi punti di partenza dei Paesi. 

Nella specie, la tutela garantita dal salario minimo può essere fornita sia mediante contratti collettivi, come accade in sei Stati membri, oppure mediante salari minimi legali stabiliti per legge, come accade in 21 Stati membri. 

Dunque, anziché fissare un salario minimo comune europeo, l’UE intende definire un quadro per salari minimi adeguati in Europa e per farlo rafforza il ruolo delle parti sociali e della contrattazione collettiva.Avv. Eleonora Pintus, Diritto dell’Unione Europea

La direttiva fissa, pertanto, degli obiettivi pertinenti sia per i sistemi basati su un salario minimo legale sia per quelli basati sulla contrattazione collettiva. 

Nuovi obiettivi e come raggiungerli

Come riportato da fonti ufficiali, la direttiva fissa tre obiettivi principali:  

  • stabilisce procedure per l’adeguatezza del salario minimo legale; 
  •  promuove la contrattazione collettiva sulla determinazione del salario; 
  • migliora l’accesso effettivo alla protezione del salario minimo per quei lavoratori che hanno diritto a un salario minimo ai sensi del diritto nazionale (come, ad esempio, quello da salario minimo legale o da contratti collettivi). 

Quanto al primo, gli Stati membri con salari minimi legali sono tenuti a mettere in atto un quadro procedurale per fissare e aggiornare questi salari minimi secondo una serie di criteri improntati alla trasparenza. Gli aggiornamenti dei salari minimi legali dovranno avvenire ogni due anni (o quattro in alcuni casi) e nella procedura di definizione e aggiornamento dei salari minimi legali dovranno essere coinvolte le parti sociali. 

Con il secondo obiettivo, i legislatori hanno convenuto che i paesi dovrebbero promuovere il rafforzamento della capacità delle parti sociali nella contrattazione collettiva e, laddove la contrattazione collettiva sia inferiore a una soglia dell’80%, gli Stati membri sono chiamati a definire un piano d’azione per aumentare progressivamente il tasso di copertura della contrattazione collettiva. 

Nel terzo obiettivo, invece, il Consiglio e il Parlamento europeo hanno concordato di migliorare l’accesso effettivo dei lavoratori alla protezione del salario minimo attraverso: maggiori controlli da parte degli ispettorati del lavoro oppure mediante l’implementazione della capacità delle autorità di perseguire i datori di lavoro non conformi. 

Come anticipato, l’accordo raggiunto è solamente provvisorio e dovrà essere confermato dal Coreper cui farà seguito una votazione formale sia in seno al Consiglio che al Parlamento europeo. 

Definita la cornice della disciplina, viene spontaneo chiedersi quali obblighi gravano, per l’effetto, in capo agli Stati membri. 

Obblighi degli Stati: cosa accadrà in Italia?

Lo strumento normativo prescelto, ossia la Direttiva, consente di fissare prescrizioni minime in materia di condizioni di lavoro applicabili progressivamente dagli Stati membri i quali, a tal fine, saranno chiamati a recepirla nell’ordinamento interno mediante l’adozione di un atto normativo idoneo al conseguimento dello scopo fissato dalla norma comunitaria.  

Nel caso in esame, una volta adottata la Direttiva, gli Stati membri avranno due anni di tempo per recepirla nel diritto nazionale.  

Tuttavia, non bisogna dimenticare che, poiché la competenza in merito alle retribuzioni a livello nazionale spetta agli Stati membri, l’intervento dell’Unione non può che essere circoscritto alle sole situazioni che possono essere affrontate e risolte efficientemente solo a livello europeo. È esattamente ciò che accade nell’ipotesi di accesso a un salario minimo adeguato in cui l’Unione interviene al fine di eliminare le discrepanze nel mercato unico. 

Questo cosa comporta dal lato pratico? 

Ciò comporta che gli Stati membri in cui sono già in vigore disposizioni più favorevoli di quelle elaborate nella proposta di direttiva non saranno tenuti a modificare i loro sistemi di determinazione dei salari minimi sebbene, nell’ottica di migliorare le condizioni di vita e lavoro dei lavoratori, potranno liberamente decidere di andare oltre le prescrizioni minime stabilite. 

La proposta lascia pertanto quanto più margine possibile per le decisioni nazionali. 

Quanto all’Italia, il Ministro dello sviluppo economico ha commentato che i salari rispettano già la soglia minima prevista dall’accordo ma non ha del tutto escluso la possibilità di recepire la direttiva, perlomeno per alcuni settori produttivi. 

Nel nostro paese come è noto, nel 2019 sono state avanzate alcune proposte di legge da parte del Movimento 5 Stelle e del Centro sinistra (cd. ddl Catalfo), ad oggi all’esame del Senato, che prevede: un salario minimo orario di 9 euro lordi l’ora; il riconoscimento dei Ccnl maggiormente rappresentativi, in chiave anti-dumping; un meccanismo di rivalutazione legata all’indice dei prezzi al consumo. 

In conclusione, riassunti gli indirizzi comunitari sul punto, nell’attesa di approvazione definitiva della Direttiva sui salari minimi, non ci si può che auspicare che gli Stati, mossi dall’impulso del legislatore europeo, si attivino al fine di adottare politiche ed applichino disposizioni legislative, regolamentari o amministrative più favorevoli ai lavoratori e riconoscano loro un reddito sufficiente a raggiungere una soglia che garantisca una vita dignitosa ovunque essi decidano di lavorare. 

Eleonora Pintus, Avvocato

 

Si sa che l’Italia, con i suoi monumenti, opere d’arte, patrimonio paesaggistico e tradizioni così variegate è considerato uno dei principali centri culturali ed ambientali del mondo, tanto da vantare il maggior numero di siti iscritti nella lista dei patrimoni dell’umanità dell’Unesco. 

La tutela del patrimonio culturale si basa su un complesso intreccio normativo a livello internazionale, europeo e nazionale. 

Quanto alla disciplina comunitaria, occorre precisare che, sebbene la politica culturale e la cura del patrimonio culturale rientrino tra le materie di competenza degli Stati membri, l’articolo 3, paragrafo 3, del Trattato sull’Unione europea afferma che l’Unione “vigila sulla salvaguardia e sullo sviluppo del patrimonio culturale europeo”. A tal fine, il dettato di cui all’articolo 167 del TFUE dispone ulteriormente che l’Unione è chiamata, in particolare, ad incoraggiare la cooperazione tra gli Stati membri e sostenere il miglioramento “della conoscenza e della diffusione della cultura e della storia dei popoli europei” nonché la “conservazione e salvaguardia del patrimonio culturale di importanza europea”. In tal senso, il Parlamento Europeo insieme al Consiglio sono chiamati ad adottare misure di incentivazione al fine di promuovere la conservazione del patrimonio culturale. 

Ma quali sono i beni oggetto di protezione? 

Sebbene la risposta a questa domanda possa sembrare semplice, al fine di identificare l’oggetto della protezione è preliminarmente necessario identificare un bene come “culturale”, cioè quei beni che, nel loro complesso, costituiscono il patrimonio storico, artistico e culturale identitari di un popolo e, dunque, meritevoli di conoscenza e trasmissione.  

Nell’ordinamento italiano, l’attuale definizione giuridica di “bene culturale” è contenuta nel Codice dei beni culturali e del paesaggio agli articoli 2 e 10 del Decreto Legislativo 22 gennaio 2004 n. 42 secondo cui il patrimonio culturale è costituito dai beni culturali e dai beni paesaggistici. 

Si considerano beni culturali le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà. D’altra parte, devono considerarsi come beni paesaggistici gli immobili e le aree che costituiscono espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio, e gli altri beni individuati dalla legge o in base alla legge. 

Come si può notare, la nozione di bene culturale è particolarmente ampia in quanto ricomprende non solo, ad esempio, le opere d’arte, ma tutto ciò che conserva valore e memoria storica, tanto materiali –  come libri documenti, edifici, siti, reperti e monumenti archeologici –  quanto immateriali, quali le manifestazioni e rappresentazioni popolari, manifestazioni storiche, riti religiosi e processioni come “La Faradda di li candareri” che si tiene a Sassari (Sardegna) la sera precedente alla festa della Madonna Assunta in cui vengono portati su spalla i maestosi candelieri. 

I beni del patrimonio culturale sono destinati alla fruizione della collettività, compatibilmente con le esigenze di uso istituzionale e sempre che non vi ostino ragioni di tutela. 

Come tale, la loro conservazione deve essere garantita e la ricerca del nuovo patrimonio storico implementata. 

Finanziamenti UE in Italia e in Sardegna: la valorizzazione nazionale e internazionale dei Giganti di Mont’e Prama.

L’inserimento del patrimonio culturale nei trattati dell’UE ha portato l’Unione a compiere le prime azioni a sostegno della cultura già nel 1995, mediante la creazione di specifici programmi d’azione dedicati alla tutela del patrimonio culturale e il relativo accesso, la cooperazione con i paesi terzi, organizzazioni internazionali come l’Unesco e il Consiglio d’Europa oltre che attraverso l’adozione di programmi di finanziamento per la ricerca, formazione e mobilità professionale. 

Tra questi rientra il recentissimo programma di lavoro 2022 di “Europa creativa” che prevede una dotazione di circa 385 milioni di euro diretti a rafforzare il suo sostegno ai partner dei settori culturali. 

La sezione Cultura del programma comprende nuovi bandi e iniziative per i settori della musica, del patrimonio culturale, delle arti dello spettacolo e della letteratura oltre che un programma dettagliato di mobilità che offrirà ad artisti, creatori o professionisti della cultura l’opportunità di recarsi all’estero per presentare il loro lavoro o creare congiuntamente nuove espressioni artistiche. 

Poiché i settori culturali e creativi sono sempre stati uno dei settori di punta dell’UE in quanto elementi di coesione sociale, della diversità dell’Europa, come pure della sua economia, per il periodo 2021 – 2027, il bilancio totale destinato ad Europa creativa è stato aumentato a circa 2,4 miliardi di euro, così esprimendo l’impegno dell’Unione europea di sostenere la ripresa del settore e di tutti gli ambiti dei settori culturali e creativi. 

Nel 2021 l’UE è entrata in un nuovo periodo di programmazione pluriennale: con le norme per il FESR, ossia il Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR), uno dei principali strumenti finanziari della politica di coesione, l’UE che si prefigge di contribuire ad appianare le disparità esistenti a livello regionale. 

Un esempio? 

Un investimento di 50 milioni di euro del Fondo europeo di sviluppo regionale nel proseguimento dei lavori di conservazione e restauro del sito archeologico di Pompei, esempio e simbolo dell’archeologia italiana. 

Ma tra le più recenti scoperte archeologiche che l’Unione mira a promuovere ci sono le antichissime culture megalitiche della Sardegna e dell’età Nuragica tra cui i maestosi Guerrieri di Mont’e Prama che, fino a settembre 2022, saranno al centro di un incredibile evento internazionale nei prestigiosi musei di quattro importanti città europee ( Berlino, San Pietroburgo, Salonicco e Napoli) per promuovere la cultura europea e per rendere fruibile la cultura e la civiltà del più antico popolo del Mediterraneo. Gli oltre 213.000 visitatori registrati nelle due sedi di Berlino e San Pietroburgo segnano un ottimo risultato che pone ottime prospettive di successo nella prossima tappa, in Grecia, che ospiterà la mostra dall’11 febbraio al 15 maggio 2022. 

Eccezionalmente, grazie al Ministero della Cultura italiano e alla direzione del Museo archeologico nazionale di Cagliari, una di queste affascinanti, grandi sculture sarà ospite d’onore dell’esposizione “Sardegna Isola Megalitica. Dai menhir ai nuraghi: storie di pietra nel cuore del Mediterraneo”, una mostra promossa dalla Regione Sardegna-Assessorato del Turismo, Artigianato e Commercio con il Museo Archeologico Nazionale di Cagliari e la Direzione Regionale Musei della Sardegna, con il Patrocinio del MAECI e del MIC, la collaborazione della Fondazione di Sardegna e il coordinamento generale di Villaggio Globale International la quale si inserisce all’interno di un articolato progetto di “Heritage Tourism” finanziato proprio dall’Unione Europea, sull’archeologia sarda nel contesto del Mediterraneo. 

In conclusione, questo breve contributo, oltre che suggerire le innumerevoli opportunità di finanziamento destinate dall’Unione alle realtà regionali, mira a sottolineare, altresì, come I finanziamenti destinati alla promozione, valorizzazione e mobilità della cultura rafforzino, direttamente ed indirettamente, il motto stesso dell’Europa “Uniti nella diversità” perché è nella promozione, tutela e divulgazione del patrimonio culturale di un popolo e delle sue origini che deriva la conoscenza, l’inclusione ed il rispetto reciproco dei popoli.Avv. Eleonora Pintus, Diritto dell’Unione Europea

Eleonora Pintus, Avvocato

 

Quanto è sostenibile lo Smart Working nel lungo periodo?
Domenica 23 Febbraio 2020, direzione Vienna: ricevo comunicazione via mail che il Gruppo UniCredit ha imposto il blocco delle trasferte e constestualmente l’obbligo di attivare l’operatività in remoto.

Il Remote working era facoltativo fino ad 1 giorno alla settimana, ma nella pratica una % minimale della popolazione Operations (insieme di strutture decentrate di circa 4.000 colleghi che svolgono attività amministrative di back-office) usufruiva di questa opzione.

Alcune necessità fondamentali per una transizione in full remote working: messa a disposizione di PC portatile per tutti i dipendenti; dimensionamento dei server per garantire un sistema di accesso in sicurezza per oltre 80.000 utenti connessi contemporanei; garantire il piano di continuità operativa attraverso la gestione dei poli di back-up e la combinazione di attività remotizzabili e non (una % delle attività è per natura paper-based, per cui richiede presenza in ufficio).

A fine Marzo, mentre altre società e istituzioni discutono dell’implementazione dello smart working, UniCredit è operativa con l’intera popolazione remotizzata: un salto quantico in poche settimane.Luca Carta, Group OPS Capacity & Performance Mgmt

Ai meeting ricorrenti sull’emergenza sanitaria, si affiancano gli incontri verticali focalizzati sui risultati di business e sulla produttività operativa delle strutture ICT e Operations.

Il monitoraggio degli indicatori industriali in Operations (volumi, produttività, livelli di servizio, incidenti operativi) è parte della mission del mio team, per cui vi è forte interesse a comprendere le dinamiche complessive e la reazione al remote working dei colleghi, in precedenza non abituati al lavoro da casa.

I risultati sono ottimi: la produttività dei team di lavoro cresce, i livelli di servizio in linea con gli standard, gli errori operativi pressoché nulli.

La disponibilità di strumenti operativi evoluti, di allocazione dinamica di attività-risorse e monitoraggio, rappresenta un elemento essenziale per garantire reportistica giornaliera oggettiva in UniCredit.Luca Carta, Group OPS Capacity & Performance Mgmt

Dopo 2 anni di contesto pandemico, si aprono i dibattiti societari e accademici: questo scenario è sostenibile dal punto di vista sociale e accademico ? Tante risposte discordanti a numerosi quesiti posti nelle varie sfere di analisi.

Per quanto riguarda la mia personale esperienza ed opinione, è possibile affermare con ampia certezza che la produttività equivalente/superiore e la comodità di lavorare da casa rendono lo smart working un vero e proprio asset sia per l’azienda che per il dipendente.

La vera sfida è rappresentata dal contesto normativo e dall’evoluzione dei contratti di lavoro, con l’ipotesi di introdurre meccanismi flessibili di retribuzione/gestione ferie legati alla produttività.Luca Carta, Group OPS Capacity & Performance Mgmt

I risultati dipenderanno dalla disponibilità di tutte le parti in causa, a cooperare e rivedere le proprie posizioni di campo.

Luca Carta, Group OPS Capacity & Performance Mgmt

Ho conseguito la laurea triennale in Economia e Finanza presso l’Università di Cagliari e perfezionato i miei studi all’Università Bocconi di Milano con un master in Finanza.
Nonostante il background accademico incentrato su elementi quantitativi, inizio il percorso lavorativo in ambito consulenziale a carattere ICT e Operations presso Banche, Assicurazioni e Oil&Gas.
Dopo 8 anni di consulenza, intermediati da un’esperienza da start-upper, entro in Cerved, realtà leader in Italia nella Business Information & Rating, con il ruolo di supporto al COO.
Nel Maggio 2019 mi trasferisco in UniCredit per seguire una funzione di governance nelle Operations di Gruppo, con il compito di gestire dinamicamente “capacity e attività”, monitorare gli indicatori industriali e presidiare i contratti con i fornitori italiani di back-office.

Focus di diritto tributario, diritto del lavoro • Avv. Francesco Sanna

Smart working e imposizione fiscale

Lo smart working (“lavoro agile), introdotto nel nostro ordinamento nel 2017, è un fenomeno che si stava già diffondendo, ma che visto la sua definitiva affermazione con l’avvento del Covid-19. 

L’articolo 18 della legge del 22 maggio 2017 definisce il “lavoro agile” come l’attività di lavoro subordinato che si svolge in parte all’interno dei locali dell’azienda e in parte all’esterno, senza una postazione fissa. Ciononostante dovranno essere rispettati i limiti dell’orario giornaliero e settimanale in riferimento alla legge e ai contratti collettivi. In buona sostanza il lavoratore non firma un nuovo contratto di lavoro, ma si impegna a prestare la propria attività in modo libero e con la responsabilità anche in termini di sicurezza sul luogo di lavoro. 

Il luogo dove si svolge l’attività può essere scelto dallo stesso lavoratore, può essere sia in Italia che all’estero, in casa propria, o in locale pubblico e al limite anche all’aperto.  

Venendo agli spetti fiscali e previdenziali dello smart working, si osserva come questo sia assimilato alle prestazioni di lavoro autonomo classiche. Quindi è soggetto alla tassazione IRPEF secondo gli stessi criteri e con le stesse eccezioni e sgravi previsti per tutti i lavoratori. 

Spettano a questi dipendenti anche tutti i trattamenti previdenziali e assistenziali previsti a favore della forza lavoro. Si tratta dei contributi ai fini pensionistici da versare all’INPS, del trattamento di malattia e anche all’assicurazione sugli infortuni che dà diritto a ricevere un risarcimento a carico dell’INAIL o nei casi più gravi a ottenere la pensione per malattia professionale o per invalidità. 

Nel caso in cui il lavoratore sia un cittadino che svolge la sua prestazione lavorativa all’estero, il riferimento normativo per quanto riguarda i tributi è il Testo Unico delle Imposte sui redditi, il quale all’articolo 2 indica, quali soggetti tenuti al versamento delle tasse, le persone fisiche residenti e non residenti sul territorio italiano. 

Tuttavia, a seguito del succedersi delle varie normative sul tema, è possibile che ci si trovi con un problema di una doppia imposizione da parte del paese in cui si è svolto il lavoro e di quello di cui si è residenti. 

In linea generale, la normativa alla quale fare riferimento è quella contenuta negli accordi internazionali firmati dalle nazioni “coinvolte” nel rapporto di lavoro in questione. Le possibilità sono che si decida in quale dei due paesi si paghino le tasse, che non ci sia accordo, o che sia prevista la doppia tassazione. 

Le regole base in materia di tassazione dei redditi vanno ricercate nel Testo Unico dei Tributi. L’articolo 3 del TUIR stabilisce che le imposte dovute allo stato italiano si devono calcolare su tutti i redditi prodotti dal soggetto debitore verso il fisco. Questi redditi sono costituiti, per chi risieda in Italia, da tutti i redditi prodotti previa detrazione degli oneri deducibili. 

Per chi invece, pur essendo cittadino italiano, risieda all’estero si deve tenere conto solo dei redditi prodotti sul territorio italiano. Gli altri saranno oggetto di tassazione da parte del paese dove sono prodotti, sulla base delle regole in vigore in quel luogo. 

Pertanto, in ordine allo smart working si ritiene che il luogo in cui viene prodotto il reddito sia quello in cui si trovi fisicamente il lavoratore.Avv. Francesco Sanna, Tributarista

Sul punto, occorre evidenziare che il nostro ordinamento si occupa di definire in che modo si possa stabilire che il reddito sia prodotto in Italia piuttosto che in uno stato straniero. 

L’articolo 23 del TUIR stabilisce che il lavoro dipendente, cioè quello che viene fatto a seguito di un contratto di lavoro, e non in modo autonomo, si considera come prodotto in Italia tutte le volte che quel lavoro sia fisicamente prestato sul territorio nazionale; così, rientra in questa ipotesi anche il caso di colui che con computer o smartphone lavori dall’Italia, pur essendo dipendente di un’azienda estera e pur avendo ufficialmente la residenza in quel paese. 

C’è però un’eccezione nel caso in cui con lo stato di residenza di quel soggetto ci siano degli accordi internazionali che prevedono una regolamentazione diversa ai fini fiscali. In particolare accordi che abbiano il fine di evitare le doppie imposizioni fiscali. 

In merito a tale particolare fattispecie si è interrogata l’Agenzia delle Entrate (interpello numero 626 del 27 settembre 2021), prendendo ad esame un caso del Lussemburgo.Avv. Francesco Sanna, Tributarista

Il caso del richiedente/contribuente era quello di un soggetto di nazionalità italiana, con residenza all’estero, ma che ha lavorato per un lungo periodo in Italia. Il lavoro però era fatto da casa con le modalità del lavoro agile alle dipendenze di un’azienda con sede nel paese dove ha il domicilio abituale. 

Vista la particolarità del caso, il problema da risolvere è quello di capire esattamente che cosa si intenda per luogo di prestazione lavorativa. 

Le possibilità sono due: una è che si abbia come riferimento la sede dell’azienda per la quale si lavora, l’altra è quella di fare una valutazione esclusivamente fisica. 

Secondo l’interpretazione data dell’AdE, con la risposta n. 626 del 27 settembre 2021, il luogo della prestazione del lavoro è quello in cui si svolgono fisicamente le mansioni da contratto. Il riferimento fatto dal fisco è all’articolo 15 della convenzione OCSE dove si dice che il luogo della prestazione è quello dove si trovi fisicamente il lavoratore nel momento in cui porta a termine le sue mansioni. 

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

Smart working: salute e sicurezza del lavoratore

Il cd. lavoro agile o smart working è disciplinato nella Legge n. 81/2017, rubricata “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”.

L’art. 18 della predetta Legge definisce lo smart working come una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato che si differenzia sia dal lavoro subordinato classico che dal telelavoro, in quanto l’attività lavorativa si svolge in parte all’interno dei locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa ed, inoltre, poiché l’organizzazione del lavoro è caratterizzata da un maggiore livello di autonomia in capo al lavoratore nella gestione del tempo e dello spazio, purché egli raggiunga il risultato richiesto.

Come si può immaginare, tale modalità di svolgimento della prestazione lavorativa ha sollevato delle problematiche nuove in tema di tutela della salute e della sicurezza del lavoratore, nonché di responsabilità, anche sotto il profilo penale, del principale garante, ossia il datore di lavoro.

È innegabile che il lavoro agile, per le sue intrinseche caratteristiche, comporti una maggiore difficoltà di gestione di tutti i rischi, generici e specifici, che scaturiscono dall’esercizio all’esterno dell’attività lavorativa, ovvero in un luogo di lavoro la cui scelta è lasciata alla libera autodeterminazione del lavoratore stesso.

