Nel dicembre 2020, la Commissione europea ha avanzato una proposta di regolamento sui Servizi digitali al fine di definire  competenze e responsabilità sul controllo dei contenuti delle grandi piattaforme online quali, a titolo esemplificativo, Google, Apple, Facebook e Amazon.  

La normativa ha portata rivoluzionaria in quanto vuole rappresentare un punto di svolta nella regolamentazione dei giganti della “Big Tech” e, al contempo, garantire agli utenti uno spazio digitale sicuro e capace di contrastare contenuti illegali online, indipendentemente dal luogo in cui essi risiedono nello spazio UE. 

Ma cosa si intende per servizi digitali?  

I servizi digitali sono quei servizi quali siti web, social media, app, e-book, streaming di musica e video che, oramai, occupano un ruolo essenziale nella nostra vita. 

Come evidenziato dalla stessa Commissione, se la crisi del coronavirus da un lato ha dimostrato l’importanza delle tecnologie digitali in tutti i settori della vita moderna, d’altra parte ha fatto emergere la totale dipendenza della nostra economia e società dai servizi digitali e dai quali conseguono, oltre che benefici, anche nuovi rischi che l’attuale quadro normativo non è in grado di prevenire adeguatamente (per maggiori approfondimenti sul tema, leggi il nostro articolo “La figura professionale dell’influencer – parte 2”).  

Con questa proposta legislativa – che si basa sui principi fondamentali già fissati nella direttiva sul commercio elettronico, validi ancora oggi – la Commissione si è impegnata ad aggiornare le norme che definiscono le responsabilità e gli obblighi dei prestatori di servizi digitali e, in particolare, delle piattaforme online. 

Cosa prevede, dunque, la legge sui servizi digitali?

La proposta mira ad introdurre regole comuni destinate a creare e ad assicurare migliori condizioni per la prestazione di servizi digitali innovativi nel mercato interno e, in particolare: 

  •  contribuire alla sicurezza online e alla protezione dei diritti fondamentali; 
  • istituire una struttura di governance forte e duratura per una vigilanza efficace sui prestatori di servizi intermediari.  

Elemento fondamentale della proposta è la determinazione, in maniera chiara e trasparente, delle competenze e responsabilità per i prestatori di servizi intermediari e, in particolare, per le piattaforme online utilizzate ogni giorno da milioni di cittadini europei, quali: piattaforme di social media (quali Facebook, Twitter e instagram), app store, YouTube e Spotify, siti dedicati ai viaggi, alloggio ed ogni altra piattaforma inserita nel mercato digitale.  

Al fine di giungere a questo risultato, sono stati previsti degli obblighi a carico delle piattaforme online quali, ad esempio, quello di acquisire, memorizzare, verificare e pubblicare informazioni sugli operatori commerciali che utilizzano i loro servizi così da garantire agli utenti un ambiente online sicuro e trasparente.  

Le misure oggetto dell’iniziativa legislativa della Commissione sono, altresì, dirette ad attenuare i rischi di discriminazione, a proteggere i diritti dei minori e il diritto alla dignità umana.
In tal senso, sembrerebbe, infatti, che le Big Tech non potranno più raccogliere dati personali che rivelino l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche o altri dati sensibili; dati che, dunque, non potranno essere utilizzati per proporre pubblicità mirata.Avv. Eleonora Pintus, Diritto dell’Unione Europea

Allo stesso tempo, il regolamento prevede una strenua lotta ai cosidetti “dark pattern”, ossia tutte quelle tecniche dirette a fuorviare i consumatori per indurli a fornire consensi indesiderati o a eseguire operazioni non volute. 

Per rafforzare il quadro di tutele, la proposta di regolamento ha, inoltre, previsto una diretta responsabilità dello Stato membro incaricato di vigilare sulla conformità dei prestatori di servizi stabiliti sul suo territorio agli obblighi sanciti dalla proposta di regolamento.  

Ma la nuova normativa non dimentica di riconoscere un ruolo attivo all’utente, prevedendo una vasta gamma di strumenti da questo direttamente azionabili al fine di vedere salvaguardati i propri diritti.Avv. Eleonora Pintus, Diritto dell’Unione Europea

Al riguardo, sono state delineate procedure di notifica e azioni per i contenuti illegali, oltre che la possibilità di impugnare le decisioni delle piattaforme in merito alla moderazione dei contenuti. 

Appare perciò chiaro che il fine ultimo della proposta legislativa  è proprio quello di migliorare la sicurezza online degli utenti in tutta l’Unione e la protezione dei loro diritti fondamentali.  

Al fine di dare concreta e mirata attuazione alla normativa, la proposta comporterà una serie di garanzie obbligatorie, compresa la comunicazione di una motivazione all’utente, oltre meccanismi di reclamo sostenuti dai prestatori di servizi ed anche un meccanismo esterno di risoluzione extragiudiziale delle controversie.  

Quali sono i prossimi passi da compiere? 

Solo pochi giorni fa, il Parlamento Europeo ha approvato la proposta di regolamento sui servizi digitali  (DSA). 

Con una netta maggioranza (530 voti favorevoli, 78 contrari ed 80 fra astenuti ed assenti) il Parlamento Europeo ha approvato la bozza che prevede la responsabilità delle Big Tech nella rimozione diretta di contenuti illegali o nocivi, la responsabilità legale delle stesse nei confronti degli utenti,  ed un consistente potenziamento degli strumenti per negare il consenso alla pubblicità mirata. 

Tuttavia, ai fini dell’approvazione della proposta di legge, sarà necessario il parere favorevole del Consiglio Europeo, chiamato ad esprimersi sulla proposta di legge e sugli emendamenti già a partire dal prossimo 31 gennaio 2022.  

Bisognerà dunque attendere al fine di scoprire se la proposta di regolamento verrà approvata, in un unico ed identico testo, dalle due massime Istituzioni comunitarie. 

Eleonora Pintus, Avvocato

La partecipazione delle parti al procedimento di consulenza tecnica preventiva è necessaria ai sensi dell’articolo 8, comma 4, L. 8 marzo 2017 n. 24. Ciò denota l’evidente intento del Legislatore di favorire al massimo il raggiungimento di un accordo di conciliazione, sino al punto da adottare, nei confronti della parte che non manifesti un atteggiamento collaborativo, serie sanzioni.

Queste sono di diverso tipo e trovano la loro applicazione nel successivo giudizio di merito:

a) mancata partecipazione delle parti:

  1. condanna al pagamento delle spese di consulenza e di lite, indipendentemente dall’esito del giudizio;
  2. condanna al pagamento di una pena pecuniaria, determinata equitativamente, in favore della parte che è comparsa alla conciliazione;

b) mancata formulazione dell’offerta di risarcimento del danno da parte dell’impresa di assicurazione ovvero di mancata comunicazione dei motivi contrari:

  1. Qualora si giunga ad una pronuncia favorevole al danneggiato, si avrà la trasmissione della copia della sentenza da parte del giudice all’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni (IVASS) per gli adempimenti di propria competenza.

Venendo alla conclusione del procedimento di consulenza tecnica preventiva si osserva che il consulente tecnico d’ufficio, prima di depositare la relazione in cancelleria, deve tentare – se possibile – la conciliazione tra le parti.Avv. Francesco Sanna, Civilista

Preme precisare che il tentativo in parola non è facoltativo, bensì è doveroso.

Difatti, l’indagine sulla possibilità o meno del tentativo di conciliazione deve tenere in debita considerazione due elementi: la natura della causa e l’atteggiamento assunto dalle parti prima del deposito della relazione in cancelleria, che potrebbero indurre il consulente a non tentare la conciliazione perché ritenuta del tutto inefficace.

Dal punto di vista procedurale la condizione di procedibilità è assicurata dall’esperimento del procedimento de quo, non potendosi di certo imporre alle parti di imbastire una trattativa, che per sua stessa natura deve essere il frutto della sola ed esclusiva volontà dei soggetti coinvolti.

Ad ogni buon conto, ove si giunga alla conciliazione, si applicano i commi 2 e 3 dell’art. 696-bis c.p.c. Così il giudice deve attribuire al processo verbale di conciliazione efficacia di titolo esecutivo, ai fini dell’espropriazione e dell’esecuzione in forma specifica, oltreché per l’iscrizione di ipoteca giudiziale.
Ai sensi del comma 4, il processo verbale è esente dall’imposta di registro.

Di converso, se la conciliazione non riesce, si applica l’art. 8, comma 3, della legge 8 marzo 2017 n. 24, a mente del quale «la domanda diviene procedibile e gli effetti della domanda sono salvi se, entro novanta giorni dal deposito della relazione o dalla scadenza del termine perentorio di sei mesi dal deposito del ricorso, è depositato, presso il giudice che ha trattato il procedimento di cui al comma 1, il ricorso di cui all’articolo 702-bis del codice di procedura civile. In tal caso il giudice fissa l’udienza di comparizione delle parti; si applicano gli articoli 702-bis e seguenti del codice di procedura civile».

Una volta instaurato il procedimento di cui all’art. 702-bis e ss. c.p.c., «ciascuna parte può chiedere che la relazione depositata dal consulente sia acquisita agli atti del successivo giudizio di merito».Avv. Francesco Sanna, Civilista

Qualora non venga rispettata la condizione di procedibilità, ai sensi dell’art. 8, comma 2, della legge 8 marzo 2017 n. 24, «l’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza. Il giudice, ove rilevi che il procedimento di cui all’articolo 696-bis del codice di procedura civile non è stato espletato ovvero che è iniziato ma non si è concluso, assegna alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione dinanzi a sé dell’istanza di consulenza tecnica in via preventiva ovvero di completamento del procedimento».

Una volta divenuta procedibile la domanda, deve ritenersi che, essendo già stato promosso il processo secondo determinate forme (quelle del rito ordinario di cognizione ovvero quelle del rito sommario di cognizione), con queste stesse forme esso dovrà continuare. La regola della proposizione della causa secondo gli artt. 702-bis ss. c.p.c., infatti, vale soltanto nell’ipotesi in cui si sia stato preliminarmente esperito l’accertamento tecnico preventivo ex artt. 696-bis ss. c.p.c.

Francesco Sanna, Avvocato

La settimana scorsa ha destato molto scalpore la notizia, rilanciata da tutte le testate giornalistiche – sportive e non –, secondo cui il tennista serbo n.1 del ranking mondiale, Novak Djokovic, avrebbe partecipato agli Australian Open che inizieranno il prossimo 17 gennaio.

Sul punto è importante ricordare che, come precisato da Craig Tiley, CEO degli Australian Open, ogni atleta che arriva in Australia deve rispettare il protocollo deciso dagli organizzatori del torneo in accordo con il Governo nazionale e le autorità locali e, pertanto, deve essere vaccinato o deve aver presentato domanda per esenzione medica.

Ebbene, Nole Djokovic, noto per le sue posizioni no vax, ha ottenuto l’esenzione dal vaccino anti Covid19 a seguito di «un rigoroso processo di revisione che coinvolge due gruppi indipendenti e separati di esperti medici […] secondo protocolli equi e indipendenti», come chiarito dagli organizzatori della Tennis Australia.

La notizia, diventata un vero e proprio “caso”, ha acceso le polemiche nel mondo dello sport ed ha coinvolto anche autorevoli esponenti della comunità scientifica come il dott. Roberto Burioni, medico, professore di microbiologia e virologia all’università Vita-Salute San Raffaele, ed il dott. Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, che hanno rilasciato delle dichiarazioni piuttosto contrariate in relazione al comportamento tenuto dal tennista e dal gruppo di medici che avrebbe esaminato la sua domanda. 

Le ipotesi di esenzione dal vaccino

Ma al di là delle motivazioni di carattere personale che possono spingere ciascuno a scegliere di sottoporsi, o meno, alla vaccinazione, ci sono delle ragioni mediche che consentono di ottenere l’esenzione dal vaccino?
Sul punto è bene precisare che il Ministero della Salute, attraverso l’adozione di apposite circolari, ha regolamentato il rilascio di certificazioni di esenzione dalla vaccinazione anti-SARS-CoV-2 nei confronti di soggetti che per condizione medica non possono ricevere o completare la vaccinazione per ottenere la certificazione verde COVID-19, ovvero il cosiddetto
Green Pass. 

