Come cambia l’approccio all’acquisto della casa ai tempi del Covid

Il Covid-19 ha avuto un impatto molto forte nel settore immobiliare, così come in qualsiasi altro ambito lavorativo: sta infatti contribuendo a rivedere la geografia della domanda e le necessità abitative dei potenziali acquirenti.

Durante la quarantena tante persone hanno realizzato di vivere in una casa che effettivamente non è funzionale nella suddivisione degli spazi e magari è lontana da aree verdi o dal mare: durante questi mesi, quindi, la presenza di spazi troppo esigui e privi di una terrazza o di un giardino ha sicuramente accentuato la sensazione di chiusura.

Ad essere cambiate sono quindi le priorità domestiche.

Ecco che a mutare è l’approccio del cliente al concetto stesso di casa.

Il nostro lavoro ci porta ad avere a che fare con una moltitudine di persone, cerchiamo di entrare in sintonia con ognuno di loro per riuscire a capire esattamente che cosa vogliono e che cosa cercano: dopotutto li supportiamo nell’acquisto più importante della loro vita.

Tante persone, famiglie o single e tanti budget. Che cosa li accomuna? I nuovi requisiti che la loro futura casa deve avere.

I mesi di quarantena hanno portato a vivere le quattro mura domestiche in maniera poliedrica: la casa si è trasformata anche in palestra o scuola di cucina o ristorante e a questo si è unito il nuovo modo di lavorare, lo smart- working, che ha comportato la necessità di riorganizzare gli ambienti interni.

Emerge, dunque, un quadro del tutto nuovo, una casa dalle mille sfaccettature.

Le persone, pertanto, hanno iniziato a cercare fondamentalmente immobili con spazi più ampi, soluzioni indipendenti o semi-indipendenti, nelle vicinanze di aree verdi o vicino alla spiaggia, con metrature più generose anche per la nuova necessità del lavoro da casa.Tiziana Mereu, Agente immobiliare

Nelle richieste che gestiamo compare come condicio sine qua non almeno una di queste caratteristiche.

La costante dello smart working ha fatto sorgere, poi, la necessità di avere un vano ad esso completamente dedicato dove sarà possibile sopperire alla mancanza di privacy registrata durante il lockdown.

Se prima della pandemia si viveva la casa unicamente a fine giornata come un semplice dormitorio e si dava scarsa importanza a certi aspetti, ora, i nuovi tempi che stiamo vivendo, ci portano a riscoprire l’importanza di possedere un giardino o ampi balconi e terrazze come estensione dello spazio interno.

Questo garantisce più libertà di movimento dentro e fuori casa.

Mi rendo conto, in base alle richieste che riceviamo, che le persone hanno riscoperto la necessità di coltivare un hobby o delle passioni come, ad esempio, un orto (in giardino o in balcone poco importa).

Si tratta di una vera e propria rivincita per queste pertinenze, che prima, in particolare il giardino a causa della manutenzione che richiede, venivano snobbate.

A essere cambiata è anche la domanda dei single: se prima puntavano sui bilocali, piccoli, pratici e facilmente gestibili, ora si orientano su abitazioni leggermente più grandi, che consentono loro di destinare una parte della casa al già citato smart working o da dedicare allo svago.

L’incertezza di viaggiare e le limitazioni alle valvole di sfogo hanno messo per ognuno, nessuno escluso, al centro di tutto la casa, che deve essere dotata di tutti i comfort e dove ogni dettaglio non può essere trascurato.

La casa oggi più che mai deve rispecchiare quello che siamo e deve permetterci di esprimerci senza chiusure o limitazioni di spazio.

 

Tiziana Mereu, Agente immobiliare

Sono laureata in giurisprudenza e attualmente esercito la professione presso l’agenzia Intesa Immobiliare di Quartu Sant’Elena, in via Cagliari n. 40b. Sin dai tempi dell’università appassionata di immobili e arredo, dopo una parentesi da consulente del lavoro abilitato, ha prevalso la passione per questo mondo.

Con l’agenzia immobiliare forniamo servizi di compravendita, locazione, consulenza mutui, sempre in costante aggiornamento e sempre mettendo al primo posto le esigenze del cliente.

Focus di diritto tributario Avv. Francesco Sanna

Imposta di registro per l’acquisto della prima casa
In generale, l’agevolazione fiscale per l’acquisto della prima casa è disciplinata dal D.P.R. n. 131/1986.
L’articolo 1, parte I, nota II-bis della Tabella allegata a detto decreto e ss.mm. sancisce l’applicazione dell’imposta di registro nel termine fisso del 2% nel caso in cui il trasferimento avvenga tra privati e abbia ad ‹‹oggetto case di abitazione, ad eccezione di quelle di categoria catastale A1, A8 e A9, ove ricorrano le condizioni di cui alla nota II-bis).››.

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

L’agente immobiliare non comunica il difetto di abitabilità dell’immobile: è truffa contrattuale
Cosa accade nel caso in cui si acquista un immobile nella convinzione che lo stesso abbia determinate caratteristiche e, successivamente, si scopre che l’abitazione non corrisponde alle informazioni fornite dal venditore o dall’agente immobiliare al momento della vendita?

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Focus di diritto civile, contratti • Avv. Viola Zuddas

Quando spetta la provvigione al mediatore immobiliare?
Il mediatore è colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare, senza essere legato ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza.

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Focus di diritto internazionale e dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Esiste un diritto all’abitazione?
Il diritto “alla casa” si inserisce nell’ambito di una “tutela multilivello di diritti”, che coinvolge fonti internazionali, comunitarie e nazionali.

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La salute rappresenta un diritto fondamentale del singolo e, altresì, un interesse preminente della collettività, soprattutto quando l’impatto sul tessuto sociale sia devastante come sta accadendo, purtroppo, per effetto della pandemia da Covid-19.

Per tenere sotto controllo la diffusione del virus risulta di primaria importanza raggiungere l’immunità di gregge o, quantomeno, vaccinare il maggior numero di persone nel minor tempo possibile.

Per poter raggiungere questo obiettivo, l’Agenzia Europea per i medicinali e l’AIFA hanno autorizzato i vaccini Pfizer – BioNTech, Moderna, Vaxzevria (ex AstraZeneca) e COVID-19 Vaccine Janssen di Johnson & Johnson che sono stati messi a punto per indurre una risposta immunitaria in grado di bloccare la proteina “Spike” ed impedire al virus di infettare le cellule del nostro corpo.

Tuttavia, nel corso di questi mesi sono stati registrati dei grossi ritardi nella produzione e nella distribuzione da parte delle aziende che producono i vaccini e queste circostanze hanno inciso notevolmente sulla campagna vaccinale non solo dell’Italia ma di tutta l’Europa.

Nello specifico, per quanto ci riguarda più da vicino, la disponibilità di dosi non è la stessa per tutti i vaccini e, quindi, il Governo ha dovuto predisporre un piano vaccinale (il cosiddetto “Piano strategico per la vaccinazione anti COVID-19”), che si occupa di regolamentare le somministrazioni dei vaccini sulla base di alcuni parametri e criteri ben precisi.

Infatti, alcune persone (quelle cosiddette “fragili”) corrono il rischio di infettarsi e sviluppare la malattia in forma più grave rispetto ad altre e, pertanto, il Governo ha dovuto operare delle scelte volte a tutelarle anche nell’ambito della vaccinazione perché, come chiarito dalle stesse case farmaceutiche, non tutti i vaccini possono essere somministrati a qualunque persona.

Ebbene, in questa fase iniziale caratterizzata da un numero limitato di dosi consegnate, per garantire la massima equità di accesso alla vaccinazione, i vaccini Pfizer – BioNTech, Moderna, Vaxzevria e Janssen sono offerti gratuitamente a tutta la popolazione secondo un ordine di priorità che tiene conto sia del rischio di malattia che riguarda le persone, sia della disponibilità di dosi di ogni siero. Avv. Viola Zuddas, Civilista

Per questo motivo, quindi, allo stato attuale non è consentito alle persone scegliere la tipologia di vaccino da somministrare, poiché questa è demandata agli operatori sanitari in considerazione delle loro competenze e capacità professionali.

Infatti, affinché la scelta del tipo di vaccino da inoculare sia operata in maniera corretta, in ogni hub vaccinale sono presenti dei medici che, dopo aver fatto un approfondito colloquio con il “paziente”, riesaminano con lui la scheda anamnestica, ovvero il modulo che, attraverso specifiche domande, consente di valutare la presenza di controindicazioni o precauzioni particolari in relazione alla somministrazione di uno specifico tipo di vaccino.

Sulla base delle indicazioni fornite dal Governo, dunque, fino a quando la disponibilità delle dosi sarà ridotta, le persone non potranno esprimere la propria preferenza rispetto a quale tipologia di vaccino farsi inoculare, poiché in caso contrario si rischierebbe di escludere dalla profilassi i pazienti più fragili, ai quali può essere somministrato soltanto un tipo di siero. Avv. Viola Zuddas, Civilista

Per ovviare a questo inconveniente e, quindi, per scongiurare che vengano aggirate le problematiche in materia di equità di accesso ai vaccini, alcune Regioni non permettono a chi rifiuta la somministrazione di un tipo specifico di vaccino di riprenotarsi nell’immediato o, addirittura, impongono lo slittamento in coda alla lista della classe d’età di appartenenza.

Alcuni Paesi, invero, consentono ai cittadini di scegliere quale siero farsi inoculare.

Pensiamo, ad esempio, alla Serbia che, grazie ad una campagna vaccinale molto efficiente, sta diventando una meta prediletta per il turismo vaccinale: infatti, previa compilazione di un questionario online, permette anche ai cittadini stranieri residenti all’estero di prenotarsi per la somministrazione gratuita del tipo prescelto di vaccino.

Ebbene, quando la campagna vaccinale avrà raggiunto gli obiettivi sperati e l’Italia avrà un congruo numero di dosi di tutti i vaccini, i cittadini potranno scegliere quale siero farsi inoculare, sempre seguendo le indicazioni fornite dal proprio medico che chiaramente ha le competenze per valutare quale vaccino sia quello più idoneo.

Viola Zuddas, Avvocato

Con la pubblicazione della Gazzetta Ufficiale D.L. 22 marzo 2021, n. 41, ha preso vita l’annunciato “Decreto Sostegni”, diretto ad aiutare, mediante un contributo a fondo perduto, tutti quei soggetti colpiti dall’emergenza seguita alla pandemia da COVID-19.

Aspetto nuovo rispetto ad aiuti del passato risulta essere la modalità di misurazione dell’impatto della crisi in danno di un soggetto: affidata al parametro del decremento del fatturato medio mensile riferito all’intero anno 2020. Così il Legislatore ha inteso vagliare la meritevolezza o meno del godimento del beneficio in base a un dato temporale esteso, piuttosto che a un dato riferito a un singolo mese che avrebbe potuto penalizzare o premiare indebitamente alcuni operatori economici.

Altra apprezzabile scelta è quella di non aver previsto alcuna differenziazione in relazione al settore economico o codice Ateco di appartenenza, così da permettere a qualsiasi partita iva, attivata dal 1° gennaio 2019 e che abbia patito un calo del fatturato “moderato”, di poter aspirare a ricevere il sostegno previsto.

Per quanto concerne le modalità e istruzioni da seguire per la presentazione della domanda, da inoltrare entro il entro il 28 maggio 2021, si segnalano i provvedimenti direttoriali dell’Agenzia delle Entrate n. 77923 e 82454, rispettivamente del 23 e del 29 marzo 2021.

In ordine ai beneficiari il comma 1 dell’articolo 1 prevede un contributo a fondo perduto a favore dei soggetti titolari di partita iva, residenti o stabiliti nel territorio italiano, che svolgono attività d’impresa, arte o professione o producono reddito agrario, oltre a rientrarvi anche gli enti non commerciali. Il tutto senza che abbia alcuna rilevanza la forma giuridica prescelta e il regime contabile adottato.

Di converso, il comma due dell’articolo in analisi sancisce che non possono beneficiare del contributo coloro i quali abbiano cessato l’attività alla data del 23 marzo 2021 o che abbiano “aperto” la partita iva in data successiva. Inoltre, altri soggetti che non possono ottenere il sostegno sono gli enti pubblici, ex art. 74 T.U.I.R., e gli intermediari finanziari e società di partecipazione, ex art. 162-bis T.U.I.R.

Proseguendo nell’analisi dell’articolo 1 del “Decreto Sostegni”, i commi 3 e 4 stabiliscono due condizioni essenziali al ricorrere delle quali il contributo è dovuto per:

  • I titolari di reddito agrario, i lavoratori autonomi e i titolari di reddito d’impresa i quali devono avere un ammontare di compensi percepiti o un ammontare di ricavi derivanti dall’attività d’impresa, relativi al periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2019, non superiore a dieci milioni di euro;
  • Coloro i quali hanno registrato un ammontare medio mensile del fatturato e dei corrispettivi del 2020 inferiore ad almeno il 30% rispetto all’anno 2019.

Per la determinazione corretta dei predetti importi si fa riferimento alla data di effettuazione dell’operazione. Mentre, in relazione al dato del fatturato/corrispettivi si considerano tutte le operazioni che hanno partecipato alle liquidazioni del periodo preso a riferimento.

I commi 5 e 6 dispongono in merito alle modalità di calcolo e al limite del contributo spettante.

La regola generale per il calcolo del contributo spettante ad ogni operatore si determina applicando una percentuale alla differenza tra l’ammontare medio mensile del fatturato e dei corrispettivi 2020 e l’ammontare medio mensile del fatturato e dei corrispettivi del 2019.Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

La percentuale predetta si differenzia in maniera inversamente proporzionale al crescere dei ricavi o compensi riferiti all’annualità 2019.

Così il quantum del contributo a fondo perduto riconosciuto è pari all’importo ottenuto applicando le seguenti percentuali al differenziale di fatturato medio mensile:

  • 60% soggetti con ricavi o compensi non superiori a € 100,000,00;
  • 50% soggetti con ricavi o compensi compresi tra € 100.000,01 ed € 400.000,00;
  • 40% soggetti con ricavi o compensi compresi tra € 400.000,01 ed € 1.000.000,00;
  • 30% soggetti con ricavi o compensi compresi tra € 1.000.000,01 ed € 5.000.000,00;
  • 20% soggetti con ricavi o compensi compresi tra € 5.000.000,01 e 10.000.000,00.

Inoltre, è stato previsto espressamente che anche i soggetti che hanno attivato la partita iva dopo il 31 dicembre 2018 possono beneficiare del contributo in quesitone anche se la media mensile del fatturato e dei corrispettivi 2020 risulta calata meno del 30%, rispetto a quella dell’anno 2019, mentre per coloro i quali hanno proceduto alla “apertura” della partita iva nell’anno 2020 spetterà il contributo minimo di € 1.000,00 per le persone fisiche e di € 2.000,00 per i soggetti aventi altre forme giuridiche.

Specificato l’ammontare del contributo minimo spettante a colui il quale ne ha diritto, al comma 6 del Decreto in parola viene stabilito il limite massimo del contributo, pari a € 150.000,00.

Il comma 7 prevede che gli operatori possano scegliere o l’erogazione del contributo o il riconoscimento di un credito d’imposta da portare in compensazione tramite Mod. F24.