La disciplina della sicurezza del lavoratore agile è prevista negli artt. 18 e 22 della L. 81/2017, in cui è stabilito, innanzitutto, che: “il datore di lavoro è responsabile della sicurezza e del buon funzionamento degli strumenti tecnologici assegnati al lavoratore per lo svolgimento dell’attività lavorativa” ed, altresì, che: “il datore di lavoro garantisce la salute e la sicurezza del lavoratore che svolge la prestazione in modalità di lavoro agile e a tal fine consegna al lavoratore e al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, con cadenza almeno annuale, un’informativa scritta nella quale vengono individuati i rischi generali e specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro”.Avv. Claudia Piroddu, Penalista

Dalla lettura del testo normativo è possibile ritenere che, quand’anche ci si trovi dinnanzi ad una nuova e peculiare modalità di esercizio della prestazione lavorativa, ciò di per sé non faccia venire meno la titolarità della posizione di garanzia in capo al datore di lavoro, sebbene, proprio perché una parte del lavoro si svolge all’esterno, l’art. 22 preveda ulteriormente che: “il lavoratore è tenuto a cooperare all’attuazione delle misure di prevenzione predisposte dal datore di lavoro per fronteggiare i rischi connessi all’esecuzione della prestazione all’esterno dei locali aziendali”.

Quindi, da un lato, il datore di lavoro è comunque tenuto a tutelare il lavoratore da tutti i rischi connessi all’esercizio dell’attività lavorativa –sia essa svolta all’interno dei locali aziendali che all’esterno- e, quindi, risponde dell’eventuale mancato adempimento di tali obblighi di protezione e informazione, però, dall’altro lato, il lavoratore è tenuto a cooperare con il datore di lavoro alla gestione del rischio, con una conseguente ridefinizione del perimetro degli obblighi gravanti sul medesimo datore di lavoro.

Quali sono i risvolti pratici delle disposizioni contenute nella L. 81/2017?

Un primo aspetto che occorre affrontare riguarda l’individuazione del luogo di lavoro.

All’evidenza, si tratta di una problematica strettamente connessa al tema della sicurezza sul lavoro, posto che solo l’individuazione dei luoghi di svolgimento della prestazione lavorativa consente al datore di lavoro di adottare un efficace sistema di informazione, formazione e di prevenzione dei rischi, così garantendo una tutela effettiva.

A tale riguardo, l’art. 19 della L. 81/2017 prevede che “l’accordo relativo alla modalità di svolgimento del lavoro agile è stipulato per iscritto ai fini della regolarità amministrativa e della prova e disciplina l’esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali aziendali, anche con riguardo alle forme del potere direttivo del datore di lavoro e degli strumenti utilizzati dal lavoratore”.Avv. Claudia Piroddu, Penalista

Pur nel riconoscere un maggiore livello di autonomia in capo al lavoratore -chiaramente applicabile anche alla scelta del luogo di lavoro-, tuttavia, la normativa prevede che mediante l’accordo delle parti sia possibile regolamentare i criteri e le caratteristiche del luogo ove dovrà svolgersi la prestazione lavorativa, nonché predeterminare i requisiti di sicurezza dello stesso, di cui il lavoratore dovrà essere puntualmente e specificamente informato, e ciò nel pieno rispetto delle norme generali previste a tutela della salute del lavoratore dal T.U. del 2008.

Altro aspetto decisivo connesso alla tematica di cui si discute riguarda proprio gli obblighi di informazione e formazione del datore di lavoro, in ordine ai rischi legati all’esercizio dell’attività lavorativa.

Invero, anche nella disciplina del lavoro subordinato tradizionale, è proprio il corretto adempimento da parte del datore di lavoro dei predetti obblighi che consente a quest’ultimo di limitare o escludere la responsabilità in caso di infortunio del lavoratore.

Nella specie, la norma citata poc’anzi richiede al datore di lavoro la predisposizione di un documento che, individuati i rischi connessi alla tipologia e alle modalità di svolgimento del lavoro, stabilisca, di volta in volta, in che modo sia possibile prevenire ed evitare il verificarsi di eventi avversi.

Pertanto, nel predetto documento (cd. DVR) –che, come detto, richiede un aggiornamento costante, con cadenza perlomeno annuale- dovranno essere indicati i rischi, generici e specifici, ma anche tutte le caratteristiche riguardanti il luogo di lavoro, le modalità di svolgimento dello stesso, l’utilizzo dei dispositivi tecnologici, nonché le informazioni riguardanti il diritto alla riservatezza e alla disconnessione.

In definitiva, la normativa risulta in linea con la caratteristica principale del lavoro agile che, a differenza del lavoro subordinato tradizionale, in cui è spiccata la funzione di controllo da parte del datore di lavoro, invece, pone al centro l’individuo-lavoratore e la sua capacità di organizzazione e collaborazione, con lo scopo di incrementare la competitività, ma anche di agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, attraverso il riconoscimento e la valorizzazione dell’autonomia della persona.Avv. Claudia Piroddu, Penalista

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Focus di diritto civile, diritto del lavoro • Avv. Viola Zuddas

Smart working e diritto alla disconnessione

Lo smart working (o “lavoro agile”), la cui definizione è contenuta nella Legge n. 81/2017, è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato che si caratterizza per la flessibilità organizzativa riconosciuta al lavoratore che, semplificando, non è sottoposto a particolari vincoli di orario o di luogo di lavoro e può, in accordo con il datore di lavoro, organizzare la propria attività per fasi, cicli e obiettivi.

La finalità, dunque, è quella di consentire al dipendente di conciliare le esigenze e gli impegni della propria vita personale con le incombenze legate all’attività professionale svolta, con l’obiettivo di bilanciare l’operatività dell’azienda e la crescita della produttività del lavoratore medesimo.

Affinché i predetti obiettivi siano attuati in concreto, al lavoratore in smart working vengono dati degli strumenti digitali (come ad esempio pc portatili, tablet e smartphone) che gli consentono di lavorare da remoto e, dunque, di svolgere la propria attività professionale in un luogo differente dal posto di lavoro.

Ebbene, come sappiamo la pandemia ha avuto un impatto devastante anche sull’organizzazione del mondo del lavoro ed ha reso necessario – talvolta imposto – il ricorso allo smart working che, dunque, è ormai largamente diffuso sia nel settore pubblico che in quello privato, sia pure con qualche differenziazione e peculiarità.

Ad ogni modo, per avere piena contezza di questo fenomeno, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha istituito con i decreti nn. 87 del 13 aprile 2021 e 99 del 21 aprile 2021 un gruppo di studio denominato “Lavoro agile” cui è stato demandato il compito di esaminare gli effetti dello svolgimento dell’attività di lavoro da remoto per porre in evidenza le criticità riscontrate dai dipendenti nella sua applicazione e, successivamente, individuare le possibili soluzioni da sottoporre alle parti sociali.

Difatti, bisogna ricordare che i lavoratori in smart working hanno spesso lamentato delle problematiche in ordine allo svolgimento concreto della prestazione rispetto alla complessiva organizzazione del lavoro operata dall’azienda, alla condivisione di informazioni in tempi ridotti rispetto al lavoro svolto in ufficio ed al bilanciamento equilibrato tra reperibilità e pausa dal lavoro.

Sul punto è bene ricordare che il Protocollo Nazionale sul Lavoro Agile ribadisce (clicca qui per un approfondimento: https://www.lavoro.gov.it/notizie/Documents/PROTOCOLLO-NAZIONALE-LAVORO-AGILE-07122021-RV.pdf ) che – ferme restando le previsioni di legge e di contratto collettivo – la giornata lavorativa svolta in modalità agile si caratterizza per l’assenza di un preciso orario di lavoro e per l’autonomia nello svolgimento della prestazione nell’ambito degli obiettivi prefissati, nonché nel rispetto dell’organizzazione delle attività assegnate dal responsabile a garanzia dell’operatività dell’azienda e della produttività del singolo.

In tale contesto, non deve dimenticarsi che la prestazione di lavoro può essere articolata in fasce orarie nelle quali, però, dev’essere chiaramente individuata quella cosiddetta di “disconnessione”, cioè quel lasso di tempo in cui il dipendente non eroga la prestazione professionale e, dunque, non è nemmeno reperibile per motivi di lavoro.Avv. Viola Zuddas, Civilista

Infatti, risulta assolutamente necessario garantire al lavoratore in smart working delle pause dalla attività lavorativa al fine di mantenere un sano equilibrio tra le esigenze dell’azienda e quelle del dipendente medesimo.

Affinché ciò si realizzi in concreto, dunque, è necessario che i datori di lavoro adottino delle specifiche misure tecniche e/o organizzative per garantire ai propri dipendenti di beneficiare della fascia di disconnessione che, secondo quanto previsto anche in sede di contrattazione collettiva, corrisponde ad un periodo di riposo consecutivo giornaliero non inferiore ad 11 ore per il recupero delle energie psicofisiche.

Tra l’altro, nei casi di assenze cosiddette legittime (come ad esempio malattia, infortuni, permessi retribuiti, ferie, ecc.), il dipendente può disattivare i propri dispositivi di connessione e, in caso di ricezione di comunicazioni aziendali, non è comunque obbligato a prenderle in carico prima della prevista ripresa dell’attività lavorativa.

Ebbene, come si può evincere da questa breve analisi, sono riconosciute al lavoratore in smart working diverse tutele, in parte assimilabili a quelle spettanti ai colleghi che svolgono la prestazione con modalità ordinarie, che sono volte a conciliare le esigenze del dipendente e quelle di produttività dell’azienda.

Ci si chiede, però, quante di queste siano effettivamente applicate e in che misura possano dirsi veramente efficaci.

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Il diritto alla disconnessione nell’UE: esigenze normative

La digitalizzazione e l’utilizzo adeguato degli strumenti digitali hanno portato numerosi vantaggi e benefici economici e sociali ai datori di lavoro e ai lavoratori, quali, in particolare, quello di migliorare l’equilibrio tra vita professionale e vita privata oltre che la riduzione dei tempi di spostamento.

D’altra parte, però, hanno causato anche degli svantaggi, quali l’intensificazione del lavoro e l’estensione dell’orario di lavoro, rendendo decisamente meno netti i confini tra attività lavorativa e vita privata.

A partire dalle stesse Istituzioni dell’Unione Europea e, in particolare, dal Parlamento, è stata sottolineata l’esigenza di “educare” alla nuova cultura del lavoro a distanza.

Infatti, una delle conseguenze dell’utilizzo sempre maggiore degli strumenti digitali a scopi lavorativi ha comportato la nascita di una cultura – come definita dal Parlamento – del “sempre connesso”, “sempre online” o “costantemente di guardia” che può ledere diritti fondamentali dei lavoratori con conseguente attentato all’equilibrio psico – fisico dei medesimi.

Posto che, ad oggi, non esiste una normativa specifica dell’Unione sul diritto dei lavoratori alla disconnessione dagli strumenti digitali, comprese le tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni (TIC), a scopi lavorativi, il Parlamento Europeo, il 21 gennaio 2021, ha adottato una Risoluzione recante raccomandazioni alla Commissione sul diritto alla disconnessione (2019/2181(INL)).

In particolare, il Parlamento ha invitato la Commissione ad includere il diritto alla disconnessione nella sua nuova strategia in materia di salute e sicurezza sul lavoro e di elaborare puntualmente ed in maniera esplicita nuove misure e azioni nell’ambito della salute e della sicurezza sul lavoro.Avv. Eleonora Pintus, Diritto Internazionale e dell’Unione Europea

La transizione digitale ha bisogno, infatti, di essere guidata dal rispetto dei diritti umani, dei diritti e dei valori fondamentali dell’Unione al fine di salvaguardare i lavoratori e garantire idonee condizioni di lavoro.

Ecco perché, nella Risoluzione, il Parlamento ha indirizzato la Commissione affinché valuti e affronti i rischi legati all’odierna mancata tutela del diritto alla disconnessione, invitando la stessa a presentare, sulla base di un esame dettagliato ed una consultazione degli Stati membri e delle parti sociali, una proposta legge – e nella specie di una direttiva – circa le norme e condizioni minime per i lavoratori affinché possano esercitare il diritto alla disconnessione.

Ma vi è di più: nell’ottica di un libero mercato e del nuovo valore acquisito dal diritto alla libera circolazione dei lavoratori, il Parlamento ha invitato la Commissione a presentare un quadro legislativo che stabilisca i requisiti minimi sul lavoro a distanza in tutta l’Unione, che sia capace di garantire che il telelavoro non pregiudichi le condizioni di impiego dei telelavoratori.

Il diritto alla disconnessione implica, in ogni caso, che i lavoratori possano astenersi dallo svolgere mansioni e, più in generale, altro genere di attività o anche comunicazioni elettroniche lavorative – quali telefonate, email e altri messaggi – al di fuori del loro orario di lavoro, compresi i periodi di riposo, i giorni festivi congedi, e ciò senza che questi possano subire conseguenze negative sul piano lavorativo e nell’ambito dei rapporti di lavoro.

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Sono sempre di più i giovani che, facendosi portatori di idee originali ed innovative, cercano di trovare uno spazio nel mercato dell’imprenditoria attraverso la traduzione dei loro progetti in opportunità professionali. 

Nascono così le start-up, ossia organizzazioni di recente creazione che possono operare in diversi campi, non solo tecnologico, con l’obiettivo principale di crescere e trasformarsi velocemente in grandi imprese grazie ai loro prodotti innovativi.  

È proprio l’innovazione al centro del modello di business della start-up: esse nascono, infatti, per soddisfare esigenze non ancora soddisfatte dal mercato.  

Va da sé che a contraddistinguere le start-up sia proprio il rischio estremamente elevato connesso alla riuscita del progetto il quale, stante la sua innovatività, è maggiormente esposto a numerose variabili e dunque al fallimento. 

Pertanto, stante la difficoltà a fornire i livelli di garanzie richiesti, tali imprese – poco conosciute e non quotate – potrebbero avere problemi ad ottenere finanziamenti sufficienti presso le banche.  

Ecco perché, al fine di garantire spazio alla giovane imprenditoria, generalmente priva di un proprio capitale ed incapace di fornire garanzie, sono stati creati dei fondi che raccolgono somme di denaro da parte di investitori interessati al progetto di investimento.Avv. Eleonora Pintus, Diritto dell’Unione Europea

Detta operazione prende il nome di private equity: trattasi di un’operazione finanziaria di medio-lungo termine, posta in essere da investitori specializzati e finalizzata ad apportare capitale di rischio in una società (detta target), generalmente non quotata, in base a una valutazione positiva della sua attitudine alla crescita. 

I fondi di private equity hanno una durata media di dieci o dodici anni. 

Ciò detto, si specifica che laddove il fondo investa in una società che si trova nella sua fase iniziale, ossia le start-up, allora si parla più propriamente di fondi di venture capital, ossia fondi che investono in aziende non quotate, nuove, innovative e con un elevato potenziale di crescita e sviluppo. 

Cos’è il venture capital e come ottenere finanziamenti?

Il venture capital, come detto, è un tipo di private equity che si concentra sul finanziamento di start-up o piccole imprese emergenti, innovative e in fase di avviamento che si ritiene abbiano un alto potenziale di crescita.  

Gli investimenti di venture capital sono di solito effettuati tramite un fondo, che mette insieme capitale di diversi investitori (soci sottoscrittori del fondo o limited partner), il quale viene gestito a sua volta da un gestore del fondo (socio amministratore o general partner).  

Se dunque l’idea e il modello imprenditoriale si rivelano potenzialmente vincenti, superati i “timori” connessi ai rischi impliciti, le start-up vengono considerate idonee a generare alti rendimenti e, come tale, potenziali destinatari del finanziamento. 

I venture capitalist, dunque, colmano il deficit di finanziamento imposto dai finanziamenti tradizionali perché sono disposti ad accettare maggiori rischi rispetto alle banche, contando sulle opportunità di alto rendimento della giovane impresa o, più semplicemente, per ragioni strategiche. 

È nella fase di sviluppo iniziale e successiva, ossia quella in cui vi è bisogno di più capitale per sviluppare e realizzare il modello imprenditoriale, che i venture capitalist entrano in gioco per poi “uscire” soltanto alla fine di tale fase. Ciò avviene quando le imprese di successo iniziano a divenire profittevoli e ad aumentare entrate e utili: in tal caso, se i venture capitalist hanno investito in tali imprese cercheranno di venderle per ottenere un rendimento. 

Ma come si può accedere al venture capital in Europa?  

Il mercato dei venture capital in Europa

In linea con gli obiettivi del piano d’azione europeo, noto come Strategia Europa 2020, per migliorare l’accesso ai finanziamenti per le piccole e medie imprese (“PMI) è stato adottato il Regolamento UE n. 345/2013 del Parlamento Europeo e del Consiglio sui “Fondi Europei per il Venture Capital”, entrato in vigore il 22 luglio 2013. 

Senza addentrarci nella complessiva normativa in materia, è qui sufficiente sottolineare che il Regolamento detta una disciplina comune a livello europeo di cui sono destinatari i fondi di investimento per il venture capital e mira a superare la diversità e complessità delle legislazioni degli Stati europei e, di conseguenza, degli elevati costi di raccolta che per lungo tempo hanno disincentivato questa tipologia di fondi.  

Il Regolamento stabilisce norme uniformi applicabili a tutti i fondi europei per il venture capital che desiderino raccogliere e investire capitale con la denominazione “EuVECA” (European Venture Capital Fund); ciò da cui discende un’applicazione uniforme della normativa nei confronti dei gestori di fondi operanti in Europa e conseguente eliminazione di indebite distorsioni tra fondi particolari di Stati membri differenti. 

Nell’ambito del quadro finanziario pluriennale 2014-2020, l’UE ha sostenuto l’accesso delle PMI e delle piccole e medie imprese al capitale di rischio attraverso vari programmi, quali: 

  • lo strumento finanziario azionario unico dell’UE che sostiene la crescita, la ricerca e l’innovazione (R&I) delle imprese europee dalla fase iniziale, compresa l’avviamento, fino alla fase di espansione e crescita. 
  • il Fondo europeo per gli investimenti strategici (FEIS) dispone di uno strumento di capitale proprio. 
  • il programma Pan-European Venture Capital Fund-of-Funds ( VentureEU ) che ha come fine quello di colmare ulteriormente il divario azionario dell’Europa investendo in VC Fund-of-funds. 
  • il programma ESCALAR (European Scale-up Action for Risk Capital): un meccanismo di rischio/rendimento per supportare le scale-up con capitale di rischio e finanziamento della crescita. 

In conclusione, vista la complessità del settore, si segnala al giovane imprenditore che legge questo contributo che, al fine di scoprire quale finanziamento si addice alle proprie esigenze, è possibile visitare il sito dello Startup Europe Club per cercare possibilità di finanziamento. 

Da ultimo, si segnala, altresì, che per aumentare la visibilità del proprio progetto imprenditoriale, è possibile registrarlo nel portale dei progetti di investimento europei ed entrare in contatto con eventuali investitori a livello internazionale. 

Eleonora Pintus, Avvocato

La sicurezza dei prodotti cosmetici

Per poter definire la sicurezza di un prodotto cosmetico è necessario fare una premessa: i cosmetici, per loro definizione, non possono provocare effetti nocivi, ma solo effetti benefici per l’organismo.

Ai sensi dell’art.3 del Regolamento 1223/2009, Testo Unico in materia vigente nel territorio europeo, i prodotti cosmetici messi a disposizione sul mercato “sono sicuri per la salute umana se utilizzati in condizioni d’uso normali o ragionevolmente prevedibili”.

La sicurezza dei prodotti cosmetici è, dunque, un requisito essenziale ai fini della loro immissione sul mercato.
Come tale, al fine di garantire tale adempimento, la presentazione non deve essere ingannevole, l’etichetta deve indicare istruzioni d’uso, avvertenze, modalità di smaltimento del prodotto e qualsiasi altra informazione necessaria al consumatore.Lucia Palmas, Farmacista

Appare tuttavia spontaneo chiedersi come, dal punto di vista pratico, venga garantita la sicurezza di un prodotto cosmetico.

Anzitutto, il primo passo verso la sicurezza è garantito dal soddisfacimento delle GMP, Buone Pratiche di Fabbricazione. Trattasi di un insieme di processi, procedure e documenti, che le aziende cosmetiche sono tenute a rispettare in conformità al predetto Regolamento e che assicurano che i cosmetici siano prodotti secondo gli standard di qualità previsti dalla normativa vigente.

In secondo luogo, è necessario l’intervento di un soggetto deputato al controllo preventivo all’immissione in commercio dei prodotti cosmetici
Questi, nella specie, deve assicurarsi che i prodotti siano previamente sottoposti ad una valutazione della sicurezza.
Lucia Palmas, Farmacista

La relazione sulla sicurezza consta di due parti:

  • la prima include le caratteristiche tecniche del prodotto;
  • la seconda parte è, invece, la vera e propria valutazione della sicurezza effettuata da un “valutatore della sicurezza”, ossia un soggetto dotato di competenze tecniche, titoli ed esperienza necessari per effettuare questo tanto tecnico quanto delicato test di valutazione.

Il valutatore, dunque, è chiamato a redigere la relazione in seguito allo studio del prodotto, spiegando la motivazione scientifica alla base delle conclusioni della valutazione, le conclusioni ed eventuali avvertenze da riportare in etichetta; infine firma il tutto con data e luogo.

Questo documento viene inserito nel PIF, Product information file, che contiene le informazioni sul prodotto cosmetico e viene detenuto dalla persona responsabile nell’eventualità in cui le autorità possano richiederlo.

In questa fase assume un ruolo particolarmente rilevante un organo della Commissione Europea, il “CSSC”, Comitato Scientifico per la Sicurezza dei Consumatori, il quale si occupa di esprimere pareri in materia non alimentare, e quindi anche cosmetica, a seguito di espressa richiesta da parte della Commissione Europea.
Dopo aver effettuato la valutazione del rischio della sostanza in esame, il Comitato può alternativamente esprimere parere positivo, legittimando l’utilizzo della sostanza, oppure parere negativo, con conseguente richiesta di intervento della Commissione Europea affinché ne vieti o limiti l’uso.Lucia Palmas, Farmacista

Dagli anni ‘70 questa istituzione ha valutato tantissimi ingredienti cosmetici al fine di garantire la loro sicurezza e permettendo l’aggiornamento degli allegati al Regolamento relativi alle sostanze vietate o il cui uso è limitato.

Un altro aspetto che garantisce la sicurezza dei prodotti è dato dalla fitta rete di sorveglianza post market che viene attuata in ogni Stato dagli organi preposti. In Italia, ad esempio, questo compito è svolto dal Ministero della salute che incarica gli organi territorialmente competenti, ossia NAS e ASL.

Questi ultimi possono, nell’ambito della loro attività ispettiva: richiedere la documentazione informativa sul prodotto alla persona responsabile; disporre il ritiro di lotti interessati da eventuali discrepanze; effettuare analisi e cooperare con le autorità di altri Stati membri qualora sia necessario.

In questo ambito si colloca la Cosmetovigilanza la quale costituisce la raccolta, valutazione e monitoraggio delle segnalazioni di effetti indesiderabili osservati durante o dopo l’utilizzo normale o ragionevolmente prevedibile di un prodotto cosmetico. Ciò è particolarmente rilevante in quanto, qualora un prodotto dovesse provocare effetti indesiderati in una parte notevole della popolazione, scatta l’allerta per CSSC che studierà il caso, con conseguente adozione di adeguati provvedimenti da parte della Commissione.