In particolare, la certificazione di esenzione viene rilasciata nel caso in cui la vaccinazione stessa venga omessa o differita per la presenza di specifiche condizioni cliniche documentate che la controindichino in maniera permanente o temporanea.Avv. Viola Zuddas, Civilista

Infatti, secondo quanto precisato dallo stesso Ministero della Salute, in via di prima approssimazione, la vaccinazione non deve essere somministrata quando il rischio che si manifestino delle reazioni avverse è maggiore dei vantaggi indotti dalla vaccinazione stessa. 

E’ evidente che tale valutazione, di competenza del medico, deve essere riferita allo specifico tipo di vaccino che si intende somministrare, in quanto la presenza di una controindicazione a quello specifico vaccino non esclude la possibilità che al paziente ne possano essere somministrati altri disponibili. 

Ad ogni modo, le persone che ottengono l’esenzione dalla vaccinazione anti SARS-CoV-2 devono essere adeguatamente informate sulla necessità di continuare a rispettare le norme di precauzione previste dal Governo e, in particolare, utilizzare le mascherine, praticare il distanziamento sociale dalle persone non conviventi, evitare gli assembramenti e così via. 

Quali sono le modalità di rilascio delle certificazioni di esenzione alla vaccinazione anti-SARS-CoV-2?

Come chiarito dallo stesso Ministero della Salute, le certificazioni di esenzione potranno essere rilasciate direttamente dai medici vaccinatori dei Servizi vaccinali delle Aziende ed Enti dei Servizi Sanitari Regionali o dai medici di Medicina Generale o pediatri di libera scelta dell’assistito che operano nell’ambito della campagna di vaccinazione anti-SARS-CoV-2 nazionale e che devono aver cura di archiviare la documentazione clinica del paziente. 

La certificazione deve essere rilasciata a titolo gratuito e deve contenere: 

  • i dati identificativi del soggetto interessato (nome, cognome, data di nascita); 
  • la dicitura: “soggetto esente alla vaccinazione anti SARS-CoV-2. Certificazione valida per consentire l’accesso ai servizi e attività di cui al comma 1, art. 3 del Decreto Legge 23 luglio 2021, n.105”; 
  • la data di fine di validità della certificazione; 
  • i dati relativi al Servizio vaccinale della Aziende ed Enti del Servizio Sanitario Regionale in cui il sanitario opera come vaccinatore COVID-19 (denominazione del Servizio – Regione);
  • il timbro e la firma del medico certificatore (anche digitale); 
  • il numero di iscrizione all’ordine o codice fiscale del medico certificatore. 
La posizione del Consiglio di Stato sulla verifica della regolarità del rilascio delle certificazioni di esenzione

Con la recentissima sentenza n.8454/2021, il Consiglio di Stato ha ribadito che il medico sia tenuto a documentare con rigore le specifiche condizioni cliniche del paziente dalle quali emergerebbe la necessità di esonerarlo dalla vaccinazione per la sussistenza del pericolo per la sua salute. 

L’attestazione delle “specifiche condizioni cliniche documentate” richieste dalla Legge, infatti, non consiste nella mera dichiarazione della loro esistenza “ab externo” ma impone che delle stesse sia dato effettivo riscontro nella certificazione unitamente al “pericolo per la salute” del paziente. 

Sul punto, il Consiglio di Stato ha poi evidenziato che, in caso contrario, verrebbe del tutto meno il potere di controllo da parte dell’Amministrazione, alla quale spetta, anzitutto, il potere/dovere di vagliare, quantomeno secondo un parametro minimo di attendibilità, la rispondenza della certificazione alla finalità per la quale è prevista. 

Come si è concluso “il caso” Djokovic

Quanto al tennista serbo, dopo le fortissime polemiche sollevate, il Governo australiano ha annullato il suo visto perché ritenuto non in regola con le norme anti covid previste nel Paese e l’ha posto in isolamento in un’apposita struttura di Melbourne in attesa della decisione sulla sua espulsione. 

Peraltro, il giudice del tribunale di Melbourne, che doveva pronunciarsi sull’appello proposto dal tennista contro il provvedimento di espulsione, ha dato ragione a Djokovic ed ha annullato la cancellazione del visto, condannando il Governo a pagare le spese legali e disponendo il rilascio immediato del giocatore e la restituzione del passaporto. 

La vicenda, però, non è finita qui. 

Infatti,  Christopher Tran, legale dell’esecutivo, ha sottolineato che il ministro dell’Immigrazione, Alex Hawke, starebbe considerando di usare i suoi poteri speciali per espellere comunque Djokovic dal Paese, impedendogli di farvi ritorno per i prossimi tre anni.  

Viola Zuddas, Avvocato

Nell’ambito delle misure volte a garantire una tutela specifica della vittima del reato, l’ordinamento penale italiano prevede, tra le altre, la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, di cui all’art. 282 ter c.p.p.

La misura in esame ha un carattere duplice, in quanto consente al giudice di prescrivere all’autore del reato di non avvicinarsi a luoghi determinati, ovvero di mantenere una certa distanza dai predetti luoghi o dalla stessa persona offesa, anche disponendo particolari modalità di controllo, mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici.

La finalità dell’istituto è evidente: tutelare l’incolumità della persona offesa, sia nella sfera fisica che in quella psichica, impedendo la reiterazione delle condotte delittuose ed evitando alla vittima il turbamento derivante dall’incontro con l’indagato o dalla vicinanza dello stesso.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Sebbene sia una misura di portata generale, quindi, applicabile per qualsiasi reato, essa trova applicazione soprattutto in relazione ai reati di stalking, violenza sessuale, lesioni aggravate e maltrattamenti in famiglia.

Si tratta, infatti, di fattispecie delittuose contraddistinte dalla particolare vulnerabilità della persona offesa, in quanto destinataria di condotte di violenza persistenti e invasive, nonché caratterizzate dall’assillante ricerca di contatto con la vittima in qualsiasi luogo la stessa si trovi, tali da rendere necessaria l’adozione del provvedimento cautelare, suscettibile di applicazione immediata.

Giova sottolineare, inoltre, che la disposizione in esame si inserisce in un quadro normativo finalizzato al contrasto della violenza domestica e di genere, attuato con la L. n. 154/2001, che ha introdotto la misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare di cui all’art. 282 bis c.p.p., nonché con il D.L. n. 11/2009 che, oltre ad aver previsto la misura in oggetto, ha introdotto il reato di atti persecutori, ed infine con la più recente Legge sul femminicidio e con il cd. Codice Rosso.

Nonostante la disposizione in parola appaia di formulazione sufficientemente lineare, è sorto un problema interpretativo riguardante le modalità di attuazione della misura, tanto ciò è vero che, nell’ottobre scorso, si è reso necessario l’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 39005/2021.

Il contrasto giurisprudenziale

Un primo indirizzo giurisprudenziale, partendo proprio dal dato letterale dell’art. 282 ter c.p.p., in cui si parla di “luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa”, ritiene che spetti al Giudice indicare sempre in modo specifico e dettagliato i luoghi il cui l’accesso è precluso all’indagato destinatario della misura restrittiva.

Infatti, l’applicazione del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, senza una chiara individuazione degli stessi, avrebbe un connotato talmente generico e indefinito da comportare, da un lato, un’eccessiva e ingiustificata compressione della libertà personale e di movimento dell’indagato e, dall’altro lato, di rendere meno agevole il controllo delle prescrizioni imposte.

Il secondo indirizzo giurisprudenziale, invece, fornisce una chiave di lettura della norma partendo dalla finalità che la stessa assume, ovvero garantire la sicurezza della vittima attraverso la creazione di un vero e proprio “schermo di protezione” attorno ad essa, affinché la medesima possa vivere liberamente la propria quotidianità.

Ne consegue, quindi, che la previsione di un divieto di avvicinamento limitato solo a luoghi statici e predefiniti, in taluni casi, potrebbe non essere sufficiente a garantire una tutela piena ed effettiva della vittima, posto che nell’ambito della misura cautelare lo stesso Legislatore distingue in maniera netta due ipotesi, ovvero il divieto di avvicinamento ai luoghi o alla persona.

Ebbene, nel caso in cui venga disposto il divieto di avvicinamento alla persona offesa, il Giudice deve comunque indicare anche i luoghi oggetto del divieto oppure è sufficiente che indichi soltanto la distanza da tenere rispetto alla persona offesa ovunque essa si trovi?

La soluzione delle Sezioni Unite

Nel dirimere la questione, le Sezioni Unite hanno preso in esame la struttura della diversa misura di cui all’art. 282 bis c.p.p., ove è previsto che, in aggiunta all’allontanamento dell’indagato dalla casa familiare, possa essere disposto il divieto di avvicinamento a luoghi determinati -come ad esempio il luogo di lavoro, il domicilio della famiglia di origine o dei prossimi congiunti della persona offesa-, sempre che sussista l’esigenza di una tutela “rafforzata” della vittima.

Similarmente, anche nel caso in esame la norma consente di graduare l’applicazione delle prescrizioni in base all’intensità del rischio a cui è esposta la vittima, attraverso la predisposizione dell’obbligo di mantenere una certa distanza sia da taluni luoghi che dalla persona offesa in quanto tale, e ciò in conformità alla normativa sovranazionale e, nella specie, alla Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio UE n. 2001 del 13.12.2011.

Ne consegue, pertanto, che la misura cautelare del divieto di avvicinamento alla persona offesa è caratterizzata da prescrizioni autonome che possono essere disposte in alternativa oppure congiuntamente, ad esito del giudizio di bilanciamento degli interessi coinvolti e purché risultino strettamente necessarie a garantire la protezione della vittima, in accordo con la previsione dell’art. 13 della Costituzione e dei limiti applicabili alla libertà dell’indagato.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Da un punto di vista pratico, quindi, potranno delinearsi due ipotesi differenti.

La prima ipotesi ricorre quando il Giudice decida di prescrivere il divieto di avvicinamento a luoghi determinati, poiché in tal caso la misura si applica a prescindere dalla presenza fisica della persona offesa e richiede sempre la chiara e precisa indicazione dei luoghi interdetti.

Ciò sta a significare che la violazione della misura imposta si realizza anche nel caso in cui l’indagato si rechi in uno dei suddetti luoghi e la persona offesa non sia presente in quel momento.

Peraltro, tale condotta, oltre a comportare un aggravamento della misura cautelare con altra più afflittiva, come gli arresti domiciliari o la custodia in carcere, è idonea a configurare un’autonoma fattispecie di reato, prevista nell’art. 387 bis c.p. e punita con la reclusione da sei mesi a tre anni.

Mentre, la seconda ipotesi -senza dubbio più gravosa per l’indagato, ma comunque conforme ai principi costituzionali- riguarda il caso in cui sia disposto il divieto di avvicinamento proprio alla persona offesa, giacché in questo caso non è necessaria una perimetrazione fissa del divieto che, pertanto, si estende a qualunque luogo si trovi la persona protetta.

In questa ipotesi il Giudice, valutati i criteri di adeguatezza e proporzionalità della misura, sarà tenuto semplicemente ad indicare la distanza che dovrà sempre essere mantenuta.

L’indagato, pertanto, dovrà tenersi a distanza dalla persona offesa, sia evitando di ricercare qualsiasi contatto con la stessa e sia, nel caso di incontro casuale, allontanandosi immediatamente e ristabilendo la distanza imposta.

Claudia Piroddu, Avvocato

Il Natale in negozio

Dicembre è il mese più atteso, non solo dai bimbi che aspettano il Natale con i doni ma, anche, dagli imprenditori che, come me e la mia socia Roberta Baioni, gestiscono attività commerciali.

In questo periodo, infatti, si raccolgono i frutti di undici mesi di investimenti – non soltanto economici ma anche in termini di impegno ed aspettative – e si devono concentrare tutti gli sforzi per non vanificare il lavoro preparatorio.

Quest’ultimo inizia a gennaio, con le fiere di settore che propongono con largo anticipo quelle che saranno le tendenze per gli addobbi degli alberi e della casa.

Il mio compito è proprio quello di fare la buyer per la mia società: mi occupo, quindi, degli acquisti per il negozio Sirene, naviganti e sognatori e, pur essendo un compito molto impegnativo e delicato, lo faccio con piacere e divertimento. Giovanna Diana, Imprenditrice

Questo compito, poi, è strettamente legato all’esposizione, anzi, ne è il preludio.

L’esposizione è un altro aspetto rilevante per la buona riuscita degli investimenti, perché la gestione corretta dello spazio del negozio e la cura nella scelta della merce da esporre attirano ed incuriosiscono maggiormente le clienti.