Tale scelta, una volta esplicitata, è irrevocabile.

Per quanto attiene la procedura da seguire per godere dell’erogazione del beneficio, il comma 8 demanda al provvedimento dell’A.E. n. 77923/2021; il quale ha definito tempi, modalità e contenuto della presentazione dell’istanza.

In sintesi, le istanze devono essere inviate per via telematica tramite li desktop telematico o per mezzo della piattaforma web, posta nell’area riservata del portale “Fatture e Corrispettivi”.

Francesco Sanna, Avvocato
Le modifiche al codice penale

Il disegno di legge Zan, composto da dieci articoli, ha l’espressa finalità di prevenire e contrastare la discriminazione e la violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità, mediante un intervento di modifica al codice penale.

In particolare, sono due gli articoli ad essere interessati dal DDL ZAN, ovvero l’art. 604 bis e l’art. 604 ter c.p., originariamente introdotti con la cd. Legge Mancino.

Nella formulazione attuale, l’art. 604 bis punisce chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico e chi istiga a commettere o commette atti discriminazione o violenza per gli stessi motivi.

La norma punisce, inoltre, chi partecipa, presta assistenza, promuove o dirige associazioni o gruppi che incitano alla discriminazione o alla violenza basata sui motivi razziali o religiosi.

L’art. 604 ter c.p., invece, prevede un’apposita circostanza aggravante applicabile nel caso di reati commessi con finalità discriminatorie.

Ebbene, se, da un lato, il DDL ZAN non introduce alcuna modifica relativa al reato di propaganda – che rimane, quindi, limitato alle sole ipotesi di odio razziale o etnico – dall’altro lato, interviene sia in merito al reato di istigazione che avendo riguardo alla commissione di atti di discriminazione e violenza.

In parole semplici, si tratta di un intervento volto ad ampliare le norme già esistenti, destinato però ad aggiungere alle discriminazioni o violenze per motivi razziali, etniche e religiose, anche quelle fondate sul sesso, sull’orientamento sessuale e identità di genere, nonché sulla disabilità. Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista • Avv. Claudia Piroddu, Penalista

La Legge, inoltre, prevede l’introduzione di una specifica circostanza aggravante applicabile a quelle condotte criminose che risultano motivate da omotransfobia ed abilismo che, ad oggi, non sono previste espressamente in nessuna norma del codice penale.

Infatti, nonostante l’art. 61 c.p., che disciplina le circostanze aggravanti comuni applicabili a qualsiasi fattispecie, preveda l’aggravante di “aver agito per motivi abbietti o futili“, questa, tuttavia, ha ad oggetto ipotesi diverse che ricorrono solo laddove la condotta sia sorretta da motivi perversi o sproporzionati, entrambe difficilmente applicabili al caso in esame.

Ebbene, la critica maggiore che viene sollevata al disegno di legge riguarda la presunta limitazione della libertà di espressione che le modifiche normative introdurrebbero.

Ma è davvero così?

Libertà di espressione e reati di opinione

La libera manifestazione del pensiero, come principio fondante di uno stato democratico, è tutelata dall’art. 21 della Costituzione italiana, nel quale si precisa che “tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione“.

Poter esprimere idee e pensieri, tuttavia, non significa poterlo fare in maniera indiscriminata, ad esempio, con modalità offensive o violente.

Vi sono, quindi, dei limiti previsti proprio per tutelare anche le libertà altrui, ossia l’onore, la reputazione, l’incolumità o l’integrità fisica e psichica delle persone coinvolte, solo per citarne alcune.

Deve poi aggiungersi che il codice penale e alcune leggi speciali puniscono i cd. reati di opinione, che tutelano valori morali, spirituali e ideali, intesi come beni super- individuali, ossia riconducibili all’intera società.

Ne sono un esempio, il reato di attentato contro l’integrità, l’indipendenza e l’unità dello Stato, il reato di attentato contro la Costituzione dello Stato o i reati di vilipendio, nonché il reato di apologia di genocidio e del fascismo che, nella specie, punisce chiunque pubblicamente esalti esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche.

Fatta questa doverosa premessa, pare opportuno precisare che il DDL ZAN garantisce la libertà di opinione, senza metterla in discussione né limitarla.

In particolare, l’art. 4 prevede espressamente che “sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti“.

Ciò significa che è ben possibile continuare ad esprimere liberamente idee e convinzioni personali, condivisibili o meno, purché la libertà di espressione del singolo non sconfini nell’istigazione all’odio e alla violenza per motivi inerenti al sesso, all’identità di genere o all’orientamento sessuale.

Peraltro, è necessario aggiungere che la norma non contempla né disciplina in alcun modo la “maternità surrogata” e la “transizione di genere“, ma introduce, invece, la definizione di “identità di genere“, quale estrinsecazione della libera espressione di sé, mutuandola dalla giurisprudenza europea e dal diritto sovrannazionale.

Invero, nell’art. 1, lett. d), il DDL stabilisce che “per identità di genere si intende l’i­dentificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corri­spondente al sesso, indipendentemente dal­l’aver concluso un percorso di transizione“.

Come preannunciato, si tratta di una definizione introdotta per la prima volta dal Parlamento europeo e dal Consiglio con la Direttiva n. 95 del 2011 ove, rilevata l’esigenza di introdurre una definizione comune del motivo di persecuzione costituito dall’ “appartenenza a un determinato gruppo sociale”, è stato specificato che ai fini della definizione di un determinato gruppo sociale, occorre tenere debito conto degli aspetti connessi al sesso del richiedente, tra cui l’identità di genere e l’orientamento sessuale.

Una più approfondita definizione è stata poi inserita nella Direttiva 2012/29 UE, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato.

In particolare, nell’invitare gli Stati membri a migliorare la legislazione e le misure concrete di sostegno per il riconoscimento e la protezione delle vittime, la Direttiva in esame ha riservato particolare attenzione alle “vittime della violenza di genere”, con ciò intendendosi “la violenza diretta contro una persona a causa del suo genere, della sua identità di genere o della sua espressione di genere o che colpisce in modo sproporzionato le persone di un particolare genere”.

La violenza punibile è, dunque, quella che “può provocare un danno fisico, sessuale, emotivo o psicologico, o una perdita economica alla vittima. La violenza di genere è considerata una forma di discriminazione e una violazione delle libertà fondamentali della vittima e comprende la violenza nelle relazioni strette, la violenza sessuale (…), la tratta di esseri umani, la schiavitù e varie forme di pratiche dannose, quali i matrimoni forzati, la mutilazione genitale femminile e i cosiddetti «reati d’onore»”.

È evidente, dunque, che l’introduzione del concetto di “identità di genere” da un punto di vista giuridico non è certamente nuova ma ha trovato ampio riconoscimento già a livello sovranazionale. Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista • Avv. Claudia Piroddu, Penalista

Ebbene, nonostante ciò, sebbene l’Italia abbia recepito la Direttiva n. 29 del 2012 con il Decreto legislativo del 15 dicembre 2015 n. 212, ad oggi risulta l’unico Paese tra quelli fondatori dell’Unione Europea a non aver adottato una normativa per contrastare penalmente l’odio e la violenza per motivi inerenti al sesso, all’identità di genere o all’orientamento sessuale.

In questo contesto, il DDL ZAN consentirebbe, indubbiamente, di contrastare a livello penale questo tipo di fenomeni.

Eleonora PintusClaudia Piroddu, Avvocati
Perché l’Italia ha bisogno del DDL Zan

Oggi, 17 maggio, si celebra in Europa la giornata internazionale contro l’omofobia e la transfobia quale occasione di riflessione contro i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze, fisiche e morali, legati all’orientamento sessuale.

Questa data è stata scelta perché il 17 maggio 1990 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha rimosso l’omosessualità dalla lista delle malattie mentali, definendola come «una variante naturale del comportamento umano» e chiarendo, in sostanza, che l’orientamento sessuale di ciascuno non possa essere ricondotto né ad una patologia né, tantomeno, ad un disturbo mentale.

Sul punto, deve ricordarsi che negli anni ’60 – ’70 l’omosessualità era considerata una deviazione sessuale (al pari della pedofilia), ed, altresì, una condizione psicopatologica inclusa tra i cosiddetti “disturbi sociopatici di personalità”.

Il DDL Zan, tra le misure di cui si fa portavoce, propone all’art. 7 di istituire il giorno 17 maggio quale giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia, al fine di «promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione nonché di contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere, in attuazione dei princìpi di eguaglianza e di pari dignità sociale sanciti dalla Costituzione.» Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista • Avv. Viola Zuddas, Civilista

In occasione di tale giornata, quindi, verranno organizzate cerimonie, incontri e ogni altra iniziativa utile per favorire la diffusione di questi principi e, dunque, contrastare ogni forma di discriminazione e violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità.

Al riguardo, è importante chiarire che il DDL Zan, che prende il nome dal suo relatore Alessandro Zan, è un disegno di legge contro i crimini d’odio che va ad affiancarsi alla L. 25 giugno 1993, n. 205 (cosiddetta “Legge Mancino”), che si occupa di reprimere la discriminazione, l’odio o la violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.

Con il DDL Zan, quindi, le misure repressive già previste dalla Legge Mancino vengono estese anche contro le discriminazioni che siano fondate sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità, in maniera tale da offrire una tutela rafforzata e più stringente.

A tale proposito, il DDL Zan, all’art. 1, precisa che:

  • per sesso si intende il sesso biologico o anagrafico,
  • per genere si intende qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso,
  • per orientamento sessuale si intende l’attrazione sessuale o affettiva nei confronti di persone di sesso opposto, dello stesso sesso, o di entrambi i sessi,
  • per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione.

Ebbene, per comprendere il motivo per il quale questo provvedimento tanto discusso potrebbe rivelarsi necessario per il nostro Paese, è utile richiamare il report aggiornato al dicembre 2020 che annualmente l’ILGA – Europe stila per fotografare la situazione dei diritti umani delle persone lesbiche, gay, bisessuali, trans e intersessuali in Italia.

Il nostro Paese, infatti, si colloca al 35° posto in Europa per la lotta alle discriminazioni fondate sul sesso e per l’inclusione delle persone; per intenderci, peggio dell’Italia fanno Paesi come la Russia, la Polonia e la Turchia.

Questo posizionamento è dato da diversi criteri in cui si tiene conto di:

  • uguaglianza e non discriminazione (ad esempio, vi sono discriminazioni nel mondo del lavoro in base all’orientamento sessuale),
  • famiglia (ad esempio, vi è la possibilità di riconoscere alle coppie omosex diritti simili al matrimonio),
    crimini d’odio ed incitamento all’odio (ad esempio, vi sono o sono in programma Leggi contro i crimini d’odio),
  • riconoscimento legale del genere ed integrità fisica (ad esempio, è riconosciuta la possibilità di sottoporsi ad interventi chirurgici per il cambio di sesso),
  • spazio della società civile (ad esempio, si garantisce alle associazioni LGBTI di organizzare manifestazioni),
  • asilo (ad esempio, vi sono o sono in programma Leggi sull’orientamento sessuale e l’identità di genere).

Sulla base dei dati riportati, quindi, si può purtroppo affermare che nel nostro Paese non vi sia un sistema legislativo in grado di assicurare efficacemente l’inclusione delle persone LGBTI nella società o che si occupi di reprimere con risolutezza atteggiamenti discriminatori, stigmatizzanti e violenti nei loro confronti.

È, dunque, agevole comprendere i motivi per i quali il DDL Zan potrebbe rappresentare un valido strumento per promuovere una cultura di maggiore rispetto ed inclusione e per riconoscere alle persone il diritto di vivere liberamente la propria vita affettiva e sessuale.

Francesco SannaViola Zuddas, Avvocati

In tema di sicurezza sul lavoro, occorre precisare che il datore di lavoro è titolare di specifici obblighi di adeguata informazione, formazione e vigilanza dei lavoratori ed è tenuto per Legge all’adozione di tutte le misure idonee a prevenire eventuali rischi connessi all’attività lavorativa.

Tali obblighi trovano fondamento nell’art. 2087 c.c. e nelle disposizioni contenute nel Testo Unico sulla salute e sicurezza sul lavoro.

All’evidenza, si tratta di norme volte a contenere il più possibile i rischi e ad evitare il verificarsi di infortuni, tanto ciò è vero che il datore di lavoro deve adottare, secondo la propria esperienza e le migliori conoscenze tecniche, le misure necessarie in relazione al tipo di attività svolta, le quali devono essere costantemente aggiornate.

In caso contrario, l’inosservanza delle norme dirette alla prevenzione degli infortuni sul lavoro può comportare la responsabilità penale del datore di lavoro, ove sia dimostrato il nesso di causalità tra la predetta violazione e l’evento lesivo verificatosi in danno del lavoratore.

In particolare, giova sottolineare che in capo al datore di lavoro, quale titolare di appositi obblighi posti a presidio della salute e sicurezza del lavoratore, è riconosciuta una cd. posizione di garanzia.

Ne deriva che, ai sensi dell’art. 40 c.p., il datore di lavoro risponde dell’evento lesivo, qualora non abbia adottato le misure anti infortunistiche volte ad impedirlo o non abbia vigilato adeguatamente sul rispetto delle medesime.

Tanto precisato, all’evidenza, ciò non significa che il titolare della posizione di garanzia sia ritenuto responsabile automaticamente al verificarsi di un incidente sul luogo di lavoro (Cass. pen., sez. IV, 13 gennaio 2021, n. 4075). Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Invero, è necessario verificare, innanzi tutto, se sussiste o meno la violazione dell’obbligo di prevenzione da parte del datore di lavoro.

Inoltre, occorre che l’evento lesivo verificatosi in concreto sia proprio quello che la misura di contenimento mirava ad evitare (cd. concretizzazione del rischio) ed, infine, che l’infortunio si sia verificato a causa della condotta negligente, imprudente o imperita del datore di lavoro o in conseguenza della violazione di norme specifiche.

Nel caso in cui ricorrano tutti gli elementi poc’anzi menzionati, il datore di lavoro potrà essere chiamato a rispondere per colpa delle lesioni o morte del lavoratore, ai sensi dell’art. 43 c.p.

Peraltro, il datore di lavoro è tenuto al rispetto dei predetti obblighi anche in caso di nomina del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, posto che tale figura non può sostituire quella del datore di lavoro, che, anche in tale ipotesi, mantiene il ruolo di vigilanza.

Tuttavia, in taluni casi, è prevista la possibilità di delegare le funzioni in materia di sicurezza e igiene sul lavoro -ad esempio, nell’ambito societario- con la conseguenza che solo il delegato potrà rispondere di eventuali eventi lesivi subiti da un dipendente.

Ne consegue che il datore di lavoro, direttamente o mediante apposite figure delegate, deve sempre dotarsi di strumenti di valutazione, gestione e controllo del rischio, la cui osservanza risulta idonea a evitare il verificarsi di eventi lesivi o quanto meno a escludere o limitare la rilevanza penale delle condotte del datore di lavoro.

E in caso di “imprudenza” del lavoratore?