Come si può notare, il sistema che garantisce la sicurezza dei prodotti cosmetici è molto complesso ed efficiente.

In ogni caso, è sempre opportuno che il consumatore utilizzi i prodotti cautamente e secondo le indicazioni riportate in etichetta.

Lucia Palmas, Farmacista

Mi sono laureata in Chimica e Tecnologia Farmaceutiche presso l’Università di Cagliari con una tesi sull’utilizzo di principi attivi estratti da agrumi autoctoni come antibatterici.
Ho conseguito l’abilitazione alla professione di farmacista e in seguito al mio percorso di studi ho svolto alcune esperienze professionali e accademiche all’estero, prima in Spagna (Oviedo) presso una start up di biotecnologie con applicazioni nel campo farmaceutico e cosmetico, poi in Argentina presso la rinomata “Universidad de Buenos Aires, facultad de farmacia” presso cui ho svolto attività di ricerca per lo sviluppo di una terapia antitubercolare.
Ho, inoltre, pubblicato come co-autore un articolo scientifico nella rivista “Molecules”.
Attualmente sono una specializzanda al secondo anno presso COSMAST, Master in Scienza e Tecnologia Cosmetiche dell’Università di Ferrara.

Focus di diritto tributario • Avv. Francesco Sanna

Aliquota IVA applicabile alle cessioni dei prodotti cosmetici

In ordine all’ambito di applicazione dell’articolo 124 del decreto Rilancio, si specifica che con la locuzione ‹‹detergenti disinfettanti per mani›› il legislatore ha voluto far riferimento ai soli prodotti per le mani con azione disinfettante (i.e. biocidi e presidi medico-chirurgici), soggetti alla preventiva autorizzazione delle autorità competenti. I comuni igienizzanti/detergenti per le mani, per i quali non è prevista alcuna specifica autorizzazione, non possono dunque considerarsi ricompresi nell’elenco di cui all’articolo 124 del decreto in esame, in quanto non svolgono un’azione disinfettante, limitandosi a rimuovere lo sporco e i microrganismi in esso presenti.

Pertanto, fermi restando i codici doganali individuati dall’ADM nella circolare 12/D del 2020, si ritiene che devono considerarsi agevolabili non tutti i prodotti corrispondenti ai codici TARIC, bensì solo i biocidi e i presidi medicochirurgici autorizzati per l’igiene umana (PT1) e quelli utilizzabili sia per l’igiene umana sia per disinfettare le superfici (PT1/PT2), i cui principi attivi devono rispettare le percentuali indicate dall’Istituto Superiore della Sanità nel Rapporto 19/2020 Rev.

Poiché trattasi di prodotti soggetti alla preventiva autorizzazione dell’autorità del Ministero della salute, in assenza di questa autorizzazione o nelle more della stessa, la relativa cessione non potrà beneficiare dell’esenzione IVA prevista dall’articolo 124, comma 2, o all’aliquota IVA del 5 per cento.Francesco Sanna, Avvocato

Ancora, tra i beni soggetti all’aliquota IVA ridotta del 10% sono inclusi i dispositivi medici classificabili nella voce 3004 della Nomenclatura combinata e non anche i prodotti cosmetici o per la cura della pelle classificati nella voce 3304, ai quali deve essere pertanto applicata l’aliquota IVA ordinaria pari al 22%.

Questo è quanto chiarito dall’Agenzia delle Entrate nella risposta all’interpello n. 545 del 16 agosto 2021, relativa all’ambito applicativo del n. 114) della Tabella A, Parte III, allegata al D.P.R. n. 633/1972, riferito ai ‹‹medicinali pronti per l’uso umano o veterinario, compresi i prodotti omeopatici; sostanze farmaceutiche ed articoli di medicazione di cui le farmacie devono obbligatoriamente essere dotate secondo la farmacopea ufficiale››.

Secondo l’Agenzia, in base all’art. 1, comma 3, della L. n. 145/2018 (Legge di Bilancio 2019), devono intendersi compresi nell’elenco in esame anche i dispositivi medici a base di sostanze normalmente utilizzate per cure mediche, per la prevenzione delle malattie e per trattamenti medici e veterinari, classificabili nella voce 3004 della Nomenclatura combinata di cui all’allegato 1 del Regolamento di esecuzione n. 2017/1925/UE.

Tale norma di interpretazione autentica intende risolvere il problema dell’applicazione dell’aliquota IVA ridotta per quei prodotti che, pur classificati – ai fini doganali – tra i prodotti farmaceutici e medicamenti, non sono commercializzati come tali, bensì come dispositivi medici.

Fermo restando che la classificazione merceologica di un prodotto rientra nella competenza esclusiva dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, questa ha ritenuto che per i prodotti di bellezza o per il trucco preparati e preparazioni per la conservazione o la cura della pelle, diversi dai medicamenti, comprese le preparazioni antisolari e le preparazioni per abbronzare, ecc. sia più pertinente la classificazione di cui alla voce 3304 e così l’aliquota iva al 22%.Francesco Sanna, Avvocato

In conclusione l’Agenzia delle Entrate, in virtù del fatto che le aliquote ridotte, in quanto eccezione all’aliquota ordinaria, per costante giurisprudenza comunitaria, devono essere interpretate restrittivamente e non sono applicabili per analogia, ma solo nelle ipotesi tassativamente previste, ai prodotti in questione non può essere applicata l’aliquota ridotta del 10% di cui al citato n. 114) della Tabella A, Parte III, allegata al D.P.R. n. 633/1972, dovendo essere assoggettati all’aliquota ordinaria.

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

La disciplina penale italiana in materia di prodotti cosmetici

Con il Decreto legislativo n. 204 del 4 dicembre 2015, rubricato “Disciplina sanzionatoria per la violazione del regolamento n. 1223/2009 sui prodotti cosmetici”, sono state introdotte sanzioni di natura penale ed amministrativa per le violazioni degli obblighi derivanti dalla normativa europea, in materia di fabbricazione, produzione, distribuzione e messa in commercio di prodotti cosmetici.

In particolare, il regolamento europeo ha armonizzato le norme riguardanti la sicurezza, i controlli e la responsabilità della produzione e vendita dei prodotti cosmetici nell’Unione Europea, definendo, nell’art. 2, il prodotto cosmetico come: “qualsiasi sostanza o miscela destinata ad essere applicata sulle superfici esterne del corpo umano (epidermide, sistema pilifero e capelli, unghie, labbra, organi genitali esterni) oppure sui denti e sulle mucose della bocca allo scopo esclusivamente o prevalentemente di pulirli, profumarli, modificarne l’aspetto, proteggerli, mantenerli in buono stato o correggere gli odori corporei”.

Con l’ulteriore precisazione che: “una sostanza o miscela destinata ad essere ingerita, inalata, iniettata o impiantata nel corpo umano non è considerata un prodotto cosmetico”.

Quindi, tenuto conto della formulazione, del sito di applicazione e della funzione del prodotto, è possibile classificare come “prodotto cosmetico” varie tipologie di prodotti, che vanno dalle creme, lozioni, maschere di bellezza, saponi, deodoranti, profumi, tinture per capelli, prodotti per la rasatura, prodotti per il trucco e lo strucco, ai prodotti per l’igiene dei denti e della bocca, per la cura delle unghie, per l’igiene intima esterna, nonché i prodotti solari.

Le fattispecie penali principali

Tanto premesso, giova sottolineare che la dichiarata finalità della normativa italiana è quella di punire le violazioni che comportano la lesione o la messa in pericolo della salute e della sicurezza dei consumatori.

È il Ministero della Salute, unitamente alle ASL territoriali, a dover verificare la corretta applicazione del regolamento.

Le fattispecie previste dal decreto legislativo n. 204 del 4 dicembre 2015 sono piuttosto variegate e disciplinano tanto le violazioni in materia di sperimentazione animale, di fabbricazione, etichettatura e confezionamento non conformi, nonché di impiego di sostanze classificate come cancerogene o tossiche, quanto in materia di inadempimento degli obblighi di informazione sugli effetti indesiderati e cooperazione.

In particolare, l’art. 3 punisce chiunque produce, detiene per il commercio o pone in commercio prodotti cosmetici che, nelle condizioni d’uso normali o ragionevolmente prevedibili, possono essere dannosi per la salute umana, con la pena della reclusione da 1 a 5 anni e con la multa non inferiore a 1.000 euro.

Peraltro, la norma disciplina sia la condotta dolosa appena descritta, che ricorre quando l’evento dannoso o pericoloso che è il risultato dell’azione od omissione e da cui la Legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione, e sia, al secondo comma, la condotta colposa, che sussiste qualora l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza, imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti ordini o discipline (art. 43 c.p.).

In tale seconda ipotesi, il citato art. 3 del D. Lvo n. 204/2015, prevede la riduzione della pena da un terzo a un sesto.

Nel successivo art. 10, inoltre, viene disciplinato l’impiego nella fabbricazione di prodotti cosmetici di sostanze vietate a livello europeo, condotta punita in via sussidiaria, ovvero salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la reclusione da 6 mesi a 2 anni e con la multa da 2 mila a 15 mila euro o, se il fatto è commesso con colpa, con l’arresto da 3 mesi ad 1 anno o con l’ammenda da 1.000 a 10 mila euro.

Costituisce reato -seppure trattasi di contravvenzione- anche l’immissione sul mercato di prodotti cosmetici in violazione della disciplina in materia di sperimentazione animale, disciplinata nell’art. 12 del Decreto in esame e punita con l’arresto da 1 mese ad 1 anno e con l’ammenda da 500 a 5 mila euro.

Il Decreto introduce, altresì, le sanzioni amministrative pecuniarie fino a 25 mila euro in caso di inadempimento degli obblighi di informazione e cooperazione a carico dei soggetti responsabili dell’immissione sul mercato di prodotti non conformi alla disciplina vigente, così come i distributori che violano gli obblighi in materia di verifiche del prodotto, condizioni di stoccaggio, trasporto e collaborazione con le autorità competenti.

Da ultimo, giova segnalare una clausola di esclusione della responsabilità in capo al commerciante.

Invero, nell’art. 17 è previsto che le sanzioni enunciate non si applicano al commerciante che detiene, pone in vendita o comunque distribuisce per il consumo prodotti cosmetici in confezioni originali, qualora la mancata rispondenza alle prescrizioni della legge stessa riguardi i requisiti intrinseci o la composizione dei prodotti o le condizioni interne dei recipienti e sempre che il commerciante non sia a conoscenza della violazione e la confezione non presenti segni di alterazione.

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Focus di diritto civile, tutela della persona • Avv. Viola Zuddas

Cosmetici e sperimentazione sugli animali

Per prodotto cosmetico, ai sensi dell’art. 2 del Regolamento CE n.1223/2009 (per leggerlo per intero cliccare il seguente link: eur-lex.europa.eu ) si intende «qualsiasi sostanza o miscela destinata ad essere applicata sulle superfici esterne del corpo umano (epidermide, sistema pilifero e capelli, unghie, labbra, organi genitali esterni) oppure sui denti e sulle mucose della bocca allo scopo esclusivamente o prevalentemente di pulirli, profumarli, modificarne l’aspetto, proteggerli, mantenerli in buono stato o correggere gli odori corporei».

Tali prodotti, come precisato nel focus a cura della Dott.ssa Lucia Palmas, possono essere immessi nel mercato quando siano sicuri per la salute umana se utilizzati in condizioni d’uso normali o ragionevolmente prevedibili, così come prescritto dall’art. 3 del Regolamento già citato.

Difatti, la sicurezza dei prodotti cosmetici è un requisito essenziale e richiede l’adempimento – da parte del produttore e del fornitore – di una serie di obblighi, tra i quali brevemente si possono ricordare:

  • il soddisfacimento delle Buone Pratiche di Fabbricazione (cosiddette “GMP”), ovvero quell’insieme di processi, procedure e documenti che le aziende sono tenute a rispettare e che assicurano che i cosmetici siano prodotti secondo gli standard di qualità previsti dalla normativa vigente,
  • la presentazione del cosmetico non deve essere ingannevole,
  • l’etichetta deve indicare istruzioni d’uso, avvertenze, modalità di smaltimento del prodotto e qualsiasi altra informazione necessaria al consumatore.

Chiarito ciò, deve mettersi in risalto un aspetto legato al mondo della cosmesi (e, più in generale, a quello medico – sanitario) che è ritenuto molto controverso, ovvero la sperimentazione sugli animali.

A cosa serve la sperimentazione animale?

Molte persone provano comprensibile disagio all’idea che vengano condotti dei test sugli animali nonostante siano ritenuti assolutamente necessari dalla comunità scientifica al fine di garantire maggiore sicurezza e, dunque, tutela alle persone che fanno uso dei prodotti.

Pensiamo, ad esempio, ai farmaci che devono essere somministrati ai malati o alle terapie che devono essere seguite per un certo lasso temporale: alcuni effetti non compaiono nelle cellule isolate che si usano nei primi esperimenti in laboratorio ma soltanto in un organismo completo, dotato di tutti gli organi che possono ricevere e modificare la terapia stessa.

Per tale motivo, risulta necessario eseguire dei test sugli animali con i quali si condivide gran parte del cammino evolutivo e, quindi, delle molecole: così facendo, si potranno ottenere delle indicazioni che, secondo la comunità scientifica, sono indispensabili per verificare non solo l’efficacia di un farmaco o di una terapia ma, in primo luogo, la sicurezza stessa della medesima.

L’importanza della sperimentazione animale, tra l’altro, è testimoniata anche dal fatto che sia imposta obbligatoriamente dalla legge prima che venga effettuata quella clinica nell’uomo, che è possibile solo ed in quanto quella animale abbia dato responso positivo.

Gli animali, però, vengono tutelati?

La sperimentazione animale è, comunque, regolata da una normativa molto severa che mira a tutelare gli animali, minimizzandone lo stress e il dolore, e ne limita l’utilizzo al minimo indispensabile ai fini della ricerca.

Ebbene, in campo medico è necessario ottenere la preventiva autorizzazione da parte del Ministero della Salute che, di fatto, rilascia parere positivo solo dopo aver accertato che, per condurre la ricerca, non sussistano strumenti alternativi alla sperimentazione animale.

L’Italia, poi, ha recepito la Direttiva 2010/63/UE sulla protezione degli animali utilizzati a fini scientifici che mira ad offrire una disciplina unitaria a livello europeo in materia di sperimentazione animale e che si pone l’obiettivo di tutelare il benessere degli animali che, tra l’altro, è uno dei valori sanciti nel Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea.

Inoltre, è opportuno sottolineare che il Parlamento italiano ha previsto delle normative più restrittive rispetto a quelle introdotte con la citata Direttiva che, però, non hanno trovato il sostegno della comunità scientifica che ha rilevato come le difficoltà nel condurre la sperimentazione animale si riflettano anche sull’accesso ai fondi ed ai finanziamenti per la ricerca.

Per tale motivo, è stata introdotta una moratoria sulle restrizioni introdotte dall’Italia che, dunque, non sono di fatto entrate in vigore nella loro totalità.

Quali sono i riflessi sull’industria cosmetica?

Il Regolamento CE n. 1223/2009, già citato all’inizio di questo articolo, rappresenta un sistema articolato di disposizioni che garantisce la sicurezza dei prodotti cosmetici presenti sul mercato dell’UE e, quanto alla sperimentazione animale, impone degli specifici standard nella conduzione dei test che incidono anche sull’immissione dei prodotti nel mercato.

Nello specifico, l’art. 18, primo comma – rubricato “Sperimentazione animale” – dopo aver fatto salvi gli obblighi di cui all’art. 3, vieta:

  1. l’immissione sul mercato dei prodotti cosmetici la cui formulazione finale sia stata oggetto, allo scopo di conformarsi alle disposizioni del presente regolamento, di una sperimentazione animale con un metodo diverso da un metodo alternativo dopo che un tale metodo alternativo sia stato convalidato e adottato a livello comunitario, tenendo debitamente conto dello sviluppo della convalida in seno all’OCSE;
  2. l’immissione sul mercato dei prodotti cosmetici contenenti ingredienti o combinazioni di ingredienti che siano stati oggetto, allo scopo di conformarsi alle disposizioni del presente regolamento, di una sperimentazione animale con un metodo diverso da un metodo alternativo dopo che un tale metodo alternativo sia stato convalidato e adottato a livello comunitario, tenendo debitamente conto dello sviluppo della convalida in seno all’OCSE;
  3. la realizzazione, all’interno della Comunità, di sperimentazioni animali relative a prodotti cosmetici finiti, allo scopo di conformarsi alle disposizioni del presente regolamento;
  4. la realizzazione, all’interno della Comunità, di sperimentazioni animali relative a ingredienti o combinazioni di ingredienti allo scopo di conformarsi alle disposizioni del presente regolamento, dopo la data in cui dette sperimentazioni vanno sostituite da uno o più metodi alternativi convalidati che figurano nel regolamento (CE) n. 440/2008 della Commissione, del 30 maggio 2008, che istituisce dei metodi di prova ai sensi del regolamento (CE) n. 1907/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio concernente la registrazione, la valutazione, l’autorizzazione e la restrizione delle sostanze chimiche (REACH) o nell’allegato VIII del presente regolamento.

Quindi gli animali sono davvero tutelati?

Quelle che abbiamo poc’anzi analizzato sono soltanto alcune delle disposizioni che regolano la sperimentazione animale in ambito scientifico e cosmetico.

Per poter chiarire se gli animali che vengono impiegati nella sperimentazione siano davvero tutelati e se queste regole siano in concreto utili al fine di minimizzare lo stress ed il dolore cui questi vanno evidentemente incontro, è sicuramente opportuno avere piena contezza di tutto il quadro normativo nel suo complesso.

Ciò che è certo è che la sperimentazione animale sia necessaria per consentire di testare l’efficacia di farmaci, terapie e – in una certa misura – anche prodotti cosmetici; tuttavia, non si può non tenere in considerazione l’evoluzione sociale che ha portato ad una diversa e sempre maggiore sensibilità nei confronti degli animali che svolgono un ruolo fondamentale nella vita di tantissime persone.

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Sostanze vietate dal 1° marzo 2022: obblighi e responsabilità

Come ben evidenziato dalla Dott.ssa Lucia Palmas nel focus dal Titolo “La sicurezza dei prodotti cosmetici”, la commercializzazione dei prodotti cosmetici nel territorio dell’Unione Europea soggiace ad una disciplina particolarmente stringente in materia di sicurezza.
A tal riguardo, meritano di essere trattate le recenti novità legislative introdotte dal Regolamento (UE) 2021/1902 che modifica proprio gli allegati II, III e V del regolamento (CE) n. 1223/2009 .

Infatti, se prima la corsa ai regali si traduceva nelle lunghe code alle casse dei negozi, ora il consumatore può (e preferisce) soddisfare le proprie esigenze comodamente dal divano di casa, ottimizzando tempi e costi.

In particolare, il Regolamento introduce, dal 1° marzo 2022, il divieto di commercializzazione di prodotti cosmetici contenenti la sostanza 2-(4-terz-butilbenzil) propionaldeide, nome INCI Buthylfenil Methylpropional (Lilial), classificata tra le sostanze cancerogene, mutagene o tossiche per la riproduzione.

Con la modifica dell’allegato II del Regolamento n. 1223/2009 è, dunque, stato ampliato l’elenco delle sostanze vietate nei prodotti cosmetici di tale allegato.

Il Comitato Scientifico per la sicurezza dei Consumatori della Commissione Europea (SCCS), nel suo parere del 14 dicembre 2017, ha, infatti, ritenuto che non si possa escludere la tossicità di tale sostanza, utilizzata principalmente come componente odorosa che ricorda il mughetto, lillà e ciclamino e spesso utilizzata come fragranza nei prodotti cosmetici quali, in particolare: profumi, shampoo antiforfora, saponi, creme o addirittura profumatori e detergenti per l’igiene della casa.

Alla luce di tale novità, i prodotti contenenti tale sostanza dovrebbero essere, di conseguenza, ritirati dal mercato in quanto più commercializzabili.

Appare dunque spontaneo chiedersi come devono comportarsi le Persone Responsabili, ossia il “fabbricante, importatore e distributore” (di cui all’art. 4 del Regolamento n. 1223/2009) di prodotti contenenti BMHCA, all’indomani della modifica del Regolamento succitato.

Cosmesi e sicurezza: obblighi e responsabilità

Le persone responsabili della produzione, importazione o distribuzione di un prodotto sono obbligate a garantire il rispetto del Regolamento e, dunque, anche degli allegati che ne costituiscono parte integrante.

Al riguardo, ai sensi dell’art. 25 del Regolamento n. 1223/2009, allorquando un prodotto presenti nella sua composizione sostanze classificate come pericolose, tali soggetti sono chiamati a adottare tutti i provvedimenti adeguati, incluse le misure correttive volte a rendere conforme il prodotto cosmetico, oppure, addirittura, a ritirarlo dal mercato.

Detta ipotesi potrebbe senz’altro verificarsi, ad esempio, quando il prodotto sia nocivo per la salute umana.

A tali obblighi soggiacciono, altresì, i distributori del prodotto, i quali, secondo quanto disposto dagli artt. 6 e 26 del medesimo Regolamento, qualora un prodotto cosmetico che hanno reso disponibile sul mercato non sia conforme al Regolamento, devono verificare che siano adottate le misure correttive necessarie per rendere conforme tale prodotto, ritirarlo o richiamarlo, se del caso.

Laddove, invece, e nelle ipotesi più gravi, il prodotto cosmetico presenti un rischio per la salute umana, i distributori devono informare immediatamente la persona responsabile e le competenti autorità nazionali degli Stati membri in cui hanno reso disponibile il prodotto e, al contempo, garantiscono che, fintantoché un prodotto è sotto la loro responsabilità, ne curano lo stoccaggio necessario per il loro ritiro.

In tali casi, è bene evidenziare che i prodotti dovranno essere restituiti al fornitore in quanto “Prodotti non vendibili o cedibili” assicurandosi di tracciare l’operazione di restituzione con idonea documentazione da esibire alle autorità sanitarie in caso di controllo.

In conclusione, giova sottolineare che nell’ipotesi in cui i soggetti responsabili non dovessero adempiere gli obblighi prescritti dal Regolamento, troveranno applicazione le sanzioni previste nella normativa speciale di cui al Decreto legislativo del 04/12/2015 – n. 204, per la cui lettura si rimanda all’approfondimento giuridico in materia di diritto penale del presente focus dal titolo “La disciplina penale italiana in materia di prodotti cosmetici” a cura dell’avvocato Claudia Piroddu.

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La lesione dell’integrità territoriale, della sovranità e dell’indipendenza dell’Ucraina entro i suoi confini riconosciuti a livello internazionale a seguito dell’aggressione militare della Federazione russa rappresenta una grave violazione del diritto internazionale e dei principi della Carta delle Nazioni Unite.

L’invasione del territorio ucraino, alla quale il mondo assiste attonito, inorridito dallo scenario bellico, distopico e anacronistico, che sta causando sofferenze e perdite di vite umane, costituisce un evidente rischio per la sicurezza e la stabilità europea e mondiale.

In questo contesto, sono sempre più pressanti le istanze di Stati terzi vicini ai confini europei che, a partire dalla stessa Ucraina, chiedono di entrare a far parte dell’Unione Europea.

