Dopo 20 anni dall’arrivo degli Stai Uniti, la mattina del 15 agosto 2021 i Talebani sono entrati a Kabul proclamando la nascita del nuovo “Emirato Islamico dell’Afghanistan”, usando lo stesso nome del Paese prima dell’arrivo degli americani nel 2001.

A soli 24 giorni dalla presa della città, e la successiva autoproclamazione dell’Emirato, i talebani hanno annunciato il nuovo Governo.

Con tutta evidenza, ci troviamo dinnanzi ad un gruppo insurrezionale che ha preso le armi contro il Governo effettivo e legittimo in carica per finalità politiche ed al fine di sostituirsi al medesimo.

Ma l’auto-proclamato Stato Islamico da parte degli “Insorti” Talebani può essere effettivamente considerato come un soggetto di diritto internazionale titolare di autonomi diritti ed obblighi mentre la rivoluzione è ancora in corso?

Per poter rispondere a tale quesito occorre, preliminarmente, fare alcune precisazioni.

In primo luogo, deve evidenziarsi che il Diritto internazionale riconosce quali soggetti di diritto dotati di personalità giuridica, oltre che gli Stati – per la cui costituzione, in estrema sintesi, devono sussistere i presupposti dell’ indipendenza, della esistenza di una popolazione permanente e di un governo effettivo – anche alcuni enti o organizzazioni collettive che, pur carenti di taluni requisiti propri degli Stati, sono dotati di effettività ed indipendenza rispetto ad altri ordinamenti giuridici.

Tra questi rientrano anche i Movimenti insurrezionali che aspirano a sostituirsi al Governo al potere.

Ma chi sono i Movimenti insurrezionali?

I Movimenti insurrezionali sono entità organizzate che conducono la propria lotta contro il Governo in carica ad un livello di intensità tale da emanciparsi, almeno temporaneamente, dal controllo dello Stato colpito dall’insurrezione.

Affinché un gruppo insurrezionale ottenga uno status nel diritto internazionale è necessario che sia dotato di un’organizzazione stabile idonea a gestire le relazioni internazionali ed abbia un controllo effettivo sulla popolazione e sul territorio.Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista

Dunque, se il Movimento avrà successo, la sua soggettività andrà a consolidarsi con quella dello Stato di cui ha preso il potere e si trasformerà nel nuovo Governo mentre, in caso contrario, perderà la soggettività e tornerà ad essere considerato come un mero gruppo di ribelli.

Oltre che temporanea, la soggettività dei movimenti insurrezionali è anche parziale nel senso che agli insorti, che effettivamente controllano una parte di territorio, si applicano soltanto alcune delle norme consuetudinarie che si applicano agli Stati quali, ad esempio, quelle sulla conclusione dei trattati internazionali e sulle immunità di organi di stati stranieri.

Ebbene, sorge spontaneo chiedersi se in tali casi gli altri Stati possano intervenire a favore del governo legittimo destituito con la forza.

La risposta è affermativa.

Nel diritto internazionale si ritiene, comunemente, che gli altri Stati possano intervenire a favore ed in sostegno del governo legittimo trattandosi di ordinaria cooperazione tra gli Stati.

Al contrario, ogni forma di assistenza ai “ribelli” è vietata in quanto viene considerata come una forma di interferenza indebita negli affari interni di un altro Stato.

È naturalmente molto complesso identificare l’esatto omento in cui i movimenti insurrezionali acquistano la personalità giuridica internazionale proprio a causa della effettiva difficoltà di riscontrare i presupposti sopra indicati.

Ora, tornando al più recente caso dell’autoproclamato Emirato Islamico, alla luce di tutto quanto detto, appare evidente che la mera “auto-proclamazione” da parte dei Talebani non abbia alcuna conseguenza giuridica e, come tale, non sia atto idoneo e sufficiente a trasformare il Movimento Insurrezionale nel nuovo Governo dello Stato consolidando la sua soggettività con quella dello Stato.

D’altra parte, ci si chiede se, invece. il riconoscimento da parte degli altri Stati – di cui in questi giorni si sente parlare spesso – possa avere delle conseguenze giuridiche e, dunque, possa influire sulla acquisto della personalità giuridica, come nel caso che ci occupa, del Movimento Insurrezionale al punto da incidere nella consolidazione della soggettività del Movimento con quella dello Stato.

Cos’è il “Riconoscimento internazionale”?

Il riconoscimento è un atto unilaterale attraverso il quale uno Stato esprime la propria opinione sull’esistenza di un fatto giuridico internazionale (nel caso di specie, il riconoscimento dell’esistenza di un Movimento insurrezionale).

Secondo i principi consolidati del diritto internazionale, il riconoscimento ha un valore meramente dichiarativo della personalità giuridica internazionale e non anche “costitutiva” posto che l’acquisizione della soggettività di uno Stato ovvero di un Movimento insurrezionale è un fatto oggettivo che si verifica solo in presenza dei requisiti che sopra abbiamo descritto, come anche confermato dalla Commissione d’Arbitrato durante la conferenza per la Pace in Jugoslavia nel 1992.

La concessione del riconoscimento incide per lo più sulla presenza dell’ente nella vita delle relazioni internazionali, ossia della sua effettiva partecipazione alla Comunità internazionali attraverso l’attivazione di rapporti amichevoli, di cooperazione e di collaborazione, nel rispetto dei principi fondamentali della Comunità, quali il rispetto dei diritti umani.

Insomma, anche a fronte del riconoscimento da parte degli altri Stati della Comunità Internazionale, non si avrebbe alcuna conseguenza dal punto di vista della soggettività internazionale del gruppo di Insorti trattandosi, con tutta evidenza, di un atto non sufficiente alla “costituzione” di un nuovo soggetto di diritto internazionale.

In conclusione, dunque, sarà necessario attendere l’evoluzione delle vicende in corso per stabilire se, alla luce dei principi internazionalistici, l’autoproclamato Governo talebano consoliderà la sua soggettività con quella dello Stato di cui ha preso il potere e si trasformerà nell’effettivo nuovo Governo.

Eleonora Pintus, Avvocato

La Legge 8 marzo 2017, n. 24, intitolata: «Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie», si occupa di un settore del contenzioso civile investito da forti ed inevitabili – stante l’oggetto della lite – aspetti di conflittualità del tutto peculiari, quanto ad intensità emotivo-relazionale dei soggetti coinvolti, a complessità tecnico-giuridica della materia, a risvolti economico-sociali spesse volte di notevole entità, ecc.

In aggiunta alle appena richiamate difficoltà insite nell’affrontare un procedimento avente ad oggetto la materia in parola, si osservano le ulteriori criticità connesse alla gestione della lite dovute alla frequente numerosità dei soggetti coinvolti e alle ricadute in ambito penalistico della condotta offensiva.

Venendo alle novità di carattere processuale introdotte dalla riforma del 2017, queste possono essere così sintetizzate.

  1. Introduzione di un doppio “filtro” di procedibilità (accertamento tecnico preventivo con funzione conciliativa ex 696-bisc. c.p.c. e, in via alternativa e non cumulativa, il procedimento di mediazione ex D. L.vo n. 28/2010).
  2. Il necessario esperimento del procedimento sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis c.p.c. nel caso in cui la scelta del “filtro” di procedibilità ricada sull’accertamento tecnico preventivo con funzione conciliativa.
  3. La possibilità di esperire in via diretta l’azione di risarcimento danni nei confronti dell’impresa di assicurazione della struttura sanitaria ovvero di quella del professionista.
  4. Il diritto all’azione di rivalsa da parte della struttura o dell’impresa di assicurazione nei confronti dell’esercente la professione sanitaria, ferma la sussistenza delle condizioni sancite dalla legge.
  5. L’esperibilità dell’azione di responsabilità amministrativa dal punto di vista contabile da parte del pubblico ministero contro l’esercente la professione sanitaria dipendente dalla struttura sanitaria pubblica.

La legge in commento è anche intervenuta sulla qualificazione del titolo di responsabilità della struttura sanitaria e dell’esercente la professione sanitaria, stabilendo che la struttura risponde a titolo contrattuale, mentre l’esercente a titolo extracontrattuale (salvo che questi abbia stipulato un contratto di prestazione d’opera professionale direttamente con il paziente, rispondendo, in questo caso, a titolo di responsabilità contrattuale).

Il quadro delle responsabilità delineato sopra comporta, almeno sulla carta, un alleggerimento dell’onere della prova in capo al danneggiato nell’ipotesi in cui questi decida di agire contro la struttura sanitaria (potendo limitarsi ad allegare l’inadempimento e il fatto costitutivo rappresentato dal contratto di spedalità, così scaricando sul convenuto l’onere di provare il fatto impeditivo consistente nell’avere adottato la diligenza dovuta nell’esecuzione della prestazione – osservanza “linee guida” – oppure nell’impossibilità ad effettuare la prestazione – impossibilità sopravvenuta) ed un appesantimento nell’ipotesi in cui decida di agire contro l’esercente (avendo egli il più gravoso compito di provare, in tal caso, oltre al nesso eziologico tra fatto costitutivo ed evento dannoso, anche la colpa o il dolo del danneggiante).

Ad ogni buon conto, si tiene a precisare che ruolo fondamentale nella valutazione della responsabilità e precedentemente nella individuazione dei doveri di allegazione probatoria è svolto dalle “raccomandazioni contenute nelle linee guida” e dalle “buone pratiche clinico-assistenziali” (ancor più del precedente quadro di riferimento normativo di cui alla “Legge Balduzzi”).


L’alternatività tra il procedimento di accertamento tecnico preventivo con funzione conciliativa (art. 696-bis c.p.c.) e quello di mediazione (D.L.vo n. 28/2010)

L’art. 5, comma 1, D.L.vo n. 28/2010, stabiliva che le controversie in materia di ‹‹responsabilità medica›› fossero assoggettate alla condizione di procedibilità del previo esperimento del procedimento di mediazione. In dipendenza dell’ambiguità di tale espressione, la riforma del 2013 (D.L. n. 69/2013, conv. con modif. con la Legge n. 98/2013) ha esteso l’ambito di applicazione del “filtro” de quo alle controversie in materia di «responsabilità sanitaria».

Il legislatore del 2017, constatata la scarsa percentuale di successo della mediazione in questa subiecta materia – dovuta perlopiù alla mancata partecipazione delle strutture sanitarie e delle imprese di assicurazione a tale procedura – ha optato per l’utilizzo di un altro strumento volto alla conciliazione tra le parti: l’accertamento tecnico preventivo diretto alla composizione della lite, disciplinato dall’art. 696-bis c.p.c., imponendo il suo esperimento in via preliminare al processo, ma allo stesso tempo in alternativa rispetto alla procedura di mediazione.

Così, allo stato attuale, la proposizione di una domanda giudiziale di risarcimento dei danni nei confronti della struttura sanitaria o dell’esercente la professione sanitaria deve essere necessariamente preceduta dall’esperimento di un procedimento volto alla conciliazione tra i soggetti coinvolti, o in sede di mediazione oppure in sede di accertamento tecnico preventivo.

E’ indubbio che tale istituto e quello della mediazione svolgano (sia pure solo in parte) la medesima funzione, perseguendo entrambi finalità conciliative e deflattive. Altrettanto certo è che l’efficacia dell’accordo di conciliazione ex artt. 11 e 12 D.L.vo n. 28/2010 non presenti differenze rispetto a quella dell’accordo raggiunto all’esito della consulenza tecnica preventiva, sostanziandosi entrambi quali veri e propri accordi negoziali, ex art. 1372 c.c., suscettibili sul piano esecutivo, ai sensi dell’art. 474, commi 2 e 3, c.p.c., a costituire titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale per esplicita previsione di legge.

Evidenziati i punti di affinità tra i due istituti in esame, è doveroso sottolineare anche le importanti differenze sul piano istruttorio.

Difatti, soltanto la relazione tecnica redatta dal consulente nominato dal giudice può fare ingresso nel successivo processo per il tramite dell’istanza di parte, mentre quella svolta dall’esperto eventualmente nominato nel procedimento di mediazione può al massimo costituire una prova atipica la cui acquisizione nel processo e la successiva valutazione dipende dal prudente e insindacabile apprezzamento del giudice.Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

Alla luce di quanto appena esposto, i vantaggi del procedimento ex art. 696-bis c.p.c. sono evidenti; tanto più che la dichiarata finalità perseguita dal legislatore è proprio quella di favorire la formazione di un risultato istruttorio di natura tecnica acquisibile in una sede processuale destinata a svolgersi secondo le più semplificate forme degli artt. 702-bis ss. c.p.c.

Infine, in ordine ai procedimenti “filtro” devesi ricordare come il legislatore abbia ritenuto di escludere (in via ulteriormente alternativa) la procedura della negoziazione assistita, art. 3, D.L. 12 settembre 2014, n. 132, convertito con modificazioni nella Legge 10 novembre 2014, n. 162, che nelle controversie risarcitorie in materia sanitaria non deve essere obbligatoriamente esperita anche se avente ad oggetto domande di pagamento di somme non eccedenti € 50.000,00.

Francesco Sanna, Avvocato

Il disturbo della condotta: pennacchio evolutivo o emergenza sociale?

Introduzione

La rabbia è riconosciuta universalmente come una delle emozioni di base (e per definizione funzionale alla sopravvivenza) e l’aggressività, nella coerenza della sua funzione evolutiva, è perfettamente integrata con il comportamento animale, primati compresi.

E in maniera più complessa e raffinata nell’homo sapiens.

La capacità di difendersi e di attaccare un aggressore, proteggere il proprio nucleo di pari, protestare per le cure mancate, inviare un segnale di alt per proteggere un piccolo indifeso sono solo una parte di tutti i meccanismi ancestrali di sopravvivenza per i quali la rabbia e l’aggressività si dimostrano utili e vitali. Alberto Anedda, Neuropsichiatra Infantile

Nell’essere umano (a differenza di altri primati meno evoluti) le emozioni di base risultano il fondamento nel quale vanno poi a svilupparsi complessi modelli operativi interni, diramandosi nel sistema di intersoggettività e comunicazione simbolica (e linguistica): questo ha consentito alla nostra specie di organizzare un sistema sociale e di relazione così elegante da risultare potenziale creatore di molteplici meccanismi adattivi nei confronti dell’ambiente circostante.

L’aggressività, nonostante sia presente sin dalla culla, viene naturalmente inibita mediante la crescita e la maturazione cerebrale (e relazionale) con una duplice funzione: la sopravvivenza del singolo e il mantenimento della comunità di peers.

A partire dalla fine del primo anno di vita un comportamento aggressivo può costituire persino un mezzo per garantire lo sviluppo della propria identità: ne sono un esempio gli scoppi d’ira del bambino quando gli viene impedita un’esperienza di esplorazione o di mancate cure. L’aggressività diventa quindi non solo un modo per ottenere protezione da parte della figura di attaccamento, ma anche una risposta difensiva nei confronti della mancanza di sensibilità dei caregivers.

Infine si può concettualmente suddividere tale costrutto in due aree, che presentano a loro volta funzioni e significati diversi: l’aggressività reattiva (o affettiva) e l’aggressività proattiva (o predatoria).

    1. L’aggressività reattiva viene definita come la risposta messa in atto per difendersi da una minaccia, reale o percepita tale. Inoltre, l’aggressività reattiva risulta essere impulsiva e non pianificata, e si associa (soprattutto quando disregolata) ad un’attivazione del sistema di allerta .
    2. L’aggressività proattiva non richiede alcun effetto esterno scatenante: è finalizzata al raggiungimento di un obiettivo diretto (generalmente nei confronti di un altro essere umano), con lo scopo di gestirla e trarne un qualsiasi vantaggio. L’aggressività predatoria, a differenza della precedente, risulta quindi pianificata e calcolata.

Definizione

La persona che presenta un Disturbo della Condotta (CD, Conduct Disorder) manifesta modalità comportamentali caratterizzate dalla sistematica e persistente violazione delle regole, dei diritti dell’altro e delle norme sociali, con conseguenze talvolta molto gravi sul piano del funzionamento globale dell’individuo e sull’impatto nei confronti dell’ambiente circostante. Tale disturbo, per essere definito secondo i criteri del DSM-5 (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), si deve presentare prima dei 18 anni, e risulta spesso essere il precursore del Disturbo Antisociale di Personalità in età adulta, rientrando a far parte tra i disturbi da comportamento dirompente, del controllo degli impulsi e della condotta.Alberto Anedda, Neuropsichiatra Infantile

Nello specifico, i cluster sintomatologici del disturbo vengono raggruppati in quattro categorie:

    1. Aggressione a persone e animali: la persona può presentare un’interazione minacciosa con la finalità di intimorire, può frequentemente utilizzare armi (bianche e non) con l’intento di causare danni fisici a terzi, mette in atto comportamenti crudeli nei confronti di persone o animali quali aggressione, scippo, estorsione o rapina a mano armata che prevedono l’affronto diretto di una vittima, con talvolta costrizione ad attività sessuali indesiderate.
    2. Distruzione della proprietà: distruzione di proprietà altrui, piromania.
    3. Frode o furto: introduzione in proprietà altrui, bugie o menzogne finalizzati all’ottenere favori o all’evitare doveri, furti di articoli di valore senza affrontare direttamente la vittima.
    4. Gravi violazioni di regole: spesso, già prima dei 13 anni, l’individuo contravviene alle regole familiari trascorrendo la notte fuori, o allontanandosi da casa di notte senza rientrarvi per un lungo periodo, o marinando frequentemente la scuola.