Con una recente pronuncia, la Corte di Cassazione ha ribadito il principio consolidato secondo il quale, a fronte di una condotta omissiva del datore di lavoro, il comportamento del lavoratore, quand’anche risulti negligente o imprudente e abbia contribuito a dare causa all’evento lesivo, non vale a interrompere il nesso causale tra la condotta ascritta al datore di lavoro e l’incidente occorso al dipendente.

In altre parole, dal momento che le disposizioni antinfortunistiche perseguono il fine di tutelare il lavoratore anche dagli infortuni derivanti da sua colpa, ancorché prevedibili, non è configurabile una responsabilità del medesimo, quando il sistema di sicurezza approntato dal datore di lavoro presenti delle criticità o anomalie (Cass. pen., sez. IV, 13 febbraio 2020, n. 8163).

A tale riguardo, però, nella sentenza n. 50000 del 6 novembre 2018, i giudici di legittimità hanno precisato che: “Il comportamento del lavoratore può rilevare quale limite alla responsabilità del datore di lavoro solo quando risulti abnorme, eccezionale o comunque esorbitante rispetto al procedimento lavorativo e alle precise direttive ricevute, connotandosi come del tutto imprevedibile o inopinabile, sicché tra gli obblighi del datore di lavoro è ricompreso anche il dovere di prevenire l’eventuale comportamento negligente o imprudente del lavoratore”. Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Che cosa si intende, dunque, per comportamento “abnorme”?
Si considera “abnorme” il comportamento che risulta talmente eccezionale e ingovernabile rispetto al tipo di attività svolta, da collocarsi al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte delle persone preposte all’applicazione delle misure di prevenzione degli infortuni sul lavoro.
Pertanto, se il comportamento del dipendente non può connotarsi come abnorme o imprevedibile, tenuto anche conto dell’esperienza maturata dal medesimo e della specifica lavorazione posta in essere, sussisterà comunque una responsabilità del datore di lavoro (Cass. pen., sez. IV, 25 settembre 2020, n. 26618).

Quest’ultimo, infatti, risponderà del reato colposo (lesioni o morte) e sarà tenuto al risarcimento dei danni conseguenti, per non aver adottato le misure necessarie a contenere il rischio di verificazione di eventi lesivi, compresi quelli che possono prevedibilmente derivare da errori nello svolgimento dell’attività di lavoro.

Claudia Piroddu, Avvocato

Il settore della responsabilità medica è di certo uno dei più dibattuti e controversi del mondo giuridico. Il perché è presto spiegato: da un lato, c’è l’esercizio di una professione tra le più delicate dello scibile umano e dalla quale dipende la fondamentale salvaguardia del diritto alla vita e alla salute, dall’altro lato, c’è la doverosa esigenza di tutelare quei pazienti che hanno patito un danno dal maldestro esercizio della professione sanitaria.

Il concetto di malpractice sanitaria – che si verifica nel momento in cui chi eroga un servizio (azienda ospedaliera, medico extra moenia, clinica privata, infermiere, ecc.), non rispettando le linee guida minime dettate per l’intervento in questione, provoca danni o lesioni gravi e permanenti (o morte) al paziente – è centrale al fine di comprendere gli elementi che concorrono a individuare una fattispecie di malasanità e i suoi possibili effetti. Ciò determina una evidente incidenza sui concetti di colpa e di nesso causale, tra la condotta posta in essere e l’evento dannoso, nel campo della responsabilità medica.

La responsabilità medica attiene, dunque, all’obbligo di rispondere delle conseguenze derivanti dalla illecita condotta, commissiva od omissiva, posta in essere in violazione di una norma.Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

In dipendenza dell’ambito operativo della norma violata si potranno configurare varie tipologie di responsabilità: morale, amministrativo-disciplinare o – ed è quella che qui interessa – giuridica, dovuta alla violazione di una norma di legge.

In generale, si ha una condotta colposa giuridicamente rilevante quando a seguito del contegno posto in essere da un soggetto deriva un evento non voluto dall’agente ma che si verifica a causa della propria negligenza, imprudenza o imperizia (colpa generica) oppure per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline (colpa specifica).

Per meglio chiarire si ha:

  • negligenza, superficialità, trascuratezza e disattenzione quando ad esempio un medico prescrive un farmaco al posto di un altro oppure un chirurgo non avvedendosi della presenza di un oggetto estraneo all’interno del corpo del paziente non lo rimuove;
  • imprudenza quando il sanitario pone in essere una condotta definibile come avventata o temeraria, pur consapevole dei rischi per il paziente, e decide comunque di procedere con una determinata pratica;
  • imperizia quando si appalesa una scarsa preparazione professionale per incapacità proprie, insufficienti conoscenze tecniche o inesperienza specifica.

La colpa specifica, invece, si ha qualora il sanitario vìola norme che in forza della propria posizione professionale non poteva ignorare e che era tenuto ad osservare.

I tipi di errore in cui può incappare il professionista sono i seguenti:

  • prognostico derivante da un giudizio di previsione sul decorso e soprattutto sull’esito di un determinato quadro.
  • terapeutico attiene alla scelta del trattamento da porre in essere o dalla sua errata esecuzione, come ad esempio la scelta di intervenire chirurgicamente quando non necessario o, peggio ancora, porre in essere un errore durante l’intervento.

Difatti, è indispensabile che venga individuato un legame – nesso eziologico – tra errore commesso e danno subito dal paziente, affinché il secondo possa qualificarsi come diretta conseguenza del primo, determinando, da un lato, una responsabilità giuridicamente rilevante in capo al professionista e, dall’altro lato, il diritto del danneggiato a chiedere il risarcimento del danno patito.Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

La sussistenza del nesso causale in parola spesse volte risulta difficilmente verificabile in termini di certezza assoluta: tant’è che il medico-legale, incaricato dal Giudice al fine di accertare se e in che misura la condotta colposa – commissiva od omissiva – del sanitario sia stata la causa diretta dei danni accertati e di cui il paziente chiede il ristoro, applicherà il criterio sta­tistico-probabilistico.

Problematica strettamente collegata a quanto appena esposto è la ricerca del punto di equilibrio tra la tutela di coloro i quali svolgono un’attività che, come visto, spesso richiede scelte difficili e talvolta lasciate all’intuizione del professionista e l’eventuale responsabilità, sia penale che civile, che su di esso potrebbe incombere in presenza di determinate condizioni.

In assenza di tale punto di equilibrio e di confini precisi entro i quali i sanitari si sentano posti al riparo da procedimenti civili e/o penali a loro carico, volti a dimostrare la loro responsabilità nell’esecuzione di un certo trattamento, di una diagnosi, ecc., nasce il rischio che questi scelgano di non percorrere ogni tentativo, seppur rischioso, di curare o addirittura di salvare la vita del paziente, intimoriti delle possibili conseguenze giudiziarie in cui potrebbero incappare.

Pertanto, si assisterebbe al dilagante esercizio della cosiddetta “medicina difensiva” – figlia della paura degli operatori di poter sbagliare e di incorrere in responsabilità – caratterizzata dal porre in essere terapie standard che, anche se non propriamente adatte al caso concreto, pongono il professionista in una posizione di maggiore riparo da qualsiasi responsabilità.

Francesco Sanna, Avvocato
Diffamazione sui social: responsabilità diretta e dei provider alla luce della normativa interna e Comunitaria

La diffusione di internet e, ancora più, la nascita dei social network, se da un lato ha apportato numerosi benefici tra i quali, la rapida e capillare circolazione delle informazioni, nonché la nascita di nuove professioni, come quella dell’influencer, d’altra parte, soprattutto nell’ultima decade, ha comportato il notevole aumento degli illeciti commessi dagli utenti del web.

La casistica è variegata: si passa dalla sostituzione di persona, alla diffamazione a mezzo internet, all’accesso abusivo al sistema informatico, al cyber bullismo o, ancora, alla pedopornografia.

In particolare, sempre più frequenti sono le condotte di diffamazione perpetrate tramite l’uso dei social network che all’evidenza risultano facilitate dalla possibilità, per un numero notevole di utenti della rete, di esprimere del tutto liberamente, e senza vaglio preventivo, commenti e giudizi, talvolta connotati da carattere volgare e offensivo, o ancora, mediante la semplice diffusione di fake news.

Sebbene la Legge italiana riconosca e tuteli il diritto alla libera manifestazione del pensiero, lo stesso incontra un chiaro limite dinnanzi alle condotte che trasmodano nell’offesa dell’altrui immagine e reputazione, che, dunque, assumono rilevanza penale.

Al riguardo, la Giurisprudenza di Legittimità è concorde nel ritenere che la diffusione di un messaggio diffamatorio pubblicato sulla bacheca di Facebook, ovvero sulla piattaforma Instagram -ad esempio, nelle modalità di commento ad una foto- integra l’ipotesi di diffamazione aggravata, ai sensi dell’art. 595, comma terzo, c.p., sotto il profilo dell’offesa arrecata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa. Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista • Avv. Claudia Piroddu, Penalista

La potenziale offesa insita nel commento, infatti, è senza dubbio capace di raggiungere un numero indeterminato di persone -quale elemento costitutivo della fattispecie in esame- e, pertanto, è evidente che colui il quale abbia coscientemente e volontariamente “postato” il commento diffamatorio sarà chiamato a rispondere del reato di diffamazione aggravata poc’anzi menzionato.

Dette condotte sono state perfino sottoposte anche al vaglio della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo la quale, come affermato in un caso recente, ha confermato che integra una violazione dell’articolo 8 della Cedu -che tutela il diritto al rispetto della vita privata, incluso quello alla reputazione- la pubblicazione di un’immagine manipolata sul social network Instagram.

I giudici, nel caso di specie, hanno superato i confini “classici” della diffamazione -intesa quale offesa di carattere verbale- affermando che la tutela della reputazione va assicurata anche a chi subisce accuse diffamatorie su Instagram sotto forma di manipolazione di un’immagine.

Ma la complessità del fenomeno della diffamazione a mezzo internet fa sorgere un ulteriore ed inevitabile quesito: in questi casi, è possibile ascrivere una responsabilità anche al cd. “provider”, ossia il prestatore di servizio della società dell’informazione?

Difatti, sebbene questi siano certamente responsabili degli illeciti posti in essere in prima persona, il problema sorge, allorquando, l’illecito venga commesso da soggetti terzi, in quanto l’ordinamento penale italiano non prevede una responsabilità per fatto altrui.

La normativa di riferimento è contenuta nel D. Lgs. del 9 aprile 2003 n. 70, emanato in attuazione della Direttiva europea sul commercio elettronico 2000/31/CE, relativa a taluni aspetti giuridici della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico.

Dalla lettura della normativa in esame, si evince l’assenza di un obbligo generale di sorveglianza ex ante per i providers i quali, ai sensi dell’art. 17 del menzionato decreto, sono sollevati da un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano; né grava sui medesimi un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite.

In tal senso, l’art. 14 della Direttiva non lascia spazio ad alcun dubbio: “Gli Stati membri provvedono affinché, nella prestazione di un servizio della società dell’informazione consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non sia responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore: a) non sia effettivamente al corrente del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illegalità dell’attività o dell’informazione, o b) non appena al corrente di tali fatti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso“.

Ebbene, l’eventuale mancata collaborazione con le autorità potrebbe, infatti, comportare non solo il riconoscimento di una responsabilità civile in capo ai medesimi degli eventuali danni cagionati dalla sussistenza e mancata rimozione dell’illecito ma, altresì, delle conseguenze da un punto di vista del diritto penale.

Sul punto, la più recente giurisprudenza di legittimità, ha affermato che: “risponde a titolo di concorso nel delitto di diffamazione commesso da terzi il gestore di un sito internet che, venuto a conoscenza dell’esistenza di un articolo diffamatorio pubblicato da altri, mantiene consapevolmente tale contenuto sul sito, consentendo che lo stesso eserciti la sua efficacia diffamatoria” (Cass. pen., sez. V, n. 54946/2016). Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista • Avv. Claudia Piroddu, Penalista

Quanto, invece, alla figura del blogger -nonostante la stessa risulti distinta da quella del provider, poiché l’amministratore del blog si limita a mettere a disposizione uno spazio virtuale in cui gli utenti possono interagire con la pubblicazione di commenti- è stata delineata una responsabilità, per certi versi, assimilabile a quella finora esaminata.

Partendo dal presupposto che non vi è una norma che prevede in capo al blogger degli appositi obblighi impeditivi di eventi offensivi riguardanti l’altrui reputazione, tuttavia, il blogger che non si attiva tempestivamente per rimuovere commenti offensivi pubblicati da terzi sul suo blog commette anch’egli il reato di diffamazione.

Infatti, secondo l’indirizzo giurisprudenziale più recente, la predetta condotta è equiparata non già al mancato impedimento dell’evento diffamatorio, bensì ad una vera e propria condivisione consapevole del contenuto lesivo dell’altrui reputazione anche da parte del gestore del blog, che, non provvedendo alla rimozione del post offensivo, ne ha consentito un’ulteriore divulgazione.

In conclusione, l’esigenza di tutelare la vittima per i danni alla propria immagine e reputazione, hanno fatto giungere la quasi totalità degli ordinamenti alla conclusione di attribuire, oltre che al singolo, anche al service provider o al blogger la responsabilità per illeciti derivanti dal materiale immesso e non rimosso o dalle dichiarazioni effettuate dagli internauti in spazi virtuali a questi messi a disposizione e gestiti dai primi.

Eleonora PintusClaudia Piroddu, Avvocati
Un sindacato per gli influencer?

Quella degli influencer è una categoria che negli ultimi anni si sta ritagliando una fetta sempre più consistente nel mercato dei social, della pubblicità e del marketing in generale.

Gli influencer, infatti, hanno la capacità di influenzare in modo rilevante le opinioni ed orientare i comportamenti dei follower grazie alla propria reputazione ed all’impegno che profondono rispetto a certe tematiche di particolare interesse ed attualità.

Questo meccanismo, quindi, è reso possibile (e si alimenta continuamente) grazie ai grandi numeri di follower che seguono e supportano costantemente gli influencer stessi: questi, infatti, riescono a raggiungere migliaia di persone, in alcuni casi anche milioni, e ciò consente loro di diffondere un dato messaggio in maniera rapida e capillare.

Nonostante vi sia ancora qualche resistenza, quello dell’influencer è ritenuto da molti un vero e proprio lavoro attorno al quale, peraltro, gravitano notevoli interessi economici, tant’è che, sempre più spesso, aziende e marchi (anche affermati) si rivolgono a queste figure professionali per avere una maggiore pubblicità e riuscire a consolidare la loro posizione nel mercato.

Difatti, attraverso i post e le stories sui social gli influencer creano contenuti di semplice intrattenimento oppure di caratura professionale e artistica e riescono, così, ad orientare le scelte commerciali dei propri follower.

Per questi motivi, quindi, potrebbe risultare opportuno riconoscere il mestiere dell’influencer come una vera e propria categoria di professionisti, cui ricondurre un trattamento unitario o, quanto più possibile, omogeneo sia in termini di condizioni di lavoro sia in termini strettamente economici. Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista • Avv. Viola Zuddas, Civilista

Infatti, non sono pochi gli influencer che lamentano trattamenti discriminatori da parte delle stesse aziende che li contattano e che imporrebbero loro dei “tariffari” differenti in base, ad esempio, al genere.

