Il matrimonio omosessuale è un fenomeno relativamente recente, ammesso, ormai, in molti Paesi di cultura affine a quella dello Stato italiano.

Tuttavia, poiché le fonti sovranazionali non impongono uno specifico e determinato modello di matrimonio, gli Stati restano liberi di prevedere o meno, all’interno del proprio ordinamento, il matrimonio di persone dello stesso sesso.

Difatti, come anche riconosciuto tanto dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo quanto dalla Corte di Giustizia, nel rispetto delle diverse tradizioni giuridiche e sociali degli Stati, non è possibile imporre una nozione di matrimonio.

D’altra parte, però, le stesse Corti sovranazionali – e, più di recente, anche quelle Nazionali – sembrano voler sostenere e favorire il complesso normativo degli Stati più innovatori, tanto da affermare che anche il matrimonio omosessuale è pur sempre un matrimonio e, al contempo, una relazione tra persone dello stesso sesso è una relazione familiare che deve essere necessariamente tutelata.

Nello Stato Italiano, ad esempio, non è ammesso il matrimonio tra persone dello stesso sesso in quanto, l’istituto del matrimonio ha, quale presupposto inderogabile, la diversità di sesso tra i nubendi.

Ma cosa accade, allora, nelle ipotesi in cui una coppia di cittadini italiani o di cittadino italiano e straniero abbia suggellato la propria unione in un Paese che ammette e riconosce l’istituto del matrimonio tra coppie same-sex? A tale unione può essere riconosciuto, a certi effetti, lo status derivante da un matrimonio omosessuale contratto fuori dalla “restrizioni” del proprio Paese?

La risposta è (parzialmente) affermativa.


Riqualificazione del matrimonio contratto all’estero in unione civile secondo la legge italiana

Il dibattito relativo al riconoscimento in Italia del matrimonio omosessuale tra stranieri è stato nettamente ridimensionato grazie all’introduzione di apposita disciplina internazionalprivatistica: il nuovo art. 32 bis della l. 218/1995 attuativo della legge n. 76/2016, conosciuta anche come “Legge Cirinnà”, detta una norma con la quale viene esteso il riconoscimento alle coppie same-sex, che abbiano contratto matrimonio all’estero, gli effetti dell’”unione civile” regolata dalla legge italiana.

Detta norma, dunque, riqualifica il matrimonio estero in unione civile, non discostandosi in termini sostanziali da quanto già operato, in precedenza, dalla giurisprudenza, allorquando non esisteva ancora una disciplina giuridica delle unioni civili.

Se, dunque, da una parte, vi è un riconoscimento dei matrimoni omosessuali transnazionali contratti all’estero, d’altra parte, detto riconoscimento non avviene mediante l’inquadramento dello stesso nell’istituto del “contratto matrimoniale” ma si verifica un’automatica conversione nello schema dell’”unione civile”.

Ciò significa che lo status e gli effetti derivanti da un matrimonio same-sex contratto all’estero da cittadini italiani o da coppia internazionale possono, sì, essere
riconosciuti dall’ordinamento statale, ma nei limiti ed entro gli effetti propri dell’istituto dell’unione.

Appare pertanto evidente che, pur avendo il legislatore nazionale voluto riconoscere alcuni effetti sostanziali del matrimonio omosessuale straniero, lo ha fatto riservando, formalmente, l’istituto del matrimonio solo alle persone di diverso sesso.

Gli effetti derivanti da un matrimonio same-sex contratto all’estero da cittadini italiani o da coppia internazionale possono essere riconosciuti dall’ordinamento statale, ma nei limiti ed entro gli effetti propri dell’istituto dell’unione civile.Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista

Eleonora Pintus, Avvocato

L’art. 42, comma 1, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, dispone che “Gli accertamenti in rettifica e gli accertamenti d’ufficio sono portati a conoscenza dei contribuenti mediante la notificazione di avvisi sottoscritti dal capo dell’ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato”.

Detta norma, nella sua semplicità e chiarezze, non lascia spazio a dubbi interpretativi.

In sostanza, l’avviso di accertamento non sottoscritto o sottoscritto da un soggetto non legittimato è nullo e inesistente, poiché “anonimo”. Difatti, come esplicitamente affermato nella norma in commento, la sottoscrizione, effettuata da un soggetto legittimato, rappresenta un requisito giuridico indispensabile ai fini della validità dell’atto impositivo.

È bene precisare che, ai sensi dell’art, 1, comma 375, della Legge 30 dicembre 2004, n. 311, la sottoscrizione analogica può essere sostituita dall’indicazione “a stampa” del nominativo del capo dell’ufficio o di un suo delegato. Tuttavia, la sua assenza determina – come detto – la nullità dell’atto di accertamento emesso, stante l’impossibilità di individuarne la paternità.

A tale estrema conclusione (nullità dell’atto) è giunta anche la Corte di Cassazione la quale, unanimemente afferma che l’avviso di accertamento è nullo se non reca la sottoscrizione del capo dell’ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato.Avv. Francesco Sanna, Tributarista

D’altronde, anche ai sensi dell’art. 21-septies, della Legge 7 agosto 1990, n. 241, la mancanza degli elementi essenziali dell’atto amministrativo, tra cui compare la sottoscrizione, determina l’applicazione della sanzione della nullità; la quale deve essere eccepita a pena di decadenza entro il primo grado di giudizio dinanzi alle Commissioni tributarie, ex art. 61, D.P.R. 29 settembre 1973, 1973, n. 600.

Sulla tematica inerente quale sia il soggetto legittimato ad apporre valida firma all’atto amministrativo non può non evidenziarsi come debba essere ritenuto alla medesima stregua del “capo” dell’ufficio il soggetto reggente”, così come individuato attraverso i provvedimenti amministrativi di organizzazione degli uffici, senza che abbia rilievo il possesso o meno, da parte di tale reggente, della qualifica necessaria. Sul punto la Corte Costituzionale, con la sentenza del 17 marzo 2015, n. 37, ha dichiarato incostituzionale l’art. 8, comma 24, D.L.2 marzo 2012, n. 16, laddove, nelle more dello svolgimento dei concorsi per coprire le posizioni dirigenziali vacanti nell’Amministrazione finanziaria, permetteva di attribuire incarichi dirigenziali ai propri funzionari mediante contratti di lavoro a tempo determinato per la durata necessaria alla copertura di detti posti tramite concorso e faceva salvi gli incarichi già affidati.

A seguito di detta pronuncia, è sorto il “famoso” problema riguardo la legittimità dei provvedimenti firmati da detti funzionari, la cui nomina era divenuta invalida a seguito del predetto giudizio di incostituzionalità. Tuttavia, la Suprema Corte di Cassazione, con sentenza del 9 novembre 2015, n. 22810, ha ritenuto gli atti di copertura delle posizioni vacanti perfettamente legittimi in quanto l’art. 42, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, non richiede la qualifica dirigenziale per la firma degli atti impositivi.

Tale pronuncia fonda la sua motivazione sul principio di tassatività delle cause di nullità degli atti tributari.

E, ancora, un altro vizio che determina la nullità dell’atto impositivo, figlia di un vizio formale del medesimo, consiste nella mancata indicazione circa il responsabile del procedimento amministrativo. Dal combinato disposto degli artt. 5, comma 2, lett. a, Legge 7 agosto 1990, n. 241, e art. 7, Legge 27 luglio 2000, n. 212, emerge che gli atti dell’Amministrazione finanziaria devono tassativamente indicare il responsabile del procedimento. Ciò nell’ottica di assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa svolta dall’Ufficio, anche al fine di una possibile eventuale azione nei confronti del responsabile medesimo, garantendo al contribuente la tutela del proprio diritto di difesa.

Sul punto, occorre fare una precisazione.
La giurisprudenza di legittimità unanimemente ritiene che un’omissione formale (ossia, la mancata indicazione del responsabile del procedimento) non determina alcuna conseguenza automatica in ordine alla validità ed efficacia dell’atto in questione; difatti, per la dichiarazione di nullità dell’atto impositivo, è necessario procedere alla verifica in concreto della sussistenza della lesione dei diritti del contribuente.