Cause e storia naturale

Il CD (Disturbo Comportamentale) viene definito in parte in base al livello di compromissione della vita familiare, sociale o scolastica del bambino o adolescente: per la diagnosi sono sufficienti 3/15 sintomi (purché non si manifestino in più categorie). Le cause e i fattori di rischio includono fattori ambientali (che vanno da un attaccamento disorganizzato a un ambiente degradato/ostile) a fattori individuali (geni, comorbidità con ADHD, temperamento, ecc.). La maggior parte dei sintomi del CD, sia che si manifestino in età giovanile o più tardi, sono spesso gravi e possono condurre a problemi emotivi e sociali con talvolta risvolti legali; non è raro inoltre che la persona con un disturbo della condotta presenti anche una maggiore suscettibilità (ed eventuale utilizzo) alle sostanze d’abuso (cannabis, cocaina, alcool, ecc.) e partecipi ad attività illecite.

Specifica con emozioni prosociali limitate

È inoltre descritto un sottotipo del CD, definito dalla carenza più o meno marcata delle emozioni prosociali e dell’empatia, che risulta predittivo per una struttura di comportamento caratterizzata da problemi di condotta più severi e persistenti.

Da cosa è caratterizzata tale specifica?

  1. Mancanza di rimorso e senso di colpa (Lack of remorse or guilt): la persona non prova emozioni di colpa relativamente alle proprie azioni, con scarsa preoccupazione sulle conseguenze negative di quello che può aver commesso.
  2. Mancanza di empatia, “callosità” (Callous-Lack of empathy): la persona non è condizionata da quello che possono provare le altre persone, ed è descritta come fredda o poco sensibile.
  3. Disinteresse nei confronti delle sue performance (Unconcerned about performance): la persona appare disinteressata da quello che possono essere i suoi obbiettivi scolastici o lavorativi, senza mettere in atto alcuno sforzo per raggiungere i risultati (anche quando gli obiettivi sono chiari); può spesso rivolgersi agli altri come colpevoli per i suoi insuccessi.
  4. Appiattimento affettivo (Shallow or deficient affect): la persona non appare in grado di esprimere i propri sentimenti (se non in maniera superficiale) tranne che per avere dei vantaggi dagli altri (es. manipola o intimidisce).

La specifica con emozioni prosociali limitate ci richiede di confrontarci con le basi sottostanti a tale disturbo. Il comportamento nei pazienti affetti da CD può quindi manifestarsi in due forme: in una, la persona manifesta problemi nella regolazione delle emozioni forti, rabbiose e ostili. Una minoranza di pazienti con CD, invece di manifestare emozioni come rabbia e ostilità presenta una carenza dell’empatia e del senso di colpa. Tali bambini (e adolescenti) tendono a manipolare gli altri per un loro tornaconto personale: con ridotti livelli d’ansia e la tendenza ad annoiarsi facilmente preferiscono attività sempre nuove, eccitanti, persino pericolose, con la probabilità perciò i manifestare i quattro sintomi dello specificatore.

Conclusioni

Il disturbo della condotta deve considerarsi a tutti gli effetti un disturbo cronico e complesso, e come tale deve essere impostato il piano di intervento.

Tale plan si deve basare su diversi livelli: sulla comunità in cui la persona vive, sulla famiglia (es. parent training) e sull’individuo (come la psicoterapia o interventi farmacologici, da considerarsi su pazienti che non rispondono agli altri trattamenti o che presentano aggressività marcata e comportamenti violenti). Si è rivelato inoltre molto utile per la prevenzione in età precoce il programma terapeutico Coping Power, che si avvale di un lavoro di equipe sui diversi contesti di vita del bambino, quali la scuola e la famiglia.

Appare ormai ovvio che, nella sua complessità e cronicità, il CD appaia come una vera e propria sfida per il sistema di cura, soprattutto per i diversi risvolti etici e legali (ed economici) che possono interfacciarsi costantemente nella vita di chi ne soffre e dei suoi cari: a tal proposito appare quindi necessario focalizzare e programmare i sistemi di aiuto e cura sempre di più verso la prevenzione e l’identificazione dei fattori di rischio (sia individuali che comunitari). Solo un lavoro che parta dallo stato e dalla società potrà quindi favorire la liberazione progressiva da tutti gli stigmi e i pregiudizi che interessano il mondo della salute mentale, ancor più quando si tratta di bambini e adolescenti. Alberto Anedda, Neuropsichiatra Infantile

Alberto Anedda, Neuropsichiatra Infantile

Sono un medico chirurgo, specialista in Neuropsichiatria Infantile, Psicoterapeuta Cognitivo Comportamentale Costruttivista.
Ho svolto la mia attività clinica in diversi servizi integrati in Italia e all’estero, centri territoriali di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza e centri convenzionati di riabilitazione globale per minori.
Dal 2020 lavoro presso il centro Lucio Bini di Cagliari come Neuropsichiatra e Psicoterapeuta, con attenzione speciale per pazienti affetti da tutti i disturbi psichiatrici e dal mese di Luglio 2021 presto servizio come Dirigente Medico all’interno della Clinica di Neuropsichiatria dell’Infanzia e l’Adolescenza presso l’Ospedale Microcitemico A. Cao di Cagliari.
Nello specifico si sottolinea particolare elezione per valutazione e trattamento dei Disturbi del Neurosviluppo (ADHD, Autismo, Disturbi dell’Apprendimento, Tic e Tourette), Disturbi da Comportamento Dirompente e della Condotta (Disturbo Oppositivo Provocatorio e Disturbo della Condotta), Disturbi dell’Umore, Disturbo Ossessivo Compulsivo e Disturbi d’Ansia.
Mi occupo inoltre di Psicoterapia Cognitivo-Costruttivista per minori e adulti, interventi mirati di supporto alla genitorialità (Parent Training), terapia farmacologica nell’ambito dei disturbi psichiatrici per minori e adulti, attività di formazione (corsi e seminari) e presto inoltre servizio come Consulente Tecnico di Parte (CTP).

Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

L’imputabilità del minore
Quando si parla di Disturbo della Condotta e, più in generale, delle conseguenze anche sul piano penale dei comportamenti legati a tale condizione, sorge spontaneo chiedersi: il minore che commette un reato può essere perseguito penalmente?

Leggi tutto
Focus di diritto civile • Avv. Viola Zuddas

Bullismo e reazione della vittima
Come abbiamo visto nel focus a cura del Dott. Alberto Anedda, un disturbo della condotta (Conduct Disorder, “CD”) implica uno schema comportamentale ripetitivo che porta l’individuo che ne soffre a violare i diritti delle persone con cui si entra in contatto.

Leggi tutto
Focus di diritto civile Avv. Francesco Sanna

Bullismo e responsabilità civile
In primis è bene ricordare che la Repubblica riconosce e garantisce, ai sensi degli artt. 2 e 31 Cost., i diritti dell’infanzia e della gioventù.

Leggi tutto
Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Unione Europea e tutela della salute mentale: il Programma “EU4Health”
La salute mentale è un diritto fondamentale dell’uomo.
Trattasi di una condizione indispensabile al benessere, alla qualità della vita ed alla salute fisica, oltre che favorire l’apprendimento, il lavoro e la partecipazione alla società.

Leggi tutto

Il D.L. 25 maggio 2021, n. 73 ha ampliato la platea dei beneficiari del Bonus “prima casa”, ovvero la possibilità di accedere al Fondo di garanzia, pari all’80%, per i mutui diretti all’acquisto e ristrutturazione prima casa.

Il Fondo, istituito dalla Legge di stabilità 2014, offre ai cittadini che possono beneficiarne una garanzia, per l’accensione di mutui ipotecari per l’acquisto o la ristrutturazione di unità immobiliari da adibire a prima casa.

Chi ha diritto al beneficio?

Le categorie che possono accedere al Fondo sono:

  • giovani coppie;
  • nuclei familiari monogenitoriali con figli minori;
  • giovani che non hanno compiuto trentasei anni di età.

Altri due i requisiti per poter accedere alla garanzia dell’80% della quota capitale, sono: avere un valore dell’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) non superiore a € 40.000,00 e che il rapporto tra l’importo del finanziamento e il prezzo dell’acquisto dell’immobile, comprensivo degli oneri accessori, non superi l’80%.

Ancora, il richiedente, alla data di presentazione di domanda di mutuo, non deve risultare proprietario di altri immobili ad uso abitativo, salvo quelli acquistati per successione mortis causa, anche in comunione con altri successori, e in uso a titolo gratuito a genitori o fratelli.

Quali tipologie di immobili rientrano nell’agevolazione prevista dal Decreto Sostegni bis?

La norma fa riferimento agli atti di acquisto di abitazioni per le quali ricorrono i requisiti di “prima casa” e, quindi, escluse quelle di categoria catastale A1, A8 e A9. Anche le relative pertinenze beneficiano di questa agevolazione fiscale. La norma si applica anche quando la cessione delle case di abitazione con i requisiti di “prima casa” avvenga da parte di un’impresa.

Inoltre, l’immobile ad uso abitativo deve essere sito nel territorio nazionale ed il mutuo ipotecario deve essere di importo non superiore a € 250.000,00.

La norma riconosce anche agli acquirenti che hanno acquistato l’immobile da un’impresa un credito d’imposta di ammontare pari all’IVA corrisposta all’impresa in relazione all’acquisto. Il credito d’imposta può essere portato in diminuzione dalle imposte di registro, ipotecaria, catastale, sulle successioni e donazioni dovute sugli atti e sulle denunce presentati dopo la data di acquisizione del credito, ovvero può essere utilizzato in diminuzione delle imposte sui redditi delle persone fisiche dovute in base alla dichiarazione da presentare successivamente alla data dell’acquisto; può altresì essere utilizzato in compensazione ma in ogni caso non dà luogo a rimborsi.

Qual è il termine di scadenza per inoltrare la domanda?

Le tempistiche per richiedere il mutuo agevolato coprono un arco temporale abbastanza ampio. Difatti, le domande sono aperte dal 24 giugno 2021 fino al 30 giugno 2022.

I finanziamenti devono essere connessi alternativamente all’acquisto della “prima casa” o ad un acquisto con l’effettuazione di interventi di ristrutturazione e accrescimento dell’efficienza energetica dell’unità immobiliare.

Come fare la domanda?

La domanda deve essere presentata direttamente alla banca o all’intermediario finanziario a cui si richiede il mutuo, se aderente all’iniziativa. La modulistica da compilare è disponibile dal 24 giugno sul sito Consap e su quello del Ministero dell’economia.

Dopo l’inoltro della domanda, Consap ha 20 giorni di tempo per comunicare alla banca la concessione della garanzia e a sua volta quest’ultima deve comunicare a Consap, entro 90 giorni, il perfezionamento del mutuo. Al contrario, se il finanziamento non viene concesso la garanzia non ha più validità.

Bonus “prima casa” under 36: quali agevolazioni fiscali?

Oltre all’accesso al Fondo per gli under 36, il Decreto Sostegni bis prevede per i soggetti che non hanno ancora compiuto trentasei anni di età nell’anno in cui l’atto è rogitato e che hanno un valore dell’indicatore della situazione economica equivalente, non superiore a € 40.000,00 annui, l’esenzione:

  • dall’imposta di registro;
  • dalle imposte ipotecaria e catastale.

L’esenzione vale per:

  • atti traslativi a titolo oneroso della proprietà di “prime case” di abitazione, ad eccezione di quelle di categoria catastale A1, A8 e A9;
  • gli atti traslativi o costitutivi della nuda proprietà, dell’usufrutto, dell’uso e dell’abitazione.

Per gli atti sopraccitati relativi a cessioni soggette all’imposta sul valore aggiunto, è attribuito inoltre un credito d’imposta di ammontare pari all’imposta sul valore aggiunto corrisposta in relazione all’acquisto. Questo potrà:

  • essere portato in diminuzione dalle imposte di registro, ipotecaria, catastale, sulle successioni e donazioni dovute sugli atti e sulle denunce presentati dopo la data di acquisizione del credito;
  • essere utilizzato in diminuzione delle imposte sui redditi delle persone fisiche dovute in base alla dichiarazione da presentare successivamente alla data dell’acquisto;
  • essere utilizzato in compensazione.
Quando si decade dai benefici prima casa? E quali sono le conseguenze?

Si decade dall’agevolazione prima casa per dichiarazione mendace, alienazione dell’abitazione prima di 5 anni non seguita dal riacquisto entro l’anno, mancata alienazione entro l’anno dall’acquisto della precedente prima casa. In queste ipotesi, venendo meno i presupposti per godere delle agevolazioni “prima casa”, l’imposta di registro dovrà essere pagata nella misura del 9%, le imposte ipotecaria e catastale nella misura fissa di 50 euro ciascuna, oltre all’applicazione di interessi e sanzioni. L’imposta sostitutiva sul finanziamento sarà applicata nella misura del 2%.

Inoltre, laddove l’Agenzia delle Entrate riscontri l’insussistenza degli altri requisiti previsti come l’età, il valore ISEE o il periodo temporale di validità delle agevolazioni, dovranno essere corrisposte le imposte dovute maggiorate di sanzioni e interessi. Non essendo venuti meno i requisiti e le condizioni per l’applicazione dell’agevolazione “prima casa”, l’imposta di registro sarà pagata nella misura del 2% e l’imposta sostitutiva per il finanziamento nella misura ordinaria dello 0,25%.

Francesco Sanna, Avvocato

Entra nel vivo la stagione turistica e, come ogni anno, le coste della Sardegna si preparano ad accogliere i vacanzieri da tutto il mondo.

Il turismo è, da un lato, una preziosa risorsa per l’economia sarda -tra l’altro sempre più in difficoltà anche a causa delle restrizioni e divieti imposti per contrastare la pandemia da Covid-19- ma, d’altra parte, pone la necessità di garantire la protezione e l’incremento del patrimonio naturale esistente, nonché la conservazione di flora e fauna o, più in generale, dell’ecosistema del posto.

Proprio nell’ottica di tutelare l’ambiente marino e gli arenili da comportamenti scorretti e nocivi, nonché per favorire la sostenibilità ambientale, sia al livello regionale che locale, le amministrazioni hanno imposto una serie di divieti.

A titolo esemplificativo, in molte località sarde è stato introdotto un limite massimo di persone che possono accedere nelle spiagge e, inoltre, nell’Ordinanza balneare 2021 -emanata dall’Assessorato degli Enti Locali della Regione Sardegna- è previsto espressamente che sulle spiagge e negli specchi acquei riservati alla balneazione sia fatto divieto di campeggiare, transitare o sostare con automezzi, motocicli e veicoli di ogni genere, nonché di abbandonare, interrare e scaricare -sia a terra che a mare- ogni tipo di rifiuto o altri materiali, compresi i mozziconi di sigaretta, contenitori e bicchieri in plastica etc.

A tutela dell’incolumità pubblica e del patrimonio naturalistico è, altresì, vietato accendere fuochi e introdurre sostanze infiammabili, spostare, occultare o danneggiare segnali fissi o galleggianti, come cartelli e boe, nonché asportare qualsiasi elemento costituente il tessuto naturale dell’arenile, quale, ad esempio, sabbia, ghiaia e ciottoli.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

A tale riguardo, pur a fronte delle numerose campagne di sensibilizzazione delle associazioni ambientaliste, negli ultimi anni si assiste all’incremento esponenziale di episodi di sottrazione di sabbia e conchiglie dalle spiagge sarde e, in particolare, dalla celebre spiaggia dei “chicchi di riso” di Is Arutas nel litorale oristanese, depredata per lo più da turisti, disposti a tutto pur di avere un souvenir delle loro vacanze e incuranti dell’irreparabile danno ambientale conseguente a questo tipo di condotte.

Invero, se sotto il profilo del cd. turismo responsabile e sostenibile è buona regola rispettare sempre l’ambiente e le comunità locali ospitanti, attraverso comportamenti che riducano al minimo l’impatto ambientale e l’inquinamento, la questione di cui si discute deve essere affrontata senza dubbio anche sotto il profilo della compatibilità ambientale.

È noto, infatti, che il millenario processo di formazione della spiaggia è frutto di un delicato equilibrio tra i fenomeni di deposito ed erosione, pertanto, se al processo naturale di erosione si aggiunge quello della massiva e incontrollata sottrazione della sabbia da parte dell’uomo, il rischio evidente è che, nel corso degli anni, l’arenile possa scomparire del tutto, oppure, che le autorità locali, proprio al fine di prevenire ciò, pongano il divieto assoluto di visitarle.

Cosa prevede la Legge italiana?


La legislazione italiana a tutela del litorali

Il riferimento normativo a livello nazionale è costituito dall’art. 1162 del codice della navigazione, il quale prevede che “chiunque estrae arena, alghe, ghiaia o altri materiali nell’ambito del demanio marittimo o del mare territoriale ovvero delle zone portuali della navigazione interna, senza la concessione prescritta nell’articolo 51, è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 1.549,00 a euro 9.296,00“.

Pare opportuno ricordare brevemente che la norma poc’anzi richiamata, modificata dal D. Lvo. n. 507 del 1999, in origine qualificasse la fattispecie in parola come contravvenzione e, quindi, come reato, sanzionato con la pena dell’arresto fino a due mesi ovvero con l’ammenda.