Esporre in modo elegante e creativo è sicuramente uno dei miei punti di forza e l’ambiente così creato accoglie e avvolge le clienti, rendendo il lavoro di un anno un successo.

Sono tante le persone che frequentano il nostro negozio e, delle volte, possono crearsi delle tensioni quando, per vari motivi, vengono inavvertitamente rotti degli oggetti dai clienti.

Ho una regola: evitare imbarazzi alle persone per cui, ogni qualvolta accade che un oggetto venga rotto, rassicuro la cliente e non addebito nessun costo, a meno che la cliente stessa non insista per ripagare il danno, ed in quel caso l’importo viene comunque decurtato del – 50%.

Infatti, anche se la legge mi consente di chiedere il pagamento dell’intera somma, sono convinta che una brava imprenditrice debba andare incontro ai propri clienti, soprattutto nei momenti che possono generare tensione ed imbarazzo.

Il periodo natalizio, come detto e come ovvio, è dedicato ai regali.

Questi, purtroppo, non sempre sono adatti a chi li riceve o, semplicemente, può capitare che non siano di gradimento.

In questo caso è bene ricordare per tempo che i cambi della merce si possono effettuare entro il 31 dicembre sempre e solo con la presentazione dello scontrino fiscale, che noi abbiamo cura di consegnare con l’apposita custodia.Giovanna Diana, Imprenditrice

Tra l’altro, il cambio o il reso degli acquisti fatti è una pratica che noi decidiamo di seguire perché capiamo le esigenze delle clienti e vogliamo che siano sempre soddisfatte.

Per questo motivo, anche se la legge non ci impone alcun obbligo – perché siamo un locale commerciale e gli acquisti avvengono direttamente in negozio e non, ad esempio, online – riconosciamo sempre alle clienti la possibilità di effettuare il reso, dietro presentazione dello scontrino fiscale.

Non è un lavoro facile il mio, richiede molta passione e tanto tempo da dedicare a tutti gli aspetti che, in questo focus, ho descritto solo in parte.

Ma non lo cambierei perché mi piace farlo in modo impeccabile e professionale.

E questo, alla fine, da i suoi frutti.

Giovanna Diana, Imprenditrice

Sono nata e cresciuta a Cagliari, e con la mia socia di origine lombarda, Roberta Baioni, ho creato Sirene, naviganti e sognatori, piccolo ma prezioso store al centro della città.

L’attività ha, ormai, 22 anni ed è ben inserita nelle mete dello shopping.

Siamo presenti anche sui principali social dove abbiamo acquisito un discreto consenso.

Il negozio si trova a Cagliari, in via Sebastiano Satta n.64.

Focus di diritto tributario • Avv. Francesco Sanna

Trattamento fiscale degli omaggi natalizi

Come ogni anno le festività natalizie e di fine anno sono per le aziende l’occasione di consegnare degli omaggi ai propri clienti e ai dipendenti.
Ma quale è il trattamento fiscale a loro riservato?

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

Acquisti e truffe online

Oggigiorno, lo shopping online rappresenta una modalità di acquisto ormai consolidata e sempre più in espansione, che consente di selezionare con semplicità i prodotti desiderati per poi riceverli comodamente a casa propria, talvolta, con notevole risparmio in termini di tempo e di denaro.

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Focus di diritto civile • Avv. Viola Zuddas

Cosa fare in caso di regalo non gradito?

Specialmente durante le feste può capitare di ricevere regali che non siano di proprio gradimento e, in questi casi, spesso ci si chiede se sia possibile cambiare quanto ricevuto e, eventualmente, cosa si debba fare.

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Iva e vendite a distanza: le nuove regole dell’e-commerce

Le festività natalizie, si sa, rappresentano quel momento dell’anno in cui i consumatori non badano a spese.
Negli ultimi anni e, in particolare, con l’avvento della pandemia mondiale, delle sue varianti ed annesse restrizioni negli spostamenti, il modo di acquistare è stato totalmente rivoluzionato.

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L’art. 8, comma 1, L. 8 marzo 2017 n. 24 stabilisce che «Chi intende esercitare un’azione innanzi al giudice civile relativa a una controversia di risarcimento del danno derivante da responsabilità sanitaria è tenuto preliminarmente a proporre ricorso ai sensi dell’articolo 696-bis del codice di procedura civile dinanzi al giudice competente».

Ancora, il secondo comma dispone che «La presentazione del ricorso di cui al comma 1 costituisce condizione di procedibilità della domanda di risarcimento […]».

Dalla semplice lettura del dettato normativo di cui ai capoversi che precedono si evince che il giudice competente a conoscere e decidere della vertenza avente ad oggetto il risarcimento danni da responsabilità medica è quello civile e che l’atto introduttivo del giudizio deve rivestire la forma del ricorso.

Devesi, altresì, evidenziare che l’art. 696-bis c.p.c., ai fini della sua ammissibilità, non richiede la condizione dell’urgenza, posto che la sua funzione non è quella di assicurare il futuro esercizio del diritto alla prova da eventuali dispersioni o alterazioni che possano inficiare la successiva azione ordinaria.

Certamente, il ricorso in parola dovrà essere considerato ammissibile quando il perimetro del thema decidendum è ben delineato, così da permettere al giudice di valutare rilevanza e utilità della consulenza ai fini della decisione, oltre a facilitare i termini della discussione in vista della eventuale conciliazione e individuare la situazione sostanziale in relazione alla quale il giudice è chiamato a valutare la rilevanza della prova e, di conseguenza, l’esistenza della situazione stessa ai fini dell’interruzione della prescrizione, pur essendo soltanto eventuale il giudizio di merito.

Infine, in ordine a quale sia il giudice competente a conoscere della vertenza viene in soccorso il comma 3 dell’art. 696 c.p.c., cui fa rinvio il comma 1 dell’art. 696-bis c.p.c., in forza del quale il giudice competente dovrebbe essere il presidente del tribunale oppure il giudice di pace. Sennonché, l’art. 8, comma 3, L. 8 marzo 2017 n. 24 stabilisce che il successivo processo instaurato a seguito del fallimento del tentativo di conciliazione debba obbligatoriamente seguire le forme di cui agli art. 702-bis ss. c.p.c, che a loro volta possono applicarsi soltanto innanzi al tribunale in composizione monocratica.

Per quanto riguarda la competenza territoriale, deve condividersi la posizione di chi ha correttamente osservato che la definitiva e generalizzata qualificazione della responsabilità della struttura sanitaria come contrattuale, dovrebbe comportare, in ogni caso, l’applicabilità del criterio di competenza esclusivo del “consumatore”. Nulla cambia, invece, per le controversie tra medico e paziente, il cui foro continua ad essere rappresentato dal luogo di residenza del paziente.

Il procedimento

Venendo agli aspetti procedurali, l’art. 696-bis c.p.c. più che dettare le specifiche norme procedimentali opera una serie di rinvii ad altre disposizioni, che, a loro volta, rinviano ad altre ancora. Così, infatti, il comma 1 rimanda all’art. 696, comma 3, che rimanda agli art. 694 e 695, «in quanto applicabili», mentre l’ultimo comma richiama gli art. 191-197 cpc, «in quanto compatibili».

Riassumendo.

Proposta l’istanza, il giudice designato fissa con decreto l’udienza e stabilisce il termine perentorio per la notificazione del decreto e del ricorso (attività questa, che produce l’effetto dell’interruzione della prescrizione, ex art. 445-bis c.p.c., comma 3,). Il giudice, assunte, quando occorre, sommarie informazioni, provvede in contraddittorio tra le parti, nominando il consulente tecnico con ordinanza non impugnabile, formulando i quesiti e fissando l’udienza nella quale il consulente deve comparire. L’ordinanza, contenente l’invito a comparire all’udienza fissata dal giudice, è notificata a cura del cancelliere al consulente tecnico. All’udienza il consulente presta giuramento e il giudice fissa la data per l’inizio delle operazioni peritali. Possono essere nominati più consulenti soltanto in caso di grave necessità o quando la legge espressamente lo dispone.

Valgono, inoltre, le disposizioni in tema di astensione e ricusazione (con ulteriore indiretto rinvio agli art. 63 e 51 c.p.c., anche se elementi in tal senso possono trarsi anche dall’art. 15 della legge citata), di rinnovazione delle indagini e di sostituzione del consulente, di richiesta di informazioni e chiarimenti da quest’ultimo alle parti ed eventualmente a terzi, di fissazione del termine per il deposito della relazione, ed in generale in tema di tutela del contraddittorio delle parti, comprese quelle relative alla possibilità di nominare consulenti di parte.

Con riguardo alla attività del consulente, va evidenziato che il consulente non è chiamato ad accertare l’esistenza del diritto dedotto, poiché tale accertamento, inteso nel senso di attività cognitiva relativa alla triade norma-fatto-effetto, spetta soltanto al giudice. Pertanto, il consulente, in primo luogo, deve procedere alla attività cognitivo-valutativa tecnica che gli è propria e, in secondo luogo, «ove possibile», deve tentare la conciliazione (la quale non costituisce attività di accertamento).

Differenze tra consulente e mediatore

Il ruolo del consulente tecnico nell’ambito del procedimento istruttorio anticipato e quello del mediatore presentano elementi di diversità.

Il consulente è per sua natura un esperto, dotato delle conoscenze specialistiche necessarie alla soluzione delle questioni tecniche rilevanti ai fini della definizione della controversia. Il mediatore, invece, è un soggetto chiamato ad assistere le parti nella ricerca di una soluzione consensuale della controversia, ad egli è affidato il compito di formulare una proposta conciliativa soltanto se le parti lo richiedano espressamente.

Ad ogni modo, la divaricazione tra le due figure – sotto l’aspetto della loro funzione conciliativa – è sempre minore. Difatti, posta la loro funzione, entrambi devono possedere necessariamente capacità e competenze in materia di tecniche di conciliazione e mediazione, oltre al possesso di requisiti di imparzialità e indipendenza.

Tuttavia:

  • Il consulente è chiamato a svolgere accertamenti, indagini tecniche e a compiere valutazioni in merito ai fatti controversi che certamente non rientrano tra i compiti del mediatore.
  • Nella mediazione, ai fini della soluzione del conflitto, vengono in rilievo non tanto le pretese giuridiche prospettate dalle parti, ma gli interessi concreti ad esse sottostanti.
  • Al mediatore è imposto un generale obbligo di riservatezza, mentre nessuna garanzia in tal senso è prevista per il procedimento di cui all’art. 696-bis c.p.c.
  • Le dichiarazioni o informazioni, assunte nel procedimento di mediazione, sono coperte da riservatezza e sono inutilizzabili nell’eventuale giudizio successivo avente il medesimo oggetto, salvo il consenso della parte che quelle dichiarazioni e informazioni ha reso. Di converso, gli esiti della consulenza tecnica espletata in sede preventiva, ove questa non si concluda con una conciliazione, possono essere utilizzati nel successivo giudizio di merito. (https://www.questionegiustizia.it)
Francesco Sanna, Avvocato

La disabilità può essere definita come la condizione personale di chi, a causa di una o più menomazioni ovvero a causa di minorazioni fisiche e/o intellettuali, ha una ridotta capacità d’interazione con l’ambiente sociale circostante.

Detta condizione è, con tutta evidenza, causa di una ridotta autonomia nello svolgimento delle attività quotidiane e di partecipazione alla vita sociale al pari degli altri individui.

Per questo motivo è necessaria una tutela maggiore nei confronti di questa categoria da parte del legislatore e, in generale, da parte delle Istituzioni alle quali è affidato il compito di creare condizioni ottimali e rimuovere gli ostacoli che impediscono, di fatto, la libera determinazione degli individui.Avv. Eleonora Pintus, Diritto Internazionale e Diritto dell’Unione Europea

In questo articolo ci proponiamo di affrontare una breve disamina del fitto quadro normativo sulla tutela dei disabili, che assume forte rilevanza tanto sul piano della regolamentazione sovranazionale che nazionale, e delle sue recentissime evoluzioni.

Tra diritto internazionale e diritto dell’unione europea

In particolare, l’Unione europea ha iniziato a occuparsi di disabilità fin dalla seconda metà degli anni Settanta senza, tuttavia, adottare atti di carattere vincolante. Ciò in quanto i Trattati allora vigenti non prevedevano alcun trasferimento dei poteri relativi alla regolamentazione dei diritti dei disabili all’Unione Europea, restando, come tali, estranei al contesto normativo europeo.