Pertanto, occorrerà, dunque, che il contribuente dimostri che la mancata indicazione del responsabile del procedimento abbia prodotto in capo allo stesso un pregiudizio effettivo circa l’esercizio del diritto di difesa e dei diritti partecipativi nella fase precontenziosa. Detta omissione, peraltro, pare essere lesiva anche dei principi generali di buon andamento e imparzialità della Pubblica Amministrazione, costituzionalmente tutelati.

Sul punto, la Corte di Cassazione è chiara nell’affermare che “L’obbligo di indicare il responsabile del procedimento, lungi dall’essere un inutile adempimento, ha lo scopo di assicurare la trasparenza dell’azione amministrativa, la piena informazione del cittadino (anche ai fini di eventuali azioni nei confronti del responsabile) e la garanzia del diritto di difesa, che sono altrettanti aspetti del buon andamento e dell’imparzialità della Pubblica Amministrazione predicati dall’art. 97, comma primo, Costituzione”. (Cass. Civ. Sez. V, 28 dicembre 2018, n. 33565, cfr. CTP Cosenza n. 3684/2020).

Francesco Sanna, Avvocato

Con una recentissima sentenza, la n. 6353 del 18 febbraio 2021, la Corte di Cassazione ha stabilito che prendere un telefono dimenticato dal legittimo proprietario sul bancone del bar costituisce una condotta penalmente rilevante, punibile ai sensi dell’art. 624 c.p., con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da 154 a 516 euro.

All’evidenza, il solo fatto che un oggetto fuoriesca momentaneamente dalla disponibilità materiale del titolare, non fa venire meno il diritto di proprietà di quest’ultimo, anche perché, in tale specifica ipotesi e salva la prova contraria, non sussisterebbe alcuna volontà del proprietario di disfarsi in via definitiva del bene.

Infatti, prosegue la Corte, se si conserva memoria del luogo in cui il bene è stato lasciato, è chiaro che il legittimo proprietario potrebbe riacquistarne la materiale disponibilità, qualora altro soggetto non ponga in essere l’attività di sottrazione della cosa rinvenuta.

Tanto ciò è vero che, nel caso trattato dalla sentenza in esame, la proprietaria si era allontanata dall’esercizio commerciale e, resasi conto di aver dimenticato lo smartphone, vi aveva fatto ritorno dopo pochi minuti, proprio per chiedere informazioni sull’apparecchio al gestore del locale.

Quanto al dolo, è emerso, altresì, che l’imputato avesse visto chiaramente la ragazza lasciare il locale senza portare con sé il cellulare e che si fosse impossessato dello stesso appena pochi minuti dopo, con la logica conseguenza che il periodo di tempo trascorso fosse troppo breve per escludere che il telefono fosse stato solo dimenticato e non definitivamente perso.

E se, invece, si tratta di un oggetto “smarrito”?

La Suprema Corte ha ulteriormente chiarito che vi è una differenza sostanziale tra le ipotesi di cosa “dimenticata” e cosa “smarrita”.

Se, da un lato, si è già precisato che l’oggetto dimenticato continua a mantenere una connessione con il proprietario che, infatti, ne ha perso solo temporaneamente il contatto fisico, ma ben potrebbe riacquistarne la disponibilità in assenza della condotta di furto, dall’altro lato, deve considerarsi smarrita la cosa che, invece, è definitivamente uscita dalla detenzione del possessore.

Per chiarire meglio, può essere utile fare alcuni esempi pratici.

Se l’oggetto, come abbiamo visto, viene rinvenuto sul bancone di un bar, sul tavolo del ristorante, in biblioteca o su una panchina al parco, per la Legge si considera come un oggetto semplicemente dimenticato dal proprietario, che ben potrebbe tornare sui suoi passi e recuperarlo.

Invece, se il bene viene rinvenuto per strada o in un sentiero di campagna, ossia in un luogo imprecisato in cui non può essere rinvenuto dal proprietario, per il semplice fatto che quest’ultimo non saprebbe dove ritrovarlo, viene considerato come un oggetto smarrito.

Le possibili conseguenze

È bene chiarire che colui che si appropria di un bene, sia esso dimenticato o semplicemente smarrito, può andare incontro a diverse conseguenze, sia di natura penale che di natura civile.
Nel caso di appropriazione di un bene dimenticato, infatti, potrebbe configurarsi il delitto di furto, mentre qualora si tratti di un oggetto smarrito potrebbe realizzarsi la fattispecie di appropriazione di cosa smarrita, originariamente prevista come contravvenzione nell’art. 647 c.p., e ad oggi depenalizzata dall’art. 4 del D. Lgs. n. 7 del 2016, che prevede a carico del trasgressore la sanzione pecuniaria civile da 100 fino ad 8 mila euro.

Per la verità, solo nel caso in cui il bene oggetto di impossessamento sia stato smarrito, e, quindi, il proprietario non sappia il luogo ove egli lo ha lasciato,  potrebbe sussistere la fattispecie di appropriazione di cose smarrite e non di furto, in quanto, secondo l’orientamento giurisprudenziale consolidato, il codice IMEI stampato nel vano batteria identifica la cosa, ma non la proprietà del bene.

Appropriarsi di uno smartphone dimenticato poco tempo prima sul bancone del bar configura il reato di furto e non la fattispecie di appropriazione di cosa smarrita, poiché il proprietario conserva la memoria del luogo in cui il bene è stato lasciato e, pertanto, ben potrebbe riacquistarne la disponibilità. Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Tuttavia, occorre precisare che, nell’ipotesi in cui il proprietario abbia denunciato il furto della res, potrebbe configurarsi il più grave reato di ricettazione, previsto nell’art. 648 c.p., che ricorre quando un soggetto viene trovato in possesso di un bene proveniente da delitto, purché commesso da altri.

Il reato di ricettazione è punito severamente, con la reclusione da due ad otto anni e la multa da 516 a 10.329 euro, sempre che non si tratti di un fatto di particolare tenuità.

Per la sussistenza del reato, la giurisprudenza è pressoché unanime nel ritenere sufficiente, sotto il profilo psicologico, che il soggetto non sia in grado di giustificare la provenienza lecita del bene di cui viene trovato in possesso, purché le modalità del ritrovamento siano tali da ingenerare in qualsiasi persona di media avvedutezza e, secondo la comune esperienza, la certezza che possa trattarsi di un bene sottratto da altri al legittimo proprietario o quanto meno che il possessore ne abbia consapevolmente accettato il rischio.

Claudia Piroddu, Avvocato

Nell’ambito dell’ordinamento nazionale, la querela si configura, oltre che come un diritto della parte offesa, altresì quale presupposto necessario – nei soli reati perseguibili a querela – per l’esercizio dell’azione penale da parte dei pubblici poteri.

Orbene, può accadere che, a distanza di anni, una persona che tempo addietro ha esercitato il diritto di querela non abbia più alcun attuale interesse nel proseguire il giudizio.
In tal caso, ai sensi dell’art. 152, comma 1 c.p., la parte interessata può decidere di rimettere la querela, con conseguente ed automatica estinzione del reato.

Nei reati perseguibili a querela di parte, dunque, la remissione – che può essere “processuale” o “extraprocessuale”, a seconda che la stessa intervenga in giudizio o al di fuori del medesimo – è subordinata ad una espressa manifestazione di volontà del querelante.

Ma cosa accade nell’ipotesi in cui quest’ultimo, non avendo espressamente rimesso la querela, non compaia in udienza, nonostante la regolare notifica della citazione? La mancata comparizione può essere considerata, di per sé, un fatto idoneo a manifestare l’implicita volontà della persona offesa di non voler proseguire il giudizio?