Nella sua formulazione attuale, invece, l’illecito non è più di natura penale, ma amministrativa ed è sanzionato più severamente, mediante il pagamento di una somma di denaro particolarmente ingente.

All’evidenza, la dichiarata finalità della norma è quella di impedire l’abusiva asportazione dei beni del demanio marittimo e, al contempo, prevenire la devastazione dei litorali e dell’ecosistema.

Dunque, l’arena –ossia la sabbia-, la ghiaia, le alghe, l’acqua di mare, le conchiglie e ogni altro materiale appartengono al cd. “demanio marittimo”, costituito, secondo quanto previsto nell’art. 28 del codice della navigazione, da: a) il lido, la spiaggia, i porti e le rade; b) le lagune, le foci dei fiumi che sboccano in mare, i bacini di acqua salmastra che comunicano liberamente col mare; c) i canali utilizzabili ad uso pubblico marittimo.

Occorre, altresì, precisare che il demanio marittimo rientri nella più ampia definizione civilistica di cui all’art. 822 c.c., di “demanio pubblico” e che, pertanto, si tratta di beni che appartengono allo Stato.

Accanto alla citata legislazione nazionale, proprio l’incremento di tali condotte ha costretto le regioni e gli enti locali a correre ai ripari e a dotarsi di normative apposite e più stringenti, nonché a promuovere iniziative di sensibilizzazione e di controllo sul territorio.

Con specifico riferimento alla Sardegna, l’art. 40 della Legge regionale n. 16 del 2017 prevede espressamente che “salvo che il fatto non costituisca più grave illecito, chiunque asporta, detiene, vende anche piccole quantità di sabbia, ciottoli, sassi o conchiglie provenienti dal litorale o dal mare in assenza di regolare autorizzazione o concessione rilasciata dalle autorità competenti è soggetto alla sanzione amministrativa da euro 500 a euro 3.000,00“. Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

La predetta disposizione, quindi, non si limita a sanzionare soltanto la condotta di sottrazione di beni naturalistici dalle coste sarde, ma anche la vendita degli stessi.

A ben vedere, infatti, la “refurtiva” sottratta abusivamente dalle spiagge non costituisce affatto un mero “ricordo” per l’avventato turista, giacché nella maggior parte dei casi detti beni vengono in realtà venduti online a caro prezzo, così incrementando un vero e proprio commercio illegale.

In ultima analisi, giova sottolineare che nel caso in cui la sottrazione abbia ad oggetto una quantità considerevole di sabbia o di beni comunque appartenenti al demanio marittimo, la condotta risulta piuttosto ascrivibile nell’ambito del reato di furto aggravato, ai sensi dell’art. 625, n. 7, c.p.

Secondo la giurisprudenza più recente (si veda, Cass. pen., sez. IV, n. 11158 del 2019), infatti, la sottrazione o asportazione di sabbia o ghiaia del lido del mare o dal letto dei fiumi comporta la configurabilità sia della circostanza aggravante dell’esposizione della cosa alla pubblica fede che della destinazione della cosa a pubblica utilità, poiché il prelievo del materiale cagiona un danno idrogeologico all’arenile e lede la pubblica utilità dei fiumi o la fruibilità dei lidi marini.

In definitiva, la tematica della tutela dell’ambiente assume sempre maggiore centralità e, pertanto, la protezione del mare e dei litorali deve essere attuata sia attraverso strumenti di prevenzione e sensibilizzazione e sia mediante la predisposizione di un efficace sistema di controllo e repressione delle condotte vietate, affinché l’habitat naturale risulti liberamente fruibile anche dalle generazioni future.

Claudia Piroddu, Avvocato

Patrick Zaki, attivista e ricercatore egiziano impegnato nella lotta per i diritti umani, il 7 febbraio 2020, è stato prelevato dagli agenti dell’Agenzia di sicurezza nazionale egiziana all’aeroporto del Cairo e arrestato.

Al momento dell’arresto Zaki stava frequentando un master internazionale all’università di Bologna ed era attivista presso l’organizzazione non governativa “Egyptian initiative for personal rights”, una delle poche organizzazioni indipendenti per i diritti umani ancora attiva in Egitto.

Ebbene, dopo più di un anno dalla sua incarcerazione, Patrick Zaki non è stato sottoposto ad alcun processo e la sua detenzione cautelare è stata addirittura prolungata di ulteriori 45 giorni sebbene la sua situazione di salute, sia fisica – in quanto sottoposto ad atti di tortura – che psicologica, come riferito dai legali, appaia particolarmente critica.

Dal punto di vista della diplomazia, sono stati numerosi i tentativi diretti ad ottenere una immediata reazione da parte delle autorità egiziane: il 18 dicembre 2020, il Parlamento europeo, a seguito dell’approvazione di una proposta di risoluzione comune sulle violazioni dei diritti umani in Egitto, ha invitato gli Stati membri a prendere in considerazione la possibilità di adottare misure restrittive mirate nei confronti di funzionari egiziani responsabili delle violazioni più gravi nel Paese.

Gli stessi deputati dell’Europarlamento hanno chiesto la scarcerazione immediata e incondizionata di Zaki nonché di altri prigionieri politici, oltre ad aver evidenziato l’esigenza di una reazione diplomatica comune e coesa da parte dell’Unione.

Allo stesso modo, anche il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni unite in una nota diplomatica ha manifestato la più profonda preoccupazione “per la traiettoria assunta dai diritti umani in Egitto” tanto che gli stessi Stati firmatari, tra cui gli Stati Uniti e l’Italia, hanno chiesto allo Stato egiziano di porre fine ad ogni sorta di persecuzione di attivisti, oppositori politici, giornalisti ed il loro immediato rilascio.

I tentativi diplomatici, ad oggi, non hanno sortito i risultati auspicati.

Ecco che, però, dove non arriva la diplomazia, interviene il diritto.

Le gravi condizioni in cui versa l’attivista Patrick Zaki in ragione del regime di detenzione cui è sottoposto nel carcere di massima sicurezza di Tora, noto a livello internazionale per le condizioni degradanti ed inumane, oltre che per gli atti di violenza in ragione dei continui abusi perpetrati ai danni dei detenuti, configurano il ricorrere di una circostanza di eccezionale interesse del nostro Paese di per sé idonea alla concessione della cittadinanza.

Il comma 2 dell’articolo 9 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, dispone, infatti, che: “Con decreto del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato e previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro degli affari esteri, la cittadinanza può essere concessa allo straniero quando questi abbia reso eminenti servizi all’Italia, ovvero quando ricorra un eccezionale interesse dello Stato”.

Così, il 14 aprile 2021, è stata discussa la mozione sulla concessione della cittadinanza italiana a Patrick Zaki e sulle iniziative per la sua liberazione, successivamente approvata dalla Camera con 358 voti a favore e 30 astenuti.

La mozione chiede al Governo il conferimento della cittadinanza italiana; domanda, questa, sulla quale l’esecutivo non si è espresso ufficialmente sebbene, al contempo, si stia adoperando con maggiore vigore in tutte le sedi europee e internazionali perché l’Egitto provveda al rilascio di Patrick George Zaki.

Ma quali sono i vantaggi che, sul piano pratico, determinerebbe l’eventuale riconoscimento della cittadinanza?

Anzitutto, la prima forma di tutela “naturale” ontologicamente connessa alla cittadinanza è rappresentata dalla protezione consolare.

Con ciò si intende l’aiuto fornito da un Paese ai suoi cittadini che vivono o si trovano all’estero e hanno bisogno di assistenza, anche, come nel caso di specie, nelle ipotesi di arresto o detenzione, come espressamente sancito dalla Convenzione di Vienna del 1963.

Nel caso della protezione consolare, lo Stato d’origine coadiuva i propri cittadini nel far valere e tutelare i propri diritti in base all’ordinamento giuridico del Paese in cui questi si trovano.

In particolare, il riconoscimento della protezione consolare prevede che i funzionari dell’Ambasciata o del Consolato rendano visita al detenuto, diano avvisi alla famiglia di questi, lo assistano nella ricerca di un legale ovvero intervengano al fine di dar luogo alle operazioni di trasferimento in Italia qualora il connazionale sia detenuto in Paesi aderenti alla Convenzione di Strasburgo del 1983 sul trasferimento dei detenuti o con cui siano in vigore accordi bilaterali.

Tuttavia, non tutti gli Stati membri dell’UE hanno un’ambasciata o un consolato in ogni paese terzo.

Ebbene, in tali casi, ai sensi dell’articolo 20, paragrafo 2, lettera c), e dall’articolo 23 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e dall’articolo 46 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE è consentito al cittadino di uno Stato europeo il diritto di chiedere l’aiuto dell’ambasciata o del consolato di qualsiasi altro Stato membro dell’Unione.

In tali casi, infatti, gli Stati membri sono obbligati ad assistere i cittadini dell’UE che non hanno rappresentanza alle stesse condizioni dei propri cittadini.

Ora, se la protezione consolare mira a tutelare il cittadino in caso di arresto o detenzione, è automatico chiedersi, invece, quali siano gli strumenti di tutela riconosciuti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni e dagli usi internazionali in tutti i casi in cui, ad esempio, un cittadino venga condannato in uno Stato terzo.

Tra questi, occorre anzitutto menzionare lo strumento dell’estradizione che, nell’ambito dell’ordinamento interno, è regolato dall’art. 13 c.p.

L’estradizione, è un procedimento in forza del quale un soggetto viene trasferito da uno Stato all’altro al fine di essere sottoposto ad un processo penale.

Il ricorso all’estradizione è sottoposto ad alcuni limiti che attengono al soggetto che deve essere estradato, al tipo di reato per cui l’estradizione è richiesta, oltre che al tipo di pena che può essere applicata nello Stato richiedente o in quello ricevente.

Quanto al primo limite, oltre che nella norma in esame, gli artt. 10 e 26 della Costituzione sanciscono il divieto di estradizione del soggetto che rivesta la qualità di cittadino o dello straniero per i reati politici, nonché nel caso in cui il reato sia punito con pena capitale.

Ebbene, fatti salvi i suddetti limiti, e purché non sussista un espresso divieto, l’estradizione può essere concessa anche quando così è disposto da convenzioni internazionali tra gli Stati e dagli stessi ratificate.

Tornando al caso di specie, occorre evidenziare che non sussiste un trattato bilaterale tra l’Italia e l’Egitto in materia di estradizione che consenta l’automatica estradizione di un cittadino italiano o egiziano dall’Italia verso l’Egitto o viceversa.

Da ciò consegue che, anche nell’ipotesi in cui dovesse essere riconosciuta la cittadinanza all’attivista Zaki non sussisterebbero, in ogni caso, le condizioni per procedere alla sua estradizione.

Tuttavia, ciò non significa che non possa essere richiesto e concesso il rilascio del medesimo.

Infatti, costituisce consolidata prassi internazionale quella per cui, pur in assenza di un accordo internazionale, sulla base del principio di reciprocità, uno Stato concede l’estradizione nell’ipotesi in cui lo Stato richiedente, in circostanze analoghe, abbia fatto o si impegni a fare altrettanto.

D’altra parte, un ulteriore strumento azionabile dal nostro Paese – che non deve essere confuso con quello dell’estradizione – è il meno noto “Trasferimento delle persone condannate”.

Tra Italia e Egitto, infatti, è attualmente in vigore, a partire dall’anno 2013, un accordo bilaterale sul trasferimento delle persone condannate in forza del quale può essere richiesto che i cittadini italiani condannati in Egitto, nonché ai cittadini egiziani condannati in Italia che facciano richiesta di scontare la pena nel proprio Paese d’origine vengano ivi trasferiti.

In conclusione, alla luce del breve quadro sopra delineato, sono evincibili i numerosi benefici connessi al riconoscimento e concessione della cittadinanza all’attivista e ricercatore Patrick Zaki, tanto sul piano della diplomazia, quanto, eventualmente, sul piano delle azioni giudiziarie italiane.
Sebbene, infatti, gli strumenti di tutela siano limitati e spesso criticati a causa della loro scarsa efficacia, in casi come questo possono costituire indubbiamente una valida alternativa ed un’ancora di salvezza.Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista

Eleonora Pintus, Avvocato

I possibili contenziosi da COVID-19:

1) La responsabilità delle strutture sanitarie per carenza organizzativa

In tale fattispecie potrebbero rientrare le pretese di coloro che ritengono di aver subito un danno derivante dalla mancata o tardiva ospedalizzazione nei reparti di terapia intensiva a causa dell’eccessivo affollamento dovuto alla presenza dei malati di COVID-19, così vedendosi pregiudicata la possibilità di una guarigione.

Pare evidente che tali casi siano figli di problematiche di tipo organizzativo e non rientrino nella “classica” casistica della colpa medica intesa come imprudenza, negligenza e imperizia dei sanitari.

Pertanto, al fine di verificare la sussistenza o meno della responsabilità della struttura sanitaria in presenza di un caso di tal fatta dovrà essere analizzata la normativa vigente in materia.

Tuttavia, sul punto la disciplina specialistica nulla dice.

Di converso, la dottrina si è occupata della tematica inerente la responsabilità della struttura sanitaria per carenze di tipo organizzativo-gestionale, basando i propri ragionamenti sul rischio inerente all’organizzazione di servizi di cura e assistenza alla salute delle persone.

Nonostante il fatto che la norma di riferimento sia l’art. 1218 c.c. (responsabilità contrattuale), l’onere di provare l’impossibilità della prestazione in capo al debitore/ospedale per fatto a lui non imputabile configurerebbe una vera e propria figura di responsabilità oggettiva gravante sulla struttura sanitaria per non essersi dotata di una organizzazione oggettivamente adeguata.

La configurabilità o meno di tale responsabilità deve passare necessariamente attraverso la verifica della prevedibilità del rischio che ha determinato la situazione di emergenza sanitaria. Quindi, dovrebbe essere svolta una indagine approfondita per appurare se, quando si è parlato per la prima volta di coronavirus in Cina, potevano prevedersi i risvolti drammatici che poi si sono concretizzati e che, quindi, potrebbero giustificare l’applicazione di una responsabilità di tipo oggettivo.

Sul punto, pare doveroso ricordare che già nel gennaio 2020 era all’ordine del giorno la discussione e l’approvazione del “Piano nazionale di preparazione e risposta ad una pandemia influenzale”, sia a livello ministeriale che regionale, il quale prevedeva misure rigide e decise per limitare e contenere la trasmissione delle infezioni in comunità. Quindi, in un eventuale contenzioso, il danneggiato potrebbe far leva sull’argomento della non imprevedibilità del rischio e sulla conseguente sussistenza della responsabilità sanitaria. Qualora, invece si ritenesse di applicare la norma sullo stato di necessità, escludendo dal campo le regole della responsabilità civile, residuerebbe il beneficio del riconoscimento di un’indennità ‹‹la cui misura è rimessa all’equo apprezzamento del giudice››.

In sostanza, in luogo del risarcimento da ordinaria responsabilità della struttura sanitaria sarebbe erogato un indennizzo da parte dello Stato: in coerenza con i doveri di solidarietà sociale costituzionalmente garantiti ex art. 2 Cost.

2) I danni richiesti dagli eredi del personale sanitario

Altra situazione che pare potersi concretizzare è quella riferita al risarcimento richiesto dagli eredi dei cosiddetti “eroi” del coronavirus che nell’adempimento dei propri doveri professionali hanno perso la vita o hanno riportato lesioni personali.

Tale richiesta troverebbe fondamento nel fatto che la struttura sanitaria, e più in generale il Servizio Sanitario Nazionale, non avendo dotato il personale medico e quello paramedico degli opportuni strumenti di prevenzione e protezione, incorrerebbe in responsabilità per quanto a questi occorso.

Anche tale ipotesi presenta aspetti di similitudine con quella trattata al punto 1) del presente articolo, stante la straordinarietà ed eccezionalità della situazione venutasi a creare che non ha permesso a chi di dovere (strutture e Ministero) di dotare di un numero sufficiente e adeguato di strumenti di protezione il personale sanitario.

Tuttavia, devesi evidenziare che la maggior parte dei decessi del personale sanitario ha colpito i medici di base (abbandonati dalle istituzioni e lasciati senza approvvigionamento di strumenti elementari di protezione, senza istruzioni o linee guida per segnalare e trattare i casi sospetti), categoria riguardo alla quale una valutazione molto condivisa sottolinea gli errori compiuti nell’ultimo decennio dalla politica sanitaria. Soprattutto, pare meritevole di censura il loro sostanziale ridimensionamento nell’operare come primo intervento, lasciando così alle strutture ospedaliere il ruolo centrale di tutta l’organizzazione sanitaria, con tutte le deficienze che si sono palesate nell’affrontare la crisi pandemica che ha colpito l’intera Italia, oltre a tutto il mondo.

Alla luce delle superiori considerazioni, in questo caso, l’imprevedibilità e l’eccezionalità della situazione non pare essere un criterio convincente per escludere la responsabilità della struttura sanitaria: così determinandosi una responsabilità medica che in questa situazione sembra difficilmente contestabile.

Anche in questo caso gli organi giudicanti potrebbero forse non ritenere applicabili i comuni rimedi risarcitori e prevedere, alla stessa stregua di quanto indicato nella fattispecie di cui al punto 1), che ai familiari del personale medico e paramedico che abbiano perso la vita o abbiano in ogni caso riportato lesioni spetti una indennità calcolata all’esterno del perimetro della responsabilità civile.