Ed infatti, alla domanda di adesione firmata e trasmessa dal Presidente ucraino Zelensky che chiede la “adesione immediata attraverso una nuova procedura speciale”, hanno fatto eco anche gli Stati della Moldavia e Georgia.

Ma il processo di adesione all’Unione Europea è davvero così semplice?

Prima di rispondere a questa domanda, è opportuno fare una doverosa e necessaria premessa: i Trattati istitutivi non prevedono procedure speciali di adesione.Avv. Eleonora Pintus, Diritto dell’Unione Europea

La procedura di adesione all’Unione Europea: iter in tre fasi

Il Trattato dell’Unione Europea prevede un’unica procedura di adesione all’Unione che, per complessità, richiede una gestione di lunga durata.

Per brevità, possiamo riassumere questa articolata procedura in tre semplici fasi: domanda di adesione e valutazione; negoziazione e accordo di adesione; ratifica dell’accordo di adesione.

Anzitutto, è bene evidenziare che la base giuridica della procedura di adesione è l’articolo 49 del Trattato dell’Unione Europea, il quale precisa che ogni Stato Europeo che rispetti e promuova i valori su cui si fonda l’Unione di cui all’articolo 2 del Trattato -ossia il rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e dei diritti umani –può domandare di diventare membro dell’Unione.

Il paese che intende aderire all’UE deve sottoporre la sua candidatura al Consiglio, il quale dovrà pronunciarsi all’unanimità previa consultazione della Commissione e del Parlamento europeo che si esprime a maggioranza dei suoi membri.

In questa prima fase, le istituzioni coinvolte dovranno valutare se lo Stato candidato soddisfi o meno determinati criteri di adesione, meglio noti come “criteri di Copenaghen”, e così definiti perché stabiliti in occasione del Consiglio europeo di Copenaghen nel 1993 e rafforzati in sede del Consiglio europeo di Madrid nel 1995.

Tali criteri sono:

  • la presenza di istituzioni stabili a garanzia della democrazia, dello Stato di diritto, dei diritti umani, del rispetto e della tutela delle minoranze;
  • un’economia di mercato affidabile e capace di far fronte alle forze del mercato e alla pressione concorrenziale all’interno dell’Unione;
  • la capacità di accettare gli obblighi derivanti dall’adesione, e in particolare la capacità di attuare efficacemente il corpo del diritto dell’Unione (l’acquis communautaire), nonché l’adesione agli obiettivi dell’unione politica, economica e monetaria.

Superato il vaglio iniziale, dopo che tutti gli Stati membri hanno raggiunto un accordo unanime, se la Commissione dà parere positivo, il Consiglio europeo avvia i negoziati di adesione che riguardano le condizioni in base alle quali il Paese candidato sarà ammesso nell’Unione.

Quando i negoziati su tutti i settori sono completati, si avvia la terza ed ultima fase della procedura che consiste nella redazione di un accordo di adesione contenente le condizioni e gli adattamenti dei trattati su cui è fondata l’Unione.

Tale trattato, previo consenso del Parlamento europeo e l’approvazione unanime del Consiglio, dovrà infine essere firmato e ratificato –cioè trasposto all’interno dell’ordinamento nazionale secondo quanto previsto dalla normativa costituzionale vigente –da tutti gli Stati membri dell’Unione e dal Paese candidato.

Come si può facilmente notare, la procedura di adesione è particolarmente complessa: da un lato, infatti, lo stato candidato deve soddisfare i criteri di adesione particolarmente stringenti e, dall’altro, è necessario superare il vaglio unanime degli Stati membri dell’Unione, oltre che degli altri attori coinvolti nel processo decisionale.

Ad oggi, dunque, l’unica strada percorribile per entrare a far parte dell’Unione è quella tracciata dall’articolo 49 del Trattato dell’Unione Europea.

L’inserimento di una nuova procedura di adesione implicherebbe l’attivazione della procedura di modifica dei Trattati istitutivi stessi che, data la sua particolare complessità, non rappresenta certamente la soluzione per rispondere positivamente alle attuali esigenze di celerità ed eccezionalità dettate dal conflitto in corso.

Eleonora Pintus, Avvocato

Sport e Pandemia: la capacità del non arrendersi mai

Ricordo ancora le emozioni dei giorni in cui i notiziari parlavano del dilagare di una nuova malattia in Cina, di cui era responsabile la variante di un Virus che già tempo addietro aveva messo in ginocchio la popolazione mondiale. 

I pensieri comuni erano per la gran parte “Tanto è lontano, non arriverà mai da noi”, “è solo un’influenza” “In Europa siamo molto più attenti all’igiene: figuriamoci se qui può svilupparsi”. 

Ma non avevamo ancora finito di pronunciare queste frasi, che il primo caso Covid venne verificato anche in Italia. 

La convinzione di restare al di fuori dell’influenza del virus era talmente forte che, non appena ci siamo resi conto che aveva colpito anche noi, si è trasformata in terrore. 

Lo sport che insegno ormai da anni, il CrossFit, si è sempre svolto all’interno di posti grandi, areati e dotati di attrezzatura ad uso individuale per i Workout (gli allenamenti) previsti durante l’ora di lezione. Nonostante questo, anche adottando maggiori accorgimenti legati alla pulizia degli attrezzi e dei locali, e un maggiore contingentamento degli allievi, non potevamo garantire al 100% le interferenze tra le persone: siamo una Community, lo Sport è l’emblema della socialità e il nostro compito e dovere come allenatori, è quello di tutelare la salute dei nostri allievi a 360 gradi. 

Cosicché, prima ancora che venisse espressamente emanato un Decreto che ce lo imponesse, abbiamo deciso, per senso di responsabilità, di chiudere; ma quello che avremmo pensato sarebbe durato una sola settimana, si è trasformato in un tempo indefinito. 

Uno degli insegnamenti che attraverso il CrossFit trasmettiamo ai nostri allievi, è lo sviluppo della capacità di adattamento alle situazioni e ai cambiamenti, cercando in ogni modo di uscire e non stallare nella propria routine ma piuttosto di essere pronti per ciò che non si conosce e non si può comprendere (prepare for the Unknown and the unknowable). Così, dopo un primo momento di disorientamento e tentativi disordinati di fare allenamenti in videochiamata, ci siamo organizzati e abbiamo iniziato le nostre lezioni online attraverso l’uso di piattaforme studiate apposta per consentire l’incontro simultaneo, a distanza, di un alto numero di utenti. 

La risposta è stata incredibile e gratificante: in un momento in cui sembravamo aver perso tutto, ecco che avevamo qualcosa; in un momento in cui per la maggior parte di noi la vita si alternava tra letto, tavola, divano e serie TV, la nostra giornata era nuovamente scandita da un momento di attività e socialità, attraverso le classi online. 

Questo non solo ci ha permesso di restare uniti, ma ha rafforzato i legami tra noi e i nostri ragazzi. Loro ci hanno sostenuto in tutti i modi, ci hanno appoggiato e non ci hanno mai abbandonato, ripagando tutti gli sforzi compiuti per difendere gli obiettivi del nostro lavoro: garantire la loro sicurezza, salvaguardare la loro salute ed educarli a trovare, in ogni situazione, la forza, la volontà e il modo di prendersi cura di sé. 

Nonostante alla fine siamo risultati essere uno dei primi settori ad aver chiuso in entrambi i lockdown, uno degli ultimi ad essere coinvolti nella riapertura e siamo stati costretti a lavorare all’aperto con l’adozione dei colori delle Regioni, mettendo mano ai risparmi per poter adattare il nostro lavoro alle norme in continuo cambiamento che ci sono state imposte, abbiamo saputo reagire ogni volta nel pieno rispetto delle regole e della tutela dei nostri iscritti.

Laura Macciò, Istruttrice FIDAL & FIPE L1, CF – L2 

Da sempre nel mondo dello sport, dopo una Laurea in Ingegneria, ho cominciato a lavorare nel settore del Fitness dove opero ormai da 15 anni. 

Ho conseguito il primo Livello come allenatrice di Atletica Leggera e Sollevamento Pesi nelle rispettive federazioni Coni, nonché le Certificazioni ufficiali per diventare Trainer CrossFit. 

Questo altro non è che un programma di rafforzamento e condizionamento fisico mirato ad acquisire benessere completo e generale. E’ definito “lo sport del fitness” e consiste nello svolgere “movimenti funzionali ad alta intensità costantemente variati”. 

Attualmente insegno a Nettuno in provincia di Roma, al Box certificato CrossFit 4112. 

Credo fermamente in quello che faccio perché, attraverso il CrossFit, riesco ogni giorno a portare le persone che alleno a compiere un passo verso il loro miglioramento e il superamento dei propri limiti. Questo metodo infatti, grazie alla adattabilità e versatilità dei movimenti che utilizza, permette di allenarsi a chiunque e in qualsiasi condizione (non solo in termini di condizioni fisiche, ma anche di livello di Fitness generale). 

Focus di diritto tributario • Avv. Francesco Sanna

Il regime fiscale delle ASD e SSD

Il D. Lgs. 28 febbraio 2021, n. 36, intitolato “riforma delle disposizioni in materia di enti sportivi dilettantistici e professionisti e in materia di lavoro sportivo” e la cui entrata in vigore è – in parte – stata rinviata, definisce l’associazione e la società sportiva dilettantistiche come quel soggetto giuridico, affiliato ad una Federazione sportiva nazionale, ad una Disciplina sportiva associata o ad Ente di promozione sportiva, che svolge, senza scopo di lucro, attività sportiva nonché la formazione, la didattica, la preparazione e l’assistenza all’attività sportiva. 

Ciò detto è bene precisare che le attività svolte dalle predette associazioni si distinguono in due tipologie: istituzionali e commerciali. 

Le prime sono quelle rientranti nell’oggetto sociale e dirette al raggiungimento delle finalità statutarie, mentre le seconde sono quelle volte al procacciamento dei mezzi finanziari necessari al perseguimento delle finalità istituzionali. 

In forza della legge del 16 dicembre 1991, n. 398, le associazioni sportive dilettantistiche (ASD) e le società sportive dilettantistiche (SSD) possono avvalersi di una disciplina fiscale agevolata, purché il loro statuto sia redatto in coerenza alla disciplina sancita dall’articolo 90 della Legge del 27 dicembre 2002, n. 289, e che queste siano iscritte al Registro delle associazioni e società sportive tenuto dal CONI. 

Così alle ASD e SSD, ai fini della tassazione IRES, viene applicato il regime agevolato previsto dalla legge del 1991. 

Condizione per poter godere del regime in parola è che tali enti, durante il periodo d’imposta precedente, abbiano conseguito proventi derivanti da attività commerciali per un importo non superiore a € 400.000,00. 

In merito alle entrate escluse dal calcolo del suddetto limite, si evidenzia che: 

– dal calcolo dei proventi derivanti da attività commerciali si devono escludere le plusvalenze patrimoniali e le entrate che non costituiscono reddito imponibile IRES a causa delle previsioni di altre disposizioni legislative particolari; 

– non rientrano nel plafond le entrate realizzate mediante raccolta pubblica di fondi, purché ottenute mediante l’organizzazione di massimo due eventi l’anno aventi natura occasionale. 

L’importo complessivo ammesso derivante dalle attività appena menzionate è pari a € 51.646,00 annui. 

Ancora, non rientrano tra i ricavi le attività svolte nei confronti degli associati o partecipanti dell’associazione o dei soci della società in conformità delle finalità istituzionali. 

Di converso se le attività sono svolte a fronte del pagamento di corrispettivi da parte degli associati o dei soci, l’attività è considerata commerciale e i suoi ricavi concorrono a formare il reddito complessivo dell’associazione e, quindi, assoggettato a reddito d’impresa. 

Lo stesso avviene se le attività sono svolte verso pagamento di quote o di contributi supplementari determinati in funzione delle maggiori o diverse prestazioni a cui gli associati o i soci hanno diritto. 

Invece, in generale, non rilevano ai fini IRES e sono esenti dall’IVA, le attività svolte in diretta attuazione degli scopi istituzionali, nei confronti dei propri associati o soci, delle altre associazioni che fanno parte della stessa organizzazione locale o nazionale e degli associati di essa, anche se effettuate verso pagamento di corrispettivi specifici. 

Inoltre non rientrano nel limite dei 400.000,00 euro i contributi corrisposti alle sole ASD e non alle SSD da Pubbliche Amministrazioni per lo svolgimento convenzionato di attività sportive dilettantistiche esercitate in conformità ai fini istituzionali alle ASD. 

Quanto all’IRPEF, il D. Lgs.  Del 15 giugno 2015, n. 81 prevede che le ASD e le SSD affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate ed agli enti di promozione sportive riconosciuti dal CONI, possono utilizzare il contratto di collaborazione coordinata e continuativa al posto del contratto di lavoro subordinato per le prestazioni lavorative rese a fini istituzionali nei loro confronti. 

I compensi a tutti coloro che hanno un rapporto di lavoro sportivo con una ASD o SSD, fino all’importo annuo di € 10.000,00, non costituiscono redditi imponibili ai fini dell’IRPEF per il percettore. 

Le ASD e le SSD che optano per il regime fiscale della Legge n. 398/1991 sono esonerate dagli obblighi contabili ordinari previsti ai fini IVA, in particolare dall’obbligo di certificare i corrispettivi incassati emettendo fattura, ricevuta o scontrino fiscale – salve alcune eccezioni – ma debbono comunque assolvere taluni obblighi semplificati. 

Infine, quanto all’IMU, la Legge riconosce agli enti non commerciali, tra cui le ASD, il diritto all’esenzione per le attività svolte con modalità non commerciali negli immobili posseduti. 

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

Sport e carcere

Come abbiamo visto nel Focus a cura di Laura Macciò, la pandemia ha avuto delle ripercussioni gravissime anche nel settore dello sport, tanto per gli operatori –che per lunghi periodi hanno dovuto cessare qualsiasi attività in presenza– quanto in termini di salute psicofisica di chi lo pratica. 

È innegabile che lo sport assume un ruolo importante per il benessere della persona, ma riveste altresì un rilevante valore sociale, dal momento che consente di uscire dall’isolamento, di sviluppare l’autodisciplina e il rispetto delle regole ed, inoltre, di recuperare il senso di solidarietà, lealtà e collaborazione. 

Sono proprio i valori e i benefici connessi all’esercizio dell’attività sportiva in generale che possono far comprendere la rilevanza che lo sport può assumere, nello specifico, all’interno della struttura carceraria e ciò sia per il detenuto che per l’intera organizzazione penitenziaria. 

Da un lato, anche tenuto conto della condizione di emergenza e sovraffollamento in cui versano la maggior parte degli istituti di pena italiani, praticare sport in carcere aiuta a mantenersi in salute, a contrastare la sedentarietà e a gestire una serie di stati d’animo negativi, come ansia, tristezza, paura, alienazione e frustrazione.   

Lo sport, dunque, non è solo un passatempo, ma è uno strumento attraverso il quale esprimere la propria personalità, incluso dall’UNESCO nella Carta Internazionale dello Sport e dell’Educazione Fisica del 1978 tra i “diritti umani”. 

D’altra parte, non può trascurarsi che lo sport, al pari di qualsiasi attività lavorativa o culturale, rappresenta un valido strumento dal valore rieducativo e di recupero sociale dei detenuti. 

A tale riguardo, il quadro normativo di riferimento è rappresentato dalla Legge 26 luglio 1975, n. 354, rubricata “Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”, con la quale è stata data attuazione al principio contenuto nell’art. 27 della Costituzione che prevede che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. 

Successivamente, è stato introdotto il D.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, che nell’art. 59 ha regolamentato l’esercizio di attività culturali, ricreative e sportive, prevedendo che tali attività debbano essere organizzate in modo da favorire la partecipazione dei detenuti e internati lavoratori e studenti, con particolare riferimento ai giovani, cui la norma si rivolge espressamente, al fine di incoraggiare l’esercizio di attività sportive, grazie anche alla collaborazione di enti nazionali e locali preposti alla cura delle stesse. 

Giova sottolineare, inoltre, che le attività culturali e sportive svolte all’interno del sistema penitenziario abbiano come ulteriore finalità la promozione del reinserimento sociale dei detenuti, dal momento che tali attività promuovono la socializzazione e contrastano il senso di marginalizzazione dell’individuo. 

Analizzando i dati forniti dall’Osservatorio di Antigone, in Italia non è possibile avere il numero preciso dei soggetti coinvolti nelle attività sportive, ma vi è una percentuale che si attesterebbe circa al 28% dei detenuti, con un maggiore coinvolgimento delle donne.   

Inoltre, la maggior parte degli istituti non paiono avere strutture e spazi adeguati per lo svolgimento di attività sportive, né tanto meno operatori specializzati, in grado di garantire risultati ottimali.  

Tuttavia, non mancano esempi virtuosi. 

Nel 2017, la Casa Circondariale di Rebibbia –in cui sono presenti diverse palestre e campi sportivi- ha organizzato svariate attività sportive, come, ad esempio, un campionato di calcio, con la partecipazione anche di squadre esterne all’istituto, la corsa podistica, tornei di rugby e tennis. 

La Casa di reclusione Opera prevede attività di fitboxe, CrossFit, calcetto e pallavolo, mentre l’istituto di Perugia Capanne ha avviato delle collaborazioni con diverse Federazioni sportive (FIGC per le attività calcistiche e FIP per la pallacanestro) e sia nel carcere di Torino che di Bologna le squadre di Rugby hanno partecipato ai campionati regionali di Serie C.  

In quest’ottica, si segnala l’importante progetto “Sport in carcere”, organizzato dal CONI in collaborazione con il Ministero della Giustizia, finalizzato al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione carceraria, grazie al quale si è potuto procedere alla riqualificazione degli ambienti e degli spazi da destinare alle attività sportive, a garantire lo svolgimento delle stesse, ma anche a consentire ai detenuti di partecipare a corsi di formazione professionale (ad es. per arbitri), in questo modo contribuendo a favorire il reinserimento lavorativo dei detenuti.  

Il progetto è stato attivato in via sperimentale a Roma e Bologna e, successivamente, in molte altre città italiane e, a livello locale, anche nel carcere di Nuoro, ove si pratica calcio, atletica, yoga, ed è stato proposto il programma “sport e nutrizione”.  

Altra iniziativa di assoluto rilievo è il progetto europeo “SPPF – Sport in prigione”, su iniziativa dell’Uisp (da sempre attivo nel promuovere l’attività fisica all’interno degli istituti penitenziari per adulti e minori e nel predisporre percorsi di inclusione sociale), che, oltre all’Italia, coinvolge diversi paesi europei, come Belgio, Bulgaria, Croazia e Olanda.  

L’obiettivo ambizioso è di utilizzare lo sport come strumento di collegamento con altri settori della società, in modo tale che si crei un ponte tra il carcere e il mondo esterno, mettendo in relazione diversi istituti di pena, i detenuti, il personale carcerario, i volontari e le federazioni sportive, con lo scopo di fornire sostegno ai detenuti anche dopo che avranno concluso l’esperienza carceraria.

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Focus di diritto civile • Avv. Viola Zuddas

Lo sport per l’inclusione e l’uguaglianza di genere

Noi tutti sappiamo che lo sport è uno degli strumenti più importanti che abbiamo a disposizione per migliorare la nostra condizione fisica e psicologica e, in generale, la salute: l’attività fisica, infatti, riveste un ruolo primario di tipo preventivo e, altresì, terapeutico nel trattamento di alcune condizioni e patologie. 

Lo sport, però, è anche uno strumento utile per promuovere l’inclusione sociale e l’uguaglianza di genere, in quanto è capace di unire persone, pure se molto diverse tra loro, grazie alla condivisione di un’attività caratterizzata da impegno, fatica, sacrifici e soddisfazioni. 

Lo sport, dunque, mira a superare le disuguaglianze che naturalmente esistono, valorizzando non soltanto lo sviluppo fisico ma, anche, quello educativo e sociale: non per niente nella Carta Olimpica, approvata dal Comitato Olimpico Internazionale (“C.I.O.”) per la regolamentazione dei Giochi Olimpici, sono stati espressamente indicati, come principi irrinunciabili dello sport, la non discriminazione e l’uguaglianza di genere. 

Tuttavia, in relazione alle competizioni sportive di interesse nazionale ed internazionale (pensiamo, ad esempio, alle Olimpiadi o ai campionati del mondo di qualsiasi disciplina) non vi è equilibrio nella copertura mediatica degli sport praticati da uomini e quelli praticati da donne. 

Inoltre, deve registrarsi che, spesso, la presentazione di un’atleta donna è dominata da riferimenti all’aspetto, all’età o alla vita familiare, mentre gli uomini sono descritti come potenti e dominanti, e sono apprezzati come atleti a prescindere dall’aspetto, dall’età o dalle vicende personali. 

Tra l’altro, non si deve dimenticare che lo sport è sempre stato associato al “mondo maschile” poiché la partecipazione degli uomini è stata sicuramente preminente in tutte le discipline sportive, al contrario di quella delle donne che è stata circoscritta soltanto a delle attività considerate più “femminili”, come la pallavolo, la ginnastica ritmica e poche altre.  

Inoltre, nonostante negli ultimi anni la partecipazione femminile sia effettivamente aumentata ed abbia attirato maggiore attenzione rispetto al passato (soprattutto grazie alle imprese sportive di atlete come Paola Egonu, Sofia Goggia e Simona Quadarella – per citare alcune delle più conosciute), le donne rimangono sottorappresentate anche negli organi decisionali delle istituzioni sportive, sia che si tratti di organismi che operano a livello locale e nazionale che europeo e mondiale. 

Quindi in che modo lo sport può essere davvero uno strumento di lotta agli stereotipi e alla violenza di genere? 

Sono numerose le organizzazioni che promuovono il coinvolgimento di ragazze e donne a tutti i livelli di partecipazione, inclusi coaching, amministrazione, arbitrato, scienza dello sport e simili, per migliorare l’equilibrio di genere all’interno di questo mondo. 

Pensiamo, ad esempio, al già citato C.I.O. che, nell’agosto dello scorso anno, ha accolto Federica Pellegrini come nuovo membro della Commissione atleti: peraltro, questa carica le consentirà di entrare automaticamente in Giunta ed al Consiglio Nazionale del CONI, riconoscendole il diritto al voto in occasione dell’elezione del prossimo presidente dell’Ente nel 2025. 

Ebbene, per quanto riguarda la necessità di migliorare l’equilibrio di genere all’interno del mondo dello sport, l’Unione Europea riveste un ruolo molto importante poiché più volte (pensiamo alla “Carta per le donne” o all’ultima “Strategia per la parità tra donne e uomini 2020 – 2025”, ecc.) si è assunta l’impegno di affrontare ed eliminare il divario di genere nei processi decisionali, attraverso l’adozione di raccomandazioni che incoraggiano gli organi di governo dello sport e le organizzazioni non governative a elaborare ed attuare strategie d’azione nazionali e internazionali per la parità di genere. 

Nello specifico, la Commissione Europea intende sostenere, anche sotto il profilo economico, delle iniziative volte a promuovere la parità di genere e che perseguano l’obiettivo di consentire alle donne e agli uomini, in tutta la loro diversità – unicità, di compiere liberamente le loro scelte di vita, avendo pari opportunità di realizzarsi e di partecipare al mondo dello sport. 