Sul punto, i Giudici della Suprema Corte di Cassazione sono stati più volte interpellati al fine di stabilire se, in detti casi, la mancata comparizione del querelante all’udienza possa dirsi sufficiente a manifestare implicitamente la volontà di rimettere la querela e, in caso di risposta positiva, a quali condizioni.

Già con la pronuncia n. 31668/2016, le Sezioni Unite hanno affermato il principio in forza del quale è auspicabile “una prassi alla stregua della quale il giudice, nel disporre la citazione delle parti, abbia cura di inserire un avvertimento alla persona offesa e al querelato circa la valutazione in termini di remissione della querela della mancata comparizione del querelante e di mancanza di ricusa della remissione della mancata comparizione del querelato (…)”.
Ciò in quanto, tali condotte sono da valutarsi come significative dell’assenza di un perdurante interesse della persona offesa all’accertamento delle responsabilità penali.

Il recente orientamento della Suprema Corte di Cassazione

Sulla scia di tale impostazione, gli Ermellini, con la recente sentenza n. 8101/2020, riprendendo il principio testé riportato, hanno ribadito che: “Integra remissione tacita di querela la mancata comparizione alla udienza dibattimentale del querelante previamente ed espressamente avvertito dal giudice che l’eventuale sua assenza sarà interpretata come fatto incompatibile con la volontà di persistere nella querela”.

Ebbene, ciò che la Corte ha voluto confermare mediante l’enunciazione di tale principio è immediatamente intuibile: stante le conseguenze derivanti dall’atto di remissione della querela – ossia l’estinzione del reato – va da sé che l’effetto di una rimessione tacita possa (e debba) conseguire esclusivamente da un atto che sia inequivocabilmente riconducibile alla volontà del querelante.

La mancata comparizione all’udienza dibattimentale della persona offesa che abbia esercitato il diritto di querela, non è, dunque, significativo della volontà della medesima di non voler proseguire nel giudizio.

Affinché possa essere attribuito un tale significato alla condotta del querelante è necessario che lo stesso, attraverso un’adeguata informativa, venga reso edotto dall’autorità giudiziaria delle conseguenze giuridiche del comportamento omissivo, ossia che la eventuale mancata comparizione all’udienza successiva verrà intesa come espressa volontà di rimettere la querela e, dunque, di non voler proseguire nel giudizio.

La mancata comparizione all’udienza dibattimentale della persona offesa che abbia esercitato il diritto di querela non è significativo della volontà di non voler proseguire nel giudizio se non sia stato previamente reso edotto delle conseguenze giuridiche del comportamento omissivo. Avv. Eleonora Pintus, Diritto Penale

Eleonora Pintus, Avvocato

L’emergenza epidemiologica da Covid-19 ha causato l’interruzione del ciclo economico e produttivo di aziende ed imprese, sia di piccole che di grandi dimensioni: queste, quindi, hanno attraversato – ed attraversano tuttora – delle grandi difficoltà nella gestione delle risorse personali ed economiche, che le hanno portate, loro malgrado, a dover licenziare parte del proprio personale.

Per tutelare i datori di lavoro ed i lavoratori dipendenti, il Governo Conte, di concerto con le parti sociali, ha approntato un articolato sistema di ammortizzatori sociali per consentire la riorganizzazione strutturale dell’azienda in crisi e ridimensionare il costo del lavoro, cui si accompagnano degli incentivi volti ad evitare la dispersione del capitale umano e, al contempo, favorire l’occupazione.

Tra le tante misure adottate, il D.L. 17 marzo 2020, n. 18 (cosiddetto “Cura Italia”), convertito in L. 24 aprile 2020, n. 27, ha imposto fino al 31 marzo 2021 il divieto di licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, ovvero quelli determinati da «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa.» (art. 3 della L. 15 luglio 1966, n. 604)

In particolare, quindi, al datore di lavoro è preclusa la possibilità di intimare il licenziamento al proprio dipendente pure in presenza di un evento di natura eccezionale ed imprevedibile, come l’emergenza da SARS-CoV-2, che di fatto determina la riduzione dei livelli di attività e, conseguentemente, causa l’alterazione del rapporto tra fabbisogno occupazionale e numero dei lavoratori impiegati in quel dato momento.
La medesima misura, invero, è stata adottata anche in ordine al licenziamento collettivo: questo, infatti, non può essere intimato neppure quando ricorrano oggettive esigenze tecnico – produttive che imporrebbero la riduzione del personale.

Pertanto, sia in caso di licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo che in caso di licenziamento collettivo, il recesso unilaterale del datore di lavoro dev’essere considerato nullo, in quanto posto in violazione di una norma avente carattere imperativo, collegata ad esigenze di ordine pubblico.

Ne consegue che il lavoratore che sia stato licenziato può legittimamente adire l’autorità giudiziaria per ottenere, previa declaratoria di nullità del licenziamento intimato, la reintegra nel proprio posto di lavoro, il risarcimento del danno consistito nella mancata retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello della reintegrazione, e la condanna del datore di lavoro al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali spettantigli. Avv. Viola Zuddas, Civilista

Tuttavia, bisogna precisare che il blocco dei licenziamenti, imposto dal predetto decreto “Cura Italia”, cesserà il 31 marzo 2021 e, pertanto, il nuovo ministro del lavoro Orlando dovrà valutare l’opportunità della sua proroga o, quantomeno, la necessità di adottare ulteriori riforme degli ammortizzatori sociali.

Sul punto, è importante rilevare che l’Istat ha registrato un considerevole calo dell’occupazione nel nostro territorio, e che esso ha riguardato, in particolare, i lavoratori precari, le partite iva e coloro che avevano un contratto stagionale: al contrario, i danni sono stati contenuti per i lavoratori subordinati proprio grazie al blocco dei licenziamenti ed alla cassa integrazione.
Invero, giunti al 31 marzo 2021, si rischia di assistere a decine di migliaia di licenziamenti che porteranno ad irreversibili ed inevitabili processi di ristrutturazione delle imprese e, nei casi più gravi, alla cessazione dell’intera attività.

Non vi è dubbio, quindi, che, al fine di scongiurare un’improvvisa e difficilmente gestibile ripercussione sull’occupazione, il governo guidato da Mario Draghi dovrà adottare soluzioni mirate che tengano in considerazione le differenze esistenti nel mondo del lavoro e che siano effettivamente rispondenti alle esigenze concrete sia dei lavoratori che delle imprese.

A quest’ultimo proposito, deve darsi conto del dibattito crescente in ordine alla legittimità del blocco dei licenziamenti e, di conseguenza, di una sua eventuale proroga.

L’art. 41 Cost., comma primo, infatti, precisa che “L’iniziativa economica privata è libera” e, dunque, l’adozione di misure che incidano sulla libertà di impresa dovrebbe essere dettata solo da esigenze di carattere straordinario e, comunque, dovrebbe essere limitata nel tempo. Avv. Viola Zuddas, Civilista

Proprio tale aspetto solleva non poche perplessità, poiché le disposizioni che sono state adottate (come, appunto, il blocco dei licenziamenti) sono entrate in vigore da ben 13 mesi e, dunque, non sarebbero pienamente compatibili con il concetto di “temporaneità” che dovrebbe giustificare un divieto di tale portata.

Tali considerazioni sono sicuramente condivisibili; tuttavia, non può sottacersi che le predette misure siano state assunte per tutelare la salute collettiva dal rischio pandemico e che, nelle intenzioni del governo guidato dal presidente Conte, sarebbero dovute rimanere in vigore per un periodo limitato di 60 giorni.

Ad ogni modo, sarà necessario attendere i provvedimenti che il nuovo governo adotterà nelle prossime settimane, nella speranza che vengano gettate le basi per una riforma organica del mondo del lavoro e, altresì, degli ammortizzatori sociali.

Viola Zuddas, Avvocato

L’art. 73, comma 1, del D.P.R. n. 309 del 1990, prevede che: “Chiunque, senza l’autorizzazione di cui all’art. 17, coltiva (…) per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella I prevista dall’art. 14, è punito con la reclusione da sei a venti anni e con la multa da euro 26 mila a euro 260 mila“.