3) I danni pretesi dai familiari delle persone decedute in RSA

Altra fattispecie che potrebbe essere oggetto di controversie e conseguenti responsabilità da colpa medica è quella che ha coinvolto le persone ospiti delle RSA, le quali, essendo per definizione soggetti più fragili dei normali degenti, richiedono particolari cure e più in generale un protocollo maggiormente stringente e plasmato sulla loro condizione di soggetti “deboli”.

In merito alla sussistenza di profili di responsabilità si possono riscontrare, da un lato, argomenti legati alla carenza organizzativa, e, dall’altro lato, l’esistenza di una vera e propria colpa specifica per imprudenza e/o negligenza, sostanziatasi nell’aver accolto all’interno delle RSA pazienti anziani contagiati non gravi che hanno contagio a loro volta altri soggetti, poi deceduti.

Questa decisione, all’evidenza imprudente, è stata all’origine di tantissimi decessi.

Ragion per cui la fondatezza di una responsabilità medica in fattispecie di tal fatta pare indiscutibile: così da determinare in capo ai danneggiati il diritto a vedersi riconosciuti un risarcimento “pieno” e non solo di natura indennitaria, come nei casi finora analizzati.

4) Le istanze risarcitorie avanzate dai malati ordinari ai quali è stato precluso ritardato un trattamento sanitario a causa dell’affollamento della struttura di malati Covid-19

La casistica in esame comprende tutte quelle fattispecie non rientranti nelle precedenti e, pertanto, residuali.

In sostanza, questa comprenderebbe tutti quei soggetti affetti da patologie diverse dal Covid-19, ai quali per la situazione di affollamento e di emergenza sanitaria è stato negato o rimandato il trattamento sanitario di cui abbisognavano.

Nella casistica in questione, ancor più che nelle prime due affrontate, vengono in discussione profili intrinsecamente collegati alla carenza organizzativa della struttura che sopraffatta dall’urgenza della pandemia ha finito per trascurare gli altri pazienti anch’essi bisognosi di trattamenti sanitari.

Il potenziale attore di una controversia, rientrante nel perimetro delineato, è un paziente comune, non affetto da coronavirus che potrebbe lamentare un peggioramento delle proprie condizioni di salute per essere stato “trascurato” a causa dell’onda emergenziale.

In questo caso, si evidenzia che il difetto organizzativo – stimato come imprevedibile nel secondo caso affrontato – si presenta viceversa come altamente prevedibile, poiché non può ritenersi ammissibile che una struttura sanitaria svolga la gran parte della propria attività solo a vantaggio di una particolare classe di pazienti, non essendo in grado di proteggere il diritto alle cure di tutti, così come costituzionalmente sancito. (https://giustiziacivile.com/danno-e-responsabilita/articoli/la-responsabilita-sanitaria-e-i-possibili-contenziosi-da-covid – La responsabilità sanitaria e i possibili contenziosi da Covid, di Giulio Ponzanelli).

Francesco Sanna, Avvocato

Nei giorni scorsi hanno destato molto clamore gli arresti e le misure cautelari disposte dal GIP del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere nei confronti dei 144 agenti della polizia penitenziaria coinvolti nelle brutali violenze avvenute nella casa circondariale “Francesco Uccella“, ai danni di numerosi detenuti, tra cui anche un disabile con ridotta capacità di movimento.

Tali fatti si erano verificati il 6 aprile 2020, in occasione delle proteste organizzate dai detenuti delle diverse strutture carcerarie della penisola, innescatesi a seguito delle forti restrizioni imposte per contrastare l’epidemia Covid-19.

Pur a fronte di un eloquente filmato registrato all’interno del carcere campano che ritrae alcune delle condotte contestate agli odierni indagati, non v’è dubbio che si tratti di una vicenda ancora in corso di indagini, per la quale dovrà, dunque, attendersi l’esito dell’iter giudiziario per accertare le varie responsabilità di natura penale e disciplinare.

Tuttavia, quanto accaduto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, per le modalità delle condotte, nonché per la qualifica di pubblici ufficiali rivestita dagli autori delle stesse, per certi versi, ricorda il violento pestaggio avvenuto la sera del 21 luglio 2001, durante il G8 di Genova, nella tristemente nota Scuola Diaz.

Dal momento che si era trattato di atti degradanti e connotati da particolare crudeltà, su più fronti, si parlò di una vera e propria “tortura di Stato” messa in atto nei confronti dei malcapitati manifestanti.

Eppure, in quel preciso momento storico, l’ordinamento penale italiano non prevedeva una fattispecie di reato ad hoc; pertanto, i dirigenti, i funzionari e gli agenti di polizia coinvolti vennero processati, oltre che per falso ideologico e abuso d’ufficio, per reati minori come lesioni e percosse, puniti, quindi, con pene lievi.

In conseguenza dei fatti accaduti durante il G8 di Genova, con la sentenza del 7 aprile 2015 (Caso Cestaro c/ Italia), lo Stato italiano venne condannato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, affermando che quanto compiuto dalle forze dell’ordine italiane nell’irruzione alla Diaz dovesse essere qualificato come “tortura”, ha sanzionato l’inadeguatezza e l’incapacità dell’ordinamento italiano a prevenire e reprimere proprio i reati di tortura, in violazione dell’art. 3 della CEDU. Avv. Claudia Piroddu, Penalista • Avv. Eleonora Pintus, Penalista, Internazionalista

 

Cosa si intende per “reato di tortura”?

Tra i numerosi atti internazionali dei quali l’Italia risulta firmataria che vietano gli atti di tortura – o, comunque, trattamenti inumani e degradanti – occorre menzionare la Convenzione ONU del 1984, ratificata dall’Italia con la Legge n. 498 del 1988, con l’obbligo di legiferare in merito, che definisce come tortura “qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti … al fine di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla, intimorirla o far pressione su si lei … qualora siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale“.

Peraltro, anche la Costituzione italiana prevede nell’art. 13, comma 4, un obbligo di repressione dei fatti di violenza commessi nei confronti di persone sottoposte a restrizioni di libertà.

Nonostante ciò, solo a seguito di un tortuoso e lungo iter parlamentare conclusosi con la Legge n. 110 del 2017 si è giunti all’introduzione nel codice penale dei reati di tortura e di istigazione alla tortura, previsti rispettivamente negli articoli 613 bis e 613 ter c.p., collocati nel Titolo XII del codice penale, riguardante i delitti contro la persona e contro la libertà morale.

Nella specie, l’art. 613 bis c.p. punisce con la reclusione da 4 a 10 anni chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, vigilanza, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, qualora il fatto è commesso mediante più condotte o se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.

Al secondo comma dell’art. 613 bis c.p. è prevista una specifica ipotesi -punita più severamente con la pena della reclusione da 5 a 12 anni- che ricorre allorquando gli atti di tortura siano perpetrati dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di un pubblico servizio, con abuso di poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio. Avv. Claudia Piroddu, Penalista • Avv. Eleonora Pintus, Penalista, Internazionalista

Restano, invece, esclusi dall’ambito della fattispecie gli atti compiuti nell’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti, quindi, la disposizione non pregiudica in alcun modo l’intervento delle forze dell’ordine che operino legittimamente.

A ben vedere, quindi, la normativa penale interna ha recepito solo parzialmente il dettato della Convenzione ONU contro la tortura.

La differenza più evidente riguarda proprio la connotazione della fattispecie de qua sia come reato comune che può essere commesso da chiunque a prescindere dalla qualifica rivestita –ipotesi, quest’ultima, contemplata solo dall’ordinamento italiano- e sia come reato proprio, realizzato dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio.

Come vedremo a breve, la distinzione non è di poco conto e si riverbera sull’individuazione della natura del reato commesso dal soggetto qualificato, classificabile per taluni come reato autonomo e in altri casi come mera circostanza aggravante.

 

La più recente giurisprudenza sul reato di tortura

Al momento, vi sono diverse pronunce di merito e di legittimità che risultano senz’altro utili per delineare l’ambito di applicabilità del reato di tortura e per individuarne in maniera precisa gli elementi costitutivi.

A tale riguardo, pare opportuno segnalare la pronuncia n. 47079 dell’8 luglio 2019, con la quale la Corte di Cassazione si è espressa a seguito del ricorso proposto avverso l’ordinanza del Tribunale della Libertà dei Minori di Taranto, in ordine alle violenze commesse da un gruppo di giovani ai danni di un anziano disabile nel Comune di Manduria.

Nell’occasione, i Supremi Giudici hanno evidenziato che il bene giuridico protetto dalla norma in esame deve individuarsi nella “libertà morale o psichica, comunemente intesa come diritto dell’individuo di autodeterminarsi liberamente, in assenza di coercizioni psichiche“.

Si tratta, altresì, di un reato eventualmente abituale che si configura anche in presenza di due sole condotte poste in essere in un minimo lasso temporale, purché siano connotate da violenze esercitate sulle persone o sulle cose e minacce gravi, tali cioè da cagionare a chi le subisce un trauma psichico.

È stato precisato, inoltre, che la scelta del Legislatore italiano di identificare la tortura come reato realizzabile anche dal privato risulti più conforme alla realtà criminologica italiana e soprattutto consenta di fornire una nozione più ampia di tortura, consistente nel cagionare ad un soggetto indifeso intense sofferenze a prescindere dalla qualifica soggettiva dell’autore della condotta. Avv. Claudia Piroddu, Penalista • Avv. Eleonora Pintus, Penalista, Internazionalista

Tuttavia, proprio in merito alla qualifica rivestita dall’autore del reato, si è originato un interessante contrasto giurisprudenziale.

Invero, un primo indirizzo considera il reato di tortura commesso dal pubblico ufficiale come una mera circostanza aggravante della fattispecie comune prevista nel primo comma dell’art. 613 bis c.p., mentre un secondo orientamento connota tale ipotesi come fattispecie autonoma, in virtù del maggiore disvalore degli atti di tortura posti in essere dal soggetto preposto a garantire il rispetto della sicurezza e dei diritti della persona.

Del resto, non può trascurarsi che, qualora la condotta venisse qualificata come reato circostanziato, verrebbe vanificata la portata punitiva della norma, laddove, attraverso il meccanismo di bilanciamento delle circostanze di cui all’art. 69 c.p., sarebbe astrattamente possibile ridurre drasticamente la pena applicabile.

In tal senso, si può comprendere la portata della recentissima sentenza pronunciata il 17 febbraio 2021 dal GUP di Siena, in merito ai fatti di tortura commessi nel carcere di San Gimignano da parte di dieci agenti penitenziari nei confronti di un detenuto tunisino.

Nell’occasione, il Giudice di prime cure, proprio sulla base delle argomentazioni poc’anzi richiamate, ha specificato che la cd. tortura di stato, ovvero quella realizzata dalle forze dell’ordine, sia da considerarsi a tutti gli effetti una fattispecie autonoma di reato e, come tale, deve essere punita più severamente rispetto ai fatti commessi dal privato.

Solo in questo modo, infatti, il reato assumerebbe una connotazione più vicina a quella contenuta nella Convenzione ONU e garantirebbe una risposta punitiva più decisa dinnanzi a tali fatti gravissimi, finora rimasti per lo più nell’ombra, benché, purtroppo, sempre più frequenti.

Claudia PirodduEleonora Pintus, Avvocati

Come abbiamo visto negli articoli precedenti, l’ambiente è un tema molto caro a noi di ForJus e, per questo motivo, vogliamo porre l’attenzione su quanto sia indispensabile e necessario impiegare degli strumenti concreti per la sua tutela e salvaguardia.

Infatti, anche se ormai tantissime persone – soprattutto i giovani – sono consapevoli della necessità di contrastare l’inquinamento per preservare l’ambiente e, altresì, la salute della popolazione, è ancora elevatissima la quantità di rifiuti di plastica che viene riversata nei mari e negli oceani.

A tale proposito, è utile segnalare che sono tantissime le iniziative che si svolgono ogni anno, soprattutto nel periodo estivo, per sensibilizzare sull’importante e preoccupante tema dell’inquinamento causato dalla plastica, in particolare quella monouso.

Ad esempio, sabato 26 giugno nella spiaggia del Poetto di Cagliari si è svolta la terza edizione di “puliamolasella21”, un’importantissima iniziativa promossa da MedSea Foundation e Reset_UniCa per pulire sia la spiaggia che il fondale dai rifiuti che, purtroppo, vengono quotidianamente abbandonati.

Ebbene, i 400 ragazzi che hanno aderito con entusiasmo all’iniziativa hanno raccolto oltre 15 tonnellate di spazzatura nell’area di Marina Piccola!

Questo risultato mette in evidenza, da una parte, l’impegno attivo dei ragazzi e la loro volontà di tutelare gli spazi ed il paesaggio della città in cui vivono; ma dall’altra parte pone l’accento su quanto sia grave la minaccia dell’inquinamento.

Sul punto, basti pensare che, secondo quanto riportato dal sito del WWF Italia e da un report del 2021 di Greenpeace Italia, le correnti del mar Mediterraneo fanno tornare sulle coste l’80% dei rifiuti di plastica con il risultato che per ogni chilometro di litorale si accumulano oltre 5 kg di rifiuti al giorno.

Tra le maggiori cause di questo fenomeno possono annoverarsi l’alta densità di popolazione, la presenza di numerose attività antropiche negli ambienti marino-costieri e l’intenso traffico marittimo.

Tuttavia, l’inquinamento più dannoso da plastica è quello invisibile, ovvero quello causato dalle cosiddette microplastiche, cioè da quei minuscoli pezzi di materiale plastico rilasciato direttamente nell’ambiente (ad esempio, a seguito del lavaggio di capi sintetici) oppure prodotto dalla degradazione di oggetti di plastica più grandi (ad esempio, pezzi di bottiglia). Avv. Viola Zuddas, Civilista

Si pensi, poi, che le microplastiche presenti in mare possono essere inghiottite dagli animali e, attraverso la catena alimentare, la plastica da questi ingerita può arrivare direttamente nel nostro piatto: secondo delle stime effettuate da organizzazioni internazionali, ingeriamo in media cinque grammi di plastica a settimana, cioè l’equivalente di una carta di credito.

La gravità della situazione si coglie maggiormente se si riflette sul fatto che il mar Mediterraneo rappresenta soltanto l’1% delle acque mondiali ma contiene il 7% della microplastica marina.

Per risolvere tale problema occorrono soluzioni concrete che coinvolgano non soltanto i cittadini ma anche la politica (sia a livello nazionale che sovranazionale), la comunità scientifica, le associazioni ambientaliste ed il mondo produttivo, in maniera tale da trovare delle soluzioni condivise ed effettive.

Uno degli strumenti maggiormente impiegati per sensibilizzare sul tema è quello dell’istituzione di ricorrenze, o “giornate”, in occasione delle quali si promuovono delle specifiche iniziative.

Ad esempio, oggi, 5 luglio, è la giornata di azione europea per la raccolta dei coperchi di plastica che è stata istituita nel 2015 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite per sensibilizzare la popolazione sulla problematica dell’inquinamento derivante soprattutto dalle plastiche monouso. Avv. Viola Zuddas, Civilista

Parliamo, in particolare, di tutti quei prodotti di uso comune come i contenitori alimentari, le posate ed i bicchieri, le cannucce e molti altri, che sono la causa principale dell’inquinamento dell’ecosistema marino in generale.

Difatti, non solo questi rifiuti si ritrovano sull’arenile e sulla superficie del mare ma possono anche rinvenirsi sul fondale a profondità variabile.

Non vi è dubbio, quindi, che sia necessario creare sinergie ed approcci multidisciplinari per individuare gli interventi necessari da attuare in concreto contro la minaccia dell’inquinamento.

Viola Zuddas, Avvocato

Nel nostro articolo dal titolo “Viaggiare in Europa con il Certificato verde digitale: la proposta legislativa della Commissione Europea” (per ogni approfondimento clicca su https://www.forjus.it/2021/04/15/viaggiare-in-europa-con-il-certificato-verde-digitale-la-proposta-legislativa-della-commissione-europea/) abbiamo parlato della proposta avanzata dalla Commissione Europea per l’adozione di un “certificato di viaggio” riconosciuto in tutti gli Stati membri dell’UE e finalizzato a consentire ai cittadini europei di tornare a viaggiare in maniera libera e sicura in tutta Europea in un momento storico ancora dominato dalla pandemia da COVID-19 e dalle sue varianti.

Il 14 giugno scorso, a seguito di un rapido iter legislativo, il Parlamento Europeo ed il Consiglio hanno approvato la predetta proposta di legge e oggi il Certificato Verde digitale è una realtà.

Il nuovo Regolamento UE 2021/953, insieme al Regolamento UE 2021/954 applicabile ai cittadini di paesi terzi regolarmente soggiornanti o residenti nel territorio dell’Unione Europea, definisce a livello sovranazionale regole comuni direttamente applicabili in tutti gli stati europei per il rilascio , la verifica e l’accettazione di certificati COVID digitali che potranno essere utilizzati per spostarsi in Europa. Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista

Anche in Italia, dal 1 luglio, e per la durata di un anno,  la Certificazione verde COVID-19 sarà valida come certificato europeo (EU digital COVID certificate) e renderà più semplice viaggiare da e verso tutti i Paesi dell’Unione Europea e dell’area Schengen.

Ma vediamo insieme, più nel dettaglio, cos’è questo certificato, quali condizione occorre soddisfare per ottenerlo e quali sono le modalità per entrarne in possesso

Anzitutto, è opportuno specificare che si tratta di una Certificazione in formato digitale e stampabile, emessa soltanto dalla piattaforma nazionale del Ministero della Salute, che contiene un QR Code necessario per verificarne l’autenticità e la validità.