Non dimentichiamo, poi, che lo sport dei giorni nostri è un terreno in cui la competizione anima lo spirito degli atleti e proprio tale aspetto consente agli sportivi di emergere grazie alle proprie capacità e qualità, indipendentemente dal sesso. 

Pensiamo, ad esempio, al mondo del CrossFit di cui Laura Macciò, autrice del focus, fa parte sia come atleta che come trainer: qui c’è un approccio profondamente diverso in ordine all’allenamento della forza che potrebbe definirsi in una certa misura “neutro” rispetto agli stereotipi di genere legati al fitness ed alle altre discipline sportive. 

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Ue e sport: i finanziamenti del 2022

Lo sport è uno dei settori di più recente intervento dell’Unione Europea. 
La sua competenza in materia non è di carattere esclusivo ma diretto a sostenere e rafforzare quella dei singoli Stati membri. 

La base giuridica che legittima l’intervento dell’UE è da rinvenirsi nell’art. 6, lettera e), del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) secondo cui lo sport è un settore in cui l’azione a livello di UE dovrebbe sostenere, coordinare e completare l’azione degli Stati membri, e nell’art. 165. La norma, in particolare, sancisce che l’UE “contribuisce alla promozione dei profili europei dello sport, tenendo conto delle sue specificità, delle sue strutture fondate sul volontariato e della sua funzione sociale ed educativa”. Il secondo paragrafo, invece, specifica che l’azione dell’Unione è intesa “a sviluppare la dimensione europea dello sport, promuovendo l’equità e l’apertura nelle competizioni sportive e la cooperazione tra gli organismi responsabili dello sport e proteggendo l’integrità fisica e morale degli sportivi, in particolare dei più giovani tra di essi”. 

L’Unione dispone, dunque, di una base giuridica per sostenere tale settore a livello strutturale e, come tale, è chiamata ad elaborare politiche e promuovere iniziative a sostegno dell’attività fisica e dello sport in Europa.  

Ma quali sono le politiche varate dall’Unione fino ad oggi e quali programmi sono stati elaborati per garantire la ripresa dello sport in Europa?  

Ebbene, poiché il pacchetto di iniziative per la promozione, sviluppo e sostegno dello sport è particolarmente ricco, ci limiteremo, in questa sede, ad evidenziare soltanto quelle che – a parere di chi scrive – sono connotate di maggiore rilievo per impatto sociale. 

Tra queste, va senz’altro menzionato il piano di lavoro dell’UE per lo sport. 

Si tratta del più importante documento dell’UE sulla politica in materia di sport, incentrato sulle principali attività dell’Unione nel settore, oltre che rappresentare uno vero e proprio strumento di orientamento per la promozione della cooperazione tra le istituzioni dell’UE, gli Stati membri e le parti operanti nel settore dello sport.  

Il piano è stato adottato per la prima volta nell’anno 2011 e, successivamente, ciclicamente ogni tre anni, fino all’adozione del quarto piano di lavoro dell’UE per lo sport (2021-2024), adottato dal Consiglio nel dicembre 2020 

Tra i vari interventi, il piano mira, ad esempio, a garantire l’uguaglianza nel settore dello sport nell’UE prevedendo un aumento della percentuale di donne tra gli allenatori e nelle posizioni dirigenziali, a promuovere pari condizioni per tutti gli atleti e a rafforzare la copertura mediatica delle competizioni sportive femminili. 

Tra gli altri obiettivi suggeriti dal piano merita di essere ricordata l’esigenza di rafforzare “la ripresa e la resilienza alle crisi del settore dello sport durante e dopo la pandemia di COVID-19”.  

Pandemia da Covid – 19 e sport: il finanziamento come soluzione di ripresa

Al riguardo, il 22 giugno 2020 il Consiglio ha adottato le sue conclusioni sull’impatto della pandemia da COVID-19 sul settore dello sport. 

Il documento descrive con lucidità come il settore dello sport sia stato duramente colpito dalla pandemia, anche in termini economici, con conseguenze devastanti sulle attività sportive a tutti i livelli, agonistico e non.  

Al riguardo, il Consiglio rileva la necessità di adottare strategie di ripresa multilivello, in senso verticale e orizzontale, con l’evidente fine di garantire il rifiorire, oltre che dell’economia del settore, anche del benessere fisico e psichico delle persone. 

In tal senso, il Consiglio, coerentemente con i poteri di cui agli artt. 6 e 165 del TFUE, ha incoraggiato le istituzioni dell’UE a integrare le azioni nazionali mediante interventi di sostegno finanziario al settore attraverso i programmi e i fondi dell’UE disponibili, quali, ad esempio, Erasmus+, il Corpo europeo di solidarietà, i fondi della politica di coesione e le iniziative di investimento in risposta al coronavirus (CRII, CRII+). 

Ebbene, in linea con le direttive fornite, il 10 febbraio 2021, il Parlamento ha approvato una risoluzione in cui sottolinea la necessità di fornire agli Stati membri un sostegno finanziario strategico e pratico – non solo destinato ai grandi eventi – al fine di evitare che la pandemia abbia effetti duraturi sui giovani e lo sport.

Il piano 2021-2024 

A dicembre 2020, il Consiglio dell’UE ha definito il piano di lavoro dell’UE per lo sport 2021-2024, improntato a realizzare diversi obiettivi quali: 

  • rafforzare uno sport basato sull’integrità e sui valori nell’UE 
  • rafforzare la ripresa e la resilienza alle crisi del settore dello sport durante e dopo la pandemia di COVID-19 
  • favorire una politica sportiva sostenibile e basata su dati concreti (in linea con l’Agenda 2030 per lo Sviluppo sostenibile dell’ONU) 
  • rafforzare la partecipazione allo sport e all’attività fisica salutare al fine di promuovere uno stile di vita attivo e rispettoso dell’ambiente, la coesione sociale e la cittadinanza attiva 
  • garantire, attraverso la cooperazione intersettoriale, la consapevolezza di altri settori politici dell’UE in merito all’importante contributo che lo sport può apportare, in Europa, alla crescita sostenibile sul piano sociale e ambientale, alla digitalizzazione, nonché alla ripresa dalla pandemia di COVID-19 e alla resilienza futura, come pure al conseguimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile 
  • rafforzare la dimensione internazionale della politica sportiva dell’UE, in particolare attraverso gli scambi e la collaborazione con i governi e le parti interessate al di fuori dell’UE 
  • dare seguito ai tre precedenti piani di lavoro dell’UE per lo sport e ad altri documenti dell’UE relativi allo sport, come le conclusioni e risoluzioni del Consiglio 
  • portare avanti lo scambio di conoscenze ed esperienze tra gli Stati membri dell’UE e la Commissione 
  • intensificare il dialogo e la cooperazione a livello dell’UE con il movimento sportivo e altre parti interessate e istituzioni competenti, sia all’interno che all’esterno del settore dello sport e dell’attività fisica 
  • sostenere, secondo le modalità opportune, l’attuazione del capitolo Sport del programma Erasmus+ 

Erasmus + e Sport : i finanziamenti disponibili per il 2022 

Nell’ambito del programma Erasmus+ per l’istruzione, la formazione, la gioventù e lo sport, l’UE prevede dettagliate azioni nel settore sportivo per promuovere e favorire la partecipazione allo sport, all’attività fisica e altresì al volontariato. 

Si segnala che le organizzazioni che operano in questo settore potranno presentare proposte che affrontano le dette sfide mediante l’elaborazione di programmi di: 

  • partenariati di collaborazione 
  • partenariati su piccola scala 
  • eventi sportivi europei senza scopo di lucro 

Per chi fosse interessato alla realizzazione di programmi, a partire dal 2022, è disponibile anche un bando specifico sul Capacity Building nel settore sportivo, senza dimenticare la possibilità di fruire di finanziamenti destinati al settore dello sport ed ai quali l’Unione Europea ha dedicato un sito internet ove reperire informazioni su come e quando presentare domande di finanziamento.  

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Nella giornata tra il 23 ed il 24 febbraio, le truppe russe hanno invaso l’Ucraina dopo che, nella notte precedente, era giunto l’ordine di attacco del presidente Vladimir Putin che, in un messaggio televisivo, aveva spiegato di aver autorizzato «un’operazione speciale» in Ucraina per «smilitarizzare il Paese» e «proteggere il Donbass». 

Il Donbass è un’area mineraria sita nella parte orientale dell’Ucraina confinante con la Russia e in cui la maggior parte della popolazione è di etnia e lingua russa: nel 2014, milizie armate filo-russe hanno invaso quest’area ed hanno proclamato le regioni di Donetsk e Lugansk “repubbliche indipendenti”. 

La posizione della Russia

Qualche giorno fa, il presidente Putin – in violazione della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina – ha riconosciuto le regioni separatiste annettendole, di fatto, alla Russia ed inviando le proprie truppe per difenderne i confini. 

Uno degli obiettivi del presidente russo è quello di assicurarsi che la Russia abbia un ruolo di superpotenza globale negli affari internazionali, attraverso la ricostituzione dell’influenza di Mosca sulle ex repubbliche sovietiche. 

Per fare ciò, però, secondo il Cremlino è necessario proteggere la Russia con degli “stati cuscinetto” che la difendano dalla presenza della Nato che si è fatta sempre più pressante lungo i suoi confini. 

La Nato, infatti, eroga aiuti finanziari e armamenti all’Ucraina che – secondo quanto dichiarato dallo stesso Putin – rappresenterebbe una reale minaccia strategica per la Russia poiché non solo ha competenze nucleari molto vaste in termini di reattori, tecnologia, ecc. ma, altresì, ha diversi missili in dotazione. 

Così il Cremlino, prima dell’ordine d’attacco di Putin, aveva presentato una bozza d’accordo alla Nato (oltre che agli USA) che prevedeva, da una parte, che l’Alleanza Atlantica mettesse fine alla sua espansione a Est e vietasse future adesioni di ex stati sovietici tra cui l’Ucraina, e, dall’altra, la demilitarizzazione di quest’ultima.  

Tuttavia, nonostante gli sforzi diplomatici profusi negli scorsi giorni, non è stato possibile raggiungere alcun accordo nei termini imposti da Putin, in quanto, come si apprende dalle dichiarazioni rilasciate dal generale della Nato Stoltenberg, l’Ucraina stessa dovrebbe avere il diritto / potere di decidere in autonomia se aderire alla Nato, avviando la relativa procedura, e se smilitarizzarsi. 

Pertanto, alcuna decisione in tal senso può essere assunta dalla Nato né, tantomeno, può essere imposta dalla Russia. 

La posizione dell’Ucraina

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha dichiarato che la democrazia è stata colpita nella propria legittima sovranità e, nonostante ciò, ha preso l’impegno di non utilizzare la forza militare per replicare agli attacchi della Russia ma solamente per difendere la propria popolazione.
Per fare ciò, ha chiesto agli stati europei interventi multipli per sostenere l’Ucraina.
Quest’ultima, infatti, ha bisogno non soltanto di sostegno tecnico-militare per contrastare le truppe avversarie ed isolare la leadership russa ma, altresì, economico affinché il Cremlino possa subire dure sanzioni che ne blocchino, di fatto, l’economia. 

La risposta dell’UE

L’UE ha fortemente condannato l’attacco russo, definendolo «ingiustificato, ingiustificabile e non provocato» e, pur riconoscendo Putin come unico responsabile, si è sempre dimostrata intenzionata a cercare una soluzione pacifica alla crisi che – secondo la presidente della Commissione Ursula Von Der Leyen – mira alla stabilità dell’Europa e dell’intero ordine internazionale. 

Per questo motivo, l’UE e gli Alleati della Nato si sono coordinati per potenziare immediatamente le misure di sicurezza sul fianco Est dell’Alleanza ed hanno rafforzato il contributo allo spiegamento militare in favore di tutti i Paesi Alleati più direttamente esposti. 

Intanto, in queste ore è in corso la riunione virtuale del G7 alla quale parteciperà anche il segretario generale della Nato Stoltenberg e nella quale verrà deciso un pacchetto di sanzioni molto dure nei confronti della Russia. 

In particolare, la presidente della Commissione Ursula Von Der Leyen ha anticipato – nella conferenza stampa tenuta insieme alle più alte cariche UE – che «Cercheremo di bloccare i vari settori dell’economia russa, dalla tecnologia alla strategia di mercato; cercheremo di bloccare la capacità di ammodernamento della Russia e congeleremo i vari asset della Russia nell’Unione europea e chiuderemo l’accesso alle banche europee e ai mercati finanziari da parte della Russia».  

La reazione dell’Italia

Nella serata di ieri, vi è stata un’intensa riunione del Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica, presieduto dal presidente del Consiglio, cui è stato conferito pieno mandato per una risposta dura in ambito UE che, come sopra precisato, si muoverà principalmente sul piano delle sanzioni economiche. 

Il Premier, durante la conferenza stampa tenutasi nella giornata del 24 febbraio, ha affermato che «il Governo italiano condanna l’attacco della Russia all’Ucraina» e che «l’Italia è vicina al popolo e alle istituzioni ucraine in questo momento drammatico. Siamo al lavoro con gli alleati europei e della Nato per rispondere immediatamente, con unità e determinazione». 

Il Presidente del Consiglio ha, anche, precisato che l’ambasciata italiana a Kiev, che pure è in massima allerta, è comunque pienamente operativa e, nel coordinarsi con le altre ambasciate, mantiene i rapporti con le autorità ucraine per tutelare i circa 2000 italiani residenti.

Viola Zuddas, Avvocato

Se ne parlava ormai da tempo e la maggior parte di coloro che leggono questo contributo probabilmente ha già vissuto il temuto e scongiurato rincaro bollette di luce e gas.

Come annunciato dall’ARERA, l’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente, nel primo trimestre del 2022 le bollette di luce e gas aumenteranno rispettivamente del 55% e 41% in più.

Le cause dell’aumento in tutta Europa sono principalmente due: crescita dei prezzi dell’energia elettrica e del gas naturale sul mercato all’ingrosso – riconducibile anche ad una più ampia crisi internazionale, di cui non si discuterà in questa sede – e crescita dei prezzi dei permessi di emissione di CO2 nel sistema europeo ETS.

La Direttiva 2003/87/CE “EU Emission Trading System” (modificata da ultimo dalla direttiva UE 2018/410) prevede che dal primo gennaio 2005 gli impianti grandi emettitori dell’Unione Europa possano funzionare esclusivamente con un’autorizzazione alle emissioni di gas serra.

È stato così creato un sistema Europeo (detto appunto ETS, da Emission Trading System) istitutivo di un simil mercato ove gli impianti grandi emittori dell’Unione Europea possono comprare delle “quote di emissione” di CO2 nell’ambito di aste pubbliche europee o riceverne a titolo gratuito o, in alternativa, approvvigionarsene sul mercato.

Ciò si traduce nella necessità delle aziende più inquinanti di acquistare sempre più permessi al fine di continuare ad emettere CO2 senza incorrere in sanzioni mentre le aziende più capaci di contenere le emissioni avranno la possibilità di vendere le proprie quote inutilizzate.

Questa breve analisi, a parere di chi scrive, è necessaria, oltre che doverosa, al fine di far comprendere a chi legge che l’esorbitante aumento dei prezzi scaturisce proprio dalla combinazione di questi due fattori, ossia il maggior costo della materia prima e dei permessi di emissione, con conseguente aumento dei prezzi dell’energia elettrica all’ingrosso e, per l’effetto, in un aumento considerevole dei prezzi per i fruitori dell’energia che hanno visto crescere considerevolmente i prezzi in bolletta, tanto in Italia quanto in Europa.

Appare dunque evidente che la soluzione al problema debba essere cercata non (solo) entro i confini nazionali quanto, piuttosto, a livello Comunitario al fine di fornire una risposta comune all’interno dello spazio europeo.

La risposta Europea all’aumento dei prezzi dell’energia elettrica: la Toolbox Europea
La “Toolbox” è l’insieme di misure approvate dalla Commissione europea il 13 ottobre 2021 al fine di contenere l’impatto dei rincari delle bollette energetiche sui cittadini.
In particolare, vengono fornite agli Stati membri una serie di indicazioni affinché vengano adottate iniziativea tutela di consumatori e aziende.
Il pacchetto di strumenti presentato dalla Commissione aiuterà gli Stati membri a sostenere sia i consumatori che l’industria.
Nella specie, il Toolbox prevede misure a breve e medio termine.
Tra le misure a breve termine, che mirano a rispondere ai bisogni precisi dei consumatori e dell’industria per far fronte all’attuale impennata dei prezzi dell’energia, sono previste:
  1. Azioni di sostegno di emergenza al reddito e prevenzione della sospensione delle forniture. Gli Stati possono, ad esempio: versare prestazioni sociali alle persone più a rischio per aiutarle a pagare le bollette dell’energia; introdurre misure per evitare la sospensione della fornitura di energia o autorizzare temporaneamente proroghe del pagamento delle bollette.
  2. Esenzioni e sgravi fiscali. Gli Stati membri possono applicare temporaneamente alle famiglie vulnerabili esenzioni dalle imposte o imposte ad aliquote ridotte per l’energia elettrica, il gas naturale, il carbone e i combustibili solidi.
  3. Aiuti alle famiglie e alle imprese.
  4. Cooperazione rafforzata e monitoraggio a livello UE: ad esempio attraverso indagini su potenziali comportamenti anticoncorrenziali nel mercato dell’energia.

Quanto alle misure strutturali a medio termine, necessarie per evitare future impennate dei prezzi, la Commissione rileva l’importanza di integrare ulteriormente il mercato, responsabilizzare i consumatori e, soprattutto –in linea con il green deal europeo (vedi anche il nostro focus sul Superbonus 110% e Green Deal Europeo) decarbonizzare il sistema energetico.

Quali le azioni necessarie nei prossimi anni?

  1. Creare un sistema energetico UE resiliente. Al riguardo, la Commissione intende, tra le altre: valutare l’opportunità di rivedere il regolamento sulla sicurezza dell’approvvigionamento per adattarlo alla crescente diffusione dei gas rinnovabili, oltre che migliorare l’uso e il funzionamento dello stoccaggio del gas in tutto il mercato unico
  2. Sostenere la partecipazione attiva dei consumatori fornendo loro informazioni, ad esempio tramite la possibilità di cambiare fornitore più rapidamente e facilmente.
  3. Intensificare gli investimenti nelle energie rinnovabili.

Ma quali azioni ha intrapreso l’Italia in tal senso?

L’azione dell’Italia contro il caro bollette: il Decreto legge recante misure urgenti per il contenimento dei costi dell’energia elettrica del 18 febbraio 2022

Il Governo nazionale, in linea con le direttive fornite dall’Europa, ha adottato il recentissimo “Decreto legge recante misure urgenti per il contenimento dei costi dell’energia elettrica e del gas naturale, per lo sviluppo delle energie rinnovabili, per il rilancio delle politiche industriali” composto di 37 articoli, con il quale mira a fronteggiare l’impatto del caro bollette sia nel breve termine, mediante lo stanziamento di risorse per arginare gli aumenti, sia nel medio -lungo termine, mediante il potenziamento delle energie rinnovabili e sull’aumento della produzione di gas nazionale.

Ammontano a circa 5,8 miliardi le risorse stanziate dal decreto energia per ridurre gli effetti dell’esorbitante aumento dei prezzi nel settore energetico e destinati, in particolare, all’azzeramento degli oneri di sistema per famiglie e imprese, alla riduzione dell’Iva sul gas al 5% e riduzione degli oneri generali nel settore del gas.

In conclusione, il breve quadro fin qui esposto mostra come l’aumento dei prezzi sia la diretta conseguenza di una radicata politica energetica che oggi, sotto più profili, ci troviamo a fronteggiare.

Appare dunque evidente che al fine di trovare una soluzione efficiente ed efficace occorre un intervento concertato dell’Unione edegli Stati membri al fine di elaborare, nel medio periodo, una politica sempre più green e definire un programma di accelerazione e semplificazione sul fronte delle energie rinnovabili.

Eleonora Pintus, Avvocato

Superbonus: lo strumento green per la ripartenza economica

Nel mio precedente Focus (clicca qui per leggerlo: Le caratteristiche principali del superbonus 110) ho chiarito quali siano le caratteristiche principali del Superbonus110%, ovvero l’agevolazione statale – introdotta dal Governo Conte – che permette di detrarre tutte le spese affrontate per lavori di efficientamento energetico con un’aliquota del 110%. 

Si tratta, come evidente, di uno strumento finalizzato a rilanciare rapidamente il comparto dell’edilizia poiché rappresenta per tutte le figure coinvolte nel processo edilizio (dal committente ai progettisti, dagli impresari agli istituti di credito) un’ottima opportunità per eseguire, a costi contenuti, degli specifici interventi sugli immobili. 

Questo strumento, però, non è stato attuato solo per consentire la ripresa dell’economia ma, anche, per rispondere alle importanti sfide climatiche ed ambientali previste per il settore civile dal Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima.Carlo Murtas, Architetto

Difatti, secondo quanto sostenuto dal Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri On. Riccardo Fraccaro (clicca qui per il suo intervento completo: https://www.governo.it/it/articolo/superbonus-la-chiave-la-ripartenza-green/15950) non è più possibile immaginare una crescita economica fondata sull’abuso e lo spreco di risorse e quindi, in concreto, non sostenibile. 

Per questo motivo, il Governo Conte ha introdotto lo strumento del Superbonus 110% con il quale far fronte alle necessità economico – produttive del Paese nel rispetto delle esigenze di sostenibilità non più differibili. 

Ma in che modo il Superbonus 110% può essere considerato uno strumento green? 

Il Superbonus 110% è stato definito “la chiave della ripartenza green del Paese” perché, attraverso la previsione della detrazione con aliquota del 110%, incentiva l’esecuzione di interventi di riqualificazione energetica e sismica di edifici residenziali. 

Relativamente a questi è stato precisato da diverse circolari dell’Agenzia delle Entrate che, considerata l’assenza di specifiche indicazioni normative, si deve ritenere che la categoria degli interventi di riqualificazione energetica comprenda qualsiasi intervento, o insieme sistematico di interventi, che incida in positivo sulla prestazione energetica. 

In sostanza, quindi, è richiesto che venga realizzata la maggior efficienza energetica prevista dalla norma che, semplificando, si traduce nella riduzione di almeno due classi energetiche rispetto alla situazione ante intervento. 

La classe energetica di un determinato appartamento o edificio è attribuita in base all’indice di prestazione energetica calcolato valutando l’energia totale consumata dall’edificio climatizzato secondo i servizi energetici presenti e per il tipo di immobile, per metro quadro di superficie ogni anno, considerando un utilizzo.Carlo Murtas, Architetto

In questo calcolo, dunque, viene tenuto in debita considerazione il flusso energetico dell’immobile, il cui bilancio deve essere attentamente valutato sia in termini di apporto (ovvero, quanta energia è necessaria per un normale utilizzo) che in termini di dispersione (ovvero, quanta energia si disperde con il normale utilizzo). 

La dichiarazione dell’insieme dei fattori positivi e negativi, indicati attraverso valori predefiniti in base a parametri fissi o variabili, è contenuta all’interno del cosiddetto documento A.P.E., ovvero l’Attestato di Prestazione Energetica 

Maggiore è la classe attribuita ad un immobile, migliore è l’efficienza energetica dello stesso e questo certifica un impatto più contenuto sull’ambiente poiché, semplificando, per garantire determinate prestazioni si consuma di meno.   