Con il termine di “coltivazione” si intende genericamente l’attività svolta dal soggetto in ogni fase di sviluppo della pianta, dalla semina fino al raccolto, e ciò a prescindere dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza.

Quindi, viene spontaneo domandarsi: coltivare cannabis costituisce sempre un reato?

È proprio il tema della punibilità della coltivazione di piante di stupefacente ad essere al centro, ormai da molti anni, di un acceso dibattito che ha investito anche i Giudici della Suprema Corte di Cassazione.

Da un lato, infatti, è stato sostenuto che, per ritenere integrata l’offesa al bene giuridico protetto, non rileva soltanto la quantità di principio attivo ricavabile al momento della scoperta della pianta da parte delle forze dell’ordine, ma occorre considerare, altresì, la capacità della pianta di giungere a futura maturazione e, quindi, la mera attitudine a produrre sostanza con effetto drogante.

Secondo un diverso indirizzo, invece, affinché possa configurarsi un reato, in aggiunta alla conformità della pianta al tipo botanico vietato per Legge e al principio attivo ricavabile, è necessario verificare, inoltre, se l’attività sia idonea in concreto a ledere la salute pubblica, ossia ad incrementare la disponibilità dello stupefacente e a favorirne la diffusione nel mercato.

In particolare, assumono rilievo una serie di elementi, quali: l’estensione e l’organizzazione della coltivazione; la quantità di principio attivo e il raggiungimento della “soglia” drogante, nonché l’inserimento dell’attività nel mercato degli stupefacenti e l’oggettiva destinazione della sostanza al commercio.

Il nuovo orientamento delle Sezioni Unite: la coltivazione ad “uso personale”

Alla luce del principio penalistico di offensività, secondo il quale nessuno può essere punito per un fatto che non abbia leso o posto in pericolo il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, con la sentenza n. 12348 del 16 aprile 2020, le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione hanno risolto il contrasto giurisprudenziale sorto tra i vari orientamenti poc’anzi richiamati.

A tal fine, i Supremi Giudici hanno delineato il reato di coltivazione di stupefacenti non già unicamente sulla base del citato criterio del grado di maturazione della pianta e del principio attivo ricavabile, ma in relazione al tipo di coltivazione e alla destinazione del prodotto.

In applicazione del suddetto principio, occorrerà verificare di volta in volta se si tratta di una coltivazione cd. domestica oppure di una coltivazione cd. tecnico-agraria, poiché solo in quest’ultimo caso il fatto può considerarsi penalmente rilevante e, quindi, punibile.

Nella specie, la coltivazione viene definita “domestica” e, quindi, finalizzata esclusivamente al consumo personale, quando sussistono un insieme di requisiti, come la dimensione minima della coltivazione, la rudimentalità delle tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, la mancanza di indici di un inserimento dell’attività nell’ambito del mercato degli stupefacenti e l’oggettiva destinazione di quanto prodotto all’uso personale esclusivo del coltivatore.

Ebbene, in presenza degli elementi appena menzionati, la condotta di coltivazione non configura reato e non è punibile ai sensi dell’art. 73, comma 1, D.P.R. n. 309 del 1990.

Tuttavia, se il prodotto dell’attività di coltivazione possiede degli effetti droganti può configurarsi un illecito amministrativo, in quanto il coltivatore dovrà essere considerato un mero “detentore” dello stupefacente e, pertanto, sarà assoggettato alle sanzioni previste nell’art. 75 del D.P.R. n. 309 del 1990.

Nell’ipotesi in cui la coltivazione non assume le caratteristiche che abbiamo appena visto, viene definita “tecnico-agraria”.

In questo caso, si configura il reato di coltivazione di stupefacente sia se la coltivazione è giunta a maturazione e il prodotto finale ha un principio attivo in grado di determinare un’efficacia drogante e sia se il processo di maturazione non è ancora giunto a compimento, ma la piantagione presenta tutti i requisiti per produrre in futuro la sostanza stupefacente.

In entrambi i casi, infatti, la condotta si considera idonea ad offendere il bene giuridico protetto, ossia a concretizzare il pericolo di aumento e diffusione nel mercato di sostanze stupefacenti.

Non configurano il reato di coltivazione di stupefacenti quelle condotte di coltivazione di dimensioni ridotte, svolte in forma domestica, che, per il numero esiguo delle piante e del prodotto ricavabile, nonché per la mancanza di una vera e propria organizzazione dell’attività e dell’inserimento nel mercato degli stupefacenti, risultano destinate all’uso esclusivamente personale del coltivatore. Avv. Claudia Piroddu, Penalista

In ogni caso, occorrerà valutare se la condotta tipizzata dalla norma incriminatrice, per mezzi, modalità, circostanze dell’azione o per qualità e quantità della sostanza è di lieve entità, poiché in tale ipotesi potrà applicarsi una fattispecie di reato meno grave, con conseguente riduzione della pena e possibilità di accedere a taluni benefici di Legge.

Claudia Piroddu, Avvocato

L’usucapione è un modo di acquisto della proprietà, o di un diritto reale di godimento, a titolo originario che si verifica quando il soggetto che intende avvalersene riesca a dimostrare il possesso, o l’esercizio di un altro diritto, su un bene, mobile o immobile, protratto nel tempo in modo continuo, pacifico e pubblico.

Affinché un soggetto si possa giovare di tale istituto e dei favorevoli effetti derivanti da una sentenza dichiarativa di usucapione è necessaria la coesistenza di determinati elementi, quali:

  • il possesso della cosa;
  • il trascorrere di un determinato periodo di tempo.

Evidenziati gli elementi fondanti l’istituto in parola, disciplinato all’art. 1158 e ss. c.c., occorre esplicitare cosa si intende per “possesso” e “periodo di tempo”, utili ai fini della declaratoria di usucapione di un determinato bene.

Il possesso deve essere:

  • pacifico e pubblico, cioè non violento o clandestino;
  • continuo ed ininterrotto, cioè esercitato con regolarità e non in modo occasionale.

Il tempo per cui si deve protrarre il possesso della cosa, varia in base:

  • alla categoria del bene;
  • alla situazione soggettiva del possessore (buona o mala fede);
  • all’esistenza o meno di un titolo idoneo;
  • all’esistenza o meno della trascrizione (mezzo di pubblicità dei beni immobili e mobili registrati).

Il Legislatore ha, inoltre, previsto i seguenti periodi temporali utili ai fini dell’usucapione:

  • 20 anni per gli immobili il cui possesso sia stato acquistato in malafede;
  • 20 anni per gli altri diritti di godimento sopra un immobile (usufrutto, uso, abitazione, servitù, ecc.);
  • 20 anni di possesso continuato per i beni mobili;
  • 10 anni se si è acquistato in buona fede, e in base a un atto pubblico registrato, da un soggetto che, tuttavia, non era il vero proprietario del bene;
  • 10 anni di possesso continuato per i beni mobili, relativamente alla proprietà o altri diritti reali acquisiti in buona fede da chi non ne è il proprietario, in presenza o meno di un atto di proprietà;
  • 10 anni di possesso continuato per i beni mobili iscritti nei pubblici registri (automobili, imbarcazioni, ecc.);
  • 3 anni dalla trascrizione per i beni mobili iscritti nei pubblici registri acquistati in buona fede da chi non ne è proprietario.

Fatto questo rapido riassunto in ordine alla disciplina sostanziale dell’usucapione, ora ci si soffermerà sull’onere probatorio incombente sulla persona che, adito il Giudice competente, intende ottenere una sentenza dichiarativa di usucapione.

La giurisprudenza sia di merito che di legittimità è unanime nel ritenere indispensabile, per potersi pronunciare a favore dell’intervenuta usucapione, la sussistenza di una prova certa circa l’inizio del possesso, non essendo possibile far riferimento ad un periodo non specificatamente determinato o alla semplice affermazione di possedere quel bene da tempo immemore.