È solo con l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam che la Comunità Europea (così chiamata all’epoca) ha acquisito il potere di intervenire in materia ed adottare misure dirette a combattere le discriminazioni  sulla base della disabilità (come previsto dall’articolo 19 TFUE).

Detto potere è venuto rafforzandosi nel 2009, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona – che ha introdotto una modifica nella parte attinente la procedura legislativa necessaria ad adottare misure in materia di disabilità – e ancor più con la ratifica della “Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità” la quale ha spinto l’Ue ad includere la tutela e promozione dei diritti delle persone con disabilità tra le sue azioni prioritarie.

Detta Convenzione – ratificata dall’Unione ed entrata a far parte delle sue fonti normative con rango di fonte intermedia – è stata adottata il 13 dicembre 2006 dall’Assemblea generale dell’Onu la quale imputa la condizione di disabilità alla presenza nella società di barriere di carattere ambientale e sociale.

Essa, pertanto, impone agli Stati aderenti di tenere una condotta attiva atta ad eliminare tutti gli ostacoli che impediscono al disabile di vivere nella società in condizione paritarie.

I pilastri attorno ai quali ruota il testo della Convenzione sono infatti quelli di dignità, autonomia individuale, accessibilità, inclusione nella società, eguaglianza e accettazione della disabilità come parte della diversità umana; il fine è dunque quello di creare condizioni per la partecipazione del disabile alla vita sociale e dell’inclusione dello stesso in tutti i rapporti sociali, quale condizione necessaria per la salvaguardia del suo equilibrio fisico e psichico.

Ma quali sono le garanzie concretamente riconosciute al disabile nell’ambito dell’ordinamento interno?

La tutela del disabile nel diritto interno

Si deve alla normativa sovranazionale e, in particolare, alle direttive europee, il riconoscimento e l’affermazione dell’eguaglianza nei confronti degli individui disabili da parte del legislatore nazionale ed il riconoscimento di diritti fondamentali.

Tra questi, occorre senz’altro richiamare la direttiva dell’UE 2000/78/CE che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, recepita nell’ordinamento italiano con D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 216, come corretto dal D.Lgs. 2 agosto 2003, n. 256.

Ancora, al fine di agevolare la mobilità del disabile, il legislatore europeo ha adottato vari regolamenti sui diritti dei passeggeri a mobilità ridotta sui principali mezzi di trasporto i quali, per natura stesso dell’atto, entrano a far parte direttamente dell’ordinamento nazionale.

Tuttavia, ancora oggi, sebbene a livello europeo siano state adottate norme dirette a ridurre ancor più le barriere della società che fanno da ostacolo alla piena integrazione degli individui affetti da disabilità, il legislatore nazionale non ha ancora provveduto a dar luogo alle attività necessarie al recepimento delle stesse: basti pensare alla direttiva n. 2102/2016 UE relativa all’accessibilità dei siti web e delle applicazioni mobili degli enti pubblici o, ancora alla direttiva del 17 aprile 2019 n. 882 sui requisiti di accessibilità dei prodotti e dei servizi il cui termine di recepimento era previsto per lo scorso 28 giugno 2021.

La ricca normativa richiamata – la cui complessità meriterebbe un’analisi ancora più approfondita – suggerisce la necessità di un impegno costante e sinergico dell’UE e dei suoi Stati membri i quali sono chiamati a migliorare la situazione socioeconomica delle persone con disabilità, sulla base del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, sulla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e, altresì, in forza della sopra menzionata Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (UNCRPD) di cui l’Unione europea e tutti i suoi Stati membri sono parti contraenti.

Sorge allora spontaneo domandarsi in che modo lo Stato si stia adoperando al fine di garantire che tutte le persone con disabilità, indipendentemente dal sesso, dalla razza o dall’origine etnica, dalla religione o dalle convinzioni personali, dall’età o dall’orientamento sessuale, possano godere dei loro diritti umani, avere pari opportunità e parità di accesso alla società e all’economia, essere in grado di decidere come e con chi vivere, circolare liberamente nell’UE indipendentemente da limiti fisici e dalle loro esigenze di assistenza.

Il nuovo disegno di legge delega in materia di disabilità

A tal riguardo, giova sottolineare che proprio al fine di dare piena attuazione alla Convenzione Onu sui diritti dei disabili, oltre che al contenuto della Strategia sui diritti delle persone con disabilità 2021-2030 adottata dalla Commissione nel marzo 2021, il 27 ottobre 2021 il Consiglio dei Ministri ha approvato il disegno di legge delega in materia di disabilità.

La riforma intende porre al centro la persona con le sue esigenze, le sue relazioni, un progetto di vita personalizzato e partecipato, come previsto e voluto dalla convenzione ONU  sui diritti delle persone con disabilità ratificata dallo Stato Italiano con la legge 3 marzo 2009 n.18, insieme al c.d. “Protocollo Opzionale” (cioè il Protocollo con cui si individuano le modalità di rilevazione e censura internazionale delle violazioni della Convenzione da parte di ciascuno Stato), facendo diventare la Convenzione vincolante e sottoponendo lo Stato italiano anche al controllo periodico del Comitato ONU sui diritti delle persone con disabilità rispetto all’effettiva esecuzione della Convenzione stessa.

Come da comunicato del Consiglio dei Ministri, il disegno di legge delega in materia di disabilità, che rientra tra le riforme e azioni chiave previste dal  Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), prevede un intervento nei seguenti settori:

  • definizioni della condizione di disabilità, riassetto e semplificazione della normativa di settore;
  • accertamento e certificazione della condizione di disabilità e revisione dei suoi processi valutativi;
  • valutazione multidimensionale della disabilità, progetto personalizzato e vita indipendente;
  • informatizzazione dei processi valutativi e di archiviazione;
  • riqualificazione dei servizi pubblici in materia di inclusione e accessibilità;
  • istituzione di un Garante nazionale delle disabilità.

Il DDL “recante delega in materia di disabilità” prevede perfino il potenziamento dei servizi e delle infrastrutture sociali necessarie a sormontare le barriere burocratiche che si pongono come principale ostacolo fra il paziente e la fruizione dei servizi.

In tal senso, il Governo nell’ottica della semplificazione, è altresì delegato a predisporre procedimenti più snelli, trasparenti ed efficienti di riesame e di rivalutazione delle condizioni di disabilità.

Ecco perché è stata prevista altresì l’istituzione del Garante nazionale delle disabilità il quale dovrà occuparsi di raccogliere le istanze e fornire adeguata assistenza a tali soggetti qualora, ad esempio, subiscano violazioni dei propri diritti; in tali casi, dovrà formulare raccomandazioni e pareri alle amministrazioni interessate sulle segnalazioni raccolte, anche in relazione a specifiche situazioni e nei confronti di singoli enti.

Al fine di rimuovere ostacoli sociali e garantire una sostanziale eguaglianza fra tutti i cittadini, il Governo mira, dunque, a realizzare un’azione ad ampio spettro, ivi comprendendo la promozione di campagne di sensibilizzazione e di comunicazione, necessarie per rafforzare una cultura basata sulla tutela ed il rispetto dei diritti delle persone.Avv. Eleonora Pintus, Diritto Internazionale e Diritto dell’Unione Europea

Eleonora Pintus, Avvocato

Cosa accade nel caso in cui un soggetto, in possesso di un regolare porto d’armi, venga indagato o condannato in un procedimento penale?

Ad esempio: a seguito di verbale di accertamento della polizia stradale per guida in stato di ebbrezza alcolica, il Questore potrebbe revocare la licenza di porto di fucile nei confronti del trasgressore?

Prima di individuare i presupposti di Legge e i rimedi esperibili in tali ipotesi, occorre premettere che la normativa italiana stabilisce che per poter acquistare e detenere armi è necessaria un’apposita autorizzazione amministrativa rilasciata dalle autorità competenti, qualora ricorrano le condizioni di Legge.

A tale riguardo, si distinguono diverse tipologie di licenza per il rilascio di porto d’armi, che variano a seconda dell’utilizzo richiesto -ovvero per difesa personale, per uso sportivo, per uso venatorio e per collezione di armi comuni da sparo-, ciascuna contraddistinta da specifici requisiti e procedure per il rilascio.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

In particolare, il porto d’armi per difesa personale, con validità di 1 anno, viene rilasciato dalla Prefettura, ai soggetti che dimostrino la ragione oggettiva per la quale necessitano di un’arma.

Invero, l’art. 4 della L. n. 110/1975 prevede un divieto generalizzato di portare con sé armi, a meno che non sussista un giustificato motivo, come ad esempio, il caso di un gioielliere o di un professionista che per lavoro trasportano oggetti preziosi o ingenti quantità di denaro e, di conseguenza, incorrono nel concreto pericolo di subire aggressioni o rapine.

Il porto d’armi per uso sportivo e quello per uso venatorio, invece, vengono rilasciati dalla Questura.

Nel primo caso, la licenza è valida 5 anni e consente di detenere, trasportare e utilizzare armi comuni e sportive per esercitare il tiro a volo, mentre, nella seconda ipotesi, la licenza ha parimenti validità quinquennale e autorizza l’acquisto e il porto di fucile da caccia, da utilizzare solo durante la stagione venatoria e nelle zone autorizzate.

Vi è poi una particolare licenza per collezionisti, denominata “licenza di detenzione”, a carattere permanente, che autorizza il soggetto ad acquistare e detenere armi comuni da sparo, anche di pregio storico-artistico, che, tuttavia, non possono essere trasportate all’esterno del luogo di custodia, né utilizzate.

Quali sono i requisiti per il rilascio del porto d’armi?

La materia è disciplinata dal Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (T.U.L.P.S) e dal Regolamento di attuazione, ovvero il R.D. n. 635/1940, giacché la licenza per il porto d’armi si considera una cd. autorizzazione di polizia e, dunque, il relativo rilascio, la sospensione o la revoca sono demandati all’autorità di pubblica sicurezza, ovvero al Questore e al Prefetto.

In generale, per il rilascio del porto d’armi in favore di comuni cittadini non appartenenti alle forze armate è necessario essere maggiorenni, nonché il possesso di specifici requisiti psico-fisici, sia di capacità visiva e uditiva, sia l’assenza di alterazioni neurologiche che possano interferire con lo stato di vigilanza ed, altresì, l’assenza di disturbi di natura psichiatrica e di personalità.

Inoltre, ai sensi dell’art. 11 TULPS, è precluso il rilascio del porto d’armi a chi ha riportato una condanna a pena restrittiva della libertà personale superiore a 3 anni per delitto non colposo e non ha ottenuto la riabilitazione e, altresì, ai soggetti sottoposti all’ammonizione o a misura di sicurezza personale oppure a chi è stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza.

Deve aggiungersi che, ai sensi dell’art. 43 TULPS, costituiscono requisiti ostativi al rilascio la condanna per taluni delitti non colposi commessi con violenza contro la persona, ovvero in caso di furto, rapina, estorsione, sequestro di persona, nonché l’aver riportato condanna per delitti contro la personalità dello Stato o contro l’ordine pubblico oppure per porto abusivo di armi.

Tuttavia, a seguito del D. Lvo n. 104/2018, nei casi poc’anzi menzionati non è previsto un diniego automatico, poiché l’autorità di pubblica sicurezza può concedere la licenza, a seguito di una valutazione di carattere discrezionale soggetta a obbligo di motivazione che, però, tenga conto di tutte le circostanze rilevanti, con riferimento all’affidabilità e alla buona condotta del soggetto.

La medesima disciplina si applica anche per la sospensione cautelare e la revoca del porto d’armi, che si verificano quando vengono meno i requisiti per i quali l’autorizzazione era stata concessa o nel caso in cui sopraggiungano circostanze, anche transitorie, che non consentono l’utilizzo dell’arma.

È evidente, pertanto, che la ratio della normativa sia quella di evitare che venga concesso l’uso delle armi a quei soggetti che abbiano avuto dei precedenti penali per delitti di particolare allarme sociale, dai quali si desume una pericolosità per l’ordine e la sicurezza pubblica, e ciò al fine di prevenire la commissione di nuovi reati.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Casistica e rimedi esperibili

Fatte tali doverose premesse, veniamo ora ai quesiti menzionati all’inizio.