Il miglioramento energetico dev’essere poi dimostrato dall’A.P.E., predisposto ante e post intervento, rilasciato da un tecnico abilitato attraverso una dichiarazione asseverata. 

L’asseverazione deve certificare la corretta esecuzione dei lavori, il rispetto dei requisiti tecnici, dei massimali di spesa e la congruità dei costi e può essere eseguita anche a stato avanzamento lavori (cosiddetti “S.A.L.”).  

Successivamente, l’asseverazione dovrà essere inviata ad ENEA in formato telematico entro 90 giorni dal termine dei lavori, o ad ogni S.A.L., che a sua volta rilascia una ricevuta informatica comprensiva di un codice identificativo. 

In conclusione, il Superbonus 110% è davvero uno strumento green utile per la ripartenza economica perché, attraverso la previsione di importanti incentivi e sgravi fiscali – tra l’altro prorogati dalla Legge di Bilancio 2022 – promuove degli interventi più sostenibili per l’ambiente. 

Carlo Murtas, Architetto

Sono laureato in architettura delle costruzioni ed esercito la professione di architetto presso Hinternos, il mio studio di Cagliari, in viale Diaz n. 29.

Hinternos è uno studio multidisciplinare di architettura nel quale si affrontano progetti che spaziano dalla piccola scala del design alle ristrutturazioni di interni ed efficientamento energetico degli edifici.

 

Focus di diritto tributario • Avv. Francesco Sanna

Benefici fiscali e riduzioni aliquote IVA negli interventi edilizi

In primo luogo è bene ricordare che nel sistema giuridico italiano esistono differenti aliquote fiscali che si applicano ogniqualvolta si ha un esborso economico per lavori di ristrutturazioni edilizie. A tal proposito, in base alla tipologia di intervento tali aliquote variano. 

IVA al 10%

In particolare, la Legge 23 Dicembre 1999, n. 488 individua nella ristrutturazione edilizia, ossia nella manutenzione ordinaria e straordinaria, l’applicazione dell’aliquota IVA ridotta al 10%. Tale specifica è disciplinata all’articolo 7, comma 1, lettera b) e 2 della detta Legge in parola. L’applicazione dell’aliquota agevolata è destinata ai contratti d’appalto, d’opera; di concessione con posa in opera o con accordi negoziali. 

Specificatamente, la normativa in esame si riferisce agli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, restauro e risanamento conservativo e ristrutturazione edilizia. 

Nell’articolo 3, comma 6-bis, della Legga di bilancio 2018 si è stabilito che l’aliquota IVA agevolata al 10% è destinata ai cosiddetti beni significativi presenti nei lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria, restauro e risanamento conservativo, nonché ristrutturazione edilizia. Così, in virtù della Legge 488 l’IVA agevolata è applicata fino applicata fino alla concorrenza del valore della prestazione, al netto del valore dei beni significativi. 

A questo puto della trattazione è bene chiarire cosa debba intendersi con la locuzione “beni significativi”. Questi in buona sostanza sono quei beni individuati sulla base dell’autonomia funzionale delle parti separate rispetto al manufatto principale. La circolare della A.E. n. 12/E del 2016 spiega che in presenza di questa autonomia, i componenti o le parti staccate non si devono comprendere nel valore del bene. Di converso, questi devono essere compresi meò computo del valore della prestazione. 

Esempi di beni significativi su cui applicare l’aliquota IVA al 10%, sono: ascensori e montacarichi, infissi esterni e interni, caldaie, videocitofoni apparecchiature di condizionamento e riciclo dell’aria, impianti di sicurezza, ecc. 

In sintesi, su questi beni significativi l’aliquota agevolata del 10% si applica solo sulla differenza tra il valore complessivo della prestazione e quello dei beni stessi. 

Anche i lavori di recupero del patrimonio edilizio godono dell’IVA agevolata al 10%. Il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 63 parla di cessione di beni finiti che si forniscono per gli interventi di recupero del patrimonio edilizio. Per l’individuazione di quali siano tali beni ci si rimanda al contenuto dell’art. 31 della legge 5 agosto 1978, n. 457, dove alle lettere da a) ad e) si considerano cinque tipologie di interventi di recupero: ristrutturazione urbanistica, restauro e risanamento conservativo, manutenzione ordinaria, ristrutturazione edilizia e manutenzione straordinaria.

IVA al 4%

Tale aliquota è applicata alle ‹‹prestazioni di servizi dipendenti da contratti di appalto aventi ad oggetto la realizzazione delle opere direttamente finalizzate al superamento o alla eliminazione delle barriere architettoniche››. 

A titolo esemplificativo, rientrano nella categoria degli interventi agevolati: i lavori atti ad eliminare le barriere architettoniche (quali ascensori e montacarichi), le prestazioni per la realizzazione di strumenti che, attraverso la comunicazione, la robotica e ogni altro mezzo tecnologico, siano idonei a favorire la mobilità interna ed esterna delle persone portatrici di handicap grave.

Possibili novità Superbonus 110%, cessione credito d’imposta e sconto in fattura

Nel richiamare quanto puntualmente esposto dall’architetto Murtas e dai colleghi in ordine a svariati aspetti inerenti il Superbonus 110%, in questo paragrafo pare opportuno soffermarsi sulle preannunciate novità che il Governo, con i suoi tecnici, e l’Agenzia delle Entrate intendono approntare in merito alle regole circa la cessione del credito d’imposta; il tutto con conseguenti ripercussioni sulle agevolazioni fiscali dei bonus edilizi (decreto Sostegni-ter). 

Pare ormai chiara l’intenzione del Governo di procedere ad una vera e propria stretta nei confronti di imprese e contribuenti che intendono avvalersi dei bonus statali riconosciuti in ambito edilizio, fiscale e non solo; così da contrastare ed evitare frodi e ridurre al minimo il rischio di raggiri ai danni dell’Erario.Francesco Sanna, Avvocato

Difatti, nel nuovo decreto Sostegni-ter sono stati inseriti diversi paletti relativi alla cessione del credito e allo sconto in fattura. 

Il testo di legge prevede che ai contribuenti e alle imprese che richiedono e ottengono le agevolazioni sarà permesso cedere il credito (o chiedere lo sconto al momento dell’acquisto) una sola volta. In questo modo si vuole evitare il ricorso al meccanismo elusivo dello scambio di fatture per di lavori mai eseguiti. 

Evitare il proliferare di false fatturazioni che generano crediti di imposta, ceduti a loro volta a intermediari finanziari (e quindi così monetizzati), è l’obiettivo principale di questa operazione. 

In sostanza il Governo vuole lanciare un segnale chiaro e di conferma della cosiddetta “linea dura” già attuata con il decreto anti-frodi.Francesco Sanna, Avvocato

Già con il decreto legge dell’11 novembre 2021, n. 157, recante “Misure urgenti per il contrasto alle frodi nel settore delle agevolazioni fiscali ed economiche” (il cd. “Decreto anti-frodi”) erano state introdotte nuove modalità di controllo per contrastare i comportamenti fraudolenti e rafforzare le verifiche in merito alla fruizione di determinati crediti d’imposta e detrazioni. 

In questo senso, è stata, inoltre, disciplinata, razionalizzata e potenziata l’attività di accertamento e di recupero da parte dell’Agenzia delle Entrate. In particolare, sono stati introdotti nuovi obblighi circa l’apposizione del visto di conformità dei dati relativi alla documentazione che attesta la sussistenza dei presupposti che danno diritto alla detrazione d’imposta e dell’asseverazione in relazione alla valutazione della congruità dei costi sostenuti sia per il Superbonus che per altri bonus edilizi. 

In conclusione, l’intento del Governo pare ancor più giustificato e doveroso se raffrontato ai numeri relativi all’utilizzo dei bonus da parte dei contribuenti e delle imprese italiane. 

Al riguardo, basti consultare l’ultimo rapporto ENEA nel quale, in riferimento all’anno 2019, si parla di un volume d’affari di circa 3,5 miliardi di euro per la realizzazione di circa 400 mila interventi edilizi. Numeri che se riferiti all’anno 2021 salgono fino al 16 miliardi di euro. 

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

Abusi edilizi e Superbonus 110%

Una delle novità più significative e controverse introdotte dal D.L. n. 77/2021, cd. Decreto semplificazioni bis, riguarda la modifica dell’art. 119, co. 13 ter del Decreto Rilancio, in materia di abusi edilizi.

Al fine di snellire le procedure di accesso e di ampliare le possibilità di ricorrere al beneficio del Superbonus 110%, le modifiche contenute nella norma poc’anzi richiamata prevedono che non sia più necessaria la preventiva attestazione di “stato legittimo dell’immobile”, ma è sufficiente la presentazione della cd. CILA SUPERBONUS, ovvero una comunicazione di inizio lavori asseverata. 

Quindi, gli interventi -anche quelli che riguardano parti strutturali degli edifici o prospetti- sono considerati di manutenzione straordinaria e assoggettati a CILA, con esclusione degli interventi che comportano la demolizione e la ricostruzione di edifici. 

Se, da un lato, per la presentazione della CILA non è richiesta l’attestazione di stato legittimo dell’immobile –ovvero la verifica di conformità edilizio–urbanistica dell’immobile prima di dare inizio ai lavori- dall’altro lato, la norma indica le ipotesi in cui può verificarsi la decadenza del beneficio fiscale, ovvero in caso di: 

a) mancata presentazione della CILA;
b) interventi realizzati in difformità dalla CILA;
c) assenza del titolo abilitativo o dell’attestazione dell’immobile;
d) non corrispondenza al vero delle attestazioni richieste dalla norma.

Ne consegue che, in astratto, la presenza di un abuso edilizio sull’immobile oggetto di intervento non pregiudica l’inizio dei lavori, tuttavia, ciò non equivale a sostenere che in presenza di abusi edilizi sia possibile ottenere l’agevolazione fiscale, né che tale condotta sia priva di rilevanza penale. 

Senza alcun dubbio, è necessario premettere che la norma di riferimento si individua nell’art. 49 del D.P.R. 380/2001, il cd. Testo Unico dell’Edilizia, secondo il quale gli interventi abusivi non beneficiano delle agevolazioni fiscali previste dalle norme vigenti. 

Avendo, invece, riguardo al caso specifico, pare doveroso precisare che, per espressa previsione dell’art. 119, co. 16 quater del D.L. Rilancio, resta impregiudicata ogni valutazione successiva all’avvio dei lavori circa la legittimità dell’immobile oggetto di intervento, pertanto, la Pubblica Amministrazione può sempre esercitare il potere di vigilanza e controllo, con avvio di un iter che può portare anche alla decadenza delle agevolazioni fiscali godute e al conseguente recupero. 

Sotto il profilo strettamente penalistico, occorre poi ricordare un principio ormai consolidato, secondo il quale un qualsiasi intervento effettuato su un immobile affetto da abusi edilizi costituisce “una ripresa dell’attività edilizia criminosa originaria”. 

Tale attività, pertanto, integra un nuovo reato, ai sensi dell’art. 44 del D.P.R. 380/2001, anche nel caso in cui si sia trattato di un intervento di manutenzione ordinaria, perché “anche tale categoria di interventi edilizi presuppone che l’edificio sul quale si interviene sia stato costruito legittimamente” (Cass. Pen., sent. n. 11788 del 2021). 

Peraltro, l’esecuzione di lavori edilizi su un immobile realizzato abusivamente determina una nuova condotta illecita, quand’anche per la condotta iniziale di edificazione sia già maturato il termine di prescrizione, posto che i nuovi interventi “ripetono le stesse caratteristiche di illegittimità dell’opera principale alla quale strutturalmente ineriscono” (Cass. Pen., sent. n. 30673 del 2021).   

Riassumendo: la realizzazione di interventi edilizi, finalizzati a beneficiare delle agevolazioni fiscali del Superbonus 110%, effettuati su immobili abusivi, configura un illecito edilizio, punito ai sensi dell’art. 44 del D.P.R. n. 380/2001. 

La disposizione, rubricata “sanzioni penali”, prevede, salvo che il fatto costituisca più grave reato e ferme le sanzioni amministrative: 

  1. l’ammenda fino a 10329 euro per l’inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dal presente titolo, in quanto applicabili, nonché dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dal permesso di costruire;
  2. l’arresto fino a due anni e l’ammenda da 5164 a 51645 euro nei casi di esecuzione dei lavori in totale difformità o assenza del permesso o di prosecuzione degli stessi nonostante l’ordine di sospensione;
  3. l’arresto fino a due anni e l’ammenda da 15493 a 51645 euro nel caso di lottizzazione abusiva di terreni a scopo edilizio, come previsto dal primo comma dell’articolo 30. La stessa pena si applica anche nel caso di interventi edilizi nelle zone sottoposte a vincolo storico, artistico, archeologico, paesistico, ambientale, in variazione essenziale, in totale difformità o in assenza del permesso.
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Focus di diritto civile • Avv. Viola Zuddas

Un anno di Superbonus: primi bilanci e novità

Come abbiamo avuto modo di apprendere dal focus dell’Arch. Carlo Murtas e dalla pillola di diritto pubblicata sui nostri canali social, il Superbonus 110% è uno strumento volto a favorire gli interventi di efficientamento energetico per rilanciare rapidamente il comparto dell’edilizia e rispondere alle importanti sfide climatiche ed ambientali.  

Esso, infatti, consiste in una detrazione al 110% sulle spese sostenute per interventi effettuati da condomìni, persone fisiche al di fuori dell’attività di impresa, Istituti autonomi case popolari (IACP), cooperative di abitazione a proprietà indivisa, organizzazioni non lucrative di utilità sociale, organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociali, associazioni e società sportive dilettantistiche, persone fisiche che risiedono in edifici composti da due a quattro unità immobiliari distintamente accatastate possedute da un unico proprietario o in comproprietà da più persone fisiche. 

L’impatto del Superbonus 110% sull’economia nazionale 

A partire dal 1° settembre, con cadenza mensile, l’ENEA – cioè l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile – pubblica sul proprio sito (clicca il link per un approfondimento: https://www.efficienzaenergetica.enea.it/detrazioni-fiscali/superbonus/risultati-superbonus.html) i dati nazionali e regionali relativi all’utilizzo del Superbonus 110%, suddivisi per i lavori relativi a condomini, edifici unifamiliari e unità immobiliari indipendenti. 

I dati, contenuti in 22 tabelle, concernono il numero delle asseverazioni caricate sul sito dedicato, il valore assoluto degli investimenti ammessi alla detrazione, i valori assoluti e percentuali dei lavori già completati.  

Ebbene, secondo l’ultima tabella, aggiornata al 31 dicembre 2021, in Italia sono state depositate complessivamente 95.718,  per un totale di investimenti ammessi a detrazione pari ad €.16.204.348.017,13; mentre in Sardegna sono state depositate 3.138 asseverazioni, per un totale di investimenti ammessi a detrazione pari ad €.541.671.370,77. 

Si tratta, come evidente, di dati molto importanti che certificano il rilancio del comparto dell’edilizia e, più in generale, dell’economia, in quanto testimoniano che il Superbonus è una misura largamente usata nel territorio.Viola Zuddas, Avvocato

Al riguardo, è utile chiarire che Daniele Vaccarino, presidente della Confederazione dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa (cosiddetta “CNA”), che è una delle organizzazioni italiane di rappresentanza delle imprese dell’artigianato e delle piccole e medie imprese, ha definito il Superbonus 110% come «un autentico booster della crescita economica», in quanto ha determinato per il 2021 un incremento delle spese in edilizia del +62,7% sul 2019, sfiorando i 47 miliardi di euro. 

Le novità introdotte dalla Legge di Bilancio 

La disciplina del Superbonus ha subito, però, alcune modifiche nell’ultimo mese. 

In particolare, la Legge di Bilancio 2022 ha prorogato questo strumento per alcune categorie di beneficiari fino al 2023 ed ha contemporaneamente previsto la riduzione progressiva dell’aliquota al 70% e al 65%, rispettivamente per l’anno 2024 e per l’anno 2025.  

Precisamente, ferma restando la scadenza del 30 giugno 2022, la maxi-detrazione viene prorogata: 

  • fino al 31 dicembre 2025, per gli interventi effettuati dai condomìni, dalle persone fisiche proprietarie (o comproprietarie) di edifici composti fino a 4 unità immobiliari e da ONLUS, organizzazioni di volontariato e associazioni di promozione sociale, compresi gli interventi effettuati dalle persone fisiche sulle singole unità immobiliari all’interno dello stesso condominio o dello stesso edificio interamente posseduto. 
    La percentuale di detrazione sarà pari al 110% fino al 31 dicembre 2023, al 70% nel 2024 e al 65% nel 2025,
  • fino al 31 dicembre 2023, per gli interventi effettuati dagli IACP ed enti equivalenti, compresi quelli effettuati dalle persone fisiche sulle singole unità immobiliari all’interno dello stesso edificio, e dalle cooperative a proprietà indivisa, se alla data del 30 giugno 2023 sono stati effettuati lavori per almeno il 60% dell’intervento complessivo, 
  • fino al 31 dicembre 2022, per gli interventi effettuati su unità immobiliari dalle persone fisiche: se alla data del 30 giugno 2022 sono stati effettuati lavori per almeno il 30% dell’intervento complessivo. 

Infine, chi realizza gli interventi di Superbonus potrà continuare ad usufruire anche della cessione del credito di imposta oppure dello sconto in fattura fino al 31 dicembre 2025, mentre per gli altri interventi previsti dalle diverse detrazioni fiscali si potrà accedere alle due opzioni fino al 31 dicembre 2024. 

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Superbonus: la strategia green approvata dall’Europa

Come evidenziato dal nostro collaboratore, Arch. Carlo Murtas, il Superbonus 110% può certamente essere considerato uno strumento green utile per la ripartenza economica del Paese perché, attraverso la previsione di importanti incentivi e sgravi fiscali, promuove degli interventi più sostenibili per l’ambiente.

Proprio per questo motivo, il Superbonus è stato prorogato dalla legge di Bilancio 2022. 

Il progetto è stato inserito dal Governo nazionale nel Piano per la ripresa e resilienza dell’Italia (PNRR) insieme ad un’ampia gamma di investimenti e riforme volti a fronteggiare le sfide della transizione verde. 

Il piano è stato esaminato dalla Commissione Europea e considerato da questa perfettamente in linea con le priorità del Green Deal europeo e del piano per l’obiettivo climatico 2030 ed altresì all’obiettivo di rendere l’Europa una società resiliente ai cambiamenti climatici entro il 2050. 

Ma cosa si intende per Green Deal Europeo? 

Al fine di superare le ardue sfide poste dalla società moderna, ossia i cambiamenti climatici e il degrado ambientale che costituiscono una minaccia enorme per l’Unione europea e per il mondo, l’UE ha adottato il Green Deal europeo, ossia una nuova strategia di crescita che ha come ambizioso obiettivo quello di trasformare l’Europa in un’economia moderna, competitiva ed efficiente sotto il profilo delle risorse.  

Nel dettaglio, la “sfida verde” consiste nel rilanciare l’economia grazie alla tecnologia verde, in particolare attraverso la creazione di industrie, trasporti sostenibili e riduzione di gas, così da rendere l’Europa climaticamente neutra entro il 2050. 

Come si può giungere a questo risultato? 

Al fine di realizzare una comune e contestuale transizione verde, la Commissione europea, attraverso lo strumento del sostegno tecnico,  coadiuva le amministrazioni nazionali a progettare e attuare riforme che contribuiscano al conseguimento degli obiettivi del Green Deal europeo. 

In particolare, insieme agli Stati membri, l’Unione è pienamente impegnata nell’attuazione dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile – siglata in occasione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, dai paesi di tutto il mondo -  che, insieme all’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici, costituisce uno dei principali strumenti di cooperazione  internazionale in materia di sviluppo sostenibile. 

I 17 obiettivi di sviluppo sostenibile (OSS) individuati nell’Agenda intendono migliorare la vita delle persone e proteggere il pianeta e rispondere alle esigenze delle generazioni presenti e future. 

Proprio dall’anno 2020, la Commissione europea monitora il conseguimento degli OSS nell’ambito del semestre europeo e, parallelamente, gli Stati membri sono chiamati ad inserire ed integrare gli OSS mettendo in atto strategie (a livello nazionale) mirate per favorire uno sviluppo più sostenibile. 

 Per quanto riguarda il nostro Paese, al fine di dare attuazione ai predetti obiettivi ed attuare l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, il Governo italiano ha anch’esso adottato una strategia nazionale di sviluppo sostenibile, ampiamente approvata dalla Commissione. 

A detta di quest’ultima, infatti,  il PNRR italiano, che comprende una serie di misure relative alla ristrutturazione degli edifici a fini di efficienza energetica, agevolate in particolare dalla detrazione fiscale delle spese per la casa ( appunto il progetto Superbonus), è perfettamente in linea con il Green Deal europeo e del piano per l’obiettivo climatico 2030, nonché all’obiettivo di rendere l’Europa una società resiliente ai cambiamenti climatici entro il 2050. 

 Così facendo, dunque, il Governo nazionale ha senz’altro inviato un segnale corretto, stimolando domanda di beni e servizi più sostenibili. 

Ciò che, certamente, può essere qualificato come un’importante passo verso una governance responsabile verso le future generazioni. 

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Nel dicembre 2020, la Commissione europea ha avanzato una proposta di regolamento sui Servizi digitali al fine di definire  competenze e responsabilità sul controllo dei contenuti delle grandi piattaforme online quali, a titolo esemplificativo, Google, Apple, Facebook e Amazon.  

La normativa ha portata rivoluzionaria in quanto vuole rappresentare un punto di svolta nella regolamentazione dei giganti della “Big Tech” e, al contempo, garantire agli utenti uno spazio digitale sicuro e capace di contrastare contenuti illegali online, indipendentemente dal luogo in cui essi risiedono nello spazio UE. 

Ma cosa si intende per servizi digitali?  

I servizi digitali sono quei servizi quali siti web, social media, app, e-book, streaming di musica e video che, oramai, occupano un ruolo essenziale nella nostra vita. 

Come evidenziato dalla stessa Commissione, se la crisi del coronavirus da un lato ha dimostrato l’importanza delle tecnologie digitali in tutti i settori della vita moderna, d’altra parte ha fatto emergere la totale dipendenza della nostra economia e società dai servizi digitali e dai quali conseguono, oltre che benefici, anche nuovi rischi che l’attuale quadro normativo non è in grado di prevenire adeguatamente (per maggiori approfondimenti sul tema, leggi il nostro articolo “La figura professionale dell’influencer – parte 2”).  

Con questa proposta legislativa – che si basa sui principi fondamentali già fissati nella direttiva sul commercio elettronico, validi ancora oggi – la Commissione si è impegnata ad aggiornare le norme che definiscono le responsabilità e gli obblighi dei prestatori di servizi digitali e, in particolare, delle piattaforme online. 

Cosa prevede, dunque, la legge sui servizi digitali?

La proposta mira ad introdurre regole comuni destinate a creare e ad assicurare migliori condizioni per la prestazione di servizi digitali innovativi nel mercato interno e, in particolare: 

  •  contribuire alla sicurezza online e alla protezione dei diritti fondamentali; 
  • istituire una struttura di governance forte e duratura per una vigilanza efficace sui prestatori di servizi intermediari.  