Ad ogni modo nelle cause vertenti su detta materia la prova principe è quella per testimoni, i quali saranno chiamati a confermare date, circostanze e qualsiasi altro elemento utile a comprovare il possesso, nei modi, nelle forme e nei tempi visti sopra, di quel determinato bene da parte del soggetto interessato.
Rilevanza non secondaria assumono anche le prove documentali, quali ricevute di pagamento di tributi, fatture relative a lavori effettuati sul bene, ecc.
In linea generale il Tribunale competente a conoscere della controversia è quello del luogo in cui si trova la cosa oggetto della domanda di usucapione.

È bene precisare che la materia de qua rientra tra quelle per cui il procedimento di mediazione è obbligatorio, ex art. 5 del D. L.vo 4 marzo 2010, n. 28. Pertanto, prima di rivolgersi al Tribunale, il possessore deve presentare una istanza di mediazione civile ad un organismo di mediazione accreditato al Ministero di Giustizia.

Così, la parte, che ritiene di avere maturato il diritto di usucapire un bene, con l’assistenza di un avvocato deve presentare una istanza di mediazione avente ad oggetto il riconoscimento del proprio diritto, l’indicazione delle parti da chiamare e del bene da usucapire. L’organismo, poi, provvederà a convocare le parti indicate nell’istanza e a fissare la data dell’incontro. Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

Il giorno stabilito, davanti il mediatore designato, le parti potranno raggiungere un accordo o meno.
Per poter raggiungere un accordo valido ed efficace è necessario che al procedimento di mediazione partecipino tutti coloro che risultano proprietari del bene e che, in caso di esito negativo della mediazione, saranno convenuti nel procedimento che, se del caso, verrà incardinato davanti al Tribunale.

Problematica frequente in tali processi è quella dipendente dal fatto che spesse volte si verifica che dalla documentazione risultino proprietari del bene da usucapire svariati soggetti, alcuni dei quali oramai deceduti, di difficile reperimento e identificazione – ad esempio gli eredi di cui non si conoscono i dati anagrafici, gli indirizzi, ecc. – così da rendere particolarmente gravosa la necessaria e indispensabile notifica dell’atto introduttivo del procedimento giudiziario a tutti i convenuti.

In presenza di determinate condizioni che rendono estremamente problematico – a causa dell’elevato numero dei destinatari o per la difficoltà di identificarli tutti – procedere alla notifica di un atto giudiziario nelle forme tradizionali, il nostro ordinamento dà la possibilità di ricorrere al peculiare e residuale istituto della notifica per pubblici proclami, ex art. 150 c.p.c.

Con tale strumento notificatorio, previa autorizzazione del Presidente del Tribunale, il soggetto interessato ovvia all’estrema difficoltà o impossibilità di rintracciare ogni singolo convenuto; così potendo in breve tempo ottenere una pronuncia favorevole che lo dichiari proprietario a titolo originario (o titolare di altro diritto reale di godimento) di un certo bene e per l’effetto poterne disporre liberamente.

Francesco Sanna, Avvocato

Il 27 dicembre 2020 è stato scelto come giorno per far partire, in tutta Europa, la campagna vaccinale gratuita per sconfiggere la pandemia da SARS-CoV-2.

In Italia, in particolare, si è deciso di vaccinare per primi i medici, gli infermieri e tutto il personale sanitario che è quotidianamente, ormai da un anno, impegnato in prima linea nella lotta contro il Covid-19.

Tale fase è giunta al termine nelle scorse settimane e, quindi, in questi giorni si è proceduto a somministrare il vaccino agli ospiti delle RSA ed ai soggetti fragili, ovvero agli appartenenti alle categorie più a rischio a causa dell’età avanzata o per altri fattori.

La campagna vaccinale, secondo le previsioni del Comitato Tecnico Scientifico italiano, dovrebbe durare almeno un anno affinché sia possibile vaccinare il 70% della popolazione e consentire, quindi, di raggiungere l’immunità di gregge che permetterebbe di tenere sotto controllo la diffusione del virus.

Nonostante l’importanza dell’obiettivo, il Governo guidato da Mario Draghi, in continuità con quanto già stabilito dal suo predecessore, ha deciso di non imporre, almeno nella prima fase di profilassi, l’obbligatorietà del vaccino e, pertanto, questo verrà somministrato soltanto alle persone che intendano aderire volontariamente alla campagna vaccinale.

In proposito, è utile richiamare quanto prescritto dall’art. 32 Cost. che tutela la salute sia come fondamentale diritto del singolo che come interesse della collettività e che, al contempo, precisa che nessuna persona possa essere sottoposta, contro la propria volontà, ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. Avv. Viola Zuddas, Civilista

Così, la salute rappresenta, da una parte, un diritto fondamentale del singolo e, altresì, un interesse preminente della collettività soprattutto quando l’impatto sul tessuto sociale (e di conseguenza anche su quello economico) sia oltremodo rilevante; d’altra parte, tuttavia, essa non può essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva.

Invero, la Corte Costituzionale, pronunciatasi di recente in materia di vaccinazioni obbligatorie contro il rischio di malattie infettive per i minori di sedici anni, ha chiarito che si può imporre un trattamento sanitario quando questo sia diretto a migliorare lo stato di salute di chi vi è assoggettato e sia, altresì, funzionale a preservare quello degli altri, sempre che eventuali effetti negativi sulla salute siano limitati a quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, siano tollerabili in considerazione delle circostanze del caso concreto (Corte Cost., sent. 18 gennaio 2018, n. 5).

Anche nell’ipotesi della pandemia da SARS-CoV-2, quindi, potrebbe ragionevolmente valutarsi l’obbligatorietà del vaccino in considerazione delle migliaia di morti e dell’elevata diffusività del virus che, ancora a distanza di un anno, continua a causare delle forti restrizioni alle libertà fondamentali di tutti, imponendo, di fatto, un radicale cambiamento delle attività quotidiane.

Tale problematica, inoltre, appare di grandissimo rilievo stante il fatto che nel nostro territorio si stanno diffondendo delle varianti del Covid-19, in particolare quella inglese e quella brasiliana, che risultano avere una maggiore trasmissibilità e, dunque, potrebbero causare un aumento del numero delle infezioni.

Si sta valutando, pertanto, di imporre l’obbligatorietà del vaccino nel mondo del lavoro e, specialmente, in quei settori in cui il lavoratore, dipendente pubblico o privato, entra in contatto con un numero elevato di persone: potrebbero, quindi, essere sottoposti a profilassi obbligatoria coloro che esercitano la professione medica, i docenti delle scuole ed i rappresentanti delle forze dell’ordine.

A questo proposito, peraltro, è opportuno considerare che l’art. 2087 c.c. prescrive che i datori di lavoro siano tenuti ad adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Avv. Viola Zuddas, Civilista

Tale norma, che trova il proprio fondamento nell’art. 32 Cost., è volta a salvaguardare la salute dei lavoratori mediante l’imposizione, in capo ai datori di lavoro, di obblighi di sicurezza che devono permanere durante lo svolgimento della prestazione: così, i datori di lavoro sono tenuti ad adottare e mantenere dei presidi antinfortunistici per preservare i lavoratori dai rischi connessi alla specifica attività prestata e, altresì, sono obbligati ad adeguare gli strumenti di protezione ai progressi tecnologici e della scienza.

Tra l’altro, non deve dimenticarsi che lo stesso legislatore ha ricondotto il rischio Covid ad un rischio di natura professionale, e ciò ha imposto ai datori di lavoro l’obbligo di adottare ulteriori e specifici protocolli di sicurezza, concordati con le parti sociali, per consentire lo svolgimento in sicurezza dell’attività produttiva.

In questo contesto, quindi, potrebbe risultare ragionevole che i datori di lavoro impongano la profilassi contro il Covid-19 al fine di garantire la salute di tutti i propri dipendenti, anche in considerazione del fatto che l’art. 42, comma secondo del D.L. 18/2020, cosiddetto “Cura Italia”, ha prescritto che l’infezione da coronavirus, contratta dai lavoratori nell’esercizio delle proprie mansioni, debba essere considerata una malattia professionale e, pertanto, l’INAIL è tenuto ad erogare le prestazioni  dovute.