Sul punto, è ormai chiaro che la commissione dei reati previsti dalla Legge comporta l’avvio di un procedimento amministrativo da parte dell’Autorità di pubblica sicurezza, volto alla sospensione o alla revoca del porto d’armi, così come la condanna per taluni delitti può costituire un ostacolo per il rilascio o il rinnovo della licenza.

È evidente, quindi, che, a seconda della specifica situazione in cui si trova il richiedente, sarà possibile esperire, a mezzo del proprio legale, il rimedio più idoneo al fine di ottenere l’autorizzazione per l’utilizzo dell’arma, laddove è riconosciuto il diritto a prendere visione degli atti del procedimento amministrativo, nonché a presentare atti e memorie difensive, con l’indicazione di ogni elemento utile per la decisione.

Ebbene, nel caso in cui il soggetto abbia dei precedenti penali, per poter ottenere la licenza per porto d’armi, è necessario anzi tutto che sia intervenuta la riabilitazione prevista nell’art. 178 c.p.

Si tratta di un provvedimento adottato dal Tribunale di Sorveglianza ad esito di apposito procedimento, con il quale, una volta che sia decorso un certo periodo di tempo, che sia data prova della buona condotta e che sia intervenuto il pagamento delle spese processuali e degli obblighi risarcitori derivanti dal reato, vengono dichiarate estinte le pene accessorie e ogni altro effetto penale della condanna.

In ogni caso, è bene ricordare che il potere dell’autorità di pubblica sicurezza relativo al rilascio, alla sospensione e alla revoca del porto d’armi è di carattere discrezionale e non vincolato, ed è incentrato sulla valutazione in ordine all’affidabilità e meritevolezza del soggetto (Cons. di Stato, sentenza n. 5313 del 17.11.2017).Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Ne consegue che, secondo consolidata giurisprudenza amministrativa, ogni elemento afferente la vita e il contesto sociale ed economico in cui è inserito il richiedente può essere assai utile ai fini della valutazione de qua, specie in presenza di un singolo e sporadico episodio criminoso, che di per sé considerato non può giustificare il diniego della licenza, in assenza di ulteriori fattori pregiudizievoli e sempre che ricorrano elementi positivi dimostrativi del concreto ravvedimento del soggetto (T.A.R. Torino, sentenza n. 1063 del 26.06.2015).

A questo riguardo, assumono particolare rilevanza gli elementi attuali della personalità del soggetto, nonché l’entità del fatto, la condotta successiva e il tempo trascorso rispetto all’epoca del reato senza che siano stati commessi ulteriori illeciti, posto che si tratta di circostanze che globalmente considerate sono espressive dell’essenza di pericolosità del soggetto (T.A.R. Piemonte, sentenza n. 84 del 10.01.2018).

In ultimo, a fronte di un provvedimento di revoca di licenza di porto d’armi, è possibile presentare ricorso dinnanzi all’autorità amministrativa competente per richiederne l’annullamento, evidenziando l’illogicità e la carenza di motivazione dello stesso.

Claudia Piroddu, Avvocato

Il quadro delle violenze e molestie nel mondo del lavoro

Secondo l’Istat (2018), in Italia un milione e 404 mila donne hanno subito nel corso della loro vita molestie fisiche o ricatti sessuali sul posto di lavoro. In un rapporto pubblicato da WeWorld e Ipsos in occasione della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, il 70% delle donne intervistate dichiara di aver subito una qualche forma di molestia in ambito lavorativo in Italia.

Un’iniziativa dell’Espresso e della CGIL inaugurata questa settimana, #lavoromolesto, si unisce a questi studi con l’obiettivo di raccogliere le testimonianze di molestie sul lavoro, includendo minacce, comportamenti offensivi e umilianti che violano la dignità delle lavoratrici, da parte di superiori e colleghi. Il progetto sottolinea che la maggior parte delle vittime e survivor non parlano delle proprie esperienze. È importante precisare che la responsabilità non deve mai pesare sulle vittime e survivor, ma su un sistema che deve porre le condizioni necessarie perché si sentano tutelate, perché le loro voci siano credute e ascoltate, perché ci siano delle procedure che prendano sul serio le loro denunce (all’interno di un’azienda o tramite le forze dell’ordine). Questa responsabilità è del governo e dei datori di lavoro.

I dati a livello nazionale e regionale in tutto il mondo e le esperienze di survivor e vittime mostrano una realtà assordante:

  1. Le violenze e le molestie sul lavoro impregnano tutti i settori, tutti i contesti, tutti i paesi
  2. Le donne, le persone con disabilità[1], le persone razzializzate, le persone LGBTQI+, le lavoratrici migranti, le persone che lavorano nel settore informale e che hanno un lavoro precario sono le più esposte. In questo contesto, l’intersezione delle identità diventa un fattore di vulnerabilità aggiunta, e ogni gruppo va considerato come fortemente eterogeneo.
  3. Dove esistono delle leggi solide e interessanti, c’è comunque ancora tanto da fare da parte dei governi per potersi assicurare che siano messe in pratica, e che i datori di lavoro si prendano le loro responsabilità in materia di prevenzione e protezione del personale, come rivendicato dai sindacati, dai movimenti e associazioni femministe di tutto il mondo.

Quale cornice normativa a livello internazionale?

Nel 2019, una Convenzione internazionale contro la violenza e le molestie nel mondo del lavoro è stata adottata dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL). Concretamente, questo significa che gli stati membri dell’ONU, sindacati e datori di lavoro hanno intrapreso delle negoziazioni per arrivare a un documento che offra un quadro normativo in materia. Per poterla applicare a livello nazionale, ogni governo deve poi ratificarla, effettuando i cambiamenti legislativi necessari per portarsi in pari con le misure indicate dal trattato internazionale.

La Convenzione 190 è accompagnata dalla Raccomandazione 206, che ha il ruolo di indicare e guidare gli stati membri nell’applicazione della Convenzione a livello nazionale. Fornisce infatti delle linee guida e degli esempi di misure che sarebbe fondamentale integrare per poter veramente proteggere le vittime e survivor di violenze e molestie, e per poter effettuare una concreta prevenzione.

Il 29 ottobre 2021 l’Italia ha completato il processo di ratifica, secondo paese in Europa e nono al mondo. Cosa significa per le lavoratrici e lavoratori italianə? Questo dipende dai cambiamenti che saranno intrapresi per rinforzare le leggi esistenti e la loro applicazione.Ludovica Anedda, Specializzata in uguaglianza di genere

Cosa offre di innovativo questo trattato internazionale? 

La Convenzione 190 e la Raccomandazione 206 hanno quattro dimensioni che sono particolarmente importanti:

  1. La definizione di violenze e molestie sul lavoro è molto ampia, rispetto alla maggior parte delle legislazioni nazionali. L’articolo 1 legge:

« a) l’espressione “violenza e molestie” nel mondo del lavoro indica un insieme di pratiche e di comportamenti inaccettabili, o la minaccia di porli in essere, sia in un’unica occasione, sia ripetutamente, che si prefiggano, causino o possano comportare un danno fisico, psicologico, sessuale o economico, e include la violenza e le molestie di genere;

« b) l’espressione “violenza e molestie di genere” indica la violenza e le molestie nei confronti di persone in ragione del loro sesso o genere, o che colpiscano in modo sproporzionato persone di un sesso o genere specifico, ivi comprese le molestie sessuali. »

E in Italia? Proprio in questi giorni il Senato sta discutendo un testo per l’introduzione del reato di molestia o di molestia sessuale. Lo stesso testo apporterebbe la modifica del codice delle pari opportunità introducendo sulle molestie una formulazione che includa anche gli atti indesiderati « anche se verificatisi in un’unica occasione » (art. 1 del D.D.L. 665).

  1. Nella Convenzione 190, la definizione fa riferimento a tutti i settori, nel pubblico, nel privato, nell’economia formale e informale, in aree urbane e rurali, e per tutte le lavoratrici e lavoratori, senza distinzione legata al tipo di contratto. Inoltre, intende come “mondo del lavoro” il posto di lavoro stesso, ma anche i luoghi connessi al lavoro come luoghi destinati a pause, bagni e spogliatoi, ma anche durante gli spostamenti per recarsi al lavoro o per il rientro dal lavoro, include lo smart working e le molestie e violenze online.

Questa dimensione diventa particolarmente rilevante nel contesto attuale in cui lo “smart working” forzato durante la pandemia ha cambiato per molte persone la realtà lavorativa in Italia e in tutto il mondo.

  1. La Convenzione 190 e la Raccomandazione 206 sottolineano l’importanza di considerare le persone e i gruppi che sono più a rischio di essere esposti alle violenze e molestie nel mondo del lavoro. Questo include le donne, le persone con disabilità, le persone razzializzate, le persone LGBTQI+, le lavoratrici migranti, le persone che lavorano nel settore informale, e non solo. Una settimana dopo il Transgender day of remembrance (TDOR), giornata per commemorare le vittime dell’odio transfobico, così come tutti i giorni dell’anno, è importante ricordarci che le persone transgender e non binarie sono particolarmente esposte alle violenze di genere, e questo include le violenze e le molestie sul lavoro, che si aggiungono alle multeplici forme di discriminazione che affrontano nel quotidiano.

In Italia è necessario finanziare e intraprendere studi e analisi che permettano di avere una visione più chiara di questa diversità di esperienze, in modo da poter concretamente adattare e applicare la legislazione e le misure dei datori di lavoro in tutti i settori.

In Italia, il D.D.L. Zan sul contrasto all’omolesbobitransfobia, all’abilismo e al sessismo, affossato al Senato proprio qualche giorno prima della conclusione della ratifica della Convenzione 190 da parte del Ministero per il Lavoro e le Politiche Sociali, sarebbe stato in questo contesto uno strumento essenziale e complementare per contrastare violenze e molestie nel mondo del lavoro.

  1. Un punto essenziale di questo trattato internazionale è il fatto che sottolinea l’impatto della violenza domestica sul mondo del lavoro.

Anche se questo collegamento non sembra immediatamente automatico, ci sono diversi motivi per cui è importante parlare di violenza domestica quando parliamo del mondo del lavoro.

  • Il posto di lavoro è il primo luogo dove l’aggressore può facilmente trovare la vittima perchè, anche se stesse cercando di scappare, per necessità, se non è tutelata dal datore di lavoro e dallo stato, dovrà presentarsi a lavoro per non perderlo. Per questo motivo, la vittima/survivor deve avere l’opportunità di assentarsi senza subire delle conseguenze sul proprio impiego. In questo contesto, la legge italiana ha una misura che permette di prendere dei giorni di assenza retruibiti. Un’altra misura essenziale in questo contesto sarebbe il diritto alla mobilità geografica, che esiste per esempio in Spagna.
  • Può capitare che una vittima e survivor, a causa delle violenze subite, si debba assentare o segua degli orari irregolari per poter, ad esempio, fare delle visite mediche o sporgere una denuncia: la vittima e survivor deve essere protetta dal rischio di perdere il lavoro e di essere licenziata. Misure di protezione dal licenziamento sono assenti nella maggior parte dei paesi del mondo, compresa l’Italia, con delle eccezioni in Nuova Zelanda e in Australia.
  • Il lavoro ha un ruolo essenziale nella vita della vittima e survivor: la violenza domestica è spesso fortemente legata alla violenza economica e al controllo economico da parte del compagno violento: perdere il lavoro significherebbe per la vittima e survivor perdere la possibilità di essere economicamente indipendente per poter scappare dalla situazione di violenza e poter intraprendere dei percorsi di recupero e ricostruzione di sè.
  • Il confine tra luogo di lavoro e domicilio è sempre più sfocato nel contesto attuale della pandemia del COVID-19, in cui tantə lavoratori e lavoratrici si sono trovati obbligatə a lavorare da casa, con uno “smart working” forzato: le vittime di violenza domestica si sono trovate in un lockdown con i propri aggressori.

In una società che sminuisce, ignora, invisibilizza e zittisce le vittime e survivor delle violenze di genere, in cui la cultura dello stupro impregna tutte le sue dimensioni, dal discorso politico e giornalistico, a ciò che viene rappresentato nei film, nelle fiction e nei programmi televisivi, è assolutamente fondamentale avere un quadro legale solido. Ma non è abbastanza.Ludovica Anedda, Specializzata in uguaglianza di genere

Sta a tuttə noi ascoltare, sostenere e amplificare giorno dopo giorno le voci di vittime e survivor, e mettere in discussione i nostri comportamenti e quelli delle persone che ci sono attorno. Ma sta al governo rinforzare le leggi, assicurarsi che queste siano applicate e valutate, che i datori di lavoro e le imprese italiane anche nelle loro filiere estere rispettino la normativa e integrino le misure necessarie per prevenire queste violenze e proteggere il personale, che le associazioni femministe che si occupano della protezione e del supporto per le vittime e survivor e i centri anti-violenza siano sostenuti e finanziati.