Purtroppo, anche in questo settore si registra il triste fenomeno del gender pay gap: nonostante il mercato sia popolato in larga parte da influencer donne (secondo alcuni studi, addirittura l’80%), gli uomini percepirebbero un compenso superiore mediamente del 25% rispetto a quello delle colleghe.

Tale gap è frutto, in parte, della cultura dei nostri tempi (tant’è che, come sappiamo, si riscontra pressoché in ogni settore del lavoro – dal pubblico al privato) e, in parte, è dovuto al fatto che non vi sono dei tariffari legalmente approvati che gli influencer possono applicare per mettersi al riparo dal potere contrattuale più forte di brand o aziende.

Sulla base di queste premesse, dunque, non sarebbe sbagliato che al mestiere dell’influencer venissero riconosciute delle tutele che consentirebbero di svolgere con maggiore sicurezza questa professione.

Questi obiettivi, peraltro, sono il fondamento della Associazione italiana influencer – AI2, formalmente inserita dal Ministero dello Sviluppo Economico nell’elenco delle associazioni professionali di cui alla L. n. 4/2013, ed il cui statuto, tra le altre finalità, si propone di:

  • sostenere e sviluppare l’attività degli influencer sia in Italia che all’estero, favorendone la crescita professionale,
  • promuovere la ricerca e la diffusione / divulgazione delle conoscenze in materia, nonché le relative attività di formazione,
  • sviluppare soluzioni condivise ai problemi che ineriscono allo svolgimento dell’attività degli influencer, anche mediante la promozione di contratti collettivi nazionali, nonché l’elaborazione di standard e/o linee guida inerenti le best practices.

Ebbene, uno degli strumenti che potrebbe essere validamente impiegato per il raggiungimento di tali obiettivi è rappresentato dal sindacato, richiesto a gran voce da diversi influencer.

Il sindacato, come noto, è una forma di associazione di lavoratori, appartenenti ad uno specifico settore o mestiere, che si occupa di tutelare i diritti di quella data categoria, attraverso la regolamentazione delle condizioni di lavoro e la previsione, ad esempio, di compensi minimi uguali per tutti. Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista • Avv. Viola Zuddas, Civilista

Pertanto, la presenza di un sindacato – già prevista peraltro in altri Paesi, come l’America – potrebbe mettere al riparo gli influencer, soprattutto i cosiddetti “micro influencer” – cioè quelli che hanno meno di 100.000 follower, in sostanza-, non solo da comportamenti discriminatori ma, soprattutto, dalle truffe e dalle frodi delle aziende.

Sul punto, deve ricordarsi che spesso i “micro influencer” sono costretti ad acquistare, con denari propri, i prodotti che dovranno poi promuovere nei loro social o, addirittura, sono tenuti a garantire la pubblicazione di un numero di post o stories spropositato rispetto agli “omaggi” che ricevono.

Questa situazione, invero, è spesso aggravata dal fatto che le aziende hanno del personale qualificato che viene impiegato stabilmente nella cura degli affari legati alla contrattazione con gli influencer, mentre questi ultimi – che, peraltro, nella maggior parte dei casi sono di giovanissima età – non hanno sempre le competenze e le capacità per negoziare.

Non vi è dubbio, quindi, che spesso può registrarsi una vera e propria disparità e sproporzione tra le due posizioni che, dunque, potrebbe trovare un nuovo equilibrio con l’ingresso di un sindacato che, affiancando la parte più “debole” – cioè gli influencer -, potrebbe apportare maggiore equità nella contrattazione.

Nel contesto attuale, dunque, approntare un sistema di maggiori tutele in generale ed introdurre, in particolare, una figura di riferimento come il sindacato potrebbe agevolare il dialogo tra le parti e restituire un maggiore equilibrio alla contrattazione del mercato.

Francesco SannaViola Zuddas, Avvocati

Padel e tennis a Cagliari: dietro le quinte

Durante l’anno passato, nonostante la crisi sanitaria globale che ancora sta colpendo tantissimi ambiti produttivi, la città di Cagliari ha avuto la fortuna di ospitare alcuni eventi sportivi di rilievo internazionale, organizzati all’aperto o senza la presenza di pubblico a causa del picco di contagi invernale e dell’irrigidimento delle normative nazionali.

Nel mese di marzo, sullo sfondo del circolo di tennis di Monte Urpinu, si è svolto l’incontro di Coppa Davis tra Italia e Corea del Nord, purtroppo a porte chiuse e quindi senza il pubblico preventivato (3000 posti) in seguito alle restrizioni dovute al contenimento del contagio da Covid-19.
A settembre, sempre il TC Cagliari ha aperto le sue porte al World Padel Tour, evento internazionale dello sport più in voga degli ultimi anni; anche se con un pubblico limitato, si è potuto garantire ai giocatori il supporto dei tifosi, offrendo uno spettacolo del tutto nuovo e dando visibilità alla nostra splendida città che ha potuto godere delle dirette televisive di Sky e mostrare il suo volto anche grazie alla installazione di un campo temporaneo nella suggestiva location del Bastione di Saint Remy.

Il padel è tornato a Cagliari anche nel mese di dicembre, per le Cupra Fip Finals, che si sono disputate sempre al TC Cagliari e al Palapirastu di via Rockfeller, questa volta senza pubblico.
Anche nel 2021, ad aprile, la nostra città ha avuto l’onore di ospitare ancora una volta il grande tennis internazionale, organizzando una tappa del circuito ATP 250 sui campi del Tennis Club Cagliari.

Di norma, quando si sente parlare di eventi come questi, si pensa che l’organizzazione competa esclusivamente a professionisti del marketing o ai settori amministrativi delle società creative e, soprattutto, a chi si occupa della programmazione dal punto di vista della comunicazione e direzione artistica.
In realtà esiste una pianificazione, che avviene dietro le quinte, senza la quale gli eventi aperti al pubblico non potrebbero realizzarsi; è il lavoro che riguarda gli spazi e le strutture scelte per ospitare le manifestazioni che siano esse di natura sportiva, artistica, o congressuale.
È per questo che le società organizzatrici si rivolgono a tecnici del settore per ottenere le autorizzazioni necessarie allo svolgimento degli spettacoli in programma.

L’organizzazione di eventi e manifestazioni sportivi aperti al pubblico è regolamentata dalla legge italiana di pubblica sicurezza, R.D. 18 giugno 1931, n. 773, denominata TULPS ovvero Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza. Con il regio decreto 6 maggio 1940, n. 635 è emanato il relativo regolamento di esecuzione (Regolamento di esecuzione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza). Elena Falqui, Ingegnere

La legge è tuttora in vigore e rimane il primo riferimento normativo per chi intende organizzare un evento pubblico.
Sinteticamente, il decreto impone la verifica dei luoghi dedicati agli eventi pubblici da parte di una commissione di vigilanza (CVLPS), comunale o provinciale in funzione del numero di spettatori. La commissione è composta da professionisti di diversi settori, ognuno dei quali si esprime per l’area di propria competenza (ad es. rappresentanti degli uffici dei Vigili del Fuoco, ASL, Questura, Genio civile, etc). Al di sotto dei 200 spettatori non viene convocata la commissione ma è sufficiente la certificazione di un tecnico abilitato.

Tutte le grandi manifestazioni che si sono svolte a Cagliari hanno quindi avuto necessità di un supporto tecnico, sia per la presentazione delle domande autorizzative che per la parte progettistica e la FIT mi ha affidato questo incarico, in virtù delle mie precedenti esperienze con la finale di FEDERATION CUP del 2013 -che si è svolta sempre a Cagliari- e ai vari anni di collaborazione con l’Architetto progettista degli allestimenti per gli Internazionali BNL d’Italia, al Foro Italico di Roma.

Nel dettaglio, la procedura per richiedere l’autorizzazione per una manifestazione sportiva prevede un primo passaggio all’ufficio comunale preposto al rilascio della determina, (ad esempio al Comune di Cagliari l’ufficio dedicato è quello della Pubblica istruzione, politiche giovanili e sport, al Comune di Roma il Dipartimento Sport e Politiche Giovanili). Il dirigente dell’Ente locale attiva l’”Avvio del procedimento” e, in base alla richiesta del proponente ed al numero di spettatori previsto, convoca la Commissione di Vigilanza.

Il tecnico incaricato dall’organizzazione provvede quindi ad inoltrare all’amministrazione tutti i documenti necessari per il controllo degli spazi dedicati al pubblico, fondamentali per l’ottenimento dell’autorizzazione dal punto di vista strutturale. Verranno quindi prodotti allegati grafici come piante, planimetrie dei sistemi di sicurezza con indicazioni delle vie d’esodo, relazioni strutturali e descrittive per tutte le aree pubbliche.
Molto importante è anche la documentazione relativa alla Circolare 7 giugno 2017 (Circolare Gabrielli) che rende obbligatoria la stesura di un piano Safety&Security per le manifestazioni pubbliche.
Contemporaneamente, il promotore produce adeguata documentazione per quanto riguarda gli aspetti amministrativi, contributivi e quelli strettamente legati alla natura dell’evento (ad esempio autorizzazioni delle Federazioni sportive e del CONI in ambito di eventi sportivi).

Una volta ricevuta tutta la documentazione richiesta, la CVLPS si riunisce per esaminare i progetti e i documenti prodotti e successivamente effettua un sopralluogo per riscontrare la conformità di quanto dichiarato.

A questo punto, se gli spazi, gli impianti e le strutture sono ritenuti adeguati e rispondenti alle prescrizioni normative, la Commissione rilascia il suo nulla osta per lo svolgimento della manifestazione tramite un parere positivo e l’amministrazione comunale può inviare l’autorizzazione generale per l’evento. Elena Falqui, Ingegnere

Il cantiere più impegnativo a cui mi sono dedicata, per la grande dimensione del progetto, è stato certamente quello riguardante l’allestimento delle grandi tribune temporanee previste per la Coppa Davis 2020 (2000 posti aggiunti a quelli preesistenti). Tale progetto mi ha coinvolta nella progettazione, nella direzione dei lavori e nel coordinamento della sicurezza; l’esperienza maturata in questa occasione mi ha permesso di gestire con maggiore padronanza i progetti successivi.

Considero un privilegio aver avuto l’opportunità di cimentarmi in queste esperienze professionali e sono grata per la fiducia che la mia Federazione ha riposto in me, consentendomi di affinare le mie competenze e di capire davvero quanto sia gratificante poter lavorare in un’organizzazione di questo livello.
Ma soprattutto, grazie al prezioso supporto e aiuto di colleghi esperti, ho avuto modo di comprendere pienamente quanto la categoria professionale a cui appartengo sia fondamentale nella realizzazione di eventi di così ampio respiro.

Elena Falqui, Ingegnere

Mi sono laureata nel 2007 in Tecnologie per La Conservazione e il Restauro dei Beni Culturali e nel 2010 in Ingegneria Edile, col massimo dei voti presso la facoltà di Ingegneria e Architettura di Cagliari; ho conseguito il Master di II livello in Progettazione di impianti sportivi presso la Sapienza a Roma nel 2011.
Ho svolto inizialmente l’attività di libero professionista presso uno studio privato e contemporaneamente presso lo studio di Ingegneria e Architettura di famiglia.
Nel 2012 ho intrapreso la mia prima esperienza a Roma, affiancando l’architetto incaricato, dal CONI e dalla FIT, della progettazione degli spazi del Foro Italico a Roma in occasione degli Internazionali BNL d’Italia. Nello stesso anno sono stata assunta dalla FIT, ho proseguito l’affiancamento col progettista degli IBI; ho svolto anche il ruolo di referente FIT per gli impianti sportivi di tennis in tutta Italia e ho fatto parte per alcuni anni della Commissione Impianti Sportivi; ho anche partecipato al gruppo di controllo sul “Fondo Rotativo FIT”, verificando, dal punto di vista tecnico, le richieste di finanziamenti dei circoli affiliati.
Dal 2019 sono diventata un collaboratore esterno della Federazione Italiana Tennis e tuttora proseguo il mio percorso nel mondo dello Sport.
Mi occupo principalmente della progettazione degli spazi, della direzione dei lavori, della sicurezza sia in fase di progettazione che esecuzione nei cantieri, della stesura di Piani Safety&Security e sono il referente nei rapporti con l’amministrazione locale durante la programmazione di manifestazioni sportive.

Focus di diritto tributario Avv. Francesco Sanna

Breve analisi delle agevolazioni fiscali riferite alle ASD e SSD
Premesso che la legge di riferimento sulle agevolazioni fiscali per le ASD e SSD, senza scopo di lucro, è la n. 398 del 16 dicembre 1991, con la circolare dell’Agenzia delle Entrate, n.18/E dell’1 agosto 2018, si deve evidenziare come Governo e CONI abbiano fatto chiarezza su tale materia.

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

Manifestazioni sportive: la responsabilità penale dell’organizzatore

Come abbiamo visto nell’articolo FOCUS dell’Ing. Elena Falqui, l’organizzazione di eventi e manifestazioni sportive aperte al pubblico presuppone il rilascio di un’apposita autorizzazione amministrativa, finalizzata a verificare che spazi, impianti e strutture siano conformi alle prescrizioni dettate dalla normativa di settore.

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Focus di diritto civile • Avv. Viola Zuddas

Le misure di contenimento del rischio nelle manifestazioni: cenni
Quando si organizzano delle manifestazioni sportive è di primaria importanza adottare tutte quelle cautele che consentano di salvaguardare l’incolumità e la sicurezza delle persone che vi prendono parte, sia in qualità di atleti che come pubblico.

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Focus di diritto internazionale • Avv. Eleonora Pintus

La Carta Internazionale per l’Educazione Fisica, l’Attività Fisica e lo Sport: interventi legislativi per la diffusione del patrimonio dell’UNESCO
“La pratica dell’educazione fisica, dell’attività fisica e dello sport è un diritto fondamentale per tutti.”
Si apre così la Carta Internazionale per l’Educazione Fisica, l’Attività Fisica e lo Sport, adottata durante la Conferenza Generale dell’UNESCO nel 1978, oggi riconosciuta come documento di riferimento che orienta il processo decisionale in campo sportivo.

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Quando il debitore risulta essere inadempiente, il creditore deve costituirlo formalmente in mora mediante diffida per iscritto con cui intima l’adempimento dell’obbligazione dovuta (ad esempio, il pagamento di una certa somma di denaro), e con l’avvertimento che, in mancanza, si procederà con l’azione legale per la tutela dei propri interessi.

Qualora l’intimazione non sortisca alcun effetto, il creditore ha la possibilità di adire l’autorità giudiziaria per ottenere il soddisfacimento delle proprie pretese, impiegando – qualora vi siano i presupposti – uno strumento che gli consenta di tutelarsi in tempi brevi ed a costi contenuti.

Tale strumento è rappresentato dal decreto ingiuntivo.

Si tratta, nel dettaglio, di un provvedimento che viene emanato dal giudice a seguito di uno specifico procedimento instaurato da parte del creditore, ovvero il procedimento di ingiunzione, e che gli permette di ottenere, in pochi mesi, una pronuncia di condanna del debitore.

Quest’ultimo, quindi, è tenuto ad adempiere nel termine previsto dal decreto ingiuntivo poiché, in caso contrario, potrà andare incontro ad un procedimento esecutivo e subire, eventualmente, il pignoramento dei propri beni.