La Certificazione attesta una delle seguenti condizioni:

  • aver fatto la vaccinazione anti COVID-19 nello Stato membro di rilascio del certificato (certificato di vaccinazione);
  • essere negativi al test molecolare o antigenico rapido nelle ultime 48 ore;
  • essere guariti dal COVID-19 negli ultimi sei mesi.

Ottenere il Certificate pass è semplice e prevede pochi passaggi.

Si precisa fin da ora che, a tal fine, sono stati previsti più canali, con o senza identità digitale, cui l’interessato può accedere in piena autonomia o con un aiuto.

Come anzidetto, in Italia è il Ministero della Salute a rilasciare la Certificazione verde COVID-19 attraverso la Piattaforma nazionale, sulla base dei dati trasmessi dalle Regioni e Province Autonome.

Dopo la vaccinazione oppure un test negativo o, ancora, in caso di guarigione da COVID-19, il Certificato verde viene emesso automaticamente .

A questo punto, l’utente riceverà un messaggio via SMS o via email ai contatti comunicati al momento della somministrazione del vaccino o del test o quando è stato rilasciato il certificato di guarigione.

Detto messaggio contiene un codice di autenticazione da usare sui canali che lo richiedono e brevi istruzioni per recuperare la certificazione.

Per entrare in possesso del Certificato in modo autonomo, possono essere utilizzati vari canali, quali: il sito del Ministero della Salute, con accesso tramite identità digitale (Spid/Cie) oppure con Tessera Sanitaria o con il Documento di identità insieme al codice univoco ricevuto via email o SMS; tramite l’App “Immuni” e l’App “IO” o nel Fascicolo sanitario elettronico.

Tuttavia, chi non dispone di strumenti digitali, può ottenere il certificato sia in versione digitale sia cartacea con la Tessera Sanitaria e con l’aiuto di un intermediario quale il medico di medicina generale, pediatra di libera scelta, farmacista.

L’emissione della Certificazione è gratuita per tutti ed è disponibile in diverse lingue quali l’italiano, l’inglese e per i territori dove vige il bilinguismo, anche in francese o in tedesco.

Ma il Certificato Verde digitale consente davvero di viaggiare liberamente, senza rischiare di essere sottoposti ad eventuali restrizioni nel Paese di destinazione?

La risposta è negativa.

Al riguardo deve specificarsi che, come sancito dall’art. 3 paragrafo 5 del Regolamento 953/2020 “Il presente certificato non è un documento di viaggio (…) Prima di mettersi in viaggio, verificare le misure sanitarie pubbliche applicabili e le relative restrizioni applicabili nel luogo di destinazione.”

Ebbene, il dettato normativo appare molto chiaro: è fatta salva la competenza degli Stati di imporre restrizioni alla libera circolazione.

Ed infatti, come anche ribadito espressamente dall’articolo 11 del medesimo Regolamento, gli Stati possono imporre restrizioni alla libera circolazione, quali ulteriori test in relazione ai viaggi per l’infezione da SARS-CoV-2 o la quarantena o l’autoisolamento in relazione ai viaggi, purché siano necessarie e proporzionate allo scopo di tutelare la salute pubblica in risposta alla pandemia.

In tali casi, qualora uno Stato membro imponga, in conformità del diritto dell’Unione, ai titolari dei certificati, di sottoporsi, dopo l’ingresso nel suo territorio, alle suddette restrizioni o ad altre a seguito, per esempio, di un rapido peggioramento della situazione epidemiologica in uno Stato membro o in una regione – in particolare a causa di una variante di SARS-CoV-2 che desti particolare preoccupazione – lo Stato deve immediatamente informare la Commissione e gli altri Stati membri, se possibile 48 ore prima dell’introduzione di tali nuove restrizioni, dei motivi e della loro portata.

In conclusione, appare chiaro che l’introduzione di un approccio comune per il rilascio, la verifica e l’accettazione dei certificati COVID-19 miri a concretizzare e agevolare la graduale revoca di tutte le restrizioni finora adottate in modo coordinato, pur lasciando impregiudicata la competenza degli Stati membri di imporre eventuali limitazioni alla libera circolazione, in conformità del diritto dell’Unione, per contenere la diffusione del virus.

Eleonora Pintus, Avvocato

Lo scorso 22 giugno, il Vaticano ha inviato al Governo italiano una nota verbale chiedendo, in sostanza, che il DDL Zan venga modificato nella parte in cui «si stabilisce la criminalizzazione delle condotte discriminatorie per motivi “fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere”» perché «avrebbero l’effetto di incidere negativamente sulle libertà assicurate alla Chiesa cattolica e ai suoi fedeli dal vigente regime concordatario

Ora, la notizia della nota e dei sui contenuti, ripresa dai giornali, e poi da esponenti del mondo politico oltre che degli operatori del diritto, ha suscitato non poche polemiche.

Di fatti, se da un lato vi è chi sostiene che la predetta nota, in quanto atto diplomatico spesso usato dagli Stati, non costituisca affatto un atto di ingerenza, d’altra parte, invece, vi è chi sostiene che, al di là della sua qualificazione normativa, si tratti di un atto “ontologicamente” molto invasivo in quanto intrinsecamente idoneo ad esercitare una forte pressione su una legge ancora in fase di discussione.

Tanto che, proprio ad arginarne gli effetti, è intervenuta la replica del Presidente del Consiglio Mario Draghi il quale ha chiarito che l’Italia è uno Stato laico, non confessionale e che, quindi, ha il potere di legiferare liberamente, seppur nel rispetto dei principi costituzionali e degli impegni internazionali assunti, tra i quali vi è il Concordato con la Chiesa.Avv. Viola Zuddas, Civilista

Ma cosa si intende per laicità dello Stato?

Questo principio, in realtà, non è sancito in modo espresso nella Costituzione ma deriva dall’opera interpretativa della Corte costituzionale che con la storica sentenza del 12 aprile 1989, n. 203 ha ritenuto che dalle norme costituzionali riguardanti il fenomeno religioso si potessero desumere diverse garanzie e, in particolare:

  • salvaguardia della libertà di religione in regime di pluralismo confessionale e culturale,
  • pari protezione alla coscienza delle persone che si riconoscano in una fede o in nessuna,
  • equidistanza ed imparzialità rispetto a tutte le confessioni religiose.

Ebbene, come abbiamo già analizzato nei nostri precedenti articoli (https://www.forjus.it/2021/05/17/perche-litalia-ha-bisogno-del-ddl-zan/ e https://www.forjus.it/2021/05/20/ddl-zan-novita-legislative-e-risvolti-pratici-parte-2/), il DDL Zan è volto a promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione nonché a contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere, in attuazione dei princìpi di eguaglianza e di pari dignità sociale sanciti dalla Costituzione.

Non si vede, dunque, come il DDL Zan nella sua attuale formulazione possa incidere negativamente sulle libertà assicurate alla Chiesa ed ai suoi fedeli.

È, poi, importante ricordare che il nostro Paese si colloca al 35° posto in Europa per la lotta alle discriminazioni fondate sul sesso proprio perché non vi è un sistema legislativo in grado di assicurare efficacemente l’inclusione delle persone LGBTIQ nella società o che si occupi di reprimere con risolutezza atteggiamenti discriminatori, stigmatizzanti e violenti nei loro confronti.

Legge anti LGBTIQ in Ungheria: atto di ingerenza da parte degli Stati membri dell’Unione Europea?

Nello scenario europeo, una “querelle” dello stesso si è scatenata a seguito dell’approvazione da parte del parlamento ungherese di una legge che vieta la condivisione di qualsiasi contenuto che promuova l’omosessualità o il cambio di sesso a chiunque abbia meno di 18 anni.

In occasione de Consiglio Europeo tenutosi lo scorso 24 giugno, numerosi Capi di Stato e di Governo dei Paesi membri dell’Unione hanno immediatamente manifestato la loro ferma opposizione al premier Ungherese rispetto alla predetta legge, in quanto considerata un vero e proprio attentato alla democrazia, all’uguaglianza e alla libertà.

Ebbene, dette contestazioni sono state da taluni qualificate come atto di ingerenza statale nei confronti di un altro Stato sovrano, al pari del discusso intervento Vaticano sul ben noto Ddl Zan.

Al riguardo, non appare superfluo precisare che il principio di non ingerenza, fondamentale per il mantenimento di relazioni internazionali pacifiche tra gli Stati, ribadito anche nell’Atto di Helsinki del 1975, pone l’obbligo a carico di tutti gli Stati di non interferire negli affari interni di un altro Stato e trova il suo fondamento nel principio che stabilisce l’uguaglianza sovrana fra gli stessi.
Ora, al di là della discutibilità nella forma e nella sostanza della nota Vaticana, le recenti contestazioni mosse dagli Stati Europei e dalle Istituzioni UE nei confronti del governo ungherese non sembrano potersi qualificare come atti di ingerenza da parte di attori statuali e non statuali nei confronti di un altro Stato sovrano.

L’eccepita violazione del suddetto principio è, invero, totalmente avulsa da qualsivoglia ragione di carattere giuridico se si pensa che gli Stati membri dell’Unione possono attivare, ai sensi dell’art. 7 del Trattato sull’Unione Europea (TUE), già una procedura di pre-allarme allorquando vi sia un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro dei valori di cui all’art. 2, ossia della dignità umana, libertà, democrazia, uguaglianza, rispetto dei diritti umani e delle minoranze su cui si fonda l’Unione.

In forza di detta procedura vengono indirizzate allo Stato membro in questione delle raccomandazioni e, solo in caso di constatazione dell’esistenza di una violazione grave e persistente, il Consiglio può decidere di sospendere alcuni diritti nei confronti di quest’ultimo.

Trattasi nientemeno che dei valori che ogni Stato europeo che domanda di diventare membro dell’Unione deve rispettare ed impegnarsi a promuovere.

Ebbene, proprio le predette condizioni per l’ammissione, oltre al rispetto e gli adattamenti ai trattati su cui è fondata l’Unione Europea, formano l’oggetto di un accordo tra gli Stati membri dell’Unione e lo Stato richiedente e sottoposto a ratifica – così entrando a far parte dei singoli ordinamenti nazionali – da tutti gli Stati contraenti, con conseguente obbligo in capo agli stessi di adempiervi dando piena attuazione al contenuto.

Gli Stati aderenti, dunque, assumono un vero e proprio obbligo in quanto non solo devono dimostrare di rispettare i valori di cui all’art. 2 TUE, ma assumono altresì l’impegno formale di promuoverli, insieme ai Trattati istitutivi, tanto sul piano interno che su quello internazionale.

La violazione degli obblighi da parte degli Stati membri dei Trattati e dei principi ivi sanciti, che può estrinsecarsi sia mediante condotte commissive – ad esempio, come nel caso ungherese, adottando atti normativi interni contrari ai trattati e ai suoi principi – che omissive – ossia omettendo di compiere qualunque condotta necessaria alla promozione e attuazione degli atti comunitari e dei principi -, consente tanto a ciascuno degli Stati membri quanto alla Commissione di attivare il cd. ricorso per inadempimento o infrazione davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

Ad esito del giudizio, la Corte potrà comminare allo Stato accertato inadempiente il pagamento di una sanzione.

In conclusione, il complesso quadro normativo brevemente riportato consente di affermare che le contestazioni mosse al governo ungherese da parte degli Stati membri (a differenza dell’intervento Vaticano) non siano affatto qualificabili come atti di ingerenza ma, al contrario, eccezioni pressoché legittime della violazione dei principi e valori oggetto degli accordi di adesione e dei Trattati istitutivi da parte dello Stato Ungherese che, in quanto Paese membro, è giuridicamente obbligato al loro rispetto e promozione anche all’interno dell’ordinamento nazionale mediante l’emanazione di norme che siano lo specchio di quei valori che costituiscono la colonna vertebrale dell’Unione Europea.Avv. Eleonora Pintus, Internazionalista e diritto dell’Unione Europea

Eleonora PintusViola Zuddas, Avvocati

L’amore ai tempi del Covid

È ormai trascorso oltre un anno dall’inizio della pandemia da COVID-19 che ha modificato profondamente le abitudini di vita delle persone. La grande incertezza sul futuro ha ingenerato condizioni di forte stress sfociando spesso in stati emotivi difficili da gestire: allerta, preoccupazione, sgomento, sino ad arrivare a manifestazioni disfunzionali quali ansia, panico e addirittura sintomi post-traumatici.

La quarantena, necessaria per fronteggiare l’emergenza, ha sconvolto e continua a sconvolgere gli equilibri famigliari. Dai dati emerge chiaramente come la coppia sia una delle categorie maggiormente colpite. Secondo l’Associazione Nazionale Divorzisti Italiani, l’aumento nel numero di separazioni tra il 2019 ed il 2020 è stato pari al 60%.

Tra i principali motivi di tensione annoveriamo la permanenza forzata tra le mura domestiche, causa smart working o perdita del lavoro, il maggiore coinvolgimento nelle attività scolastiche dei figli nonché la nuova organizzazione dei tempi e degli spazi, o ancor peggio l’impossibilità di ricavarne di propri.

All’estremo opposto ci sono le situazioni di distanziamento forzato.

Le cause sono molteplici: professioni, come quelle sanitarie, che espongono al rischio di contagio ed obbligano all’isolamento domiciliare permanente o altre che costringono al lavoro in sedi distanti da casa e risentono dalle attuali limitazioni, di natura pratica e legale, agli spostamenti a lungo raggio.

Ma l’isolamento forzato e prolungato, tanto quanto la distanza, sono solo fattori di malessere esterni alla coppia.
Essi possono fungere da amplificatore di un disagio preesistente senza essere la reale causa di un’eventuale crisi.

Disagi e conflitti di varia natura sono infatti parte integrante di ogni relazione senza necessariamente minacciarne la stabilità.

Si parla di crisi solo quando il disagio è duraturo ed accompagnato da un sentimento di impotenza, conseguenza di innumerevoli tentativi di appianamento andati a vuoto.

Per comprendere le dinamiche interne ad un rapporto sentimentale dobbiamo necessariamente far riferimento alla teoria dell’attaccamento. Esiste infatti un filo diretto tra la qualità del legame instaurato con le figure significative dell’infanzia (caregivers) ed i legami instaurati in età adulta. Questo perché il bambino in base alle esperienze vissute costruisce degli schemi mentali chiamati MOI (Modelli Operativi Interni) che si porterà dietro, per dirlo con le parole di Bowlby, dalla culla alla tomba. Dott.ssa Stefania Persico, psicologa e psicoterapeuta

I MOI vengono costantemente impiegati dall’individuo come chiave di lettura nella rappresentazione di sé, nelle interazioni con gli altri e nell’interpretazione del mondo. Sono un patrimonio di memorie relazionali implicite che rimangono attive per tutta la vita e che ci portano a ricercare, anche nella scelta del partner, le esperienze che conosciamo. Ciò non significa che il nostro destino sia già scritto. Esperienze emozionali e relazionali correttive, ripetendosi nel tempo, possono sovrascriversi totalmente o parzialmente ai modelli precedentemente appresi e modificarli.

Quando due persone entrano in relazione portano all’interno della coppia i propri MOI ed il proprio stile di attaccamento (sicuro, insicuro-evitante, insicuro-ambivalente, disorganizzato). Senza entrare nei dettagli di queste complesse ed ampiamente studiate categorie, è facilmente intuibile come legami sicuri possano generalmente offrire superiori livelli di benessere psicologico rispetto a legami insicuri. Questi ultimi generano spesso malessere e disagio per la minore disponibilità di strategie di coping (l’affrontare/il fronteggiare le difficoltà) da impiegare nei momenti di crisi.

Ad esempio, se un individuo con uno stile di attaccamento insicuro-ambivalente si considera immeritevole di amore difficilmente riuscirà a fidarsi del partner: vivrà, pertanto, il rapporto con la costante paura di essere abbandonato mettendo in atto meccanismi di controllo, continua ricerca di rassicurazione e manifestando livelli incontrollabili di gelosia.

Adulti con uno stile disorganizzato, estremamente disfunzionale, vivranno invece un rapporto caratterizzato da forte instabilità, accesi conflitti sino ad arrivare a comportamenti di sopraffazione e violenza.

In estrema sintesi, la coppia entra in crisi nel momento in cui non riesce più a rinegoziare il legame attraverso discussioni e litigi costruttivi, smette di essere cooperativa e sente di non disporre più delle risorse necessarie al raggiungimento di un compromesso che garantisca una relazione sentimentale gratificante. Dott.ssa Stefania Persico, psicologa e psicoterapeuta

Come già accennato, la pandemia da COVID-19 ha solo esacerbato conflitti esistenti, rompendo equilibri già fragili. Con molta probabilità, la maggior parte delle crisi ad essa attribuite erano già in corso in fase pre-pandemica. Banalmente però, quando si è concentrati su molteplici attività come lavorare, fare la spesa, portare i figli a scuola, andare in palestra, uscire con gli amici, vedere i parenti non si ha il tempo per soffermarsi sulle difficoltà relazionali.
Solo nel momento in cui parte di questi fattori di distrazione sono improvvisamente venuti meno non è stato più possibile per molte coppie continuare a negare l’evidenza.