Elemento fondamentale della proposta è la determinazione, in maniera chiara e trasparente, delle competenze e responsabilità per i prestatori di servizi intermediari e, in particolare, per le piattaforme online utilizzate ogni giorno da milioni di cittadini europei, quali: piattaforme di social media (quali Facebook, Twitter e instagram), app store, YouTube e Spotify, siti dedicati ai viaggi, alloggio ed ogni altra piattaforma inserita nel mercato digitale.  

Al fine di giungere a questo risultato, sono stati previsti degli obblighi a carico delle piattaforme online quali, ad esempio, quello di acquisire, memorizzare, verificare e pubblicare informazioni sugli operatori commerciali che utilizzano i loro servizi così da garantire agli utenti un ambiente online sicuro e trasparente.  

Le misure oggetto dell’iniziativa legislativa della Commissione sono, altresì, dirette ad attenuare i rischi di discriminazione, a proteggere i diritti dei minori e il diritto alla dignità umana.
In tal senso, sembrerebbe, infatti, che le Big Tech non potranno più raccogliere dati personali che rivelino l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche o altri dati sensibili; dati che, dunque, non potranno essere utilizzati per proporre pubblicità mirata.Avv. Eleonora Pintus, Diritto dell’Unione Europea

Allo stesso tempo, il regolamento prevede una strenua lotta ai cosidetti “dark pattern”, ossia tutte quelle tecniche dirette a fuorviare i consumatori per indurli a fornire consensi indesiderati o a eseguire operazioni non volute. 

Per rafforzare il quadro di tutele, la proposta di regolamento ha, inoltre, previsto una diretta responsabilità dello Stato membro incaricato di vigilare sulla conformità dei prestatori di servizi stabiliti sul suo territorio agli obblighi sanciti dalla proposta di regolamento.  

Ma la nuova normativa non dimentica di riconoscere un ruolo attivo all’utente, prevedendo una vasta gamma di strumenti da questo direttamente azionabili al fine di vedere salvaguardati i propri diritti.Avv. Eleonora Pintus, Diritto dell’Unione Europea

Al riguardo, sono state delineate procedure di notifica e azioni per i contenuti illegali, oltre che la possibilità di impugnare le decisioni delle piattaforme in merito alla moderazione dei contenuti. 

Appare perciò chiaro che il fine ultimo della proposta legislativa  è proprio quello di migliorare la sicurezza online degli utenti in tutta l’Unione e la protezione dei loro diritti fondamentali.  

Al fine di dare concreta e mirata attuazione alla normativa, la proposta comporterà una serie di garanzie obbligatorie, compresa la comunicazione di una motivazione all’utente, oltre meccanismi di reclamo sostenuti dai prestatori di servizi ed anche un meccanismo esterno di risoluzione extragiudiziale delle controversie.  

Quali sono i prossimi passi da compiere? 

Solo pochi giorni fa, il Parlamento Europeo ha approvato la proposta di regolamento sui servizi digitali  (DSA). 

Con una netta maggioranza (530 voti favorevoli, 78 contrari ed 80 fra astenuti ed assenti) il Parlamento Europeo ha approvato la bozza che prevede la responsabilità delle Big Tech nella rimozione diretta di contenuti illegali o nocivi, la responsabilità legale delle stesse nei confronti degli utenti,  ed un consistente potenziamento degli strumenti per negare il consenso alla pubblicità mirata. 

Tuttavia, ai fini dell’approvazione della proposta di legge, sarà necessario il parere favorevole del Consiglio Europeo, chiamato ad esprimersi sulla proposta di legge e sugli emendamenti già a partire dal prossimo 31 gennaio 2022.  

Bisognerà dunque attendere al fine di scoprire se la proposta di regolamento verrà approvata, in un unico ed identico testo, dalle due massime Istituzioni comunitarie. 

Eleonora Pintus, Avvocato

La disabilità può essere definita come la condizione personale di chi, a causa di una o più menomazioni ovvero a causa di minorazioni fisiche e/o intellettuali, ha una ridotta capacità d’interazione con l’ambiente sociale circostante.

Detta condizione è, con tutta evidenza, causa di una ridotta autonomia nello svolgimento delle attività quotidiane e di partecipazione alla vita sociale al pari degli altri individui.

Per questo motivo è necessaria una tutela maggiore nei confronti di questa categoria da parte del legislatore e, in generale, da parte delle Istituzioni alle quali è affidato il compito di creare condizioni ottimali e rimuovere gli ostacoli che impediscono, di fatto, la libera determinazione degli individui.Avv. Eleonora Pintus, Diritto Internazionale e Diritto dell’Unione Europea

In questo articolo ci proponiamo di affrontare una breve disamina del fitto quadro normativo sulla tutela dei disabili, che assume forte rilevanza tanto sul piano della regolamentazione sovranazionale che nazionale, e delle sue recentissime evoluzioni.

Tra diritto internazionale e diritto dell’unione europea

In particolare, l’Unione europea ha iniziato a occuparsi di disabilità fin dalla seconda metà degli anni Settanta senza, tuttavia, adottare atti di carattere vincolante. Ciò in quanto i Trattati allora vigenti non prevedevano alcun trasferimento dei poteri relativi alla regolamentazione dei diritti dei disabili all’Unione Europea, restando, come tali, estranei al contesto normativo europeo.

È solo con l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam che la Comunità Europea (così chiamata all’epoca) ha acquisito il potere di intervenire in materia ed adottare misure dirette a combattere le discriminazioni  sulla base della disabilità (come previsto dall’articolo 19 TFUE).

Detto potere è venuto rafforzandosi nel 2009, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona – che ha introdotto una modifica nella parte attinente la procedura legislativa necessaria ad adottare misure in materia di disabilità – e ancor più con la ratifica della “Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità” la quale ha spinto l’Ue ad includere la tutela e promozione dei diritti delle persone con disabilità tra le sue azioni prioritarie.

Detta Convenzione – ratificata dall’Unione ed entrata a far parte delle sue fonti normative con rango di fonte intermedia – è stata adottata il 13 dicembre 2006 dall’Assemblea generale dell’Onu la quale imputa la condizione di disabilità alla presenza nella società di barriere di carattere ambientale e sociale.

Essa, pertanto, impone agli Stati aderenti di tenere una condotta attiva atta ad eliminare tutti gli ostacoli che impediscono al disabile di vivere nella società in condizione paritarie.

I pilastri attorno ai quali ruota il testo della Convenzione sono infatti quelli di dignità, autonomia individuale, accessibilità, inclusione nella società, eguaglianza e accettazione della disabilità come parte della diversità umana; il fine è dunque quello di creare condizioni per la partecipazione del disabile alla vita sociale e dell’inclusione dello stesso in tutti i rapporti sociali, quale condizione necessaria per la salvaguardia del suo equilibrio fisico e psichico.

Ma quali sono le garanzie concretamente riconosciute al disabile nell’ambito dell’ordinamento interno?

La tutela del disabile nel diritto interno

Si deve alla normativa sovranazionale e, in particolare, alle direttive europee, il riconoscimento e l’affermazione dell’eguaglianza nei confronti degli individui disabili da parte del legislatore nazionale ed il riconoscimento di diritti fondamentali.

Tra questi, occorre senz’altro richiamare la direttiva dell’UE 2000/78/CE che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, recepita nell’ordinamento italiano con D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216, come corretto dal D.Lgs. 2 agosto 2003, n. 256.

Ancora, al fine di agevolare la mobilità del disabile, il legislatore europeo ha adottato vari regolamenti sui diritti dei passeggeri a mobilità ridotta sui principali mezzi di trasporto i quali, per natura stesso dell’atto, entrano a far parte direttamente dell’ordinamento nazionale.

Tuttavia, ancora oggi, sebbene a livello europeo siano state adottate norme dirette a ridurre ancor più le barriere della società che fanno da ostacolo alla piena integrazione degli individui affetti da disabilità, il legislatore nazionale non ha ancora provveduto a dar luogo alle attività necessarie al recepimento delle stesse: basti pensare alla direttiva n. 2102/2016 UE relativa all’accessibilità dei siti web e delle applicazioni mobili degli enti pubblici o, ancora alla direttiva del 17 aprile 2019 n. 882 sui requisiti di accessibilità dei prodotti e dei servizi il cui termine di recepimento era previsto per lo scorso 28 giugno 2021.

La ricca normativa richiamata – la cui complessità meriterebbe un’analisi ancora più approfondita – suggerisce la necessità di un impegno costante e sinergico dell’UE e dei suoi Stati membri i quali sono chiamati a migliorare la situazione socioeconomica delle persone con disabilità, sulla base del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, sulla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e, altresì, in forza della sopra menzionata Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (UNCRPD) di cui l’Unione europea e tutti i suoi Stati membri sono parti contraenti.

Sorge allora spontaneo domandarsi in che modo lo Stato si stia adoperando al fine di garantire che tutte le persone con disabilità, indipendentemente dal sesso, dalla razza o dall’origine etnica, dalla religione o dalle convinzioni personali, dall’età o dall’orientamento sessuale, possano godere dei loro diritti umani, avere pari opportunità e parità di accesso alla società e all’economia, essere in grado di decidere come e con chi vivere, circolare liberamente nell’UE indipendentemente da limiti fisici e dalle loro esigenze di assistenza.

Il nuovo disegno di legge delega in materia di disabilità

A tal riguardo, giova sottolineare che proprio al fine di dare piena attuazione alla Convenzione Onu sui diritti dei disabili, oltre che al contenuto della Strategia sui diritti delle persone con disabilità 2021-2030 adottata dalla Commissione nel marzo 2021, il 27 ottobre 2021 il Consiglio dei Ministri ha approvato il disegno di legge delega in materia di disabilità.

La riforma intende porre al centro la persona con le sue esigenze, le sue relazioni, un progetto di vita personalizzato e partecipato, come previsto e voluto dalla convenzione ONU  sui diritti delle persone con disabilità ratificata dallo Stato Italiano con la legge 3 marzo 2009 n.18, insieme al c.d. “Protocollo Opzionale” (cioè il Protocollo con cui si individuano le modalità di rilevazione e censura internazionale delle violazioni della Convenzione da parte di ciascuno Stato), facendo diventare la Convenzione vincolante e sottoponendo lo Stato italiano anche al controllo periodico del Comitato ONU sui diritti delle persone con disabilità rispetto all’effettiva esecuzione della Convenzione stessa.

Come da comunicato del Consiglio dei Ministri, il disegno di legge delega in materia di disabilità, che rientra tra le riforme e azioni chiave previste dal  Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), prevede un intervento nei seguenti settori:

  • definizioni della condizione di disabilità, riassetto e semplificazione della normativa di settore;
  • accertamento e certificazione della condizione di disabilità e revisione dei suoi processi valutativi;
  • valutazione multidimensionale della disabilità, progetto personalizzato e vita indipendente;
  • informatizzazione dei processi valutativi e di archiviazione;
  • riqualificazione dei servizi pubblici in materia di inclusione e accessibilità;
  • istituzione di un Garante nazionale delle disabilità.

Il DDL “recante delega in materia di disabilità” prevede perfino il potenziamento dei servizi e delle infrastrutture sociali necessarie a sormontare le barriere burocratiche che si pongono come principale ostacolo fra il paziente e la fruizione dei servizi.

In tal senso, il Governo nell’ottica della semplificazione, è altresì delegato a predisporre procedimenti più snelli, trasparenti ed efficienti di riesame e di rivalutazione delle condizioni di disabilità.

Ecco perché è stata prevista altresì l’istituzione del Garante nazionale delle disabilità il quale dovrà occuparsi di raccogliere le istanze e fornire adeguata assistenza a tali soggetti qualora, ad esempio, subiscano violazioni dei propri diritti; in tali casi, dovrà formulare raccomandazioni e pareri alle amministrazioni interessate sulle segnalazioni raccolte, anche in relazione a specifiche situazioni e nei confronti di singoli enti.

Al fine di rimuovere ostacoli sociali e garantire una sostanziale eguaglianza fra tutti i cittadini, il Governo mira, dunque, a realizzare un’azione ad ampio spettro, ivi comprendendo la promozione di campagne di sensibilizzazione e di comunicazione, necessarie per rafforzare una cultura basata sulla tutela ed il rispetto dei diritti delle persone.Avv. Eleonora Pintus, Diritto Internazionale e Diritto dell’Unione Europea

Eleonora Pintus, Avvocato

Il quadro delle violenze e molestie nel mondo del lavoro

Secondo l’Istat (2018), in Italia un milione e 404 mila donne hanno subito nel corso della loro vita molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro. In un rapporto pubblicato da WeWorld e Ipsos in occasione della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, il 70% delle donne intervistate dichiara di aver subito una qualche forma di molestia in ambito lavorativo in Italia.

Un’iniziativa dell’Espresso e della CGIL inaugurata questa settimana, #lavoromolesto, si unisce a questi studi con l’obiettivo di raccogliere le testimonianze di molestie sul lavoro, includendo minacce, comportamenti offensivi e umilianti che violano la dignità delle lavoratrici, da parte di superiori e colleghi. Il progetto sottolinea che la maggior parte delle vittime e survivor non parlano delle proprie esperienze. È importante precisare che la responsabilità non deve mai pesare sulle vittime e survivor, ma su un sistema che deve porre le condizioni necessarie perché si sentano tutelate, perché le loro voci siano credute e ascoltate, perché ci siano delle procedure che prendano sul serio le loro denunce (all’interno di un’azienda o tramite le forze dell’ordine). Questa responsabilità è del governo e dei datori di lavoro.

I dati a livello nazionale e regionale in tutto il mondo e le esperienze di survivor e vittime mostrano una realtà assordante:

  1. Le violenze e le molestie sul lavoro impregnano tutti i settori, tutti i contesti, tutti i paesi
  2. Le donne, le persone con disabilità[1], le persone razzializzate, le persone LGBTQI+, le lavoratrici migranti, le persone che lavorano nel settore informale e che hanno un lavoro precario sono le più esposte. In questo contesto, l’intersezione delle identità diventa un fattore di vulnerabilità aggiunta, e ogni gruppo va considerato come fortemente eterogeneo.
  3. Dove esistono delle leggi solide e interessanti, c’è comunque ancora tanto da fare da parte dei governi per potersi assicurare che siano messe in pratica, e che i datori di lavoro si prendano le loro responsabilità in materia di prevenzione e protezione del personale, come rivendicato dai sindacati, dai movimenti e associazioni femministe di tutto il mondo.

Quale cornice normativa a livello internazionale?

Nel 2019, una Convenzione internazionale contro la violenza e le molestie nel mondo del lavoro è stata adottata dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL). Concretamente, questo significa che gli stati membri dell’ONU, sindacati e datori di lavoro hanno intrapreso delle negoziazioni per arrivare a un documento che offra un quadro normativo in materia. Per poterla applicare a livello nazionale, ogni governo deve poi ratificarla, effettuando i cambiamenti legislativi necessari per portarsi in pari con le misure indicate dal trattato internazionale.

La Convenzione 190 è accompagnata dalla Raccomandazione 206, che ha il ruolo di indicare e guidare gli stati membri nell’applicazione della Convenzione a livello nazionale. Fornisce infatti delle linee guida e degli esempi di misure che sarebbe fondamentale integrare per poter veramente proteggere le vittime e survivor di violenze e molestie, e per poter effettuare una concreta prevenzione.

Il 29 ottobre 2021 l’Italia ha completato il processo di ratifica, secondo paese in Europa e nono al mondo. Cosa significa per le lavoratrici e lavoratori italianə? Questo dipende dai cambiamenti che saranno intrapresi per rinforzare le leggi esistenti e la loro applicazione.Ludovica Anedda, Specializzata in uguaglianza di genere

Cosa offre di innovativo questo trattato internazionale? 

La Convenzione 190 e la Raccomandazione 206 hanno quattro dimensioni che sono particolarmente importanti:

  1. La definizione di violenze e molestie sul lavoro è molto ampia, rispetto alla maggior parte delle legislazioni nazionali. L’articolo 1 legge:

« a) l’espressione “violenza e molestie” nel mondo del lavoro indica un insieme di pratiche e di comportamenti inaccettabili, o la minaccia di porli in essere, sia in un’unica occasione, sia ripetutamente, che si prefiggano, causino o possano comportare un danno fisico, psicologico, sessuale o economico, e include la violenza e le molestie di genere;

« b) l’espressione “violenza e molestie di genere” indica la violenza e le molestie nei confronti di persone in ragione del loro sesso o genere, o che colpiscano in modo sproporzionato persone di un sesso o genere specifico, ivi comprese le molestie sessuali. »

E in Italia? Proprio in questi giorni il Senato sta discutendo un testo per l’introduzione del reato di molestia o di molestia sessuale. Lo stesso testo apporterebbe la modifica del codice delle pari opportunità introducendo sulle molestie una formulazione che includa anche gli atti indesiderati « anche se verificatisi in un’unica occasione » (art. 1 del D.D.L. 665).

  1. Nella Convenzione 190, la definizione fa riferimento a tutti i settori, nel pubblico, nel privato, nell’economia formale e informale, in aree urbane e rurali, e per tutte le lavoratrici e lavoratori, senza distinzione legata al tipo di contratto. Inoltre, intende come “mondo del lavoro” il posto di lavoro stesso, ma anche i luoghi connessi al lavoro come luoghi destinati a pause, bagni e spogliatoi, ma anche durante gli spostamenti per recarsi al lavoro o per il rientro dal lavoro, include lo smart working e le molestie e violenze online.

Questa dimensione diventa particolarmente rilevante nel contesto attuale in cui lo “smart working” forzato durante la pandemia ha cambiato per molte persone la realtà lavorativa in Italia e in tutto il mondo.

  1. La Convenzione 190 e la Raccomandazione 206 sottolineano l’importanza di considerare le persone e i gruppi che sono più a rischio di essere esposti alle violenze e molestie nel mondo del lavoro. Questo include le donne, le persone con disabilità, le persone razzializzate, le persone LGBTQI+, le lavoratrici migranti, le persone che lavorano nel settore informale, e non solo. Una settimana dopo il Transgender day of remembrance (TDOR), giornata per commemorare le vittime dell’odio transfobico, così come tutti i giorni dell’anno, è importante ricordarci che le persone transgender e non binarie sono particolarmente esposte alle violenze di genere, e questo include le violenze e le molestie sul lavoro, che si aggiungono alle multeplici forme di discriminazione che affrontano nel quotidiano.

In Italia è necessario finanziare e intraprendere studi e analisi che permettano di avere una visione più chiara di questa diversità di esperienze, in modo da poter concretamente adattare e applicare la legislazione e le misure dei datori di lavoro in tutti i settori.

In Italia, il D.D.L. Zan sul contrasto all’omolesbobitransfobia, all’abilismo e al sessismo, affossato al Senato proprio qualche giorno prima della conclusione della ratifica della Convenzione 190 da parte del Ministero per il Lavoro e le Politiche Sociali, sarebbe stato in questo contesto uno strumento essenziale e complementare per contrastare violenze e molestie nel mondo del lavoro.

  1. Un punto essenziale di questo trattato internazionale è il fatto che sottolinea l’impatto della violenza domestica sul mondo del lavoro.

Anche se questo collegamento non sembra immediatamente automatico, ci sono diversi motivi per cui è importante parlare di violenza domestica quando parliamo del mondo del lavoro.

  • Il posto di lavoro è il primo luogo dove l’aggressore può facilmente trovare la vittima perchè, anche se stesse cercando di scappare, per necessità, se non è tutelata dal datore di lavoro e dallo stato, dovrà presentarsi a lavoro per non perderlo. Per questo motivo, la vittima/survivor deve avere l’opportunità di assentarsi senza subire delle conseguenze sul proprio impiego. In questo contesto, la legge italiana ha una misura che permette di prendere dei giorni di assenza retruibiti. Un’altra misura essenziale in questo contesto sarebbe il diritto alla mobilità geografica, che esiste per esempio in Spagna.
  • Può capitare che una vittima e survivor, a causa delle violenze subite, si debba assentare o segua degli orari irregolari per poter, ad esempio, fare delle visite mediche o sporgere una denuncia: la vittima e survivor deve essere protetta dal rischio di perdere il lavoro e di essere licenziata. Misure di protezione dal licenziamento sono assenti nella maggior parte dei paesi del mondo, compresa l’Italia, con delle eccezioni in Nuova Zelanda e in Australia.
  • Il lavoro ha un ruolo essenziale nella vita della vittima e survivor: la violenza domestica è spesso fortemente legata alla violenza economica e al controllo economico da parte del compagno violento: perdere il lavoro significherebbe per la vittima e survivor perdere la possibilità di essere economicamente indipendente per poter scappare dalla situazione di violenza e poter intraprendere dei percorsi di recupero e ricostruzione di sè.
  • Il confine tra luogo di lavoro e domicilio è sempre più sfocato nel contesto attuale della pandemia del COVID-19, in cui tantə lavoratori e lavoratrici si sono trovati obbligatə a lavorare da casa, con uno “smart working” forzato: le vittime di violenza domestica si sono trovate in un lockdown con i propri aggressori.

In una società che sminuisce, ignora, invisibilizza e zittisce le vittime e survivor delle violenze di genere, in cui la cultura dello stupro impregna tutte le sue dimensioni, dal discorso politico e giornalistico, a ciò che viene rappresentato nei film, nelle fiction e nei programmi televisivi, è assolutamente fondamentale avere un quadro legale solido. Ma non è abbastanza.Ludovica Anedda, Specializzata in uguaglianza di genere

Sta a tuttə noi ascoltare, sostenere e amplificare giorno dopo giorno le voci di vittime e survivor, e mettere in discussione i nostri comportamenti e quelli delle persone che ci sono attorno. Ma sta al governo rinforzare le leggi, assicurarsi che queste siano applicate e valutate, che i datori di lavoro e le imprese italiane anche nelle loro filiere estere rispettino la normativa e integrino le misure necessarie per prevenire queste violenze e proteggere il personale, che le associazioni femministe che si occupano della protezione e del supporto per le vittime e survivor e i centri anti-violenza siano sostenuti e finanziati.

[1] Per un approfondimento sull’uso dei termini “persone con disabilità” o “persone disabili”, vedere l’articolo dell’attivista Sofia Righetti: https://m.facebook.com/sofiarighetti

Ludovica Anedda, Specializzata in uguaglianza di genere

Sono laureata in relazioni internazionali, con un Master in analisi di politiche pubbliche, e dal 2019 lavoro a Parigi con l’ONG di solidarietà internazionale CARE, in cui mi occupo di advocacy e influenza politica nell’ambito dell’uguaglianza di genere. Più precisamente, collaborando con altre organizzazioni, associazioni femministe e sindacati, sviluppo e presento raccomandazioni dettagliate per il governo francese, soprattutto per l’integrazione di un approccio di genere nella politica estera della Francia.

Nell’ultimo anno, mi sono particolarmente occupata di una campagna a livello nazionale per la ratifica da parte della Francia della Convenzione 190 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) contro la violenza e le molestie nel mondo del lavoro.

Precedentemente, sono stata consulente sulle politiche educative e di genere dell’Unione Europea a Bruxelles, e ho avuto delle esperienze professionali presso l’agenzia dell’Unione Europea che si occupa di uguaglianza di genere (EIGE) e presso l’agenzia dell’ONU specializzata nella protezione dei diritti umani (OHCHR).