Il decreto ingiuntivo, dunque, è uno strumento rapido, efficace e poco costoso attraverso il quale, in presenza di certi requisiti previsti dalla legge, il creditore può ottenere tutela dei propri diritti.Avv. Viola Zuddas, Civilista

Tuttavia, si può fare ricorso a tale istituto soltanto nei casi espressamente disciplinati dal codice di procedura civile stante la peculiarità del rito.

Infatti, a norma degli artt. 633 – 656 c.p.c., il procedimento per ingiunzione può essere promosso soltanto su iniziativa di chi sia creditore di una somma liquida di denaro o di una determinata quantità di cose fungibili, e da chi abbia diritto alla consegna di una cosa mobile determinata.

Ebbene, per ottenere la pronuncia di ingiunzione di pagamento o di consegna:

  • il creditore deve dare prova scritta del diritto (ad esempio, con cambiali),
  • il credito deve riguardare onorari per prestazioni giudiziali o stragiudiziali, o il rimborso delle spese dell’avvocato,
  • il credito deve riguardare onorari, diritti o rimborsi spettanti a notaio o altri professionisti, con tariffario legalmente approvato,
  • se, invece, il diritto dipende da controprestazione o condizione, il creditore deve provare l’adempimento della sua prestazione o l’avveramento della condizione.

Questa fase del procedimento di ingiunzione ha carattere sommario, in quanto il debitore non partecipa al giudizio e non ha la possibilità di contestare le pretese del creditore.

Il giudice, se ritiene fondata la domanda proposta dal ricorrente, emana il decreto ingiuntivo con cui ingiunge al debitore il pagamento della somma dovuta, la consegna di cose determinate o, infine, il rilascio di un dato bene immobile.

Il creditore, poi, deve notificare il ricorso per ingiunzione ed il decreto ingiuntivo al debitore: è da questo momento, dunque, che quest’ultimo ha conoscenza del procedimento.

Il debitore può decidere di pagare la somma dovuta, consegnare la cosa determinata o rilasciare un dato bene immobile, seguendo le modalità previste e nel rispetto dei tempi indicati nel decreto ingiuntivo, oppure può proporre opposizione avverso il decreto.Avv. Viola Zuddas, Civilista

In questa seconda ipotesi, viene instaurato un giudizio a cognizione ordinaria che mira all’accertamento e alla verifica del diritto reclamato dal presunto creditore e delle opposte ragioni del debitore.

Tale procedimento si caratterizza per la presenza di entrambe le parti, le quali hanno gli strumenti per dimostrare la fondatezza delle proprie pretese.

All’esito del giudizio viene emanata una sentenza che può essere:

  • di rigetto, se la domanda proposta dal debitore non sia fondata e, quindi, il decreto ingiuntivo acquista efficacia esecutiva,
  • oppure di accoglimento, se la domanda proposta dal debitore sia fondata e, quindi, il giudice revoca il decreto ingiuntivo o ne dichiara la nullità.

In definitiva, il decreto ingiuntivo consente al creditore di ottenere, qualora vi siano i presupposti previsti dalla legge, rapida tutela dei propri diritti a fronte di costi piuttosto contenuti: per tali motivi, esso rappresenta uno degli strumenti più utilizzati dai creditori per soddisfare le proprie ragioni.

Viola Zuddas, Avvocato

Con la recente conversione del D.L del 21 ottobre 2020, n. 130 nella L. 18 dicembre 2020, n. 173, è stato portato avanti l’iter di modifica dei Decreti Sicurezza (meglio noti come “Decreti Salvini”), spesso contestati perché contrastanti con i principi costituzionali e gli obblighi derivanti dalla normativa sovranazionale, nonché a causa delle notevoli difficoltà applicative e di coordinamento con la normativa in materia di diritto dell’immigrazione.

Le novità introdotte dalla legge in esame, a completamento delle sostanziali modifiche già apportate dal D.L. n. 130/2020, se da un lato sono dirette a garantire una tutela rafforzata in favore dei migranti, nel rispetto degli obblighi internazionali, dall’altro non rallentano i procedimenti di espulsione dei soggetti irregolari.

In questo contributo, ci soffermeremo, principalmente, su due dei numerosi interventi posti a completamento della nuova disciplina e tra loro certamente connessi: le modifiche in materia di diritto dell’immigrazione a tutela dei soggetti vulnerabili e i profili di interesse penalistico in materia di immigrazione.

Divieti di espulsione e di respingimento: disposizioni a tutela delle categorie vulnerabili

Con riguardo alle disposizioni in materia di categorie vulnerabili disciplinate all’articolo 19, comma 1 del Testo Unico dell’Immigrazione, la legge di conversione individua ulteriori e nuove ipotesi di divieto di espulsione.

In particolare, è fatto divieto di espulsione o respingimento dello straniero che, nello Stato di destinazione, rischi di essere perseguitato, oltre che per motivi di razza, sesso, lingua e religione – in ossequio ai principi sanciti dalla Convenzione di Ginevra del 1951 – anche a causa del proprio orientamento sessuale o della propria identità di genere (art. 1 co. 1 lett. e, n. 01).

Il riconoscimento del divieto di espulsione verso un Paese nel quale lo straniero possa subire persecuzioni in ragione del proprio orientamento sessuale, già fatto proprio dalla Giurisprudenza di legittimità e Costituzionale, rappresenta un enorme passo avanti nel processo di omologazione della normativa interna alla normativa europea ed internazionale.

Ancora, tra le novità che meritano di essere segnalate, occorre rilevare che il legislatore ha escluso che possa procedersi al respingimento o espulsione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che l’allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare dello straniero medesimo.

Detta disposizione sembrerebbe dunque diretta a salvaguardare la dimensione personale del migrante, allorquando l’ordine di espulsione o allontanamento possa comportare lo sradicamento dell’individuo dalla propria dimensione familiare e sociale.

A tal riguardo, ai fini di ogni più opportuna valutazione del rischio di violazione, la normativa in esame dispone espressamente che dovrà tenersi conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del soggiorno nel territorio nazionale, oltre che dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine.

Ciò detto, si evidenzia, altresì, che il legislatore non ha mancato di prestare attenzione alle condizioni di salute del migrante: difatti, tra le nuove ipotesi di divieto di espulsione è stata altresì annoverata quella in cui lo straniero versi in gravi condizioni psico-fisiche o sia affetto da gravi patologie.

Detta condizione, peraltro, costituisce il presupposto per il rilascio di un permesso di soggiorno per cure mediche, valido per il tempo attestato dalla certificazione sanitaria, rinnovabile per tutto il periodo in cui persistono le condizioni di salute predette ed ora anche convertibile in permesso di soggiorno per motivi di lavoro.

Tanto detto, occorre evidenziare che, ferma l’esigenza di garantire una tutela multilivello, con la Legge n. 173/2020, il legislatore ha contestualmente inserito nuove ipotesi di espulsione: lo straniero, infatti, oltre che nei casi di sicurezza nazionale ed ordine pubblico, potrà essere altresì allontanato qualora tale provvedimento risponda ad esigenze di protezione della salute nel rispetto della Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati, e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Profili di interesse penalistico in tema di immigrazione

Dal provvedimento in esame, come già in parte evidenziato, risulta del tutto evidente la volontà del legislatore di non rallentare né limitare i procedimenti espulsivi del migrante.
Difatti, se da un lato questi regolamenta favorevolmente i meccanismi dell’accoglienza e dell’integrazione, dall’altro disciplina con maggior rigore i profili di interesse penalistico in tema di immigrazione.

In particolare, tra questi, il decreto – come confermato dalla legge di conversione – dedica particolare attenzione ai delitti commessi all’interno dei centri di permanenza per i rimpatri (CPR).
Al riguardo, l’articolo 6 ha aggiunto il comma 7 bis all’art. 14 del Testo Unico dell’immigrazione, prevedendo una più rapida disciplina processuale per i delitti commessi con violenza alle persone o alle cose in occasione o a causa del trattenimento in un centro di permanenza per i rimpatri o durante la permanenza nelle strutture di primo soccorso e accoglienza.

In tutti questi casi, quando non è possibile procedere immediatamente all’arresto per ragioni di sicurezza o incolumità pubblica, il legislatore ha previsto che si potrà addirittura dar luogo all’arresto di colui che risulti essere l’autore, individuato anche sulla base di mera documentazione video-fotografica, entro le 48 ore successive ai fatti (cd. flagranza differita), con conseguente giudizio direttissimo; salvo che siano necessarie più approfondite indagini.

In conclusione, sebbene le disposizioni introdotte in sede di conversione con la L. n. 173/2020 mirino a riequilibrare il sistema alla luce dei principi costituzionali e internazionali, è forse ardito parlare di novità giacché i passi da compiere per eliminare gli effetti distorsivi introdotti dai precedenti decreti appaiono ancora numerosi.

Con la recente conversione del D.L del 21 ottobre 2020, n. 130 nella L. 18 dicembre 2020, n. 173, è stato portato avanti l’iter di modifica dei Decreti Sicurezza (meglio noti come “Decreti Salvini”), spesso contestati perché contrastanti con i principi costituzionali e gli obblighi derivanti dalla normativa sovranazionale, nonché a causa delle notevoli difficoltà applicative e di coordinamento con la normativa in materia di diritto dell’immigrazione.Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista

Eleonora Pintus, Avvocato

Con il presente articolo e con quelli che seguiranno nelle prossime settimane e mesi si tenterà di offrire, seppur in sintesi e senza alcuna presunzione di esaustività, un quadro d’insieme in materia di responsabilità medica: il tutto alla luce delle annose problematiche, sia di diritto sostanziale che processuale, e di quelle nuove nate a seguito dell’emergenza pandemica da SARS-CoV-2 in atto.

Fatta questa doverosa premessa di carattere organizzativo-metodologico, ora si cercherà di approcciare l’istituto in esame partendo dalla sua definizione.

In generale si definisce responsabilità medica quella responsabilità professionale sussistente in capo a colui il quale nell’esercizio dell’attività sanitaria arreca danni ad un paziente causati da errori, omissioni o violazioni degli obblighi inerenti lo svolgimento dell’attività medesima.Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

La base normativa di riferimento è la seguente.

Il codice civile regola all’articolo 2229 e seguenti c.c. i caratteri fondamentali della responsabilità civile del professionista intellettuale, prestando specifica attenzione alla particolarità principe di tali professioni: cioè la diligenza impiegata, nonché quella che sia plausibile attendersi dal soggetto che svolge la propria attività lavorativa in piena autonomia, con ampi poteri discrezionali e in virtù delle specifiche competenze acquisite a seguito di un lungo periodo di formazione teorico-pratica.

L’importanza di tale materia, unita alle sue peculiarità e difficoltà interpretative, hanno determinato il Legislatore ad approntare appositi interventi legislativi atti a regolamentare in maniera puntuale e specifica l’istituto in parola; a cominciare dal D.L. del 13 settembre 2012, n. 158, convertito con modificazioni nella L. dell’8 novembre 2012, n. 189 (la cosiddetta legge Balduzzi) fino alla recentissima L. dell’8 marzo 2017, n. 24 (cosiddetta legge Gelli-Bianco).

Richiamata la normativa generale e speciale dell’istituto de quo, dal punto di vista giuridico-sostanziale si può parlare di responsabilità medica quando sussiste un nesso causale tra la lesione alla salute psicofisica del paziente e la condotta commissiva/omissiva dell’operatore sanitario in concorso o meno con le inefficienze e/o carenze della struttura sanitaria in cui il trattamento sanitario è stato eseguito o che sarebbe dovuto essere eseguito.

Alla luce di quanto appena affermato emerge la centralità del rapporto tra il diritto alla salute, di cui all’articolo 32 Cost. ‹‹La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.›› ed il diritto-dovere del sanitario a svolgere la propria attività professionale secondo scienza e coscienza, sia autonomamente che in equipe, avendo quale fine ultimo la guarigione del malato o la prevenzione dell’insorgenza di patologie.

Pertanto, il concetto di responsabilità medica si riferisce ad una o più prestazioni, eseguite su un determinato soggetto, che sono il risultato di un insieme di azioni, commissive od omissive, svolte da un sistema composito di autori (persone fisiche: medici, infermieri, assistenti sanitari, ecc., e giuridiche: ospedale, clinica privata, casa di cura per anziani, ecc.).

Da queste semplici osservazioni è evidente come la casistica degli interventi sanitari sia estesa e, soprattutto, sia il risultato di tutte quelle esperienze e metodologie che si sono dimostrate “sul campo” idonee alla prevenzione e/o alla cura quotidiana dei pazienti.

Tuttavia, nei casi in cui gli effetti sperati non siano quelli auspicati è possibile che al personale medico-sanitario possano essere mosse delle critiche sulle scelte intraprese ed imputati errori diagnostici, terapeutici, o da omessa vigilanza, ecc., tali da aver determinato l’aggravamento del quadro clinico del paziente o, nella peggiore delle ipotesi, il suo decesso; con conseguente rischio di incorrere in azioni penali e/o civili in proprio danno, volte a provare la sussistenza della responsabilità di quanto accaduto.

Da ciò deriva la grande rilevanza, nonché la diversa considerazione rispetto al passato, dell’importanza della volontà e autonomia del paziente, non più in balìa delle decisioni del professionista ma soggetto attivo nelle scelte riguardanti la sua salute.Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

In particolare, in materia di consenso informato e di diritto alle cure si richiamano le disposizioni di cui alla Legge 22 dicembre 2017, n. 219 e alla Convenzione di Oviedo del 4 aprile 1997, in virtù delle quali in sostanza viene affermato che:

  • Il Consenso Informato medico è il processo con cui il Paziente decide in modo libero e autonomo dopo che gli sono state presentate una serie specifica di informazioni, rese a lui comprensibili da parte del medico o equipe medica, se iniziare o proseguire il trattamento sanitario previsto; (L. 22 dicembre 1997, n. 219);
  • “Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato. Questa persona riceve innanzitutto una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi. La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso”. (art. 5 Convenzione di Oviedo del 1997)

Tirando le fila del discorso si può affermare che l’operato del sanitario sarà legittimo non solo se svolto nel rispetto delle leges artis, ma anche se preceduto dallo scrupoloso assolvimento degli obblighi informativi in materia di consenso informato. In difetto, anche di uno solo di tali adempimenti, potrà derivare la responsabilità medico-sanitaria del professionista.

Francesco Sanna, Avvocato

Il patrocinio a spese dello Stato, disciplinato nell’art. 79 e segg. del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, è un istituto che garantisce l’assistenza legale gratuita alle persone che intendono promuovere un giudizio o tutelare i propri diritti dinnanzi all’Autorità Giudiziaria, nell’ipotesi in cui non abbiano percepito un reddito annuo superiore a una determinata soglia prevista per Legge.

L’art. 24 della Costituzione italiana prevede, infatti, che la difesa è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento e, pertanto, viene garantita anche ai soggetti economicamente deboli, tanto ciò è vero che “sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione“.

In parole semplici: nel caso in cui ricorrano i presupposti soggettivi e oggettivi per l’ammissione al beneficio, il compenso del difensore nominato dall’interessato sarà a carico dello Stato e non del cliente.

Ora vediamo insieme quali sono i requisiti previsti dalla Legge.