In ambito psicologico, la crisi non ha necessariamente un’accezione negativa. Al contrario, viene considerata un’opportunità di cambiamento, di crescita, di ridefinizione della propria identità e della propria autostima.

Per evitare di cadere preda del dolore e dell’angoscia è però indispensabile riorientarsi.
La terapia individuale o di coppia rappresenta un notevole aiuto in tal senso.
Consente infatti di analizzare la situazione da un punto di vista differente, quello di uno specialista con l’esperienza e gli strumenti necessari per farlo con distacco ed obiettività.

La terapia aiuta ad operare scelte più consapevoli nella direzione del cambiamento costruttivo e di un’evoluzione personale e del rapporto. Aiuta anche, quando altre strade non sembrano più percorribili, a maturare una scelta di separazione ed affrontare in maniera meno dolorosa e distruttiva la riorganizzazione del sistema che la dissoluzione di un rapporto inevitabilmente comporta.

Stefania Persico, Psicologa e psicoterapeuta

Mi sono laureata con il massimo dei voti in Psicologia con indirizzo Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni  Sociali presso l’Università degli Studi di Cagliari.

Ho conseguito la specializzazione quadriennale in psicoterapia della Gestalt ed in seguito mi sono formata come Terapeuta EMDR. Esercito la libera professione e l’attività di perito presso il mio studio di Cagliari in via Alghero 29.

Focus di diritto civile, diritto di famiglia Avv. Francesco Sanna

Conflittualità tra i coniugi e affidamento dei figli
Dal focus della dott.ssa Stefania Persico abbiamo appreso che la convivenza forzata o il distanziamento obbligatorio, imposti entrambi da ragioni sanitarie, ha causato l’aumento della conflittualità all’interno della coppia e, spesso, ha portato alla dolorosa decisione di separarsi.

Leggi tutto
Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

Il reato di maltrattamenti in famiglia: presupposti e “violenza assistita”
Il tema dei maltrattamenti in famiglia, specie negli ultimi anni e, in particolare, durante il periodo delle restrizioni imposte dalla pandemia di Covid-19, ha assunto sempre maggiore rilievo, anche a fronte dell’aumento considerevole delle richieste di assistenza da parte delle vittime di violenza domestica e di genere.

Leggi tutto
Focus di diritto civile, diritto di famiglia • Avv. Viola Zuddas

Il tradimento e l’addebito della separazione
Come già anticipato dalla Dott.ssa Stefania Persico nel suo focus, la pandemia da COVID-19 ha modificato profondamente le abitudini di vita delle persone e la quarantena, indispensabile per fronteggiare l’emergenza sanitaria, ha sconvolto gli equilibri familiari.

Leggi tutto
Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Litigi tra genitori – figli e disaccordo al vaccino. L’intervento dell’Unione Europea sui diritti dei minori.
È noto che le restrizioni derivanti dall’emergenza da Covid-19 hanno messo a dura prova il nostro stile di vita e la nostra quotidianità.

Leggi tutto

Nei giorni scorsi è iniziata la raccolta firme per il referendum sull’eutanasia, promosso dall’Associazione Luca Coscioni, che prevede la parziale abrogazione dell’art. 579 del codice penale, norma che, ad oggi, punisce l’omicidio del consenziente e vieta, pertanto, la pratica della cd. eutanasia attiva.

Data la complessità della questione e volendo tralasciare i problemi di natura etica che la tematica porta con sé, pare più opportuno soffermarsi, invece, sulla normativa italiana attualmente in vigore, nonché sugli aspetti giuridici dell’intervento referendario.

Innanzi tutto, quando si parla di eutanasia è necessario distinguere le forme di eutanasia attiva da quella omissiva.
Infatti, l’eutanasia praticata in forma omissiva consiste nell’interruzione delle cure necessarie per tenere in vita il paziente, comprese quelle di nutrizione e di idratazione artificiale, nel caso in cui questi decida liberamente di rifiutare qualsiasi tipo di trattamento sanitario, ancorché necessario per la sopravvivenza, al fine di evitare l’accanimento terapeutico.

Si tratta di un’ipotesi consentita in presenza di determinate condizioni, sebbene non risulti regolamentata in maniera chiara, univoca ed esaustiva.
La stessa trae fondamento nel diritto all’autodeterminazione individuale, previsto nell’art. 32 della Costituzione, nonché nella Legge 22 dicembre 2017, n. 219, in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, che, introducendo il divieto di ostinazione irragionevole delle cure, garantisce la tutela della “dignità nella fase finale della vita”.

A tale riguardo, ad esempio, in Italia è ammissibile la cd. terapia del dolore, consistente nella somministrazione di farmaci analgesici che, a fronte dell’interruzione dei trattamenti sanitari ritenuti gravosi e sproporzionati rispetto ai risultati ottenibili, conduce alla morte prematura del paziente, ma consentono al medico di alleviarne le sofferenze, così come la sedazione palliativa profonda e continua che evita al paziente terminale ulteriori patimenti.

Allo stesso modo, dal 31 gennaio 2018, è possibile dichiarare anticipatamente le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, attraverso il testamento biologico, con cui l’individuo può decidere se accettare o rifiutare le cure nell’eventualità in cui dovesse risultare affetto da una malattia invalidante o si trovasse nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso, proprio a causa delle condizioni di salute.

Per quanto riguarda l’eutanasia in senso stretto, ovvero praticata in forma attiva, l’Ordinamento italiano sanziona penalmente sia le condotte dirette, in cui è il medico a somministrare il farmaco eutanasico al paziente che ne faccia richiesta e sia quelle indirette, che si concretizzano in qualsiasi contributo materiale di agevolazione dell’altrui progetto di porre fine alla propria vita, attraverso l’assunzione -anche in modo autonomo- della sostanza letale. Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Invero, nella prima ipotesi ricorre il reato di omicidio del consenziente, punito dall’art. 579 c.p., mentre nel secondo caso si configura il reato di istigazione o aiuto al suicidio, di cui al successivo art. 580 c.p.

All’evidenza, entrambe le disposizioni sanciscono l’indisponibilità del diritto alla vita, nella misura in cui, pur a fronte della morte cagionata con il consenso effettivo della persona, la condotta risulta comunque punita, sebbene meno severamente rispetto all’ipotesi di omicidio volontario.

L’evoluzione normativa

Un significativo intervento correttivo è stato introdotto di recente dalla Corte Costituzionale, allorquando nell’ambito del noto processo a carico di Marco Cappato per il suicidio assistito di Dj Fabo, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p.

In particolare, la Consulta ha ritenuto non punibile la condotta “di chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli” (Corte Cost., 22 novembre 2019, n. 242).

Alla luce di quanto detto finora, quindi, in Italia l’eutanasia attiva costituisce reato (nelle forme dell’omicidio del consenziente o dell’istigazione o aiuto al suicidio), mentre, entro i limiti poc’anzi analizzati, il suicidio medicalmente assistito e la sospensione delle cure, altrimenti detta eutanasia passiva, risultano ammissibili, poiché riconducibili nell’ambito del già citato art. 32 Cost.

Tuttavia, giova precisare che, in occasione della vicenda Cappato, la Corte Costituzionale ha sollecitato espressamente l’intervento del Parlamento, affinché venisse introdotta un’appropriata disciplina a colmare il vuoto normativo in materia di fine vita, con lo scopo di garantire adeguata tutela a tutte quelle situazioni riconosciute come “costituzionalmente meritevoli di protezione”.

Ebbene, se, da un lato, nessun intervento normativo è stato ancora introdotto, d’altra parte non può trascurarsi che nella pratica si pone il problema della disparità di trattamento riservata ai pazienti affetti da patologie gravissime e sottoposti a trattamenti sanitari molto invasivi che, tuttavia, non potrebbero scegliere di rinunciare alle cure, senza subire ulteriori e prolungate sofferenze.

È evidente, infatti, che in tali sfortunate ipotesi resterebbe sempre precluso ai predetti soggetti di esercitare il diritto, riconosciuto anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, di decidere liberamente e consapevolmente di porre fine, con dignità, alla propria vita.

Il quesito referendario si propone, pertanto, di abrogare parzialmente l’art. 579 c.p., in modo tale che una persona maggiorenne, pienamente capace di intendere e di volere, nonché libera nell’esprimere il proprio consenso, possa consentire la propria morte, senza che ciò comporti conseguenze di natura penale nei confronti del medico che l’abbia determinata. Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Per il vero, la disposizione in parola resterebbe comunque applicabile, ma solo in relazione alla condotta di chi cagiona la morte di un uomo con il suo consenso, quando però il fatto è commesso contro una persona minorenne, inferma di mente o che si trova in condizioni di deficienza psichica, nonché nel caso in cui il consenso sia stato estorto con violenza, minaccia, ovvero carpito con l’inganno.

Quindi, la ratio dell’intervento è quella di punire, con la stessa pena prevista per l’omicidio volontario, soltanto chi cagiona la morte di un soggetto consenziente che, tuttavia, non risultasse in grado di prestare validamente il proprio consenso, per età, condizioni personali o in quanto destinatario di raggiri o suggestioni, finalizzate a intervenire, alterandolo, il processo di libera e consapevole formazione della volontà.

Ne consegue, al contrario, che ogni qual volta il consenso sia validamente prestato nel rispetto delle disposizioni di Legge dettate in materia di consenso informato e testamento biologico e, purché, tali condizioni e modalità siano verificate, non si configurerebbe alcun reato.

La portata della modifica sarebbe senza dubbio enorme.
In questo modo, infatti, si consentirebbe al soggetto di disporre del bene vita, al contempo realizzando un’estensione consistente del bene giuridico che si vuole proteggere, tale cioè da includervi il diritto dell’individuo di porre fine alla propria esistenza tramite l’aiuto di terzi, e, altresì, garantendo il pieno rispetto della dignità della persona.

All’evidenza, all’affermazione del predetto principio attraverso la proposta referendaria dovrebbe poi seguire un compiuto intervento legislativo, volto a regolamentare la materia e a delineare in maniera chiara e organica tutti i requisiti necessari per l’attuazione, sia in tema di espressione del consenso, che di accertamento preventivo dello stesso, nonché di individuazione dei soggetti legittimati a darne esecuzione.

Claudia Piroddu, Avvocato

La strage della funivia del Mottarone è tornata al centro della scena mediatica a seguito della diffusione delle immagini estrapolate dall’impianto di videosorveglianza della funivia di Stresa-Alpino-Mottarone e relative agli ultimi istanti di vita delle vittime della sciagurata vicenda.

Le immagini contenute in un file-video, come anche evidenziato dal comunicato trasmesso dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Verbania, erano state depositate all’atto della richiesta di convalida del fermo degli indagati e di applicazione della misura cautelare.

Atti e documenti che, come tale, sono tuttora al vaglio degli inquirenti.

La diffusione di tali immagini ha suscitato una forte reazione, oltre che da parte dell’opinione pubblica, anche, e in particolar modo, da parte degli operatori del diritto.

Ebbene, volendo scientemente sorvolare su qualunque discussione relativa al forte impatto emotivo di un triste episodio di cronaca gettato al patibolo mediatico, appare qui interessante esaminare la vicenda dal punto di vista normativo al fine di comprendere quali siano le ragioni “tecniche” alla base delle contestazioni mosse dal mondo giuridico.

Al riguardo, è preliminarmente rilevante comprendere quale veste giuridica debba essere attribuita a tali immagini video e, di seguito, individuare le norme che disciplinano la pubblicazione di atti e immagini nell’ambito del procedimento penale.

Al fine di rispondere al primo quesito, occorre evidenziare, anzitutto, che, come anticipato, le predette immagini sono state acquisite nella fase delle indagini preliminari, ossia quella fase processuale in cui il Pubblico Ministero o, su delega, la Polizia Giudiziaria, quale organo di indagine, ha l’obiettivo di ricercare qualunque elemento pertinente al reato e di individuarne l’autore. Elementi, questi, che, in ogni caso, potrebbero acquisire valore di “prova” solo successivamente, in sede dibattimentale.

Il video della funivia in oggetto, pertanto, può essere certamente annoverato tra gli atti raccolti dalla Polizia Giudiziaria in fase indagini preliminari e atte a mettere il P.M. nelle condizioni di decidere se esercitare o meno l’azione penale.

Ebbene, tutti gli atti di indagine compiuti dal Pubblico Ministero e/o dalla Polizia Giudiziaria sono coperti, ai sensi dell’art. 329 c.p.p., da segreto, e ciò fino a quando l’imputato non ne abbia conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari.

Tale norma disciplina, dunque, il segreto di indagine, che va dal momento dell’acquisizione della notizia di reato fino alla chiusura delle indagini preliminari.

La ratio della norma appare molto chiara: non nuocere all’attività investigativa.

Ora, inquadrata dal punto di vista processuale la natura delle immagini video di cui sopra, al fine di rispondere al secondo quesito, occorre comprendere se le stesse potessero costituire oggetto di pubblicazione o meno.

Sul punto, si rileva che il legislatore, al fine di dare piena e concreta attuazione al principio della tutela della riservatezza del procedimento penale, ha puntualmente disciplinato, parallelamente alle suddette regole sulla segretezza, il divieto di pubblicazione degli atti e di immagini ai sensi dell’art. 114 c.p.p.Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista

Detta norma, come anche puntualizzato dalla giurisprudenza di legittimità, regolamenta il divieto di pubblicazione di atti o documenti presenti nel fascicolo del P.M. che, come è noto, nella fase delle indagini preliminari è il solo fascicolo esistente.

Qui sono presenti gli atti coperti dal c.d. segreto assoluto (art. 114, comma 1, c.p.p.), ossia atti del Pubblico Ministero e della Polizia Giudiziaria – che rimangono segreti “fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza”- e per i quali vige un divieto assoluto di pubblicazione sia con riguardo al loro contenuto che al testo.

Nello stesso fascicolo vi sono, poi, gli atti non più coperti dal segreto e gli atti che, fin dall’origine, non sono coperti dal segreto stesso.
In particolare, e per quanto è di maggiore interesse in questa sede, si evidenzia che per gli atti non coperti da segreto sussiste comunque, come anche ribadito dagli Ermellini, un divieto, seppur limitato, di pubblicazione dell’atto stesso.
Ed infatti, è proprio il secondo comma dell’art. 114 c.p.p. ad evidenziare che non vi è coincidenza concettuale tra il cd. segreto ed il divieto di pubblicazione.

Invero, anche un atto non più coperto dal segreto non può essere pubblicato fino alle scadenze indicate dalla norma, ossia fino allo svolgimento dell’udienza preliminare oppure, se questa non si tiene, fino alla chiusura della fase delle indagini preliminari.
In caso di dibattimento, invece, gli atti contenuti nel fascicolo del P.M. non possono essere pubblicati se non dopo la sentenza di secondo grado.

Ora, il breve excursus normativo soprariportato, consente di comprendere gli aspetti tecnico-normativi alla base delle contestazione provenienti dal mondo giuridico a seguito della pubblicazione e divulgazione delle immagini video del drammatico incidente verificatosi lo scorso 23 maggio: trattasi, infatti, di immagini che, benché non più coperte dal segreto, in quanto note agli stessi indagati, non avrebbero potuto e dovuto essere pubblicate in forza del divieto di pubblicazione di cui all’art. 114, comma 2 c.p.p., in quanto afferenti ad un procedimento attualmente in fase di indagini preliminari.

Ebbene, appare chiaro come questa vicenda abbia sortito l’effetto di porre ancora una volta al centro delle riflessioni il rapporto tra media e giustizia, peraltro più volte affrontato dalla stessa Corte Europea dei Diritti dell’Uomo la quale ha più volte ribadito che, in tutte le ipotesi di diffusione delle notizie, debbano, in ogni caso, essere garantiti i diritti fondamentali delle persone quali, tra tutti, la presunzione di non colpevolezza.

Eleonora Pintus, Avvocato

In linea di principio, le ipotesi di responsabilità medica astrattamente ipotizzabili nella cura dei malati di COVID-19 non differiscono da quelle nelle quali possono generalmente incorrere i sanitari impegnati a contrastare una qualsiasi altra patologia infettiva e non

Tuttavia, l’attuale emergenza epidemica ha imposto il confronto con elementi di criticità fino ad oggi sconosciuti, quali: il confrontarsi con un virus e con una malattia ancora oggi non conosciuti appieno e, purtroppo, di facile e veloce diffusione; la smisurata e improvvisa quantità di malati si è rivelata superiore rispetto alla disponibilità delle risorse necessarie ad affrontarla, dai dispositivi di protezione individuale agli apparecchi di ventilazione forzata ai posti di terapia intensiva; l’insufficienza di sanitari specializzati ha determinato le strutture a far ricorso a medici appartenenti ad altre specializzazioni, che si sono così trovati ad operare in campi fuori dalle proprie competenze e per giunta senza copertura assicurativa.

Alla luce del quadro appena delineato, gli operatori del diritto hanno fin da subito evidenziato la possibile nascita del problema di una abnorme ed ingiustificata esposizione giudiziaria in danno del personale sanitario. Tant’è che erano state presentate varie proposte di emendamento del decreto “Cura Italia”, le quali avevano come fine ultimo quello di introdurre norme specifiche atte a limitare le fattispecie di responsabilità medica per eventi avversi alla salute dei pazienti colpiti dal COVID-19.

Con il ritiro di detti emendamenti la questione è rimasta irrisolta e ad oggi vi sono sostanzialmente due correnti di pensiero: una secondo la quale il nostro ordinamento è già strutturato in modo da evitare gli eccessi paventati e l’altra a mente della quale sarebbe invece opportuno intervenire con una normativa ad hoc.