[1] Per un approfondimento sull’uso dei termini “persone con disabilità” o “persone disabili”, vedere l’articolo dell’attivista Sofia Righetti: https://m.facebook.com/sofiarighetti

Ludovica Anedda, Specializzata in uguaglianza di genere

Sono laureata in relazioni internazionali, con un Master in analisi di politiche pubbliche, e dal 2019 lavoro a Parigi con l’ONG di solidarietà internazionale CARE, in cui mi occupo di advocacy e influenza politica nell’ambito dell’uguaglianza di genere. Più precisamente, collaborando con altre organizzazioni, associazioni femministe e sindacati, sviluppo e presento raccomandazioni dettagliate per il governo francese, soprattutto per l’integrazione di un approccio di genere nella politica estera della Francia.

Nell’ultimo anno, mi sono particolarmente occupata di una campagna a livello nazionale per la ratifica da parte della Francia della Convenzione 190 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) contro la violenza e le molestie nel mondo del lavoro.

Precedentemente, sono stata consulente sulle politiche educative e di genere dell’Unione Europea a Bruxelles, e ho avuto delle esperienze professionali presso l’agenzia dell’Unione Europea che si occupa di uguaglianza di genere (EIGE) e presso l’agenzia dell’ONU specializzata nella protezione dei diritti umani (OHCHR).

Come progetto personale, ho iniziato una newsletter per poter accompagnare soprattutto giovanə professionistə nella ricerca di opportunità di lavoro nell’ambito dell’uguaglianza di genere e della protezione dei diritti LGBTQI+. Tramite questa newsletter, curo delle liste di Gender Jobs in ONG e associazioni, nel settore pubblico, nel settore privato, in organizzazioni internazionali.

Focus di diritto civile • Avv. Francesco Sanna

Il Piano Strategico Nazionale sulla violenza maschile contro le donne

Il 18 novembre scorso, Elena Bonetti, Ministro per le pari opportunità e la famiglia, ha presentato al Consiglio dei Ministri il Piano Strategico Nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2021-2023, ovvero un documento di programmazione strategica per la definizione ed attuazione di politiche integrate ed efficaci.

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

Il fenomeno del “mobbing” e la tutela penale

Con il termine “mobbing” si intendono quelle forme di violenza e abuso -per lo più di natura psicologica-, maturate in ambito lavorativo, che possono manifestarsi attraverso offese, molestie, assegnazione di orari di lavoro o incarichi particolarmente gravosi oppure, al contrario, di mansioni inferiori rispetto al ruolo ricoperto dalla vittima, nonché mediante continui rimproveri o critiche aggressive e del tutto ingiustificate.

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Focus di diritto civile • Avv. Viola Zuddas

Le misure economiche a sostegno delle vittime di violenza di genere

L’espressione “violenza di genere” descrive tutte quelle forme di violenza che riguardano le persone discriminate in base al sesso.

Essa comprende, quindi, la violenza psicologica, quella fisica e sessuale, gli atti persecutori (il cosiddetto “stalking”) ed, infine, anche il femminicidio.

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Combattere la violenza di genere e domestica nell’Unione Europea

La violenza di genere e quella domestica, che vede come vittime principali le donne e le ragazze, resta una delle principali problematiche nell’Unione Europea e per la cui eliminazione l’Unione si sta impegnando, ormai da tempo, nell’adozione di valide ed adeguate soluzioni.

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Come abbiamo già chiarito negli altri articoli (per un approfondimento clicca qui: https://www.forjus.it/2021/10/27/chi-e-responsabile-per-il-danno-subito-dallalunno/ ) ‘ammissione dell’allievo a scuola determina l’instaurazione di un vincolo negoziale dal quale sorge a carico dell’istituto uno specifico dovere di protezione e vigilanza volto a prevenire eventuali danni che lo studente possa subire per il tempo in cui fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni.

L’obbligazione principale, però, è quella di istruire ed educare i bambini ed i ragazzi che siano stati ammessi nell’istituto scolastico, in conformità con quanto prescritto dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (cosiddetto “MUR”).

In particolare, sul sito del MUR (per un approfondimento clicca qui: https://miur.gov.it) si legge che il sistema educativo di istruzione e di formazione italiano è organizzato in base ai principi della sussidiarietà e dell’autonomia delle istituzioni scolastiche.

Lo Stato, infatti, ha competenza legislativa esclusiva per le norme generali sull’istruzione e per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale; tuttavia, le regioni hanno potestà legislativa concorrente in materia di istruzione, e potestà legislativa esclusiva in materia di istruzione e formazione professionale.Avv. Viola Zuddas, Civilista

All’interno di questo quadro istituzionale così definito, deve ricordarsi che viene comunque riconosciuta autonomia didattica, organizzativa e di ricerca, sperimentazione e sviluppo alle istituzioni scolastiche.
Ad oggi, però, sono pochi gli istituti scolastici che inseriscono nella loro offerta formativa l’insegnamento dell’italiano e di una lingua minore o del dialetto regionale (il cosiddetto “bilinguismo”).

Qual è la differenza tra lingua e dialetto?

Prima di approfondire tale aspetto, è importante chiarire quali siano le differenze tra lingua e dialetto.

Sul punto, Enrico Putzolu, in qualità di operatore di sportello linguistico (figura istituita ai sensi della legge n.482/1999 in materia di Tutela e promozione delle lingue locali), precisa che sotto il profilo linguistico non vi è alcuna differenza tra lingua e dialetto, anche se comunemente la prima sarebbe percepita come un sistema autonomo superordinato, mentre il secondo come un sistema linguistico subalterno.

Ma la gerarchia fra lingua e dialetto non ha nulla a che fare con la natura dei due termini che, evidentemente, sono stati ormai privati del loro significato originale.
Infatti, “lingua” è un termine usato a lungo tra gli intellettuali umanistici della Questione della lingua del Cinquecento per indicare le parlate municipali dotate di prestigio; mentre, “dialetto” deriva dal greco dialektos, ovvero conversazione, colloquio, ed è stato impiegato per indicare le varietà greche assurte a linguaggi letterari.

Dunque, per tanto tempo, lingua e dialetto sono stati sinonimi indicanti «un sistema o codice linguistico proprio di una regione europea o di un territorio meno vasto».

Bisogna, inoltre, precisare che il processo letterario messo in atto da Pietro Bembo e dall’Accademia della Crusca a partire dal XVI secolo, con il quale venne ideato un vero programma culturale e di codificazione della lingua italiana, esalterà la parlata toscana a tal punto che questa verrà confermata lingua nazionale in seno all’unità sabauda, relegando così le altre a “varietà subalterne”.Avv. Viola Zuddas, Civilista

Può, dunque, affermarsi che la differenza tra lingua e dialetto oggigiorno sia dovuta più a ragioni di natura storico-sociologica che linguistica.

Chiarito ciò, deve ricordarsi che esistono diversi livelli di politiche linguistiche e differenti normative che sono il frutto dei processi storici che hanno interessato l’Italia intera e le singole regioni e che portano con sé eredità differenti e diverse sensibilità.

Il sardo: lingua o dialetto?

In Sardegna, ad esempio, il “sardo” è riconosciuto come lingua e non come dialetto, anzitutto in ragione delle sue peculiarità linguistiche: è, infatti, una lingua indoeuropea considerata autonoma rispetto ai sistemi dialettali di area italica, gallica e ispanica e, pertanto, è classificata come idioma a se stante nel panorama neolatino e, più precisamente, è ascritto nel gruppo distinto del “Romanzo Insulare”.

A ciò si aggiunga che vi sono diversi interventi legislativi – soprattutto di carattere regionale, come la Legge Regionale 3 luglio 2018, n. 22 recante “Disciplina della politica linguistica regionale” – volti a dare applicazione al principio di parità linguistica sancito dall’art. 6 della Costituzione, che tendono, tra l’altro, ad incentivare l’organizzazione di corsi nelle scuole per preservare la memoria e salvaguardare le caratteristiche culturali della società, affinché le nuove generazioni non dimentichino le proprie radici e possano continuare a godere dei benefici cognitivi indotti dal bilinguismo locale.Avv. Viola Zuddas, Civilista

Lo stesso Enrico Putzolu, attivo nel panorama delle attività promosse e sostenute dalle leggi a tutela delle realtà linguistiche locali, si occupa della formazione in lingua sarda e dei laboratori linguistici che cura e gestisce come insegnante in alcuni istituti scolastici della Sardegna, e come formatore nell’ambito dei corsi di alfabetizzazione per i dipendenti pubblici curati dagli sportelli linguistici comunali.

Come possono gli studenti applicare, in concreto, questi principi durante lo svolgimento dell’attività scolastica?

Intanto, come già chiarito in precedenza, la L. Regionale 22/2018 – per quel che qui interessa – tutela, promuove e valorizza la lingua sarda anche attraverso l’educazione plurilingue nelle scuole di ogni ordine e grado.

Per queste finalità, dunque, è consentito agli studenti parlare il sardo durante l’orario di lezione, dimodoché gli stessi riescano ad acquisire delle maggiori competenze linguistiche che potranno sicuramente essere valutate come una risorsa da spendere anche in futuro nel mondo del lavoro.

Tra l’altro, sono diversi gli esempi di ragazzi che, negli ultimi anni, hanno sostenuto degli esami o, addirittura, preparato la tesi in lingua sarda.

Infatti, quando l’istituto scolastico presenta la propria offerta formativa in regime di bilinguismo, prevedendo l’insegnamento del sardo tramite progetti cosiddetti “C.L.I.L.”, cioè Content and Language Integrated Learning – che in altri contesti analoghi, come in Catalogna o Irlanda, viene chiamata “immersione linguistica” – punta a far sì che l’apprendimento e la pratica della lingua minore (o del dialetto) proceda di pari passo con l’acquisizione delle competenze didattiche.

Proprio in questi istituti, quindi, gli studenti sono maggiormente incentivati ad utilizzare il sardo nello svolgimento dell’attività didattica.

Viola Zuddas, Avvocato

In alternativa al “filtro” della mediazione, di cui abbiamo analizzato gli aspetti essenziali nell’articolo del mese di ottobre (https://www.forjus.it), il danneggiato può scegliere di far ricorso all’altro strumento alternativo dell’accertamento tecnico preventivo con funzione conciliativa disciplinato dall’art. 696-bis c.p.c.

L’utilizzo di tale strumento, il cui impianto normativo scaturito a seguito della riforma del 2017 tradisce una netta predilezione da parte del legislatore rispetto alla mediazione, sancisce l’indubbio vantaggio – sul piano istruttorio – che, in caso di naufragio del tentativo di conciliazione, la relazione del consulente nominato dal giudice potrà essere acquisita nel successivo ed eventuale processo.

L’importanza e la centralità della relazione di cui all’accertamento tecnico preventivo ai fini della composizione della lite è confermata dal fatto che il legislatore ha stabilito un necessario raccordo tra detto “filtro” e l’eventuale processo, laddove quest’ultimo si svolge secondo le forme del rito sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis e ss. c.p.c.

Tale collegamento è figlio di una scelta ben precisa operata dal legislatore.

Difatti il rito sommario, essendo per lo più destinato a dirimere le controversie che non presentano una particolare complessità e che non richiedono un’istruttoria approfondita, affiancato al previo svolgimento dell’accertamento tecnico (conclusosi senza il raggiungimento di un accordo tra le parti) e all’acquisizione della relazione peritale consente di grandemente i tempi della trattazione e della decisione, non dovendo sottostare alle regole e tempistiche del rito ordinario di cognizione regolato dagli artt. 163 e ss. c.p.c.

Venendo all’analisi della ratio dell’istituto di cui si sta trattando corre l’obbligo di evidenziare come questi ricomprenda al suo interno una “doppia anima”, poiché svolge tanto una funzione istruttoria, quanto una conciliativa – con prevalenza di quest’ultima rispetto alla prima.