L’Ordinamento italiano prevede che possano beneficiare dell’istituto in esame sia gli stranieri, purché si trovino regolarmente sul territorio italiano, sia i cittadini italiani che risiedono nel territorio dello Stato o che vi risiedevano nel momento in cui è sorta la fattispecie per la quale si rende necessario l’intervento dell’avvocato, nonché gli enti senza scopo di lucro e le associazioni.

Restano, comunque, esclusi dal beneficio i soggetti già condannati con sentenza definitiva per taluni reati in materia di associazione di tipo mafioso, nonché di produzione, traffico e detenzione di sostanze stupefacenti ed, altresì, per reati commessi in violazione delle norme per la repressione dell’evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto.

Inoltre, occorre precisare che è possibile usufruire del beneficio per tutte le attività aventi ad oggetto la difesa nel giudizio civile, penale, amministrativo, contabile o tributario, ma resta esclusa l’attività stragiudiziale che non sia direttamente collegata al giudizio, il cui relativo compenso è posto, pertanto, a carico del cliente.

In particolare, in ambito penale, l’art. 98 c.p.p. prevede che l’imputato, la persona offesa dal reato, il danneggiato che intende costituirsi parte civile e il responsabile civile possano chiedere di essere ammessi al patrocinio per i non abbienti, in ogni stato e grado del procedimento.

Tuttavia, l’ammissione al beneficio è esclusa nel caso in cui il richiedente risulti assistito da più di un difensore o, comunque, ne vengono meno gli effetti qualora l’interessato, successivamente all’ammissione, nomini un secondo difensore.

I limiti di reddito per accedere al gratuito patrocinio

Con il Decreto del Ministero della Giustizia del 23 luglio 2020, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 30 gennaio 2021, l’importo reddituale che consente l’ammissione al beneficio è stato aggiornato a euro 11.746,68, frutto dell’adeguamento biennale delle soglie di reddito in relazione alle variazioni del costo della vita stabilito dall’Istat.

Alla luce della recente modifica, quindi, per poter accedere al beneficio in parola è necessario che il reddito risultante dall’ultima dichiarazione non superi la somma poc’anzi indicata.

È bene chiarire che, nel calcolo dell’importo utile ai fini dell’accesso al patrocinio a spese dello Stato, assume rilevanza la complessiva capacità economica del richiedente e, di conseguenza, dell’intero nucleo familiare risultante dallo stato di famiglia.

A tale riguardo, occorre considerare non soltanto il reddito percepito dal richiedente, ma, altresì, quello percepito dai familiari conviventi che andrà, dunque, a sommarsi con il reddito del richiedente.

Ai fini della determinazione del reddito per l’ammissione al patrocinio a spese dello stato, si tiene conto di tutti i redditi anche se non sottoposti a tassazione e, pertanto, anche dell’eventuale importo ricevuto a titolo di reddito di cittadinanza, della pensione di invalidità e dell’indennità di accompagnamento (ad eccezione di quella percepita a favore degli invalidi totali), nonché dell’assegno di separazione o di divorzio in favore del coniuge (escluso quello percepito in favore dei figli). Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Vi sono, tuttavia, dei casi particolari previsti per legge in cui, nel computo del parametro reddituale, ha rilevanza soltanto il reddito del richiedente e ciò si verifica, ad esempio, nei giudizi aventi ad oggetto diritti personalissimi o nel caso di diritti in conflitto con quelli degli altri membri della famiglia.

In materia penale, inoltre, è previsto che, qualora il richiedente conviva con il coniuge o altri familiari, il limite di reddito sia aumentato di euro 1.032,91 per ciascun familiare convivente.

In ogni caso, per le vittime di alcuni reati (ad esempio, per i reati di violenza sessuale, maltrattamenti in famiglia, atti persecutori, prostituzione e pornografia minorile), nonché per il minore straniero non accompagnato ed, altresì, per i figli rimasti orfani di un genitore a seguito di omicidio commesso dal coniuge in danno dello stesso genitore, i limiti di reddito finora esaminati non si applicano, cosicché, qualora venga fatta apposita richiesta, è possibile accedere al beneficio qualunque sia il reddito percepito dall’interessato.

In ambito penale, per l’ammissione al beneficio è necessario depositare presso la cancelleria del Giudice, dinnanzi al quale pende il procedimento, un’apposita istanza, sottoscritta anche dal difensore -nominato d’ufficio o di fiducia- alla quale dovrà essere allegata la copia del documento di identità e del codice fiscale del richiedente e dei familiari conviventi, lo stato di famiglia e residenza, nonché la dichiarazione dei redditi percepiti nell’anno precedente o comunque l’ultima dichiarazione disponibile e in corso di validità.

Il giudice si pronuncerà nel termine di dieci giorni successivi alla presentazione dell’istanza.

È doveroso sottolineare che il richiedente è tenuto a dichiarare il vero, giacché in caso di dichiarazioni false o di omissioni, qualora risulti provata la mancanza originaria delle condizioni reddituali, si configura la fattispecie delittuosa di cui all’art. 95 T.U. spese di giustizia, che punisce il trasgressore con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da euro 309,87 a euro 1.549, 37, aumentata se dal fatto consegue l’ottenimento del beneficio. Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Deve aggiungersi, che la condanna per il predetto reato comporta, inoltre, la revoca del patrocinio a spese dello stato con efficacia retroattiva e il recupero a carico del responsabile delle somme corrisposte.

Ad ogni buon conto, secondo la giurisprudenza più recente, il reato sussisterebbe anche quando la falsità o l’omissione riguarda redditi che in concreto rientrerebbero nei limiti massimi stabiliti per ottenere l’ammissione al beneficio del gratuito patrocinio.

In questo caso, tuttavia, occorre verificare con particolare attenzione se la dichiarazione mendace sia il frutto di una condotta dolosa, ossia consapevole e volontaria, oppure se sia piuttosto il risultato di un mero errore o disattenzione nell’indicazione dei redditi o nella compilazione dell’istanza.

Solo in quest’ultima ipotesi, pur a fronte di una dichiarazione falsa, è escluso il dolo e, di conseguenza, anche il reato, poiché risulta mancante uno degli elementi costitutivi della fattispecie delittuosa (Cass. pen., sez. IV, sent. del 27 novembre 2019, n. 49572).

Claudia Piroddu, Avvocato

La diffusione del virus COVID-19 ha notoriamente inciso sul nostro stile di vita europeo.

Al fine di tenere sotto controllo la pandemia, gli Stati hanno infatti dovuto adottare una serie di restrizioni senza precedenti che hanno avuto, e continuano ad avere, un costo elevato per i singoli individui e le famiglie, oltre che per le imprese.

Dette restrizioni, non solo hanno comportato una drastica interruzione nel commercio ma hanno altresì sospeso il libero esercizio del diritto alla libera circolazione e altri diritti fondamentali in tutta l’UE.

Ebbene, proprio la possibilità di tornare a circolare e muoversi liberamente all’interno dello spazio europeo (e non solo), rappresenta uno dei principali auspici dei singoli e, al contempo, uno dei principali obiettivi dei Governi.

Ma in questo scenario, chi, tra Stati membri e Unione Europea, può adottare misure di carattere vincolante a livello sanitario, al fine di superare gli ostacoli che la pandemia ha frapposto tra i singoli e l’esercizio dei diritti fondamentali quali, tra gli altri, quello proprio alla libertà di circolazione?

Al riguardo, è importante ricordare che in materia sanitaria la responsabilità primaria per la tutela della salute e, in particolare, per la gestione dei sistemi sanitari rimane in capo agli Stati membri dell’Unione Europea. Ciò significa che, a livello nazionale, i singoli Stati hanno piena competenza decisionale in ambito sanitario.

Tuttavia, sebbene detta materia rientri tra quelle di competenza degli Stati membri, l’art. 4 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) riconosce comunque a quest’ultima un certo margine di intervento, seppur concorrente, nel predetto settore: difatti, nonostante l’Unione non sia chiamata a definire le politiche sanitarie, né l’organizzazione e la fornitura di servizi sanitari e di assistenza medica, la sua azione è fondamentale per integrare le politiche nazionali; e ciò, non solo per tutelare e migliorare la salute e la sanità pubblica in termini di prevenzione e gestione della malattie, o per garantire la parità di accesso a un’assistenza sanitaria moderna ed efficiente per tutti i cittadini europei, ma anche, e soprattutto, al fine di coordinare le gravi minacce sanitarie che coinvolgono più di un paese membro dell’UE.

In tali casi, in conformità al dettato di cui all’articolo 168, par. 5 del TFUE, l’Unione Europea può perfino adottare atti legislativi vincolanti per proteggere e migliorare la salute umana quali “in particolare per lottare contro i grandi flagelli che si propagano oltre frontiera, misure concernenti la sorveglianza, l’allarme e la lotta contro gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero”.

Ebbene, proprio in virtù di tale espresso potere attribuito dai Trattati all’Unione, la Commissione Europea, in data 17 marzo 2021, ha avanzato una proposta legislativa al Parlamento Europeo ed al Consiglio affinché, mediante procedura legislativa ordinaria (che prevede, nel processo di formazione dell’atto legislativo, un intervento paritario del Parlamento e del Consiglio), venga adottato un “Certificato verde digitale” (Digital green certificate), riconosciuto in tutti gli Stati membri dell’UE, che consenta ai cittadini europei di poter tornare a viaggiare già a partire dalla prossima estate.

Il fine è, dunque, quello di agevolare la libera ( e sicura) circolazione dei cittadini nell’UE durante la pandemia da COVID-19 .

Secondo la proposta avanzata dalla Commissione, il certificato sarà disponibile sia in formato digitale che cartaceo e consentirà alle autorità di uno Stato membro di effettuare un controllo rapido e semplice del certificato rilasciato in un altro Stato membro.

Sul documento, che sarà valido in tutti i paesi europei, dovrà essere riportata una quantità minima di dati necessari quali, ad esempio, la data di vaccinazione e il vaccino somministrato, se il soggetto ha ottenuto un risultato negativo al test, ovvero risulta guarito, oppure se risulta in attesa di sottoporsi a test.

Ma come si ottiene tale certificato? Il ruolo dei governi nazionali

Una volta approvato l’atto legislativo a livello comunitario – che, alla luce della proposta legislativa presentata, dovrebbe avvenire mediante l’adozione di direttive tecniche – gli Stati europei saranno chiamati a dare attuazione alla normativa sui certificati digitali, alla luce del quadro tecnico definito a livello europeo.

Le autorità nazionali, dunque, saranno direttamente responsabili del rilascio del certificato secondo le modalità che riterranno più opportune (come, ad esempio, mediante consegna da parte delle strutture ospedaliere, o direttamente dai centri di test anti-covid, o da parte di altra autorità sanitaria) ma sempre e comunque nel rispetto del quadro tecnico e delle finalità proprie della normativa europea.

Di talché, tutti i cittadini potranno iniziare a viaggiare liberamente e muoversi nello spazio comunitario senza dover soggiacere alle restrizioni attualmente in vigore quali l’obbligo di quarantena o di effettuare un test posto in essere per limitare la diffusione da Covid-19.

In ogni caso, è importante sottolineare che, come precisato dalla stessa Commissione Europea nella proposta legislativa, il possesso di un certificato non rappresenta un presupposto indispensabile per esercitare il diritto alla libera circolazione o altri diritti fondamentali.
Pertanto, anche alle persone prive di tale documento sarà consentito di viaggiare ma, al fine di prevenire l’eventuale diffusione del contagio, esse dovranno sottostare alle restrizioni nazionali del paese di destinazione eventualmente in vigore.

Quali sono le prossime tappe?

Il Parlamento Europeo ed il Consiglio sono chiamati ad accelerare le discussioni e raggiungere un accordo sulle proposte della Commissione relative all’adozione di un certificato verde digitale.

Dopodiché, toccherà agli Stati adottare tutte le misure necessarie per procedere alla distribuzione logistica dei certificati stessi, tanto per il rilascio che per la verifica, oltre che per apportare le modifiche necessarie ai sistemi sanitari nazionali.

Con l’approvazione del Certificato, dunque, i cittadini europei potranno esercitare nuovamente appieno il diritto alla libera circolazione e altri diritti fondamentali in tutta l’UE mediante un approccio coordinato alla libera circolazione.

Il Parlamento Europeo ed il Consiglio sono chiamati ad accelerare le discussioni e raggiungere un accordo sulle proposte della Commissione Europea relative all’adozione di un Certificato verde digitale che consenta ai cittadini degli Stati membri, e non solo, di poter circolare liberamente. Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista

Eleonora Pintus, Avvocato

Il testamento è un negozio giuridico tipico con cui l’autore determina la sorte del proprio patrimonio in pendenza della sua morte, servendosi degli strumenti della istituzione dell’erede e del legato.

Nello specifico, il testamento olografo è lo strumento più diffuso attraverso il quale il testatore può esprimere la propria libera volontà: esso ha natura giuridica ed efficacia probatoria di una scrittura privata e dev’essere scritto per intero, datato e sottoscritto di mano del testatore.

Deve chiarirsi, sin da subito, che le disposizioni contenute nella scheda testamentaria sono sempre revocabili in qualsiasi momento poiché il legislatore intende garantire l’assoluta libertà del testatore nella regolamentazione dei propri interessi dopo la morte.

La revocabilità del testamento è un principio di ordine pubblico che trova la sua espressa tutela nell’art. 679 c.c. che prescrive l’inefficacia di ogni clausola o condizione con la quale si rinunci alla facoltà di revocare o mutare le disposizioni testamentarie. Avv. Viola Zuddas, Civilista

Al riguardo, deve precisarsi che la revoca, talvolta indicata anche come “revocazione”, può essere giuridicamente qualificata come un atto negoziale volto a togliere efficacia alle precedenti disposizioni testamentarie: essa può essere espressa o tacita, a seconda delle modalità con cui avviene.

In particolare, la revocazione è espressa quando il testatore, con un nuovo testamento o con un atto ricevuto da notaio in presenza di due testimoni, dichiara esplicitamente di revocare, in tutto o in parte, la disposizione testamentaria precedente.

È, invece, tacita quando la volontà di revocare la disposizione testamentaria può desumersi da un comportamento specifico del testatore che, ad esempio, redige un nuovo testamento che reca delle disposizioni incompatibili con quelle contenute nel testamento anteriore.

Ciò precisato, deve ulteriormente chiarirsi che il legislatore ha previsto un’ipotesi di revoca legale del testamento nel caso in cui siano sopravvenuti dei figli dopo la redazione della scheda testamentaria.

Difatti, l’art. 687 c.c. prescrive che: “Le disposizioni a titolo universale o particolare, fatte da chi al tempo del testamento non aveva o ignorava di aver figli o discendenti, sono revocate di diritto per l’esistenza o la sopravvenienza di un figlio o discendente del testatore, benché postumo, anche adottivo, ovvero per il riconoscimento di un figlio nato fuori del matrimonio. La revocazione ha luogo anche se il figlio è stato concepito al tempo del testamento. La revocazione non ha invece luogo qualora il testatore abbia provveduto al caso che esistessero o sopravvenissero figli o discendenti da essi. Se i figli o discendenti non vengono alla successione e non si fa luogo a rappresentazione, la disposizione ha il suo effetto.”