In ordine alla tematica in parola pare opportuno soffermarsi sulla portata dell’art. 2236 c.c.

L’articolo 2236 c.c., rubricato ‹‹Responsabilità del prestatore di opera››, prevede una limitazione di responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave per il prestatore d’opera professionale che si sia trovato ad affrontare «problemi tecnici di speciale difficoltà» nell’esecuzione della prestazione. Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

La norma in analisi impone, quindi, di valutare la colpa del prestatore d’opera alla luce della particolare difficoltà della prestazione nel caso concreto, costituendo così, da un lato, una specificazione della più generica nozione di diligenza professionale, di cui all’art. 1176, comma 2, c.c., e, dall’altro lato, un bilanciamento tra le opposte esigenze di non mortificare l’iniziativa del professionista col timore di ingiustificate rappresaglie da parte del cliente in caso di insuccesso e quella di non indulgere verso non ponderate decisioni o riprovevoli inerzie del professionista stesso.

In virtù delle considerazioni testé esposte diversi interpreti considerano il dettato di cui all’articolo 2236 c.c. quale vero e proprio argine alla proliferazione delle azioni giudiziarie contro i sanitari per addebiti da responsabilità medica nel frangente del COVID-19.

Ad ogni modo, a prescindere dall’opportunità di un tale richiamo normativo, è principio generale quello secondo cui non esiste colpa ove si ritenga che l’agente non potesse tenere una condotta difforme da quella effettivamente adottata. Il concetto di inesigibilità, del resto, costituisce da sempre il limite di imputazione della responsabilità giuridica.

In buona sostanza, calando tali principi al particolare momento storico che viviamo, si tratta di valutare se fosse esigibile, da parte degli operatori e/o della struttura sanitaria, un contegno diverso da quello tenuto nel caso concreto, in termini di impegno professionale, di disponibilità delle risorse, di previsione dell’assetto organizzativo: il tutto alla luce dell’incontestabile eccezionalità dell’evento infettivo che il nostro Sistema Sanitario Nazionale si è trovato ad affrontare. Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

E allora, stabiliti i termini della questione, è verosimile ritenere che risulterà assai arduo il riconoscimento giudiziale di una ipotesi di colpa sanitaria per vicende cliniche connesse al coronavirus, perciò il problema della responsabilità di medici e ospedali coinvolti nella lotta all’epidemia è destinato ad autolimitarsi, e troverà probabilmente agevole soluzione nella sua generalizzata esclusione, fatte salve eventuali ed episodiche fattispecie in cui si siano verificate macroscopiche violazioni delle leges artis.

D’altronde, il principio di ragionevolezza, che affonda le sue radici nell’articolo 3 della Costituzione, comporta quale corollario ineludibile il dovere di trattare in modo uguale situazioni uguali e di trattare in modo diverso situazioni diverse. Dunque, poiché la fase di emergenza per sua stessa natura non può essere considerata uguale alla situazione ordinaria, va da sé che la materia della responsabilità medica ai tempi del COVID-19 non può che essere giudicata tenendo bene a mente e in giusta considerazione lo specifico momento storico che stiamo vivendo.

Francesco Sanna, Avvocato

 

Uno studio recentissimo dell’ISS svolto in collaborazione con l’Istituto Farmacologico Mario Negri, presentato il 31 maggio scorso in occasione della giornata mondiale senza tabacco, ha messo in evidenza come la pandemia abbia cambiato le abitudini degli italiani anche rispetto al fumo.

Infatti, se nei primi mesi del 2020 vi è stata una considerevole riduzione del consumo di tabacco, nei primi mesi del 2021 è stato registrato un aumento di 1,2 milioni di fumatori.

Un ruolo importante nell’aumento dei fumatori è stato svolto dalle sigarette elettroniche, sia quelle a tabacco riscaldato che le cosiddette e-cig: infatti, il loro utilizzo favorisce, da una parte, l’iniziazione al fumo e, dall’altra, contribuisce alla ricaduta nel consumo di sigarette tradizionali, ostacolandone in concreto la cessazione. Avv. Viola Zuddas, Civilista

Si pensi, poi, che secondo i dati forniti dall’Oms sono più di 8 milioni le persone che muoiono ogni anno a causa delle gravi e numerose patologie correlate al consumo di tabacco, come malattie cardiovascolari, tumori, malattie respiratorie e diabete.

A ciò si aggiunga che si è ormai consolidata anche l’evidenza scientifica secondo cui i fumatori hanno maggiori probabilità di sviluppare una forma grave di Covid-19 rispetto ai non fumatori.

Ebbene, in un contesto simile su chi ricade la responsabilità per i danni che una persona riporta per il consumo di sigarette?

Per rispondere a questa domanda bisogna da subito precisare che, negli ultimi decenni, è cresciuta la consapevolezza delle persone rispetto alla dannosità del tabagismo.

Infatti, è pur vero che qualche decennio fa le persone iniziavano a fumare sigarette sin da giovani, in quanto era un’abitudine piuttosto diffusa per ragioni culturali, sociali o di costume; tuttavia, adesso sono ben note le conseguenze che il fumo ha sull’organismo grazie anche a campagne di informazione promosse dallo Stato e da diversi enti ed associazioni.

Pensiamo, ad esempio, agli “avvertimenti” che nei primi anni 2000 sono comparsi sui pacchetti di sigarette e che contengono messaggi che descrivono i danni alla salute provocati dal fumo, accompagnati, in alcuni casi, da foto che rappresentano le conseguenze nocive sul nostro organismo.Avv. Viola Zuddas, Civilista

La dannosità del fumo, quindi, costituisce ormai da molto tempo dato di comune esperienza: il fumare, dunque, è un atto di volizione libero ed autonomo da parte di una persona che, pur consapevole della sua dannosità, sceglie comunque di fumare e, di conseguenza, di esporsi volontariamente ad un rischio per la salute.

A nulla rileva che le sigarette contengano delle sostanze tali da ingenerare uno stato di bisogno con dipendenza psichica e fisica che indurrebbero le persone a continuare a fumare.

Sul punto, la Corte di Cassazione è infatti costante nell’affermare che debba escludersi la sussistenza del nesso causale tra la condotta dei produttori / distributori di sigarette ed il danno derivato al soggetto in conseguenza del fumo, in quanto il prodotto finale dell’attività produttiva (ossia la sigaretta) non ha in sé una capacità di provocare situazioni dannose: invero, può diventare dannoso, e quindi pericoloso, l’abuso di sigarette specie se reiterato nel tempo.

Pertanto, è allo stesso fumatore che viene imputata la responsabilità per i danni alla propria salute, soprattutto quando abbia consumato sigarette in modo smodato, nonostante gli avvertimenti apposti sui pacchetti.

Viola Zuddas, Avvocato

Il caso

Era il 2 luglio 2020 quando un gruppo di pescatori Sardi di Sorso decide di prendere il largo verso il Capo di Roccapina, a poche miglia dalla Corsica, nei pressi degli Isolotti dei Monaci.

Detta area si inserisce nella riserva naturale delle Bocche di Bonifacio (réserve naturelle des Bouches de Bonifacio), classificata come Area specialmente protetta di interesse mediterraneo sita tra Corsica e Sardegna (per maggiori informazioni sulle Aree Marine Protette, leggi l’ultimo articolo di Forjus su https://www.forjus.it/2021/06/07/le-aree-marine-protette-criticita-e-tutela-penale/)

In quell’occasione, secondo la ricostruzione fornita da “l’Office de l’environnement de la Corse” (Ufficio dell’ambiente della Corsica), autorità francese che si occupa della vigilanza dell’area protetta, il gommone, con a bordo quattro pescatori, avrebbe violato l’area – così accedendo in acque di competenza francese – dove è severamente vietata ogni attività di caccia e pesca.

Tra le contestazioni mosse ai pescatori, oltre alla violazione di un’area protetta privi di autorizzazione, si inseriscono anche quelle di minaccia e resistenza a pubblico ufficiale.

Nei giorni scorsi, l’autorità Giudiziaria francese ha dunque emesso nei confronti dei tre uomini (uno dei quattro asseritamente presenti non è stato identificato) un “Mandato di arresto Europeo” (MAE), a seguito del quale gli stessi sono stati arrestati e sottoposti a custodia cautelare presso il carcere di Bancali.

La richiesta di consegna: il mandato d’arresto europeo (MAE)

Ma cosa è il MAE e come funziona?

Il mandato d’arresto europeo è una procedimento giudiziario “di consegna” finalizzato all’esercizio dell’azione penale o all’esecuzione di una pena.

La procedura consiste nell’emissione di un mandato da parte di un’autorità giudiziaria di uno Stato membro (emittente) perché si proceda all’ arresto di una persona ricercata in un altro Stato membro e la si consegni al primo Stato affinché possa essere esercitata l’azione penale o, in caso di condanna, ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privativa della libertà.

Detto meccanismo, nettamente semplificato rispetto al più noto procedimento di estradizione, opera mediante un contatto diretto delle autorità giudiziarie, basandosi sul principio del riconoscimento reciproco delle decisioni penali.

Al di là dei diritti che, in tali casi, debbono necessariamente essere garantiti agli imputati – quali, a titolo esemplificativo, il diritto di nomina di un difensore e quello di traduzione degli atti in una delle lingue ufficiali dello stato membro di esecuzione, ivi compreso il MAE – la peculiarità di tale procedura risiede nel fatto che il MAE può operare solo per fatti puniti dalla legge dello Stato emittente con una pena detentiva o con misure di sicurezza privative della libertà della durata massima non inferiore a dodici mesi ovvero, in caso di condanna o applicazione di una misura di sicurezza, allorquando sia stata pronunciata una condanna non inferiore a quattro mesi.
Ebbene, è lecito chiedersi se un Paese possa rifiutare la consegna della persona oggetto del mandato.

La risposta è affermativa.
In tal caso, si possono distinguere tra:

  • motivi obbligatori: ad esempio quando la persona è stata già giudicata per lo stesso reato (principio del ne bis in idem), oppure se si tratta di minori (dunque soggetti che non hanno compiuto l’età prevista per la responsabilità penale nel paese d’esecuzione) o, ancora, in caso di amnistia;
  • motivi facoltativi: ad esempio, in caso di assenza di doppia incriminazione per i reati che non siano compresi tra le 32 fattispecie penali di cui all’articolo 2, paragrafo 2, della decisione quadro sul MAE (tra i quali, reati di stupro, omicidio volontario, terrorismo, ecc); se sussiste giurisdizione territoriale, oppure in caso di procedura penale in corso nel paese dell’esecuzione ovvero per intervenuta prescrizione.

Per l’esecuzione del MAE sono previsti termini rigorosi, che dipendono dal fatto che il ricercato acconsenta o meno alla propria consegna.

Nei casi in cui il ricercato acconsente alla propria consegna, la decisione definitiva sull’esecuzione del MAE dovrà essere presa entro dieci giorni dalla comunicazione del consenso (articolo 17, paragrafo 2, della decisione quadro sul MAE).

Nei casi in cui, invece, il ricercato non acconsente alla propria consegna, la decisione definitiva sull’esecuzione del MAE dovrà essere presa entro sessanta giorni dall’arresto del ricercato (articolo 17, paragrafo 3, della decisione quadro sul MAE).

In ogni caso, dopo l’arresto del ricercato sulla base del MAE, l’autorità giudiziaria dell’esecuzione deve decidere se mantenere l’imputato in stato di custodia o metterlo in libertà fino alla decisione sull’ esecuzione del MAE.Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista

La custodia non è, quindi, sempre indispensabile e la persona può essere messa in libertà provvisoria in qualsiasi momento ai sensi della legislazione nazionale dello Stato membro di esecuzione.
Se la persona non è mantenuta in custodia, l’autorità competente dello Stato membro di esecuzione deve adottare le più opportune misure per evitarne la fuga.

Dette misure possono comprendere, ad esempio, il divieto di viaggio, la sorveglianza elettronica oppure l’obbligo di presentarsi periodicamente a un’autorità.

Il rifiuto di consegna dei pescatori di Sorso: la decisione del Giudice

Ebbene, tornando al caso dei pescatori di Sorso, è proprio quest’ultima misura che il Giudice incaricato dell’esecuzione nel corso dell’udienza tenutasi lo scorso 7 giugno 2021 ha deciso di applicare.

In detta occasione, infatti, i tre pescatori hanno negato il loro consenso alla consegna e, contestualmente, hanno richiesto che venissero applicate nei loro confronti misure cautelari attenuate.

Il giudice dell’esecuzione, ritenuto che l’arresto – avvenuto, come detto, su mandato di arresto europeo da parte della Francia – e le misure cautelari siano stati applicati ai giovani nei termini e alle condizioni di legge, le ha confermate, accogliendo, al contempo, le richieste avanzate dalla difesa di parte.

Ed infatti, al fine di scongiurare ogni pericolo di fuga – in attuazione dell’articolo 12 della decisione quadro sul MAE – l’autorità giudiziaria ha revocato la misura cautelare della custodia cautelare in carcere sostituendola con quella dell’obbligo di firma.

In merito all’eventuale consegna, bisognerà invece attendere la prossima decisione dell’autorità giudiziaria del Tribunale di Sassari, chiamata a dare esecuzione ad ogni mandato d’arresto europeo in base al principio del riconoscimento reciproco e in conformità alle disposizioni della decisione quadro sul MAE.

Eleonora Pintus, Avvocato

Domani, 8 giugno, si celebra la giornata mondiale degli Oceani, il cui tema è l’oceano come “fonte di vita e sostentamento”.

Questa giornata si colloca, in realtà, in un contesto ben più ampio poiché lo scorso primo giugno è stato inaugurato dalle Nazioni Unite e dall’UNESCO, con la Commissione Internazionale Oceanografica, il “Decennio delle Scienze Marine per lo Sviluppo Sostenibile degli Oceani e dei Mari”, con lo scopo di promuovere soluzioni a livello globale per proteggere gli oceani e le loro risorse.

Come sappiamo, gli oceani ed i mari svolgono un ruolo fondamentale nel nostro pianeta, in quanto non solo ospitano degli ecosistemi importantissimi per la biodiversità ma contribuiscono alla regolazione del clima: infatti, sulla base di studi recenti è emerso che oceani e mari assorbano mille volte più calore dell’atmosfera e che, fino ad oggi, abbiano trattenuto il 90% dell’energia in più derivante dall’incremento dei gas serra dovuti all’azione umana.

Come abbiamo già visto nell’articolo precedente, in Italia, il 26 febbraio scorso è nato ufficialmente il Ministero della Transizione ecologica (cosiddetto “MiTE”) che, tra gli altri obiettivi, si pone quello di tutelare la biodiversità, gli ecosistemi ed il patrimonio marino-costiero nonché salvaguardare il territorio e le acque.

A tale ultimo proposito, giova ricordare che, a partire dagli anni ’80, sono state istituite le aree marine protette (cosiddette “AMP”), ovvero quegli ambienti marini dati dalle acque, dai fondali e dai tratti di costa prospicenti, che presentano un rilevante interesse per le loro caratteristiche naturali, geomorfologiche, fisiche, biochimiche con particolare riguardo alla flora e alla fauna marine e costiere.

La Sardegna vanta cinque aree marine protette: in particolare, l’isola di Mal di Ventre, nella penisola del Sinis, è stata istituita alla fine degli anni ‘90 con l’obiettivo di tutelare e valorizzare l’ambiente marino e costiero all’interno dell’area delimitata e, altresì, di amministrare le attività sostenibili in esso consentite. Avv. Claudia Piroddu, Penalista • Avv. Viola Zuddas, Civilista

Peraltro, l’area marina protetta Penisola del Sinis – Isola di Mal di Ventre è stata inserita tra le dieci AMP italiane, alle quali è riconosciuto lo status di ASPIM (Aree Speciali Protette di Importanza Mediterranea), grazie al quale viene adottato un approccio internazionale di cooperazione per la gestione, conservazione e protezione delle specie protette, nonché una costante attività di monitoraggio e salvaguardia delle stesse.

Ebbene, le aree marine protette sono state istituite con le Leggi n. 979/1982 e n. 394/1991 che, ancora oggi, costituiscono lo strumento giuridico principale per garantire la gestione, la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale e archeologico di zone marittime e costiere circoscritte che, per conformazione e caratteristiche, sono considerate particolarmente vulnerabili e, pertanto, meritevoli di specifica protezione.

Le aree marine protette rientrano, infatti, nella nozione di “aree naturali protette”, tra le quali figurano, altresì, i parchi e le riserve naturali nazionali e regionali, le zone umide di importanza internazionale, i siti della Rete Natura 2000 e le altre aree naturali protette cd. minori.

Invero, secondo l’orientamento giurisprudenziale maggioritario (si veda, nella specie, Cass. pen., sez. III, 1 aprile 2014, n. 14950), l’elenco contenuto nella normativa di riferimento non è da intendersi tassativo e immutabile, bensì uno strumento aggiornabile nel corso del tempo.

Istituite con Decreto Ministeriale, le aree marine protette sono suddivise in tre differenti livelli di protezione in relazione alla zona in cui ci si trova e, precisamente:

Zona A o riserva marina integrale: è l’area di maggior valore ambientale; in essa sono consentite in genere unicamente le attività di ricerca scientifica e le attività di servizio,
Zona B o riserva marina generale: in essa è consentito il compimento di alcune attività che devono comunque assicurare un basso impatto sull’ecosistema,
Zona C o riserva marina parziale: in essa è consentito il compimento di alcune attività che devono comunque assicurare un modesto impatto sull’ecosistema.