Tale soluzione appare sicuramente coerente con il principio di solidarietà sancito dalla Costituzione che, pur tenendo in debita considerazione la libertà individuale di ciascuno, non può non attribuire preminente rilevanza alla tutela della salute pubblica e, di conseguenza, della collettività.

Viola Zuddas, Avvocato

Nello spazio Europeo, connotato dalla libera circolazione di merci, persone, servizi e capitali, sono sempre più frequenti i casi in cui, all’insorgere di una controversia, sia necessario stabilire il diritto applicabile, nonché l’autorità giurisdizionale competente a decidere nel merito.

Problema, questo, che si pone, altresì, in tema di separazione e divorzio di coppie definite come “internazionali”, ossia coppie di diversa nazionalità ovvero della stessa nazionalità ma che hanno contratto matrimonio in uno Stato diverso rispetto a quello di origine o, più comunemente, hanno deciso di installare la vita coniugale in un altro Stato membro dell’Unione Europea – o anche Stato terzo – rispetto a quello in cui hanno contratto matrimonio.

In tali casi, la maggiore difficoltà deriva, indiscutibilmente, dalla molteplicità e diversità delle legislazioni in materia di scioglimento del vincolo coniugale. Basti pensare che, a differenza dell’ordinamento italiano, vi sono altri ordinamenti che non considerano l’istituto del divorzio, ed altri che, pur contemplandolo, non conoscono, d’altra parte, quello della separazione personale dei coniugi (come, ad esempio, l’ordinamento rumeno).

Va da sé che in uno scenario normativo particolarmente articolato, ove si intrecciano norme di diritto interno, diritto comunitario ed internazionale, non è certamente agevole orientarsi senza incorrere nel rischio di perdere la rotta.

Cosa accade se, ad esempio, al momento della domanda di divorzio i coniugi hanno trasferito la propria residenza oppure se la legge astrattamente applicabile subordina il divorzio a condizioni troppo restrittive?

A quali norme, in questi casi, occorre appellarsi al fine di individuare il giudice competente e la legge applicabile in sede di divorzio transnazionale?

Il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea

Sul punto, la Corte di Giustizia è stata interpellata da un giudice nazionale, in via pregiudiziale, al fine di interpretare e chiarire la portata dell’art. 10 del Regolamento n. 1259/2010, relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata nel settore della legge applicabile al divorzio e alla separazione personale.
Tale procedura è stata attivata alla luce di un caso presentato a un Tribunale rumeno.

Nel caso di specie, due cittadini rumeni contraevano matrimonio in Romania e, successivamente, trasferivano la propria residenza in Italia. Dopo aver presentato domanda di divorzio nanti il Tribunale della Romania, il Giudice investito della causa riconosceva, sulla base dell’art. 3 del Regolamento n. 2201/2003, la propria competenza generale a conoscere della domanda di divorzio e, al contempo, sulla base dell’art. 8 del Regolamento n. 1259/2010, individuava quale legge applicabile alla controversia quella italiana. Ciò in quanto, al momento della proposizione della domanda di divorzio, la residenza abituale dei coniugi si trovava proprio in Italia.
Tuttavia, poiché secondo il diritto italiano, in una tal circostanza, la domanda di divorzio può essere avanzata soltanto a seguito di previa separazione dei coniugi – nella specie mai intervenuta – i Giudici respingevano la domanda.

Una delle parti decideva, dunque, di impugnare la sentenza affermando che, poiché la legge italiana è particolarmente restrittiva con riguardo alle condizioni richieste per divorziare (ossia il previo intervento di una pronuncia di separazione giudiziale o omologa), nel caso di specie ben avrebbe dovuto applicarsi alla domanda di divorzio la legge rumena (ossia la legge del foro), in quanto più semplice e meno restrittiva.

Alla luce di detta contestazione, il Giudice di merito sottoponeva alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea la questione pregiudiziale circa l’esatta interpretazione dell’art. 10 del Regolamento n. 1259/2010. Detta norma, dal carattere del tutto residuale, dispone espressamente che: “Qualora la legge applicabile ai sensi dell’articolo 5 o dell’articolo 8 non preveda il divorzio o non conceda a uno dei coniugi, perché appartenente all’uno o all’altro sesso, pari condizioni di accesso al divorzio o alla separazione personale, si applica la legge del foro”.

Nel caso di separazione o divorzio di una coppia internazionale, occorre stabilire quale sia l’autorità giurisdizionale competente e la legge applicabile alla luce del diritto interno e comunitario. Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista

In particolare, il Tribunale chiedeva se l’espressione “la legge applicabile ai sensi dell’articolo 5 o dell’articolo 8 non prevede il divorzio” debba essere interpretata in modo restrittivo – per cui la legge del foro troverebbe applicazione esclusivamente nell’ipotesi in cui la legge (straniera) applicabile non preveda in nessun caso il divorzio – ovvero secondo un’interpretazione estensiva; ciò da cui consegue che la legge del foro trovi applicazione anche nelle ipotesi in cui pur contemplando la legge straniera il divorzio, esso viene subordinato a condizioni eccezionalmente restrittive, quali la previa separazione.

La Corte di Giustizia, sulla base di un’interpretazione ispirata ai principi fondamentali, ha affermato che l’art. 10 sopra citato deve essere interpretato nel senso che i termini “[q]ualora la legge applicabile ai sensi dell’articolo 5 o dell’articolo 8 non preveda il divorzio” riguardano unicamente le situazioni in cui la legge straniera applicabile non prevede il divorzio in alcuna forma” (Corte giustizia UE, sez. I, 16 luglio 2020, n. 249).

Sulla scia di tale impostazione, la Corte di Giustizia ha riconosciuto, nel caso di specie, la giurisdizione del Giudice rumeno a pronunciare il divorzio tra cittadini rumeni residenti da anni in Italia ma con applicazione della legge italiana.

Ciò in quanto, alla luce del principio espresso, la legge straniera (in questo caso quella italiana) dovrà trovare applicazione anche se contiene condizioni più restrittive rispetto a quella del foro, poiché un caso di tal genere – ove la legge straniera applicabile consente di chiedere il divorzio solo nell’ipotesi in cui sia stata previamente pronunciata una sentenza di separazione – non può assolutamente essere assimilato al caso in cui in un ordinamento non sia previsto, tout court, l’istituto del divorzio.

Eleonora Pintus, Avvocato

Indice:
1. Il caso
2. La massima
3. Il principio di diritto

1. Il caso

Gli eredi di X e Y impugnavano l’avviso di rettifica, relativo all’anno 1982, con il quale l’Amministrazione aveva recuperato a tassazione corrispettivi non contabilizzati e I.V.A.

In primo grado la Commissione Tributaria Provinciale rigettava le domande di parte ricorrente e avverso tale sentenza i contribuenti proponevano impugnazione, depositando, in corso di causa, apposita memoria alla quale allegavano l’intervenuta rinuncia all’eredità a mezzo atto notarile del 1985.
La Commissione Tributaria Regionale accoglieva l’appello, rilevando che chi rinuncia all’eredità è da considerarsi come se non fosse mai stato chiamato a rispondere delle situazioni giuridiche ad essa connesse.