Nell’ipotesi contemplata dalla norma, quindi, la revoca opera al verificarsi di un presupposto di carattere oggettivo che può, invero, manifestarsi in un duplice modo: l’ignoranza dell’esistenza di figli al momento della redazione del testamento o la sopravvenienza degli stessi.

Coerentemente con la finalità della disposizione in commento, tra l’altro, devono essere ricompresi nella categoria dei figli, o discendenti, anche coloro che abbiano ottenuto l’accertamento della loro filiazione a seguito di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità.

Sorge, però, un problema quando il testatore, in vita, abbia avuto consapevolezza di avere un figlio non riconosciuto e, nonostante ciò, abbia deciso volontariamente di escluderlo dal testamento.

Sul punto deve darsi conto di un contrasto sorto tra dottrina e giurisprudenza, che si fanno portatrici di due distinti orientamenti.

La dottrina muove da un’interpretazione restrittiva della norma appena richiamata ed afferma che la revoca sia uno strumento riconosciuto per attuare rigorosamente la volontà del testatore: quest’ultima, infatti, dev’essere sempre preservata e, dunque, non potrebbe disporsi la revoca del testamento poiché il testatore, pur essendo consapevole di avere un figlio, ha inteso escluderlo volontariamente dalla propria successione.

Tuttavia, la giurisprudenza più attenta e sensibile individua il fondamento della norma nella oggettiva modificazione della situazione familiare, con conseguente necessità di tutelare gli interessi successori dei figli e dei discendenti del testatore.

Per tale motivo, secondo questo orientamento, il testamento redatto da chi sapeva dell’esistenza di propri figli nati fuori dal matrimonio deve essere revocato anche qualora l’accertamento della filiazione avvenga a seguito della dichiarazione giudiziale di paternità o maternità pronunciata dopo la morte del testatore.

Quest’ultima posizione è stata accolta dalla Corte di Cassazione che, con una recente pronuncia, ha precisato che: “La sopravvenienza di figli, idonea a giustificare la revoca del testamento, ricorre anche quando venga esperita vittoriosamente nei confronti del testatore l’azione di accertamento della filiazione, senza che abbia alcun rilievo che la dichiarazione giudiziale di paternità o la proposizione della relativa azione intervengano dopo la morte del de cuius, né che quest’ultimo, quando era in vita, non abbia voluto testare in loro favore.” (Cass. civ., sent. 21 maggio 2020, n. 13680). Avv. Viola Zuddas, Civilista

Sulla base del principio di diritto espresso dalla Suprema Corte, quindi, deve ritenersi che a nulla rileva che il testatore abbia redatto il testamento nella consapevolezza di avere un figlio e con la precisa volontà di non riconoscerlo né di disporre in suo favore; né, tantomeno, rileva che il riconoscimento dello status di figlio sia avvenuto con una dichiarazione giudiziale emanata dopo la morte del testatore.

Difatti, in tali ipotesi, la finalità della revoca è quella di tutelare la filiazione per preservare gli interessi successori dei figli e ciò anche a discapito della volontà espressa dal testatore quando era ancora in vita.

Viola Zuddas, Avvocato

Con la sentenza n. 10381 del 17 marzo 2021, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono intervenute per fare chiarezza in merito all’applicabilità al convivente more uxorio dell’esimente prevista nell’art. 384 c.p.

La norma appena menzionata, infatti, esclude la punibilità dell’autore di alcuni delitti, nel caso in cui il soggetto abbia commesso il reato spinto dalla necessità di salvare un prossimo congiunto da un grave danno nella libertà o nell’onore.

La vicenda trattata riguardava un’imputata che, al fine di aiutare il conducente di un’autovettura che aveva provocato un incidente stradale, dichiarava falsamente ai Carabinieri di essere stata lei alla guida del mezzo. La falsa dichiarazione era diretta a favorire la posizione del conducente -convivente dell’imputata- che, oltre ad essere privo della patente di guida, in quanto revocata, dopo l’incidente si era allontanato senza prestare assistenza alle persone coinvolte nel sinistro.

Il Tribunale e la Corte di Appello di Cagliari avevano condannato la donna per il delitto di favoreggiamento personale, in quanto la medesima, con le sue dichiarazioni, avrebbe aiutato il conducente dell’autovettura ad eludere le investigazioni dell’autorità giudiziaria, in ordine al reato di cui all’art. 186, comma 6, CdS, che punisce la violazione dell’obbligo di fermarsi in presenza di un incidente stradale con danni alle persone.

In particolare, sia nel corso del giudizio di primo grado che in nel giudizio di Appello, i giudici cagliaritani avevano escluso che nel caso di specie potesse applicarsi l’esimente di cui all’art. 384 c.p., sul presupposto che tra i due soggetti -imputata e conducente dell’auto- vi fosse un mero rapporto convivenza di fatto che, in quanto tale, non rientrerebbe nell’ambito della disposizione richiamata.

Ebbene, la vicenda in esame si inserisce in un fervente dibattito che vede contrapposti due diversi indirizzi giurisprudenziali e, nel contempo, si colloca a pieno titolo all’interno delle problematiche riguardanti l’evoluzione del concetto di “famiglia“.

Il contrasto giurisprudenziale:
due orientamenti a confronto

Il primo e più rigoroso indirizzo giurisprudenziale esclude l’applicabilità dell’art. 384 c.p. ai conviventi, giacché dalla semplice lettura della disposizione normativa si evince che l’esimente in oggetto si applica ai “prossimi congiunti”, che l’art. 307, comma quarto, c.p. identifica in: ascendenti, discendenti, coniuge, parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso, fratelli, sorelle, affini, zii e nipoti.

Agli effetti della Legge penale, dunque, nel novero dei prossimi congiunti non vengono ricompresi i conviventi, con la logica conseguenza che la nozione richiamata, per espressa volontà del Legislatore, venga ricondotta esclusivamente ai membri della famiglia fondata sul matrimonio.

Inoltre, la ragione dell’esclusione deve ravvisarsi anche nella evidente differenza e, pertanto, nella non sovrapponibilità del rapporto di fatto al vincolo coniugale, poiché, a ben vedere, solo il secondo è caratterizzato dalla stabilità e dalla reciprocità dei diritti e dei doveri, laddove il primo è connotato da un legame che può essere sciolto in qualsiasi momento.

Tra l’altro, non può trascurarsi che l’art. 384 c.p. sarebbe una norma eccezionale e, di conseguenza, non potrebbe essere applicata se non nei casi espressamente previsti dalla Legge e ciò in virtù del noto principio penalistico del divieto di analogia.

Infine, occorre aggiungere che con la Legge Cirinnà, che ha disciplinato le unioni civili tra persone dello stesso, nonché le convivenze, è stata ampliata la cerchia di soggetti rientranti nella nozione di “prossimi congiunti“, ove, infatti, attualmente vengono ricomprese anche le persone unite civilmente, ma non i conviventi di fatto.

Ebbene, la predetta esclusione dal dettato normativo non può di certo considerarsi casuale, quanto piuttosto l’espressione della precisa volontà del Legislatore di rimarcare la differenza esistente in tema di convivenza more uxorio rispetto alle altre ipotesi regolamentate.

Il secondo indirizzo giurisprudenziale giunge, invece, a conclusioni opposte.

Si tratta di un orientamento più recente e incentrato su un concetto ampio di “famiglia“, giacché con il superamento del dogma dell’indissolubilità del matrimonio, la stabilità del rapporto non costituisce più una caratteristica imprescindibile per riconoscere tutela alle situazioni giuridiche ad esso connesse.

Sempre in tale prospettiva, occorre aggiungere che anche in ambito europeo è stata introdotta una nozione ampia di “vita familiare” (art. 8 CEDU), nella quale viene riconosciuta tutela anche alla famiglia in senso “sociale”, purché sussistano stretti e comprovati legami affettivi.

Nonostante l’assenza di una Legge che disciplina compiutamente la convivenza cd. di fatto, è importante sottolineare che tale legame e gli effetti giuridici da esso scaturenti non restino affatto privi di tutela, specie sotto il profilo penalistico.

Ad esempio, è orientamento oramai consolidato quello che considera applicabile anche al convivente il diritto di astenersi dal rendere testimonianza nel processo penale, iscritto a carico dell’imputato con esso convivente (art. 199, comma 3, c.p.p.). Non solo, poiché, in tema di valutazione dei requisiti per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, sussiste un’equiparazione totale tra la convivenza coniugale e convivenza more uxorio, così come, ad oggi, è pacificamente ammessa l’applicabilità del reato di maltrattamenti in famiglia di cui all’art. 572 c.p. anche nell’ipotesi non infrequente di famiglia cd. di fatto.

L’intervento delle Sezioni Unite

Per dirimere il contrasto giurisprudenziale poc’anzi riportato, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, partendo tra una concezione ampia di “famiglia“, si sono concentrate, per lo più, sulla natura giuridica della disposizione di cui all’art. 384 c.p., che, per la prima volta, viene classificata come causa di esclusione della colpevolezza.

In tale ipotesi, infatti, l’agente pone in essere un fatto antigiuridico nella consapevolezza di violare la Legge, ma l’Ordinamento si astiene dal punirlo, poiché la sua condotta è stata determinata dalla presenza di un legame affettivo così forte da influire sulla volontà dell’autore del reato, tanto ciò è vero che non è possibile esigere dal soggetto un comportamento diverso da quello perpetrato.

In altri termini, in presenza di particolari circostanze che condizionano la libertà di determinazione dell’autore del fatto –come nel caso del legame affettivo e della spinta a mentire pur di proteggere il proprio convivente-, lo Stato fa venir meno la sua pretesa punitiva.

La qualificazione giuridica in tali termini dell’esimente in oggetto comporta, altresì, il venire meno del carattere dell’eccezionalità della norma che, pertanto, può trovare applicazione anche in via analogica, ossia per tutte quelle fattispecie che, pur non essendo espressamente previste, possiedono tutti i requisiti necessari, quindi, anche nel caso della convivenza di fatto.

“L’art. 384, comma primo, c.p., in quanto causa di esclusione della colpevolezza si applica analogicamente anche a chi ha commesso il reato di favoreggiamento personale, per esservi stato costretto dalla necessità di salvare il convivente cd. di fatto da un grave e inevitabile danno nella libertà e nell’onore”. Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Infatti, a ben vedere, per il soggetto che si trova di fronte all’alternativa tra l’adempimento di un dovere di dire la verità dinnanzi all’autorità giudiziaria e la protezione dei propri affetti, sia che si tratti di persone unite in matrimonio o che si tratti di persone conviventi il dilemma morale è identico. Ebbene, proprio sulla base delle argomentazioni sopra riportate, le Sezioni Unite hanno ribaltato la decisione dei giudizi cagliaritani, riconoscendo a pieno titolo l’applicabilità dell’esimente.

Tuttavia, occorre aggiungere che, affinché l’esimente possa operare e, quindi, escludere la condanna per il reato di favoreggiamento personale, la situazione di convivenza debba essere dimostrata nel corso del giudizio, attraverso l’indicazione di elementi di prova particolarmente rigorosi e certi.

Claudia Piroddu, Avvocato

Per capire cos’è un condono fiscale è bene far riferimento al significato generale del termine condono che nel diritto è definito come quel provvedimento emanato dal Parlamento o dal Governo, mediante decreto, tramite il quale i cittadini che vi aderiscono possono ottenere l’annullamento totale o parziale di una pena o di una sanzione.

Più specificatamente, in campo tributario il condono fiscale (detto anche condono tributario) può essere definito come quel procedimento, messo in atto dallo Stato, che permette ai contribuenti in situazione irregolare con il fisco di regolarizzare la propria posizione. Avv. Francesco Sanna, Tributarista

Questo provvedimento consente ai cittadini di evitare in parte o in toto le sanzioni legate ad alcune irregolarità fiscali e sarà il Legislatore a stabilirne le regole e i limiti per poterne beneficiare.

Difatti, i contribuenti che hanno contratto debiti di natura tributaria hanno la facoltà, presentando una domanda, di sanare la propria situazione e di pagare l’importo dovuto secondo le disposizioni stabilite dalla legge.

Tale istituto, come è intuibile, dovrebbe essere adottato in via straordinaria e con particolare parsimonia. Detto ciò si deve constatare (purtroppo) come l’Italia non abbia usato la necessaria cautela nel far ricorso allo strumento in questione, arrivando all’abnorme numero di oltre 80 dall’unità fino a giorni nostri.

Per rimanere solo ai più recenti vale la pena ricordare i condoni voluti dall’allora ministro Giulio Tremonti che, nel periodo compreso tra l’anno 2002-2003 e 2009-2010, ha concesso agli evasori che avevano depositato soldi all’estero di “sanare” la propria posizione pagando un’aliquota pari al 5% di quanto rimpatriato, oltre alla garanzia dell’anonimato.

Successivamente, nel corso del biennio 2016-2017 una norma nella sostanza analoga a quella di cui al capoverso che precede è stata voluta dall’ex Ministro dell’Economia e delle Finanze, Padoan: la cosiddetta voluntary disclosure.

Come detto in precedenza e soprattutto come sostenuto dagli esperti e studiosi del diritto tributario il condono fiscale è, e deve essere, utilizzato quale strumento straordinario da adottare in caso di riforma dell’intero sistema fiscale e non come strumento di contrasto all’evasione e alle irregolarità fiscali che lo Stato non è riuscito a contrastare con misure adeguate. Tant’è che nonostante il suo impiego “spregiudicato” da parte di innumerevoli Governi – di ogni colore politico – questo non ha certamente sortito l’effetto di diminuire il fenomeno evasivo che imperversa da decenni nel nostro paese e che rappresenta uno dei freni maggiori (se non il maggiore assieme alla criminalità organizzata) per l’economia italiana.

In molti criticano lo strumento in parola perché la cancellazione/riduzione della sanzione in caso di mancato ossequio degli obblighi tributari funge da vero e proprio invito al non rispetto delle regole.

Il nuovo condono del Governo Draghi

Tuttavia, anche il nuovo Governo, presieduto da Mario Draghi, ha varato, durante il Cdm del 19 marzo u.s., l’ennesimo condono fiscale con il declamato obiettivo di “alleggerire il magazzino dell’Agenzia delle Entrate”, così come affermato dal sottosegretario all’Economia, Claudio Durigon.

Con il prossimo condono le cartelle esattoriali fino a cinquemila euro (circa 16 milioni di atti), relative al periodo compreso tra il 2000 e il 2010 e per quei contribuenti con un reddito IRPEF inferiore ai trentamila euro (anno di riferimento 2019), verranno cancellate.

Il limite è dato dal tetto dei cinquemila euro che svuoterebbe di circa il 56% le pendenze in essere dell’Agenzia delle Entrate, riguardando in grandissima parte le multe per violazione del codice della strada, le sanzioni per il mancato pagamento del bollo auto, dell’Imu e della Tari.

Ancora, il Decreto Sostegni ha previsto ulteriori misure in campo fiscale, quali la nuova scadenza delle rate della rottamazione-ter e del saldo e stralcio delle cartelle.

Le scadenze da tenere a mente sono le seguenti:

  • 31 luglio 2021, per quanto riguarda le rate in scadenza il 28 febbraio, il 31 marzo, il 31 maggio, il 31 luglio e il 30 novembre 2020;
  • 30 novembre 2021, per quanto riguarda le rate in scadenza il 28 febbraio, il 31 marzo, il 31 maggio e il 31 luglio 2021.