La gestione delle AMP è affidata ad enti pubblici, istituzioni scientifiche o associazioni ambientaliste riconosciute, anche consorziati tra loro, ma il Ministero dell’Ambiente partecipa ai relativi oneri di spesa, mediante un sistema di riparto.

Peraltro, proprio l’aspetto gestionale ed economico -spesso lasciato ai Comuni interessati- rappresenta, a dire delle associazioni ambientaliste, il punto più debole della disciplina di settore.

Infatti, è da diversi anni che viene invocata una riforma organica della legislazione sulle aree protette, sul presupposto della mancanza di un approccio unitario che, operando sia a livello nazionale che europeo, consenta di creare un coordinamento e una programmazione efficace, garantendo il pieno coinvolgimento anche della collettività locale.

La tutela e i divieti

La già citata Legge quadro n. 394 del 1991 ha anticipato l’emanazione della Direttiva comunitaria 92/43/CEE, con la quale è stata creata una rete ecologica di zone speciali protette –denominata “Natura 2000”- finalizzata all’istituzione di un sistema generale di protezione di talune specie di flora e fauna, attraverso l’introduzione di specifici divieti.

In particolare, l’art. 19, co. 3, della L. 394/91, tutt’ora in vigore, individua un elenco di attività vietate nelle AMP, tra le quali figurano: la cattura, la raccolta e il danneggiamento delle specie animali e vegetali; l’introduzione di armi, esplosivi e di ogni altro mezzo distruttivo e di cattura, nonché la navigazione a motore e ogni forma di discarica di rifiuti solidi e liquidi.

Ad essere punite, quindi, non sono soltanto quelle condotte concretamente e immediatamente lesive del patrimonio ambientale, come ad esempio la pesca o il danneggiamento, ma anche condotte che, sulla base di un accertamento presuntivo, risultano suscettibili di mettere in pericolo il bene ambiente, come ad esempio la navigazione a motore o l’introduzione nell’AMP di armi ed esplosivi.

In altre parole, è stata disposta una tutela anticipata che arretra la soglia di punibilità e sanziona anche quelle condotte prodromiche al danno ambientale, cioè potenzialmente capaci di cagionarlo e, quindi, vietate a prescindere dall’effettivo verificarsi dello stesso. Avv. Claudia Piroddu, Penalista • Avv. Viola Zuddas, Civilista

Per chiarire meglio la portata applicativa della legge italiana, può essere utile fare un esempio pratico, richiamando la sentenza n. 6726 del 12 febbraio 2018, con la quale la Corte di Cassazione si è pronunciata sulla fattispecie di illecita effettuazione di attività di pesca subacquea all’interno dell’area marina protetta.

La vicenda approdata dinnanzi ai Supremi Giudici aveva ad oggetto due imputati che erano stati sorpresi nei pressi di alcune imbarcazioni di loro proprietà e, in particolare, uno di essi era stato rinvenuto in acqua, mentre imbracciava un fucile da caccia subacqueo.

Sebbene all’interno dell’imbarcazione di quest’ultimo, al momento dell’accertamento, non fosse stato rinvenuto il pescato, la Corte di legittimità ha comunque ritenuto configurata la fattispecie di cui all’art. 19, co. 3, lett. a) della L. n. 394/91, ossia “la cattura, la raccolta e il danneggiamento delle specie animali e vegetali”.

Infatti, alla luce di quanto detto finora, perché risulti integrata la contravvenzione in parola non occorrerebbe la concreta verificazione del danno.

Ritenuto, da un lato, che l’elenco delle condotte vietate non debba intendersi in maniera assoluta e tassativa, ma un’esemplificazione di comportamenti che il Legislatore intende impedire e, dall’altro, che sussiste un’anticipazione della soglia di punibilità, sarebbe sufficiente il compimento di condotte che risultano comunque idonee e strumentali alla compromissione del bene giuridico protetto.

Pertanto, il fatto stesso che l’imputato sia stato colto in acqua e con il fucile da caccia –il cui porto all’interno dell’AMP risulta comunque vietato, ai sensi del già citato art. 19, co. 3, lett. d), della Legge quadro- è elemento dirimente per ritenere che il medesimo fosse intento a compiere nell’AMP attività di pesca subacquea, che risulta vietata e, perciò, punibile.

Ad ogni modo, è solo attraverso un efficace e costante sistema di monitoraggio e controllo del territorio che è possibile garantire l’effettiva tutela delle AMP, ciò anche in funzione preventiva e come deterrente per tutte quelle condotte lesive del bene protetto.

Claudia PirodduViola Zuddas, Avvocati

Il prossimo 5 giugno è la giornata mondiale dell’ambiente, il cui tema quest’anno sarà il “Ripristino degli ecosistemi”: l’obiettivo, dunque, è quello di prevenire i danni inflitti agli ecosistemi del pianeta e di interrompere lo sfruttamento della natura per promuoverne la guarigione.

Questa data è stata scelta perché il 5 giugno 1972, durante la conferenza di Stoccolma sull’ambiente umano, ha preso forma il progetto dell’Onu con cui gran parte degli stati membri delle Nazioni Unite, le agenzie specializzate ONU ed altre organizzazioni internazionali si sono posti l’obiettivo di tutelare l’ambiente.

In Italia, il 26 febbraio scorso è nato ufficialmente il Ministero della Transizione ecologica (cosiddetto “MiTE”), che ha sostituito il Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, e che si pone l’obiettivo di:

  • tutelare la biodiversità, gli ecosistemi ed il patrimonio marino-costiero nonché salvaguardare il territorio e le acque,
  • attuare politiche di contrasto al cambiamento climatico e al surriscaldamento globale, realizzando programmi di collaborazione bilaterale specialmente con i paesi maggiormente vulnerabili ed esposti ai rischi dei cambiamenti climatici,
  • garantire uno sviluppo sostenibile, mirando all’efficienza energetica ed all’economia circolare, gestendo in maniera integrata il ciclo dei rifiuti e promuovendo la bonifica dei siti d’interesse nazionale,
  • valutare l’impatto ambientale delle opere strategiche, ponendo l’obiettivo di contrastare l’inquinamento atmosferico-acustico-elettromagnetico e di ridurre i rischi che derivano da prodotti chimici e organismi geneticamente modificati.

Grazie al contributo delle numerosissime campagne di sensibilizzazione (prima tra tutte, quella promossa da Greta Thumberg che ha fondato il movimento Fridays For Future che, anche in Italia, svolge un ruolo da protagonista su questi temi), i tempi sono maturi per completare anche la disciplina costituzionale relativa alla tutela dell’ambiente e dell’ecosistema.

Infatti, questi principi rappresentano una priorità per la società italiana nell’ambito delle sfide globali e, dunque, devono sicuramente essere disciplinati in maniera organica pure nella Costituzione, dove attualmente all’art. 9 si legge soltanto un breve riferimento alla «tutela del paesaggio».

Per tale motivo, è stato proposto un disegno di legge che prevede la modifica del citato art. 9 Cost. al quale verrebbe aggiunto il terzo comma del seguente tenore: «La Repubblica tutela l’ambiente e l’ecosistema, protegge le biodiversità e gli animali, promuove lo sviluppo sostenibile, anche nell’interesse delle future generazioni». Avv. Claudia Piroddu, Penalista • Avv. Viola Zuddas, Civilista

Questa modifica, se accolta, consentirebbe di tutelare in maniera più stringente l’ambiente e tutti gli esseri viventi che lo compongono, partendo dal concetto di “sviluppo sostenibile” che rappresenta un elemento indispensabile per l’affermazione e lo sviluppo di nuove tecniche produttive nel rispetto delle risorse naturali disponibili.

Ad ogni modo, nonostante, ad oggi, non venga espressamente menzionato tra i principi fondamentali della Costituzione, l’ “ambiente” è considerato un bene giuridico di valore costituzionale primario e assoluto.

Ciò è possibile attuando il richiamo, da un lato, alla tutela del paesaggio di cui all’art. 9, nella quale viene ricompresa sia la tutela ecologica e l’interesse alla conservazione dell’ambiente naturale, e, dall’altro lato, alla tutela della salute prevista nell’art. 32, ove viene collocata anche la salvaguardia dell’ambiente in cui vive l’uomo.

A garanzia della tutela dell’ambiente, l’ordinamento italiano prevede diversi illeciti sia di natura amministrativa che penale, contenuti principalmente nel Testo Unico Ambientale (D. Lgs. n. 152/2006), nonché nel codice penale.

Proprio nell’ottica di consentire una maggiore protezione dei beni naturali e della salute, con la Legge n. 68/2015 si è proceduto ad una vera e propria riforma dei reati ambientali, che pone al centro la tutela dell’ambiente e degli ecosistemi in quanto tali.

L’intervento normativo in parola è culminato con l’introduzione del Titolo VI-bis del codice penale, che prevede numerose fattispecie che vanno dal reato di inquinamento ambientale, all’associazione per delinquere nei reati ambientali, nonché all’ipotesi a lungo controversa di disastro ambientale.

A tale riguardo, proprio qualche giorno fa, la Corte di Assise di Taranto, con una sentenza da molti considerata “storica”, ha condannato a pene severissime i vertici amministrativi della più grande acciaieria d’Europa, l’ EX ILVA, per il reato di associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale.

Secondo i giudici di primo grado, negli anni, il noto stabilimento siderurgico avrebbe realizzato il massiccio sversamento nell’aria di sostanze nocive per la salute e per l’ambiente, cagionando malattie e morte soprattutto nella popolazione residente nei quartieri in cui sorge e tutt’ora opera l’azienda, oltre che l’avvelenamento di bestiame e prodotti alimentari.

Il reato di “disastro ambientale”

Una delle principali novità introdotte con la riforma dei reati ambientali è costituita dal delitto di disastro ambientale, disciplinato nell’art. 452 quater c.p., che punisce con la reclusione da cinque a quindici anni chiunque cagiona abusivamente un disastro ambientale ponendo in essere, alternativamente, una delle ipotesi descritte dalla norma, ovvero:

1) l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema;
2) l’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali;
3) l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo.

Nell’ultimo comma è prevista una circostanza aggravante che ricorre nell’ipotesi in cui il disastro venga prodotto in un’area naturale protetta o sottoposta a vincolo paesaggistico, ambientale, storico-artistico, ovvero in danno di specie animali o vegetali protette.

Al fine di rafforzare la tutela del bene “ambiente”, per condotta “abusiva” deve intendersi non soltanto quella perpetrata in assenza delle prescritte autorizzazioni o in presenza di autorizzazioni illegittime o non commisurate al tipo di attività esercitata, ma altresì quelle poste in essere in violazione di leggi statali o regionali e di prescrizioni amministrative.

La portata della riforma è senza dubbio molto significativa.

Infatti, prima delle modifiche, tali eventi venivano ricondotti unicamente nella fattispecie generale del cd. disastro innominato, di cui all’art. 434 c.p., posto a tutela della sola incolumità pubblica, non potendosi prescindere dal danno o dalla messa in pericolo delle persone.

L’attuale reato di disastro ambientale garantisce, invece, la tutela diretta dell’integrità dell’ambiente, in una prospettiva ecocentrica.

La norma, tuttavia, punisce indirettamente anche le conseguenze che la condotta lesiva dell’ecosistema produce nei confronti dell’incolumità pubblica, poiché –ed è questo il cuore della riforma- il Legislatore ha voluto dare attuazione al principio secondo il quale la tutela della vita e dell’integrità fisica muove sempre dalla tutela preliminare della salubrità dell’ambiente (Cass. pen., sez. III, 3 luglio 2018, n. 29901). Avv. Claudia Piroddu, Penalista • Avv. Viola Zuddas, Civilista

Oltre all’ampliamento delle condotte punibili poste in essere sia da privati che dagli enti e all’inasprimento delle pene, come efficacia deterrente e in funzione preventiva, giova segnalare che, proprio nell’ottica del ripristino degli ecosistemi, il codice penale prevede nell’art. 452 decies un trattamento sanzionatorio più favorevole nel caso del cd. ravvedimento operoso.

Tale ipotesi ricorre qualora l’autore del reato ambientale si adoperi per evitare che l’attività delittuosa venga portata a conseguenze ulteriori, ovvero, provveda concretamente alla messa in sicurezza, alla bonifica e ove possibile al ripristino dello stato dei luoghi.

Ad ogni modo, partendo dal presupposto che tutelare l’ambiente significa tutelare l’uomo, lo strumento repressivo non può da solo risolvere le innumerevoli problematiche connesse alla tematica ambientale.

È necessario, piuttosto, che vengano adottate al più presto politiche volte a promuovere lo sviluppo sostenibile, che consenta “alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”, in modo tale che la crescita economica, la coesione sociale e la tutela dell’ambiente vadano di pari passo.

Claudia PirodduViola Zuddas, Avvocati

La maternità surrogata, nota anche come gestazione per altri o utero in affitto, è una tecnica di procreazione assistita in cui una donna, la gestante, porta in grembo un concepito di cui, però, non sarà considerata come madre legale.

Nella maternità surrogata possono essere coinvolte da due fino a cinque persone. Vi può essere una sola persona, senza partner, che mette a disposizione il proprio seme e ricorre a questa pratica con una donna gestante. Può ricorrere a tale tecnica di procreazione una coppia composta da uomo e donna che usa il proprio materiale genetico, ovvero quello dell’uomo della coppia e quello della madre gestazionale.

Altresì, vi può ricorrere una coppia omosessuale composta da due uomini o due donne.

Orbene, detta prassi, è considerata illegale in numerosi Paesi, ivi compresa l’Italia dove, la maternità surrogata è una pratica condannata penalmente.

Infatti, la legge n.40 del 2004 all’art. 12 comma 6 punisce con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità.

Ebbene, dette preclusioni nazionali hanno indotto, negli anni, numerosi coppie a recarsi nei Paesi che ammettono tale pratica al fine di ottenere un figlio da maternità surrogata.

Ma, in tal caso, una volta portato a compimento il processo di gestazione e a seguito della nascita del figlio, lo Stato d’origine è tenuto a riconoscere il legame di filiazione e, per l’effetto, procedere alla trascrizione nei registri dello stato civile dell’atto di nascita straniero?

La confusa questione della legittimità della trascrizione dei suddetti atti ha tenuto banco nelle aule di giustizia, fino ad arrivare alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

In particolare, con l’ultimissima sentenza del 18 maggio 2021, nel caso Valdìs e altri v. Islanda, la Corte Europea ha riconosciuto la legittimità della decisione delle autorità islandesi che hanno negato a una coppia di sue cittadine la genitorialità di un minore nato da madre americana le quali, tornate in Islanda, hanno visto rigettare la richiesta di trascrizione dell’atto di nascita (ottenuto negli Stati Uniti) nei pubblici registri islandesi .

Difatti, poiché vige in Islanda il divieto di ricorrere alla maternità surrogata, prima la Corte Distrettuale e, successivamente, quale giudice di ultima istanza, anche la Corte Suprema islandese, hanno affermato che “in Islanda la madre naturale è la madre e le autorità non hanno l’obbligo di riconoscere i richiedenti come genitori”.

Alla luce di tale decisione, il bambino è stato considerato quale “minore non accompagnato” ma, al fine di garantirne la massima tutela, veniva sottoposto alla custodia delle due donne.

Ebbene, la Corte Europea ha ritenuto che la sentenza della Corte Suprema islandese non fosse né “arbitraria” né “irragionevole”, in quanto trova il proprio fondamento nella legge islandese che, stante l’espresso divieto, non può essere aggirata.

D’altra parte, la Corte ha riconosciuto che la predetta decisione non fosse, in ogni caso, lesiva dei diritti e della tutela del minore in quanto, poiché lo Stato ha disposto l’affidamento del minore alla coppia, sono state adottate tutte le misure necessarie ed idonee a “salvaguardare la vita familiare delle ricorrenti”.

Con la pronuncia dello scorso maggio, dunque, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha sancito il principio secondo cui gli Stati sono legittimati a rifiutare di trascrivere l’atto di nascita di bambini nati da madre surrogata. Avv. Eleonora Pintus, Penalista e Internazionalista

Detto principio ricalca quello già precedentemente espresso nel caso “Paradiso e Campanelli c. Italia” secondo cui, laddove non vi sia alcun legame di sangue tra genitori e figli, non può essere riconosciuto un rapporto di filiazione; legame che, invece, sussiste rispetto ai genitori biologici.

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha così affermato la legittimità del diniego di trascrizione e il divieto di maternità surrogata in quanto non rappresentano, in sé, una violazione dell’articolo 8 della Convenzione Europe dei Diritti dell’Uomo che tutela il rispetto alla vita privata e familiare.

In conclusione, secondo la Corte EDU, il divieto di maternità surrogata ed il rifiuto di trascrizione degli atti di nascita stranieri, non solo è legittimo e rientra nella discrezionalità riconosciuta agli Stati, ma risponde perfino all’esigenza di effettiva protezione delle donne che potrebbero trovarsi in una posizione di debolezza e subire pressioni a causa della surrogazione, nonché dei diritti dei minori, tra i quali si dovrebbe annoverare quello di conoscere i propri genitori naturali.

Eleonora Pintus, Avvocato