Ciò si evince da diversi elementi, quali:

  • la rubrica della norma, «consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite»;
  • l’applicabilità di tale procedura «anche al di fuori delle condizioni di cui al primo comma dell’articolo 696» e, quindi, in assenza dell’urgenza, il che sottrae alla consulenza tecnica la funzione cautelare di salvaguardia del futuro esercizio del diritto alla prova, propria dei mezzi di istruzione preventiva;
  • il tenore complessivo dell’art. 696-biscpc;
  • l’efficacia di titolo esecutivo conferita al verbale di conciliazione e l’ampliamento massimo delle sue potenzialità esecutive, alla stessa stregua di altre ipotesi in materia di conciliazione (ad esempio, proprio quella di cui al d.lgs 28/2010);
  • l’agevolazione sul piano fiscale, consistente nell’esenzione dal pagamento dell’imposta di registro, che rappresenta un incentivo alla conciliazione.

Pertanto, si può serenamente affermare, senza tema di smentita, che la consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite, ex art. 696-bis c.p.c., è stata concepita soprattutto quale strumento per stimolare il raggiungimento di un accordo tra le parti, così assolvendo anche alla fondamentale funzione deflativa del contenzioso. Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

Di fronte all’instaurazione della procedura in parola il giudice è chiamato a porre in essere un vaglio preliminare, in base ad un giudizio prognostico e probabilistico sulla base della fattispecie prospettata, sull’opportunità o meno di nominare un consulente tecnico d’ufficio che riesca a dirimere la controversia in maniera bonaria. Di converso, qualora il giudice non ritenga – perché altamente improbabile – che il consulente riesca a condurre le parti ad una conciliazione, potrà disattendere l’istanza della parte che ha promosso il procedimento ex art. 696-bis c.p.c.

In dipendenza di quanto sopra esposto, la riforma del 2017 ha esaltato la funzione conciliativa dell’istituto in analisi, perché l’osservanza del procedimento è condizione di procedibilità, il cui fine quello di risolvere la controversia senza una decisione giudiziale.

Ciò non toglie che il legislatore si sia preoccupato anche dell’eventualità in cui l’accordo non sia raggiunto, perché, come detto sopra, ha provveduto a disciplinare il raccordo con il successivo processo di cognizione.

Ad ogni modo, resta il fatto che il “filtro” in parola presenta ben pochi aspetti strettamente giudiziali, poiché soggetto deputato a tentare la conciliazione è il consulente, mentre il giudice interviene solo nel momento della nomina del consulente stesso e del conferimento di efficacia esecutiva del verbale di conciliazione. (https://www.questionegiustizia.it)

Francesco Sanna, Avvocato

Le scorse settimane, nell’articolo dal titolo “Acquisto di farmaci in Europa con presentazione di ricetta medica nazionale” abbiamo analizzato quali siano i diritti spettanti al cittadino europeo che necessiti di un farmaco, prescritto dal proprio medico di base, in un altro Paese membro dell’Unione Europea (potrai leggere l’articolo cliccando sul seguente https://www.forjus.it/2021/10/13/acquisto-di-farmaci-in-europa-mediante-presentazione-di-ricetta-medica-nazionale/).

Durante un soggiorno temporaneo in un altro Paese dell’UE per motivi di vacanza, lavoro o studio, potrebbe, però, perfino capitare di ammalarsi del tutto inaspettatamente e, dunque, di avere bisogno di cure mediche impreviste.

In questi casi, di quali diritti godono i cittadini dell’Unione Europea?

Secondo la Direttiva n. 2011/24/UE concernente l’applicazione dei diritti dei pazienti relativi all’assistenza sanitaria transfrontaliera e il Regolamento n. 987/2009 che stabilisce le modalità di applicazione del regolamento (CE) n. 883/2004 relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, in quanto cittadino dell’UE, ogni individuo che necessita di essere visitato da un medico o perfino di essere ricoverato in ospedale, gode degli stessi diritti delle persone assicurate nel paese in cui si trova e, come tale, ha diritto alle cure mediche fornite dal servizio sanitario.

È opportuno evidenziare che i sistemi di assistenza sanitaria e di previdenza sociale  variano da un Paese dell’UE all’altro. In alcuni Paesi può essere necessario pagare il medico o l’ospedale direttamente per le cure ricevute, anche se normalmente non occorre farlo nel proprio paese.

In questi casi, al fine ottenere l’accesso all’assistenza sanitaria pubblica e il rimborso dei costi sostenuti in maniera più semplice, il cittadino dovrà essere munito della “tessera europea di assicurazione malattia” (c.d. TEAM) , generalmente rilasciata insieme alla tessera sanitaria nazionale o altrimenti da richiedere all’ente assicurativo competente prima della partenza.Avv. Eleonora Pintus, Diritto dell’Unione Europea

Ma che cos’è la tessera europea di assicurazione malattia?

È una tessera gratuita che dà diritto all’assistenza sanitaria statale – dunque fornita da medici e ospedali convenzionati con il sistema sanitario pubblico e non anche privati – in caso di permanenza temporanea in uno dei 27 Stati membri dell’UE, in Islanda, in Liechtenstein, in Norvegia e in Svizzera, alle stesse condizioni e allo stesso costo degli assistiti del paese in cui ci si trova (in alcuni casi anche gratuitamente).

Le prestazioni coperte comprendono, ad esempio, quelle fornite in connessione a malattie croniche o già in corso, nonché a una gravidanza e a un parto.

La tessera rappresenta la  prova del fatto che si è assicurati in uno dei Paesi dell’Unione Europea.

Dunque, laddove il cittadino dovesse avere bisogno di essere visitato da un medico o ricoverato in ospedale durante un viaggio in un altro Paese dell’Unione, se munito della tessera europea di assicurazione malattia (TEAM) sarà più semplice ottenere l’accesso all’assistenza sanitaria pubblica e, per gli eventuali costi sostenuti, richiedere il rimborso delle spese.

Ciò significa che se le cure mediche sono gratuite per i residenti locali, anche il “paziente-viaggiatore” non dovrà pagarle. In caso contrario, invece, egli potrà richiedere il rimborso all’ ente nazionale del Paese in cui si trova oppure, al rientro, all’ente assicurativo del paese di residenza.

Occorre qui sottolineare che la TEAM non è un’assicurazione di viaggio e, come tale, non copre l’assistenza sanitaria privata né altri costi, quali il volo di rientro al proprio Paese di provenienza, né copre i costi del viaggio realizzato al solo scopo di ottenere cure mediche.

Cosa accada laddove, invece, il cittadino dovesse essere sprovvisto di Tessera europea di assicurazione malattia?

Ebbene, in questi casi, oppure nelle ipotesi in cui la struttura ospedaliera non rientrasse nel sistema TEAM (ad esempio perché privato), il cittadino potrebbe essere chiamato a pagare gli eventuali costi delle cure ricevute.

In ogni caso, è bene ricordare che, anche in tale ipotesi, il cittadino avrà la possibilità di richiedere il rimborso al proprio ente sanitario al rientro nel Paese di residenza, tanto per le cure fornite da strutture pubbliche quanto da quelle private, ma a condizioni diverse.

Nella specie, saranno rimborsate soltanto le cure astrattamente fruibili nel Paese di origine ed entro il limite dei costi ivi fissati, anche se di importo inferiore rispetto a quanto pagato.

In conclusione, dunque, se il cittadino è in possesso della tessera europea di assicurazione malattia, nei casi in cui le cure mediche fossero gratuite per i cittadini di quel Paese, anche il paziente – viaggiatore non dovrebbe pagarle, in quanto il medico o la struttura ospedaliera dovrebbe fornire le cure alle stesse condizioni previste per i cittadini dello Stato visitato.

In caso contrario, la fattura sarà comunque pagata dal Paese in cui il cittadino è assicurato oppure, se la fattura è stata inviata successivamente al proprio rientro, il cittadino potrà chiedere il rimborso al sistema sanitario nazionale.

Eleonora Pintus, Avvocato

Da alcuni anni, anche in Sardegna, si assiste al notevole incremento della coltivazione di canapa sativa -comunemente definita cannabis light o canapa legale-, grazie soprattutto alla molteplicità dei suoi impieghi, principalmente nel settore industriale, e alla capacità di questo tipo di coltivazione di ridurre l’impatto ambientale e la perdita della biodiversità.

Al fine di regolamentare la materia e di prevedere adeguati incentivi per promuovere la filiera della canapa, con la Legge 2 dicembre 2016 n. 242, il legislatore italiano ha adottato una serie di misure volte a individuare i requisiti e i limiti della coltivazione.

Tuttavia, sebbene da un lato la coltivazione di canapa sativa risulti lecita, dall’altro lato non può trascurarsi che nel corso degli ultimi mesi, sul territorio sardo e in particolare nell’oristanese, si siano verificati molteplici sequestri di ingenti quantitativi di canapa light a carico di imprenditori e coltivatori, con l’accusa di detenzione di stupefacente a fini di spaccio.

Quindi, quali sono i requisiti previsti dalla Legge e in quali ipotesi tali condotte assumono rilevanza penale?

Innanzi tutto, occorre chiarire che la cannabis sativa è una particolare varietà di canapa che, diversamente dalla cannabis indica e dalla cannabis ruderalis, con la Direttiva 2002/53/CE, è stata inserita nel catalogo comune delle specie di piante agricole, la cui coltivazione risulta liberamente consentita.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Invero, ai sensi dell’art. 2 della L. n. 242/2016 citata poc’anzi, la coltivazione di canapa sativa non necessita il previo rilascio di particolari autorizzazioni di carattere amministrativo e il coltivatore è tenuto semplicemente a conservare per 12 mesi i cartellini delle sementi acquistate e le relative fatture di acquisto.

È richiesto, però, che il contenuto di THC -ossia il principio attivo in grado di produrre un effetto psicotropo e, quindi, drogante- sia inferiore allo 0,2 %, con un limite di tolleranza fissato allo 0,6%.

Inoltre, affinché l’attività di coltivazione e trasformazione venga considerata lecita, la norma elenca ulteriormente i prodotti che è possibile ottenere mediante la lavorazione della canapa sativa e a cui la stessa deve essere destinata.

Ne consegue che la canapa coltivata non può essere utilizzata liberamente, ma dalla stessa è possibile ottenere soltanto:

  • alimenti e cosmetici;
  • semilavorati, come fibre, oli e carburanti, per forniture alle industrie;
  • materiale destinato alla pratica del sovescio;
  • materiale organico destinato al settore della bio ingegneria e bioedilizia;
  • materiale utilizzabile per la bonifica di siti inquinati;
  • coltivazioni dedicate alle attività didattiche e di ricerca, nonché destinate al florovivaismo.

Tuttavia, proprio dalla formulazione poco chiara e fin troppo generica della norma sono sorti numerosi dubbi interpretativi, in particolare per quanto riguarda la commercializzazione di canapa sativa proveniente da coltivazioni lecite.

Verrebbe da pensare, infatti, che trattandosi di cannabis light, e quindi legale, la vendita sia considerata parimenti lecita, eppure così non è.

Il contrasto giurisprudenziale e l’intervento delle Sezioni Unite

Il nodo della questione riguarda l’ammissibilità o meno della vendita al pubblico di foglie, infiorescenze, olio e resina derivanti dalla coltivazione di cannabis sativa.

Da un lato, infatti, si colloca un primo indirizzo giurisprudenziale minoritario che tiene conto esclusivamente della capacità o meno del prodotto di produrre effetti psicotropi, individuata nella soglia dello 0.6% di THC (si veda, Cass. pen., sez. VI, sent. n. 4920 del 2018).

Pertanto, la vendita di derivati della canapa sativa risulterebbe lecita, a condizione che tali prodotti contengano un principio attivo collocato entro la cd. soglia drogante fissata dalla Legge, posto che, in applicazione del principio penale di offensività, l’assenza di effetti psicotropi esclude qualsivoglia pericolo per la sicurezza, la salute e l’ordine pubblico.

All’evidenza, quindi, benché la L. n. 242/2016 tra le attività consentite menzioni solamente la coltivazione e la trasformazione della canapa sativa, tuttavia, la norma non vieta espressamente la commercializzazione, che, pertanto, deve considerarsi ammissibile nel rispetto dei limiti anzidetti.

Dall’altro lato, vi è un diverso e più rigoroso orientamento, fatto proprio anche dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 30475 del 2019, che tiene conto del solo dato letterale della norma.

Invero, la Legge in parola stabilisce la liceità della coltivazione della cannabis sativa per le sole finalità tassativamente elencate nella stessa, tra le quali non figura la commercializzazione dei prodotti derivati.