Alle nuove scadenze si applicherà il termine di tolleranza di cinque giorni.

Si ricorda che la Rottamazione-ter prevede, per chi è in comprovate difficoltà economiche, di estinguere le cartelle degli anni 2000-2017 versando integralmente le somme dovute ma senza pagare le sanzioni e gli interessi di mora.

Il Saldo e stralcio, invece, è un’agevolazione destinata ai contribuenti con Isee familiare inferiore ai ventimila euro: a loro spetterà il pagamento di una percentuale compresa tra il 16% e il 35% di quanto dovuto, scontato di sanzioni e interessi.

Infine, per quanto concerne la proroga delle attività dell’Agenzia delle Entrate il Decreto Sostegni dispone una nuova sospensione fino al 30 aprile 2021 della scadenza per i pagamenti relativi alle cartelle già notificate.

Francesco Sanna, Avvocato

Ormai da mesi sentiamo parlare del cosiddetto “Superbonus 110%” per le ristrutturazioni delle nostre abitazioni: si tratta, nello specifico, di un’agevolazione statale che permette di detrarre tutte le spese affrontate per lavori di efficientamento energetico con un’aliquota del 110%.

Pertanto, non vi è dubbio che rappresenta per tutte le figure coinvolte nel processo edilizio (dal committente ai progettisti, dagli impresari agli istituti di credito) un’ottima opportunità per eseguire, a costi contenuti, degli specifici interventi in ambito di riqualificazione energetica, e non solo.

Il “Superbonus 110%”, quindi, consente la realizzazione di tutte quelle lavorazioni che aumentano le prestazioni termiche della nostra casa e che, contestualmente, ne diminuiscono i consumi, tra le quali la più diffusa è rappresentata dalla realizzazione di un cappotto termico necessario per la coibentazione dell’involucro di un edificio.

Prima di entrare nel merito delle lavorazioni ammesse alla detrazione, è opportuno precisare che il quadro normativo, seppur ormai ampiamente definito, è in continua evoluzione: la grande portata dell’intervento lo rende, inevitabilmente, un tema complesso da affrontare tant’è che l’Agenzia delle Entrate e gli altri enti preposti (E.N.E.A. e Mi.S.E.) hanno emanato circolari e risoluzioni per fornire chiarimenti interpretativi della normativa di riferimento, ovvero il D. L. 19 maggio 2020, n. 34, il cosiddetto “Decreto Rilancio”.

Inoltre, in considerazione delle molteplici casistiche che possono crearsi in un panorama edilizio vario e complesso come quello italiano è comprensibile che, almeno nella fase iniziale, vi siano delle incertezze ed un po’ di diffidenza nei confronti della fisiologica burocrazia insita in un intervento di queste proporzioni.

Tuttavia, il “Superbonus 110%” rappresenta davvero un’ottima possibilità e, pertanto, è necessario che il committente, prima di dare esecuzione ad un qualsiasi intervento sul proprio immobile, si affidi ad un professionista che, attraverso la realizzazione di uno studio di fattibilità, valuti la sussistenza dei requisiti richiesti dalla normativa per accedere alla detrazione. Carlo Murtas, Architetto

In questo breve articolo, dunque, non voglio entrare nel dettaglio delle singole e differenti casistiche che potrebbero incontrarsi, ma darò delle indicazioni in maniera chiara e semplice per aiutare a comprendere le caratteristiche principali di questo strumento.

Prima di tutto, come anticipato, occorre precisare che i principali soggetti beneficiari di questa agevolazione sono, per ciò che qui interessa, le persone fisiche proprietarie di immobili ed i condomini.

Inoltre, la normativa di riferimento prevede due macro categorie di interventi agevolabili: quelli cosiddetti “trainanti” e quelli cosiddetti “trainati”.

Gli interventi “trainanti” sono quelli principali e, di conseguenza, obbligatori per poter ottenere la detrazione fiscale del 110%, tra i quali si possono menzionare quelli di isolamento termico sugli involucri (ad esempio, realizzazione del cappotto termico).

Gli interventi “trainati”, invece, sono quelli aggiuntivi, la cui relativa spesa, pertanto, potrà essere detratta solo se viene contestualmente realizzato almeno un intervento principale; tra questi possono ricordarsi quelli di efficientamento energetico (ad esempio, realizzazione di infissi esterni).

Come anticipato precedentemente, per accedere al “Superbonus 110%” è opportuno che il professionista incaricato esegua uno studio di fattibilità specifico per quel determinato immobile che, partendo dalla valutazione della conformità urbanistica ed edilizia e dalla diagnosi energetica, mira a verificare la sussistenza dei requisiti necessari prescritti dalla normativa di riferimento.

Se lo studio di fattibilità dovesse dare esito positivo in tutte le sue fasi, si potrà procedere con la fase progettuale definitiva ed avviare la pratica di detrazione.

Il vantaggio principale del “Superbonus”, come sappiamo, è la possibilità di vedersi riconoscere la detrazione fiscale nella misura del 110% e, altresì, di poter optare per la cessione del credito corrispondente alla detrazione maturata oppure scegliere un contributo anticipato sotto forma di sconto in fattura.

In conclusione, il “Superbonus 110%” rappresenta sicuramente un’ottima opportunità per tutti coloro che hanno intenzione di effettuare lavori di efficientamento energetico della propria abitazione poiché abbatte notevolmente i relativi costi di esecuzione.

Carlo Murtas, Architetto

Sono laureato in architettura delle costruzioni ed esercito la professione di architetto presso Hinternos, il mio studio di Cagliari, in viale Diaz n. 29.

Hinternos è uno studio multidisciplinare di architettura nel quale si affrontano progetti che spaziano dalla piccola scala del design alle ristrutturazioni di interni ed efficientamento energetico degli edifici.

Focus di diritto tributario Avv. Francesco Sanna

Superbonus 110%: accertamento e dubbi circa il Giudice competente in caso di controversia
In ordine alla disciplina dei controlli riferiti al Superbonus questi sono demandati a più soggetti con competenze diverse.

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

Profili di rilevanza penale: le false attestazioni
Per l’ottenimento del beneficio fiscale, c.d. Superbonus 110%, previsto dalla L. 17 luglio 2020, n. 77, e riconosciuto sotto forma di detrazione delle spese sostenute per la realizzazione di interventi di ristrutturazione destinati al miglioramento energetico degli immobili, nonché alla riduzione del rischio sismico, la Legge richiede il rilascio di talune attestazioni da parte di soggetti qualificati.

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Focus di diritto civile • Avv. Viola Zuddas

Ristrutturazione dell’immobile e Superbonus 110%
In materia di Condominio negli edifici è importante sottolineare, anzitutto, che ci si trova davanti ad una situazione complessa, in cui le singole unità immobiliari coesistono con le cosiddette parti comuni.
In un Condominio, quindi, ciascun condomino è proprietario di uno o più appartamenti ed è, altresì, comproprietario, insieme agli altri, delle parti comuni dell’edificio.

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Focus di diritto internationale • Avv. Eleonora Pintus

Superbonus 110%: i residenti all’estero possono beneficiarne?
Ti sarai forse chiesto se il Superbonus sia destinato esclusivamente ai cittadini italiani residenti in Italia oppure se anche coloro che vivono all’estero abbiano la possibilità di beneficiarne.

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Con la sentenza 11 luglio 2018, n. 18287, emanata dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite, viene offerta una differente lettura dell’art. 5, L. 1° dicembre 1970, n. 898, cosiddetta “legge divorzile”, che disciplina, per ciò che qui è di interesse, i rapporti patrimoniali tra gli ex coniugi.

Nello specifico, detta norma prevede che il tribunale, con la sentenza che pronuncia lo scioglimento del matrimonio, possa disporre l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente, o in un’unica soluzione, un assegno in favore dell’altro quando quest’ultimo sia privo di mezzi adeguati o, comunque, non possa procurarseli per ragioni oggettive.

Il diritto a percepire tale emolumento trova il proprio fondamento nel principio di solidarietà post coniugale, che è espressione del più generale dovere di solidarietà economico – sociale previsto dall’art. 2 Cost., e presuppone che il beneficiario abbia mezzi inadeguati al proprio sostentamento, pur non essendo necessario che versi in uno stato di bisogno.

Secondo l’orientamento previgente, il criterio solitamente impiegato per valutare l’esistenza del diritto a beneficiare dell’assegno cosiddetto divorzile si poggiava sull’indagine circa l’adeguatezza dei mezzi economico – patrimoniali dell’altro coniuge, ed era volto a consentire a quest’ultimo la conservazione di un tenore di vita analogo a quello vissuto in costanza di matrimonio.

Tuttavia, la sentenza in commento, muovendo dai mutamenti economico – culturali avvenuti nella società, ha consentito di superare il predetto orientamento affermando che l’assegno cosiddetto divorzile sia lo strumento che, adempiendo a una funzione compensativa, consente al coniuge più debole di ricevere quanto abbia conferito durante il matrimonio.

Esso, dunque, non è finalizzato alla ricostituzione del tenore di vita endoconiugale ma, bensì, al riconoscimento del ruolo e del contributo fornito dall’ex coniuge economicamente più debole alla formazione del patrimonio della famiglia e di quello personale della ex coppia.
Nello specifico: “Al fine del calcolo dell’assegno di divorzio di cui all’articolo 5 della L. 1° dicembre 1970, n. 898 occorre tenere in considerazione non il tenore di vita, ma diversi fattori, attraverso un criterio cosiddetto “composito” che, alla luce della valutazione comparativa delle rispettive condizioni economico-patrimoniali, dia particolare rilievo al contributo fornito dall’ex coniuge richiedente alla formazione del patrimonio comune e personale, in relazione alla durata del matrimonio, alle potenzialità reddituali future ed all’età dell’avente diritto.” (Cass. civ., Sezioni Unite, 11 luglio 2018, n. 18287).

“Al fine del calcolo dell’assegno di divorzio di cui all’articolo 5 della L. 1° dicembre 1970, n. 898 occorre tenere in considerazione non il tenore di vita, ma diversi fattori, attraverso un criterio cosiddetto “composito” che, alla luce della valutazione comparativa delle rispettive condizioni economico-patrimoniali, dia particolare rilievo al contributo fornito dall’ex coniuge richiedente alla formazione del patrimonio comune e personale, in relazione alla durata del matrimonio, alle potenzialità reddituali future ed all’età dell’avente diritto.” (Cass. civ., Sezioni Unite, 11 luglio 2018, n. 18287). Avv. Viola Zuddas, Civilista

Tale soluzione, come affermato nella pronuncia in commento, tiene conto di un’esigenza riequilibratrice dei patrimoni che sia maggiormente coerente con il quadro costituzionale di riferimento costituito dagli artt. 2, 3 e 29 Cost.

Di conseguenza, il giudizio sul riconoscimento dell’assegno cosiddetto divorzile, e sulla sua quantificazione, dovrà essere espresso alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economiche delle parti, in considerazione dell’apporto conferito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, tenuto altresì conto della durata del matrimonio e dell’età dell’avente diritto.

Ciò chiarito è, ora, importante precisare che detto emolumento è suscettibile comunque di revisione e, altresì, di revoca qualora siano intervenute, medio tempore, delle circostanze che abbiano alterato in maniera rilevante l’equilibrio economico – patrimoniale di uno o di entrambi i coniugi.

Difatti, lo stesso art. 9 della Legge Divorzile precisa che, qualora sopravvengano giustificati motivi dopo la sentenza che pronuncia lo scioglimento del matrimonio, il tribunale può, su istanza di parte, disporre la revisione delle disposizioni relative alla misura e alle modalità dei contributi da corrispondere in favore del coniuge beneficiario.

Sul punto è bene chiarire che, secondo la giurisprudenza dominante, non è sufficiente un mero miglioramento o peggioramento sotto il profilo economico – patrimoniale della capacità dell’uno o dell’altro coniuge perché possa riconoscersi automatica valenza estintiva della solidarietà post coniugale; al contrario, è necessario che sopravvengano dei mutamenti delle condizioni economiche e dei redditi di uno o di entrambi gli ex coniugi che, in concreto, abbiano fatto insorgere l’esigenza di un riequilibrio delle rispettive situazioni economiche.

Solo in tale ipotesi, dunque, sarà possibile eventualmente adeguare l’importo dell’assegno in base alla nuova situazione patrimoniale – reddituale accertata o, addirittura, far cessare lo stesso obbligo della contribuzione.

Ebbene, deve comunque evidenziarsi che in detto contesto assume rilievo anche il comportamento serbato da ciascun coniuge: difatti, nel caso in cui lo stato di bisogno, che in astratto legittima la percezione dell’assegno cosiddetto divorzile, sia stato causato dal beneficiario stesso, il coniuge onerato potrà agire in giudizio per ottenerne la revoca o la diminuzione.
Sul punto, la Corte di Cassazione si è pronunciata con un arresto che si pone in continuità con l’orientamento prevalente ed ha chiarito che: «Se la beneficiaria dell’assegno divorzile è ancora in giovane età ed ha dimostrato di avere piena capacità lavorativa, il mantenimento da parte dell’ex coniuge non sussiste perché semmai esistente uno stato di bisogno esso è stato causato da una precisa volontà della ex moglie che ben avrebbe potuto continuare a svolgere la sua attività lavorativa ed eventualmente cercarne nel frattempo una più redditizia o consona alle sue esigenze personali.» (Cass. civ., sez. VI, 18 ottobre 2019, n. 26594).

La Corte di Cassazione ha chiarito che: “Se la beneficiaria dell’assegno divorzile è ancora in giovane età ed ha dimostrato di avere piena capacità lavorativa, il mantenimento da parte dell’ex coniuge non sussiste perché semmai esistente uno stato di bisogno esso è stato causato da una precisa volontà della ex moglie che ben avrebbe potuto continuare a svolgere la sua attività lavorativa ed eventualmente cercarne nel frattempo una più redditizia o consona alle sue esigenze personali.” (Cass. civ., sez. VI, 18 ottobre 2019, n. 26594). Avv. Viola Zuddas, Civilista

Dalla massima sopra riportata si evince che, in forza del principio di autoresponsabilità economica, ciascuno dei coniugi abbia l’onere di attivarsi al fine di sfruttare la propria capacità lavorativa, cercando un impiego che gli consenta di autosostentarsi e non gravare colpevolmente sull’altro più abbiente.

Da ciò consegue che l’assegno divorzile non spetta all’ex coniuge che, pur potendo reinserirsi nel mercato del lavoro, sia rimasto colpevolmente inerte nel reperire un’occupazione lavorativa confacente con le sue competenze e le sue condizioni economico-sociali.

In conclusione, quindi, per riconoscere il diritto a percepire l’assegno divorzile dovrà operarsi una valutazione complessiva della situazione economico – patrimoniale di entrambe le parti, che tenga in considerazione l’apporto fornito da ciascuna al ménage familiare, l’eventuale sopravvenienza di fattori che incidano sulla consistenza patrimoniale e l’impegno profuso da ciascuna nel reperimento di un’occupazione lavorativa.

Viola Zuddas, Avvocato