L’impugnazione dell’atto impositivo equivale ad accettazione implicita dell’eredità, così rendendo inefficace il successivo atto formale di rinuncia alla stessa. (Cass. Civ., sez. Tributaria, ordinanza 29 ottobre 2020, n. 23989).”Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

2. La massima

L’Agenzia delle Entrate adiva la Corte di Cassazione, la quale ha stabilito che «qualora i chiamati all’eredità abbiano ricevuto ed accettato la notifica di una citazione o di un ricorso per debiti del de cuius o si siano costituiti eccependo la propria carenza di legittimazione, non siano configurabili ipotesi di accettazione tacita dell’eredità, trattandosi di atti pienamente compatibili con la volontà di non accettare l’eredità (Cass., sez. 3, 3/08/2000, n. 10197). Qualora, invece, i chiamati all’eredità, come nel caso di specie, abbiano impugnato un atto di accertamento emesso nei loro confronti in qualità di eredi dell’originario debitore, senza contestare l’assunzione di tale qualità e, quindi, il difetto di titolarità passiva della pretesa, ma censurando nel merito l’accertamento compiuto dall’Amministrazione finanziaria, deve ritenersi che essi abbiano posto in essere un’attività che non è altrimenti giustificabile se non con la veste di erede …» (Cass. Civ., sez. Tributaria, ord. 29 ottobre 2020 n. 23989)

3. Il principio di diritto

Ciò premesso in fatto, devesi evidenziare come attraverso tale pronuncia la Suprema Corte di Cassazione abbia fornito una linea interpretativa chiara da adottare in fattispecie di tal fatta, tutt’altro che rare e, quindi, di particolare interesse sia per gli operatori del diritto che per i contribuenti che si trovano o si troveranno ad affrontare una situazione analoga a quella in commento.

A seguito del decesso del contribuente titolare della posizione tributaria, sono stati notificati degli avvisi di accertamento agli eredi, i quali hanno impugnato nel merito la pretesa tributaria e solo in seconda battuta hanno eccepito l’intervenuta espressa rinuncia all’eredità.

Pertanto, il Supremo Collegio, pur ammettendo l’efficacia retroattiva dell’atto di rinuncia all’eredità ed affermando che l’accettazione dell’eredità è presupposto indefettibile perché si possa rispondere dei debiti ereditari, ha osservato come tale esclusione ad essere chiamato a rispondere dei debiti del de cuius operi purchè l’erede non abbia posto in essere comportamenti dai quali si possa desumere un’accettazione implicita dell’eredità; come avvenuto nel caso in analisi.

Difatti, l’Amministrazione ha dedotto l’irrilevanza della rinuncia all’eredità, in quanto intervenuta in momento successivo alla proposizione dell’impugnazione dell’atto impositivo dinanzi alla Commissione Tributaria, costituendo l’impugnazione comportamento che presuppone necessariamente la volontà di accettare e, comunque, di porre in essere un contegno che non si avrebbe il diritto di porre in essere se non in qualità di erede.

Francesco Sanna, Avvocato

Una recente sentenza del G.I.P. del Tribunale di Modena, depositata in data 19 ottobre 2020, apre uno spiraglio verso l’applicazione dell’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova anche in caso di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, per i reati previsti nel D. Lvo. n. 231/2001, artt. 24 e segg., commessi a vantaggio dell’ente dal soggetto che riveste una posizione apicale o dalle persone sottoposte alla direzione o vigilanza di quest’ultimo.

Tale pronuncia si inserisce, infatti, in un fervente dibattito dottrinale e giurisprudenziale che, prendendo le mosse da un’interpretazione rigorosa, finora aveva escluso la possibilità per l’ente di accedere alla messa alla prova, posto che né gli artt. 168 bis c.p. e 464 bis e segg. c.p.p., né la normativa contenuta nel D. Lvo. n. 231/2001 prevedono espressamente che l’ente possa svolgere lavori di pubblica utilità, al fine di ottenere l’estinzione dell’illecito.

In particolare, il Tribunale di Milano, con Ordinanza del 27 marzo 2017, si era espresso in senso sfavorevole all’estensione in via analogica della disciplina della messa alla prova alle ipotesi di responsabilità degli enti.

La sentenza

Invero, come sostenuto dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza del 31 marzo 2016, n. 36272, l’istituto in esame assume sia natura processuale, ma anche natura sostanziale, che, pertanto, precluderebbe la sua applicabilità alle fattispecie non espressamente previste, e ciò in ossequio al principio costituzionale di riserva di legge, quale corollario del principio di legalità, previsto nell’art. 25, comma 2 Cost.

La decisione del Tribunale modenese riveste, quindi, particolare interesse, poiché giunge a conclusioni opposte rispetto all’orientamento poc’anzi richiamato, dando peraltro risalto alla ratio legis, ossia allo scopo che il Legislatore ha voluto perseguire nel disciplinare la materia della responsabilità degli enti, ove si riconosce particolare attenzione, nonché natura premiale, alle condotte di ravvedimento della persona giuridica, ossia rivolte all’eliminazione delle conseguenze dell’illecito.

Operato il richiamo agli artt. 34 e 35 del D. Lvo. n. 231/2001 -che stabiliscono il rinvio alle norme del codice penale per le ipotesi non disciplinate espressamente nel medesimo Decreto-, il Tribunale ha disposto la sospensione per messa alla prova in favore di una società operante nel settore della produzione alimentare, alla quale veniva contestata la fattispecie di cui all’art. 25 bis (Delitti contro l’industria e il commercio), per il reato di cui all’art. 515 c.p.

La società si era impegnata a porre in essere una serie di condotte riparatorie, concernenti non solo l’eliminazione degli effetti negativi dell’illecito, ma anche il risarcimento del danno in favore dei soggetti danneggiati, una revisione dei modelli di organizzazione e gestione relativa all’area aziendale in cui si era verificato l’illecito, nonché lo svolgimento di attività di volontariato in favore della collettività presso un istituto religioso.

Ne consegue che, in conformità alla decisione del Tribunale di Modena, nel caso di illeciti che non destino particolare allarme sociale, anche l’ente potrà formulare richiesta di essere sottoposto ad un programma di trattamento elaborato dall’U.E.P.E. competente (Ufficio locale per l’Esecuzione Penale Esterna), equiparabile a quello previsto per le persone fisiche.

La richiesta di messa alla prova potrà, quindi, essere effettuata a mezzo del proprio difensore munito di procura speciale, per una sola volta, nel corso delle indagini preliminari -ove vi sia il consenso del Pubblico Ministero-, ovvero, in ogni caso, entro le conclusioni dell’udienza preliminare o fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado.Avv. Claudia Piroddu, Penalista

Pertanto, l’esito positivo dei lavori di pubblica utilità, unitamente alla rimozione delle conseguenze pregiudizievoli e al potenziamento delle misure di controllo, volte ad evitare la commissione in futuro di nuovi reati, comporta la pronuncia di estinzione dell’illecito amministrativo in favore dell’ente.

Claudia Piroddu, Avvocato

L’epidemia da Covid-19, attualmente in corso, ha sortito plurime conseguenze su più livelli.

Difatti, oltre ad aver inciso profondamente nella sfera privata e professionale dei singoli, ed aver, più in generale, causato una vera e propria crisi economica globale, il Coronavirus ha, altresì, determinato l’insorgere di numerose problematiche a livello giuridico.

Al riguardo, è statisticamente provato che la maggior parte delle controversie sorte all’indomani della pandemia, abbiano ad oggetto, principalmente, rapporti di natura contrattuale. Sul punto, basti pensare alle ipotesi di mancata consegna della merce a causa della sospensione delle attività produttive o, ancora, alle ipotesi in cui le agenzie di viaggio e/o turistiche non abbiano potuto eseguire nei confronti del consumatore la prestazione oggetto del contratto a causa della chiusura di porti e aeroporti ovvero delle frontiere tra Stati.

Ebbene, in un quadro caotico come quello delineato, il legislatore è intervenuto con una copiosa produzione normativa atta a far fronte ad uno scenario socio – economico – giuridico in continuo divenire.

Mediazione civile e commerciale

Certamente non immune da questo intervento è il settore della mediazione civile e commerciale.