Come progetto personale, ho iniziato una newsletter per poter accompagnare soprattutto giovanə professionistə nella ricerca di opportunità di lavoro nell’ambito dell’uguaglianza di genere e della protezione dei diritti LGBTQI+. Tramite questa newsletter, curo delle liste di Gender Jobs in ONG e associazioni, nel settore pubblico, nel settore privato, in organizzazioni internazionali.

Focus di diritto civile • Avv. Francesco Sanna

Il Piano Strategico Nazionale sulla violenza maschile contro le donne

Il 18 novembre scorso, Elena Bonetti, Ministro per le pari opportunità e la famiglia, ha presentato al Consiglio dei Ministri il Piano Strategico Nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2021-2023, ovvero un documento di programmazione strategica per la definizione ed attuazione di politiche integrate ed efficaci.

Questo progetto, che si pone in continuità con il precedente previsto per il triennio 2017-2020, prevede la collaborazione della Cabina di Regia Nazionale (composta da amministrazioni centrali, Regioni e autonomie locali), delle Parti Sociali e delle principali realtà associative attive nel settore della prevenzione e del contrasto della violenza di genere.

L’obiettivo è quello di fornire risposte adeguate e concrete in relazione al fenomeno, purtroppo in costante aumento, della violenza di genere.

A tal fine, dunque, sono state introdotte diverse misure che mirano, da una parte, a tutelare le donne vittima di violenza e, dall’altra, a reprimere le condotte perpetrate dagli uomini contro le donne, attraverso specifici percorsi di informazione e sensibilizzazione della società.

Come si legge sul sito del Dipartimento per le Pari Opportunità (clicca qui il link per un approfondimento: http://www.pariopportunita.gov.it) il nuovo Piano è articolato per “assi” cui sono associate specifiche “priorità”, che affrontano le dimensioni più significative della violenza maschile sulle donne, ovvero: Prevenzione, Protezione e Sostegno, Perseguire e Punire, Assistenza e Promozione.

La sua struttura, quindi, è basata sulle tre “P” (prevenzione, protezione e sostegno delle vittime, perseguimento dei colpevoli) alle quali è stata aggiunta la quarta “P” (ovvero, quella delle politiche integrate) previste dalla Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ratificata dall’Italia nel 2013.Avv. Francesco Sanna, Civilista

Quest’ultima, giova precisarlo, rappresenta il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante che propone un quadro normativo completo e integrato a tutela delle donne contro qualsiasi forma di violenza.

Inoltre, interviene con particolare riguardo anche all’ambito della violenza domestica che, come sappiamo, non colpisce solo le donne ma anche altri soggetti fragili, come bambini ed anziani, ai quali si applicano le medesime norme di tutela.

Il Ministro Bonetti, nel corso della presentazione del Piano Strategico, ha chiarito che nel Disegno di legge di Bilancio per il 2022 è stata inserita una proposta di modifica degli art. 5 e 5 bis del decreto-legge n. 93 del 2013 (recante “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province”), in maniera da rendere più concreto l’intervento per la prevenzione ed il contrasto di fenomeni di particolare allarme sociale.

Difatti, sono state anche destinate delle risorse finanziarie per garantirne l’attuazione con l’intento di prevenire e contrastare il fenomeno della violenza maschile contro le donne attraverso l’adozione di politiche efficaci, in linea peraltro con Convenzione di Istanbul, citata in precedenza.

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

Il fenomeno del “mobbing” e la tutela penale

Con il termine “mobbing” si intendono quelle forme di violenza e abuso -per lo più di natura psicologica-, maturate in ambito lavorativo, che possono manifestarsi attraverso offese, molestie, assegnazione di orari di lavoro o incarichi particolarmente gravosi oppure, al contrario, di mansioni inferiori rispetto al ruolo ricoperto dalla vittima, nonché mediante continui rimproveri o critiche aggressive e del tutto ingiustificate.

Statisticamente, sono le lavoratrici donne a subire maggiormente tali condotte, poste in essere tanto dal datore di lavoro (cd. mobbing verticale), quanto dagli stessi colleghi (cd. mobbing orizzontale).

Basti pensare, ad esempio, al licenziamento, al demansionamento o alle discriminazioni legate allo stato di gravidanza della lavoratrice (tanto ciò è vero che molte donne, per paura di perdere il lavoro, si sentono costrette a nascondere la gravidanza), alla disparità salariale rispetto al lavoratore di sesso maschile, nonché alle vere e proprie molestie di natura sessuale, come avances insistenti, provocazioni, palpeggiamenti o promesse di carriera, tutte condotte che comportano gravi danni per la salute psico-fisica della vittima.

Ebbene, dinnanzi ad un incremento sempre più preoccupante del fenomeno in questione, la giurisprudenza giuslavoristica ha definito il mobbing come “un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo”.

Ma qual è la tutela penale prevista per questa tipologia di condotte?

Innanzi tutto, vi è da precisare che non sussiste un’espressa disciplina normativa in materia, né una fattispecie che preveda il reato di “mobbing”, di conseguenza, viene spontaneo domandarsi se le condotte poc’anzi descritte possano comunque assumere rilevanza penale.Avv. Claudia Piroddu, Penalista

La risposta è affermativa, invero, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, le condotte persecutorie poste in essere nei confronti del lavoratore e finalizzate alla sua emarginazione possono integrare il reato di maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 c.p., purché il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, ovvero sia caratterizzato da “relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia” (si veda, Cass. pen., 13 febbraio 2018, n. 14754).

Ad ogni modo, deve osservarsi che, nel caso in cui la condotta mobbizzante sia maturata in un contesto aziendale di notevoli dimensioni o comunque in cui non ricorrano le caratteristiche enunciate -ove cioè sia assente un legame diretto e particolarmente stretto tra le parti-, il reato di maltrattamenti non sarebbe configurabile.

In talune ipotesi, i Supremi Giudici hanno ritenuto che, nell’ambito dell’esercizio del potere di correzione e disciplina, la condotta del datore di lavoro che trasmodi in rimproveri abituali, ingiuriosi o minacciosi, sia idonea ad integrare il reato di cui all’art. 571 c.p.

Di indubbio interesse risulta il recente orientamento sostenuto dalla Corte di Cassazione nella sentenza del 14 settembre 2020, n. 31273, in cui i comportamenti ostili e vessatori perpetrati in danno del dipendente vengono ricondotti nell’ambito del reato di atti persecutori, previsto nell’art. 612 bis c.p.Avv. Claudia Piroddu, Penalista

Infatti, affinché sussista il delitto di stalking, l’ambiente in cui si sono verificate le condotte illecite risulta -peraltro comprensibilmente- del tutto irrilevante, tanto ciò è vero che il reato in parola può realizzarsi in qualsiasi contesto di vita della vittima (si pensi, infatti, al cd. stalking condominiale o al cd. stalking giudiziario), ivi compreso dunque quello lavorativo.

Giova poi aggiungere, altresì, che la predetta fattispecie, al pari del mobbing, si contraddistingue per la reiterazione nel tempo di condotte vessatorie, tali da ledere la libertà morale di chi le subisce, determinando un perdurante e grave stato di ansia o un fondato timore per la propria incolumità, ovvero da costringere la persona a modificare le proprie abitudini.

Tanto precisato, non vi è alcun ostacolo per ritenere integrato il reato di cui all’art. 612 bis c.p. nel caso in cui le condotte di mobbing si sostanziano in atti vessatori, posti in essere in maniera consapevole, ancorché non necessariamente finalizzata ad emarginare il lavoratore, tali da arrecare un danno alla libertà di autodeterminazione della vittima e alla integrità psico-fisica della stessa, garantendo così al lavoratore o alla lavoratrice una tutela mirata ed efficace.

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Focus di diritto civile • Avv. Viola Zuddas

Le misure economiche a sostegno delle vittime di violenza di genere

L’espressione “violenza di genere” descrive tutte quelle forme di violenza che riguardano le persone discriminate in base al sesso.

Essa comprende, quindi, la violenza psicologica, quella fisica e sessuale, gli atti persecutori (il cosiddetto “stalking”) ed, infine, anche il femminicidio.

Per capire la gravità del fenomeno, è utile riportare qualche dato fornito dall’ISTAT (clicca qui per un approfondimento: https://www.istat.it ) che, qualche tempo fa, ha pubblicato il report dei dati trimestrali relativi al numero di pubblica utilità 1522 contro la violenza sulle donne e lo stalking.

Ebbene, il numero delle chiamate valide sia telefoniche sia via chat nel primo trimestre 2021 è aumentato del +38,8% rispetto all’anno 2020; inoltre, quasi il 50% delle chiamate valide riguarda la richiesta di aiuto da parte delle vittime di violenza e la segnalazione di casi di violenza che coinvolgono altre persone.

Ma vi è di più.

Secondo i dati del Viminale, aggiornati alla data del 14 novembre scorso e poi ripresi da La Stampa (clicca qui per un approfondimento: https://www.lastampa.it ), nonostante il tasso di omicidi sia diminuito di -2% rispetto al 2020, i casi di femminicidio sono aumentati del +3%: da inizio anno, infatti, hanno trovato la morte 103 donne, di cui 87 sono state uccise in famiglia e 60 di loro dal proprio partner.

I dati appena riportati mettono in evidenza come il problema sia di grandissima attualità e, purtroppo, in costante aumento.

Infatti, come abbiamo già visto nella pillola di diritto a cura della collega Avv. Claudia Piroddu, il Legislatore è dovuto ricorrere ad un inasprimento delle pene ed a specifiche procedure d’urgenza da applicare per tutti i delitti di maltrattamenti, minacce, stalking e omicidio commessi -anche in forma tentata- in ambito familiare o tra persone legate da una relazione affettiva.

In particolare, è stata emanata un’apposita norma, ribattezzata “Legge sul femminicidio”, nonché il cosiddetto “Codice Rosso”, modificato con l’ultima riforma del processo penale.

Ma la normativa contro la violenza di genere non è solo volta prevenire i reati e punire i colpevoli: essa ha, altresì, l’obiettivo di proteggere le vittime cosiddette “primarie” (ovvero, ad esempio, la donna che ha subito violenze dal compagno) e “secondarie” (ovvero, ad esempio, i figli rimasti orfani a causa dell’uccisione della propria madre).

Infatti, è stato introdotto il cosiddetto “Reddito di libertà”, ovvero un contributo economico erogato direttamente dall’INPS, stabilito nella misura massima di 400 euro mensili pro capite, destinato alle donne vittime di violenza, senza figli o con figli minori, seguite dai centri antiviolenza riconosciuti dalle regioni e dai servizi sociali nei percorsi di fuoriuscita dalla violenza.Avv. Viola Zuddas, Civilista

Detto contributo è, dunque, finalizzato a sostenere prioritariamente le spese per assicurare alla donna l’autonomia abitativa e la riacquisizione dell’autonomia personale, nonché il percorso scolastico e formativo dei figli minori, ed è compatibile con altri strumenti di sostegno al reddito.

Oltre a tale importante misura, il Legislatore ha inteso riconoscere maggiore tutela per gli orfani di crimini domestici e della violenza di genere e, per tale motivo, da luglio 2020 è in vigore il regolamento (istituito con Decreto Interministeriale 21 maggio 2020, n.71) che rende operative le norme che prevedono benefici in favore proprio di costoro e delle famiglie affidatarie.

Nello specifico, è stato istituito un fondo al quale possono accedere gli orfani di crimini domestici e violenza di genere minorenni o maggiorenni non economicamente autosufficienti, nonché le famiglie affidatarie di minori orfani di crimini domestici o di violenza di genere.Avv. Viola Zuddas, Civilista

Inoltre, lo Stato ha stanziato 15 milioni di euro per finanziare borse di studio, spese mediche, formazione e inserimento nel mondo del lavoro in favore di chi ha perso un genitore per morte violenta.

Come abbiamo visto, quindi, l’aumento dei casi di violenza di genere ha spinto il Legislatore ad attuare misure, sempre più stringenti, volte non solo alla repressione dei delitti ma, altresì, alla tutela delle vittime, in favore delle quali sono previsti degli aiuti anche di natura economica.

Non vi è dubbio, però, che tali interventi debbano essere accompagnati dalla promozione di iniziative di informazione e sensibilizzazione per combattere sul nascere la violenza di genere, attraverso specifici percorsi di formazione tenuti da professionisti in tutti quegli ambienti in cui si renda effettivamente necessario.

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Combattere la violenza di genere e domestica nell’Unione Europea

La violenza di genere e quella domestica, che vede come vittime principali le donne e le ragazze, resta una delle principali problematiche nell’Unione Europea e per la cui eliminazione l’Unione si sta impegnando, ormai da tempo, nell’adozione di valide ed adeguate soluzioni.

Sebbene la maggior parte dei Paesi dell’Unione Europea vanti, a livello nazionale, una normativa atta a combattere il fenomeno della violenza basata sul genere e/o sull’orientamento sessuale – anche in forza della ratifica di convenzioni Internazionali quali la già menzionata Convenzione internazionale contro la violenza e le molestie nel mondo del lavoro – mancano, tuttavia, i presupposti necessari per affrontare tale problematica in maniera efficace.

Nella specie, il vulnus deriva dall’assenza di una definizione univoca di “violenza di genere”, oltre che una normativa europea comune atta a combattere tale fenomeno.

Tra le forme più estreme di violenza di genere denunciate vi è senz’altro il femminicidio contro le donne e le ragazze che si può altresì estrinsecare nel diniego del riconoscimento di diritti strettamente connessi alla sfera individuale quali, ad esempio, l’assistenza all’aborto sicuro e legale.

Ecco perché, proprio di recente, anche alla luce dei sempre più diffusi casi di violenza – le cui principali vittime sono le donne e le ragazze ma anche gli uomini o le persone LGBTIQ+ – il Parlamento Europeo ha deciso di intervenire affinché la violenza di genere venga annoverata tra i reati comunitari ai sensi dell’articolo 83(1) del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, insieme ad altri crimini che devono essere combattuti su base comunitaria quali, tra gli altri, il traffico di esseri umani, stupefacenti, il crimine informatico, terrorismo, armi.

Il Parlamento, a maggioranza assoluta dei suoi membri, ha così adottato una risoluzione avente ad oggetto una proposta legislativa per l’adozione di una Direttiva UE incentrata sulle vittime di violenza che dovrebbe includere, tra le altre: misure di prevenzione; servizi di sostegno; protezione e misure di risarcimento per le vittime; misure per combattere tutte le forme di violenza di genere; comprese la violenza contro le persone LGBTIQ+; disposizioni per garantire che gli episodi di violenza di genere siano presi in considerazione nel determinare la custodia dei bambini e i diritti di visita.

La direttiva dovrà necessariamente contenere indicazioni (seppur ridotte) di applicazione della legge; ciò anche al fine di rendere concreta la cooperazione tra gli Stati membri e lo scambio di informazioni e di migliori prassi.

Una tale iniziativa sortirebbe evidentemente l’effetto di stabilire definizioni e standard giuridici comuni, nonché fissare sanzioni penali minime in tutta l’UE.

Questa proposta fa seguito ad un’altra avanzata lo scorso febbraio, in cui il Parlamento ha chiesto una direttiva europea per prevenire e combattere la violenza di genere sotto ogni aspetto e sottolineando anche la necessità di adottare un “protocollo europeo sulla violenza di genere in tempi di crisi”.

In particolare, il Parlamento ha rilevato che i servizi di protezione per le vittime , quali le linee di assistenza telefonica, gli alloggi sicuri e servizi di assistenza sanitaria, dovrebbero assurgere a “servizi essenziali” in tutti gli Stati membri dell’UE.

Detta proposta nasce in considerazione dei numerosi casi di denuncia di “molestie sessuali e violenza online”.

Il crescente utilizzo dei social network e delle nuove tecnologie, infatti, ha creato condizioni fertili per la nascita di nuove espressioni di violenza quali, come detto, la violenza di genere in rete.

Una proposta legislativa al fine di combattere la violenza informatica di genere dovrebbe essere presentata proprio entro novembre 2021.

Attualmente, infatti, non esiste una definizione comune, né una manovra politica univoca ed efficace per combattere la violenza informatica di genere, né a livello europeo né a livello nazionale.

Secondo uno studio pubblicato e condotto dall’Unità Valore Aggiunto Europeo (Eava) del Servizio Ricerca del Parlamento europeo che integra la relazione legislativa di iniziativa del Parlamento europeo sulla lotta alla violenza informatica di genere, le azioni fino ad oggi intraprese sono risultate inefficaci e non adeguate ad affrontare il fenomeno tanto delicato quanto complesso della violenza informatica di genere; ciò anche, e soprattutto, per la natura transfrontaliera di questo fenomeno.

Alla luce di quanto detto, ed in linea con quanto affermato dal Parlamento europeo, considerato che la violenza di genere prende di mira le donne e le ragazze in tutta la loro diversità e le persone LGBTIQ+, è necessario un intervento che istituisca basi comuni per la repressione di tale fenomeno, per evitare – come si legge nella risoluzione – che trasgressori delle norme sociali delle “gerarchie di genere, dell’espressione di genere e dei sistemi binari di genere” possano continuare a “perpetrare disuguaglianze di genere e rafforzare le norme e gli stereotipi di genere”.

Pertanto, sulla scia degli standard di tutela imposti dalla normativa internazionale, come la convenzione di Istanbul,  la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna (CEDAW) e altre, appare necessario un intervento tempestivo ed adeguato per combattere tutte le forme di violenza di genere su basi comuni, istituendo – come precisato dal Parlamento nella relazione di settembre 2021 – “norme minime relative alla definizione di reati e sanzioni, compresa una definizione comune di violenza di genere, così come norme comuni concernenti questioni chiave come la prevenzione, l’omissione di denuncia, la protezione, il sostegno e il risarcimento delle vittime nonché il perseguimento dei colpevoli”.

In conclusione, è indubbio che un approccio comune da parte di tutti gli Stati membri nella prevenzione e nella lotta contro la violenza di genere contribuirebbe a facilitare, e rendere concrete ed immediate, le attività di contrasto alla violenza sulle donne, sia online che offline, nell’ambito di operazioni transfrontaliere.Avv. Eleonora Pintus, Diritto dell’Unione Europea

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Le scorse settimane, nell’articolo dal titolo “Acquisto di farmaci in Europa con presentazione di ricetta medica nazionale” abbiamo analizzato quali siano i diritti spettanti al cittadino europeo che necessiti di un farmaco, prescritto dal proprio medico di base, in un altro Paese membro dell’Unione Europea (potrai leggere l’articolo cliccando sul seguente https://www.forjus.it/2021/10/13/acquisto-di-farmaci-in-europa-mediante-presentazione-di-ricetta-medica-nazionale/).

Durante un soggiorno temporaneo in un altro Paese dell’UE per motivi di vacanza, lavoro o studio, potrebbe, però, perfino capitare di ammalarsi del tutto inaspettatamente e, dunque, di avere bisogno di cure mediche impreviste.

In questi casi, di quali diritti godono i cittadini dell’Unione Europea?

Secondo la Direttiva n. 2011/24/UE concernente l’applicazione dei diritti dei pazienti relativi all’assistenza sanitaria transfrontaliera e il Regolamento n. 987/2009 che stabilisce le modalità di applicazione del regolamento (CE) n. 883/2004 relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, in quanto cittadino dell’UE, ogni individuo che necessita di essere visitato da un medico o perfino di essere ricoverato in ospedale, gode degli stessi diritti delle persone assicurate nel paese in cui si trova e, come tale, ha diritto alle cure mediche fornite dal servizio sanitario.

È opportuno evidenziare che i sistemi di assistenza sanitaria e di previdenza sociale  variano da un Paese dell’UE all’altro. In alcuni Paesi può essere necessario pagare il medico o l’ospedale direttamente per le cure ricevute, anche se normalmente non occorre farlo nel proprio paese.

In questi casi, al fine ottenere l’accesso all’assistenza sanitaria pubblica e il rimborso dei costi sostenuti in maniera più semplice, il cittadino dovrà essere munito della “tessera europea di assicurazione malattia” (c.d. TEAM) , generalmente rilasciata insieme alla tessera sanitaria nazionale o altrimenti da richiedere all’ente assicurativo competente prima della partenza.Avv. Eleonora Pintus, Diritto dell’Unione Europea

Ma che cos’è la tessera europea di assicurazione malattia?

È una tessera gratuita che dà diritto all’assistenza sanitaria statale – dunque fornita da medici e ospedali convenzionati con il sistema sanitario pubblico e non anche privati – in caso di permanenza temporanea in uno dei 27 Stati membri dell’UE, in Islanda, in Liechtenstein, in Norvegia e in Svizzera, alle stesse condizioni e allo stesso costo degli assistiti del paese in cui ci si trova (in alcuni casi anche gratuitamente).

Le prestazioni coperte comprendono, ad esempio, quelle fornite in connessione a malattie croniche o già in corso, nonché a una gravidanza e a un parto.

La tessera rappresenta la  prova del fatto che si è assicurati in uno dei Paesi dell’Unione Europea.

Dunque, laddove il cittadino dovesse avere bisogno di essere visitato da un medico o ricoverato in ospedale durante un viaggio in un altro Paese dell’Unione, se munito della tessera europea di assicurazione malattia (TEAM) sarà più semplice ottenere l’accesso all’assistenza sanitaria pubblica e, per gli eventuali costi sostenuti, richiedere il rimborso delle spese.

Ciò significa che se le cure mediche sono gratuite per i residenti locali, anche il “paziente-viaggiatore” non dovrà pagarle. In caso contrario, invece, egli potrà richiedere il rimborso all’ ente nazionale del Paese in cui si trova oppure, al rientro, all’ente assicurativo del paese di residenza.

Occorre qui sottolineare che la TEAM non è un’assicurazione di viaggio e, come tale, non copre l’assistenza sanitaria privata né altri costi, quali il volo di rientro al proprio Paese di provenienza, né copre i costi del viaggio realizzato al solo scopo di ottenere cure mediche.

Cosa accada laddove, invece, il cittadino dovesse essere sprovvisto di Tessera europea di assicurazione malattia?

Ebbene, in questi casi, oppure nelle ipotesi in cui la struttura ospedaliera non rientrasse nel sistema TEAM (ad esempio perché privato), il cittadino potrebbe essere chiamato a pagare gli eventuali costi delle cure ricevute.

In ogni caso, è bene ricordare che, anche in tale ipotesi, il cittadino avrà la possibilità di richiedere il rimborso al proprio ente sanitario al rientro nel Paese di residenza, tanto per le cure fornite da strutture pubbliche quanto da quelle private, ma a condizioni diverse.

Nella specie, saranno rimborsate soltanto le cure astrattamente fruibili nel Paese di origine ed entro il limite dei costi ivi fissati, anche se di importo inferiore rispetto a quanto pagato.

In conclusione, dunque, se il cittadino è in possesso della tessera europea di assicurazione malattia, nei casi in cui le cure mediche fossero gratuite per i cittadini di quel Paese, anche il paziente – viaggiatore non dovrebbe pagarle, in quanto il medico o la struttura ospedaliera dovrebbe fornire le cure alle stesse condizioni previste per i cittadini dello Stato visitato.

In caso contrario, la fattura sarà comunque pagata dal Paese in cui il cittadino è assicurato oppure, se la fattura è stata inviata successivamente al proprio rientro, il cittadino potrà chiedere il rimborso al sistema sanitario nazionale.

Eleonora Pintus, Avvocato