Nello specifico, il legislatore ha, dapprima, cercato di rispondere alle imminenti esigenze di carattere organizzativo-gestionale degli incontri di mediazione. In particolare, ai commi 20, 20-bis e 21 dell’art. 83, D.L. del 17 marzo 2020, n. 18, convertito con modificazioni dalla L. 24 aprile 2020, n. 27, veniva espressamente disposta:

  • la sospensione dei termini per lo svolgimento di qualunque attività nei procedimenti di mediazione, di negoziazione assistita e di tutti i procedimenti di risoluzione stragiudiziale delle controversie regolati dalle disposizioni vigenti;
  • la possibilità che gli incontri di mediazione si svolgano da remoto, mediante l’uso di strumenti di videoconferenza.

Ma le principali novità sono state solo recentemente introdotte dal legislatore il quale, superate le prioritarie ed imminenti esigenze di tipo organizzativo per l’adozione di misure per il controllo e contenimento di situazioni di rischio, ha ritenuto opportuno attribuire alla mediazione un ruolo centrale nell’ambito della definizione stragiudiziale delle controversie, prevedendo una nuova ipotesi di mediazione obbligatoria, propriamente individuata all’art. 3, commi 6-bis e 6 ter del D.L. del 23.02.2020 n. 6.

Qual è, dunque, o quali sono, le nuove fattispecie al cui verificarsi si deve esperire il tentativo di mediazione?

La formulazione della norma sopra citata non consente di rispondere agevolmente alla domanda giacchè questa non enuncia espressamente e tassativamente le nuove ipotesi di mediazione obbligatoria.

Tuttavia, sulla scorta degli indirizzi interpretativi maggiormente consolidati, sembrerebbero rientrarvi le domande relative a:

  • risoluzione del contratto per inadempimento del debitore o inesatto o tardivo adempimento;
  • risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità della prestazione;
  • risoluzione del contratto per eccessiva onerosità;
  • esercizio del diritto di recesso;
  • risarcimento del danno per inadempimento del contratto o tardivo adempimento dello stesso.
  • in generale, in tutti i casi in cui l’inadempimento totale o parziale del rapporto contrattuale sia diretta conseguenza del rispetto delle misure di contenimento della pandemia emanate sia a livello nazionale che regionale o locale, sia di carattere legislativo che amministrativo o regolamentare.

Dunque, alla luce di quanto sopra detto, la condizione di procedibilità deve essere ricondotta solo alle ipotesi di inadempimento o tardivo adempimento di obbligazioni di carattere contrattuale, dovendosi, perciò, automaticamente escludere le domande di risarcimento del danno per responsabilità extracontrattuale, come, ad esempio, nelle ipotesi di risarcimento per danno da contagio.

Eleonora Pintus, Avvocato

L’art. 2051 c.c. rappresenta una delle ipotesi di cosiddetta responsabilità oggettiva presenti nel nostro ordinamento, disciplinando specificatamente la responsabilità da «Danno cagionato da cose in custodia», a mente della quale un qualunque soggetto, sia esso privato o pubblico, è tenuto al risarcimento qualora la cosa sottoposta alla propria custodia abbia causato un danno ad un altro soggetto, a prescindere dal fatto che il contegno del custode sia a lui imputabile a titolo di colpa o dolo.

La peculiarità di tale fattispecie risiede nel fatto che l’evento dannoso è condizione necessaria e sufficiente a fondare la responsabilità. L’elemento oggettivo idoneo ad interrompere il nesso di causalità tra danno arrecato dalla cosa e responsabilità del custode è rappresentato dal cosiddetto “caso fortuito”: dalla sua sussistenza derivano una serie di risvolti pratici sul regime dell’onere della prova.

Il fattore del “caso fortuito” attiene non ad un comportamento del responsabile, ma al profilo causale dell’evento riconducibile non alla cosa che ne è fonte immediata, ma ad un elemento esterno recante i caratteri dell’imprevedibilità e dell’inevitabilità. Così, conseguendone l’inversione dell’onere della prova in ordine al nesso causale, incombendo sull’attore/danneggiato la prova del nesso eziologico tra la cosa e l’evento lesivo e sul convenuto/danneggiante la prova del “caso fortuito”.

Effetti sul regime dell’onere probatorio

Come accennato, ciò determina effetti sul regime dell’onere probatorio. Vediamo quali.
Dall’art. 2051 c.c. si evince che grava sul danneggiato l’onere di provare il nesso eziologico tra danno subìto e bene in custodia, laddove spetterà al custode dare la prova del “caso fortuito”. Viceversa, nel caso della responsabilità aquiliana, ex art. 2043 c.c., è l’attore a dover fornire la prova del comportamento contrario alla legge, elemento questo estraneo alla struttura della fattispecie normativa di cui all’art. 2051 c.c., nella quale il fondamento della responsabilità è costituito dal rischio intrinseco della cosa e che grava sul custode, salva l’esimente del “caso fortuito”.

Pertanto, in virtù della superiore spiegazione sembrerebbe che colui che si determini a richiedere la tutela giurisdizionale, ai sensi dell’art. 2051 c.c., per i danni patiti gioverebbe di un regime probatorio “di favore”, potendo lo stesso domandare il risarcimento del danno subìto in forza del mero rapporto intercorrente tra la cosa (res) ed il soggetto investito della sua custodia, prescindendo da una condotta soggettivamente imputabile a quest’ultimo.
Tuttavia, alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale sia di legittimità che di merito, il risultato desiderato dal danneggiato/attore non pare di così facile raggiungimento.

L’elemento oggettivo idoneo ad interrompere il nesso di causalità tra danno arrecato dalla cosa e responsabilità del custode è rappresentato dal cosiddetto “caso fortuito”: dalla sua sussistenza derivano una serie di risvolti pratici sul regime dell’onere della prova.”Avv. Francesco Sanna, Civilista

Difatti, con la storica pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 12019/1991, si è dato riconoscimento formale alla dilagante intolleranza verso un’applicazione rigorosa e letterale dell’art. 2051 c.c., la quale prestava il fianco ai cosiddetti “risarcimenti facili”.
In particolare, il problema si è posto soprattutto nei confronti dei beni (strade) appartenenti alle Amministrazioni Pubbliche (Comuni, Province, Regioni e Stato), data la loro particolare estensione territoriale, da un lato, e la propensione a diventare facili bersagli di richieste risarcitorie fraudolente, dall’altro lato.

Ragion per cui, si è affermata, in modo assolutamente maggioritario, l’applicabilità della disciplina di cui all’art. 2051 c.c. anche al caso di danno occorso sulla strada di appartenenza della P.A., gravando però sul danneggiato il serio e rigoroso onere di provare la sussistenza del nesso causale tra danno patito e bene in custodia, oltrechè di escludere l’intervento di alcun “caso fortuito”: elemento di per sé idoneo a mandare assolto L’Ente, custode della rete viaria, da responsabilità.

Tale maggiore rigidità interpretativa è testimoniata dalla particolare attenzione dei giudici circa la verifica della presenza, nelle singole fattispecie, di elementi in grado di interrompere il suddetto nesso causale, il quale può essere spezzato dalla condotta del danneggiato.
E così il contegno del danneggiato ha diversa valenza e peso rispetto alla decisione del caso concreto a seconda del grado di incidenza che questo ha avuto in ordine al verificarsi dell’evento dannoso; il tutto anche alla luce dell’applicazione dell’art. 1227, comma 1 c.c., rubricato «Concorso del fatto colposo del creditore», così «… richiedendosi una valutazione che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di solidarietà espresso dall’art. 2 Cost., sicché, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l’adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l’efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando sia da escludere che lo stesso comportamento costituisca un’evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale, connotandosi, invece, per l’esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro». (Cass. Civ., ord. n. 9315/2019, conf. Cass. Civ., ord. nn. 2480-2481-2482-2483/2018 e da ultima Cass. Civ., Sez. III, ord. n. 4178/2020)

Sul solco tracciato dalla giurisprudenza di legittimità si è inserito anche il Tribunale di Cagliari, il quale ha prestato particolare attenzione alle peculiarità e alle specificità dei singoli elementi di fatto – caratterizzanti la fattispecie oggetto di decisione – in virtù di quanto allegato e provato dalle parti in causa.

Francesco Sanna, Avvocato