Ne consegue che la detenzione, nonché la vendita al pubblico di infiorescenze, resine e oli integra il reato di cui all’art. 73 del D.P.R. n. 309/90, anche a fronte di un contenuto di THC inferiore alla soglia drogante prevista per Legge, salvo che tali derivati siano in concreto privi di ogni efficacia psicotropa.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Lo stesso principio risulta applicabile anche con riferimento all’impiego della canapa sativa negli alimenti, nella misura in cui tra le finalità indicate espressamente dalla L. n. 242/2016 figura anche quella alimentare.

Ciò, però, non significa che la pianta possa essere utilizzata interamente o senza alcuna distinzione, ad esempio per produrre infusi, tisane, pasta, biscotti e così via.

Infatti, con apposito provvedimento il Ministero della Salute, nell’indicare tassativamente i livelli massimi di THC ammissibili negli alimenti, ha stabilito che l’unica parte della pianta di canapa che può essere utilizzata a fini alimentari sono i semi, quindi, con esclusione delle infiorescenze, il cui impiego risulta illecito e sanzionabile penalmente.

In definitiva, la Legge italiana non prevede la possibilità in capo al coltivatore di effettuare alcuna attività di lavorazione delle piante di canapa sativa e, di conseguenza, l’essicazione, la sbocciolatura, il trasporto o la vendita al dettaglio sono considerate condotte illecite, in quanto rientranti nella nozione di “commercializzazione”, e quindi punibili in applicazione della disciplina in materia di traffico di stupefacenti.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Come si immagina, tale conclusione determina una serie di ripercussioni, anche sotto il profilo economico, posto che il coltivatore, impossibilitato a svolgere lecitamente qualsivoglia lavorazione della canapa, si vedrà costretto a cedere a terzi il prodotto “grezzo”, ovviamente a un prezzo notevolmente inferiore.

Per questa ragione, stante l’assenza di un effettivo pericolo per la salute e l’ordine pubblico legato alla commercializzazione della canapa sativa, in quanto priva di effetto drogante, le associazioni di categoria e i coltivatori invocano con urgenza un intervento normativo che, anche a livello regionale, possa colmare i vuoti lasciati dalla L. n. 242/2016, consentendo così di incentivare la filiera della canapa e di dare nuovo impulso all’economia sarda.

Claudia Piroddu, Avvocato

L’HACCP alla base della sicurezza alimentare

L’HACCP acronimo di hazard analisys critical control point, in italiano analisi dei pericoli e dei punti critici di controllo, non è altro che una metodologia costruita e sviluppata durante l’era spaziale (anni ’70) per poter proteggere chi consuma bevande e alimenti.

Tutto, infatti, parte da protocolli generati per tutelare la salute degli astronauti e conferire loro delle nozioni che permettessero di conservare e manipolare adeguatamente gli alimenti eliminando così i più comuni rischi generati non solo da una possibile contaminazione legata all’operatore (colui che ha a che fare con l’alimento), ma anche alla conservazione -quindi rispettare tempi e temperature.

L’HACCP, oltre ad imporre delle regole comportamentali, mette in evidenza come correggere i problemi che potrebbero presentarsi lungo il percorso dei prodotti commestibili. Federica Adamo, Consulente e formatore

Ciò che rappresenta il pericolo nell’alimento o nella bevanda è un agente che può essere già presente o che per contatto va a contaminare ciò che consumiamo: può essere, ad esempio, un agente microbiologico (ad esempio un batterio, un virus, un parassita o una muffa), un agente chimico (ad esempio una sostanza chimica tipo pesticida o un banale detergente usato per la pulizia delle superfici) e/o un agente fisico (ad esempio una scheggia o una pietrolina).

L’HACCP ci fornisce delle regole ben precise di comportamento, conservazione e manipolazione degli alimenti, cosicché questi possano essere consumati senza arrecare alcun tipo di danno.

L’HACCP, quindi, consente il controllo completo della filiera alimentare dal produttore primario (contadino e allevatore) al trasportatore, al grossista; dalla manipolazione alla conservazione, alla vendita ed alla somministrazione: una catena che in ogni fase va attentamente valutata e documentata così da non perdere mai, e poi mai, quello che è il controllo su alimenti e bevande, per consentire il consumo di alimenti sani per tutti!

Lo scopo è appunto quello di ottenere alimenti sani per tutti: il consumatore finale deve avere la garanzia su ciò che consuma e questa è conferita dalla metodologia che tutti andranno ad applicare.Federica Adamo, Consulente e formatore

Come già precisato, nasce negli anni ’70 negli Stati Uniti d’America e poco alla volta va a diffondersi in altri paesi: visto e considerato che i risultati iniziano ad arrivare, nel 2004 l’Unione Europea con il “pacchetto igiene” inizia a normare e delineare i punti da tenere sotto controllo della filiera, ma non solo infatti indica anche come l’Operatore Alimentarista deve comportarsi (ciò che deve o non deve fare).

L’operatore alimentarista che fino agli anni ’90 non possedeva nozioni su come comportarsi, ma veniva solamente controllato il suo stato di salute (libretto sanitario poi sospeso), ora si ritrova a fare i conti con la formazione.

La formazione diventa obbligatoria così da avere operatori consapevoli di ciò che avviene e di ciò che potrebbero causare.

Questa diventa un’arma importantissima contro il diffondersi di malattia di origine alimentare, le cosiddette “tossinfezioni” che causano patologie non solo gastrointestinali, ma a volte parecchio gravi come cecità, artrite reattiva, sindrome emolitica uremica, cancro, aborto ed altri fino ad arrivare anche alla morte.

Questo per evidenziare che sicuramente non è il mal di pancia la nostra preoccupazione primaria.

La formazione affiancata da un manuale di autocontrollo dell’attività diventa quindi l’arma per contrastare le tossinfezioni anche se, purtroppo, ancora oggi molti operatori sottovalutano l’importanza della conoscenza e non considerano quest’aspetto, che invece accompagna la consapevolezza di ciò che si fa, e per questo è obbligatorio.

La formazione è obbligatoria ai sensi del REG CE 852/04 e, precisamente, il D.Lgs 197/2003 prevede delle sanzioni in caso di mancata formazione che ovviamente servirebbero da deterrente ma, purtroppo, sono ancora troppi gli operatori che provano a sottrarsi ai loro doveri fino a che non vi sia l’intervento dell’apposito organo di vigilanza.

Federica Adamo, Consulente e formatore

Sono laureata in Tossicologia dell’alimento, dell’ambiente e del farmaco, oltre ad avere i titoli di formatore e di RSPP (responsabile del servizio di protezione e prevenzione). Sono consulente e formatore in materia di sicurezza sul lavoro e in igiene degli alimenti.

Amo relazionarmi con tutte le figure, creare relazioni di lavoro durevoli e di supporto.

La tecnologia, soprattutto ora visto i tempi complicati da diversi aspetti, ci aiuta nel continuare ad essere uniti, collegati ed a interagire anche a distanza.

Servizio di sostegno alle imprese, è nato per aiutare e supportare nano, micro, piccole, medie e grandi imprese. Vi guida, indicandovi le soluzioni più idonee alle vostre necessità, fornendovi assistenza vera e propria a 360 gradi su numerosi fronti.

I servizi offerti sono:

  • Consulenze aziendali nella valutazione dei rischi D.Lgs 81/08 (DVR)
  • Organizzazione e gestione corsi obbligatori sulla sicurezza sul lavoro secondo indicazioni Acc. Stato e Regioni e non
  • Docente/formatore in materia di sicurezza sul lavoro
  • Docente/formatore corsi anti-incendio e emergenza ed evacuazione
  • Valutazioni ambientali
  • Affiancamento imprenditori per apertura muove attività
  • Consulenza e disbrigo pratiche per gestione Ispettive da parte di organi di vigilanza
  • Realizzazione e gestione di sistemi integrati per la sicurezza
  • Docente/formatore HACCP
  • Consulente HACCP relativamente alla gestione ed analisi di prodotti alimentari
  • Affiancamento e stesura nel manuale HACCP per tutte le tipologie di attività
Focus di diritto civile • Avv. Francesco Sanna

La figura dell’operatore del settore alimentare (OSA)

L’operatore del settore alimentare è una figura di primaria importanza nell’assicurare le adeguate misure di sicurezza lungo tutta la filiera alimentare.

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

La frode alimentare nel codice penale

Quando si parla di “frode alimentare” si fa riferimento genericamente alla produzione e alla commercializzazione di alimenti non conformi alle norme vigenti.

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Focus di diritto civile • Avv. Viola Zuddas

Il danno da intossicazione alimentare

Da una decina d’anni sono state introdotte in Italia nuove regole, rivolte principalmente agli operatori del settore alimentare, volte a disciplinare in maniera più compiuta la pratica dell’etichettatura dei prodotti alimentari e le dichiarazioni nutrizionali dei singoli prodotti.

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Il controllo sugli operatori alimentari secondo la normativa UE

La politica di sicurezza alimentare dell’Unione europea (UE) ha come obiettivo principale quello di proteggere i consumatori, garantendo al contempo il regolare funzionamento del mercato unico.

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L’ammissione dell’allievo a scuola determina l’instaurazione di un vincolo negoziale dal quale sorge a carico dell’istituto l’obbligo di istruire ed educare e, altresì, uno specifico dovere di protezione e vigilanza volto a prevenire eventuali danni che lo studente possa subire per il tempo in cui fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni.

Tali obblighi, quindi, sorgono dall’ingresso dell’alunno nell’istituto e permangono fino all’uscita dallo stesso, estendendosi anche alle manifestazioni sportive o alle gite che, organizzate dalla scuola, si svolgono al di fuori dell’orario delle lezioni ed in locali differenti.

Essi si sostanziano nel dovere di predisporre, in via preventiva, gli accorgimenti necessari affinché non venga arrecato alcun danno allo studente fintantoché questi è affidato all’istituto: naturalmente, il contenuto degli obblighi varia in relazione alle circostanze del caso concreto e, in particolare, all’età dell’alunno.

Difatti, il dovere di vigilanza dev’essere commisurato all’età dello studente e, precisamente, è inversamente proporzionale rispetto alla maturità raggiunta, tant’è che è tanto più stringente quanto minore sia l’età dell’allievo in rapporto anche all’acquisizione, o meno, di un adeguato grado di maturità comportamentale ed al contesto ambientale in cui agisce.Avv. Viola Zuddas, Civilista

Ebbene, la violazione del predetto dovere comporta l’insorgenza della responsabilità contrattuale in capo all’istituto, in quanto il personale, didattico e non didattico, è tenuto a vigilare diligentemente sugli alunni, adottando tutte le cautele necessarie per evitare che, nel corso dello svolgimento del rapporto scolastico, questi riportino dei danni.

Per tale motivo, incombe sempre sull’istituto il dovere di organizzare la vigilanza degli studenti sia in relazione all’uso degli spazi comuni durante l’entrata e l’uscita da scuola, sia in relazione ai materiali ed ai prodotti in uso normalmente ai ragazzi.

In caso di violazione di tali obblighi, quindi, l’istituto scolastico è contrattualmente responsabile per il danno che l’allievo abbia subito, salvo che non riesca a dimostrare che l’evento lesivo sia stato determinato da causa non imputabile né alla scuola medesima né al personale.

Tuttavia, qualora il danno patito sia stato inflitto da un terzo, ad esempio un compagno di classe, la responsabilità a carico dell’istituto è di natura extracontrattuale purché il danno sia stato causato da un fatto illecito obiettivamente antigiuridico.

Nello specifico, il comportamento che ha causato il pregiudizio dev’essere stato posto in essere con un grado di violenza incompatibile con il contesto ambientale nel quale l’attività scolastica si svolge o con le qualità delle persone che vi partecipano, oppure dev’essere stato posto in essere in violazione delle regole che disciplinano lo svolgimento sereno dell’attività o, infine, con lo specifico scopo di ledere.Avv. Viola Zuddas, Civilista

In tali ipotesi, quindi, i genitori dell’alunno potranno ottenere il risarcimento se riusciranno a dimostrare non solo l’affidamento del minore alla cura e vigilanza dell’istituto ma, altresì, che il danno subito sia stato causato da una condotta illecita posta da un terzo.

In considerazione di quanto sino ad ora chiarito, l’istituto scolastico è responsabile del danno subito dall’alunno per il tempo in cui fruisce della prestazione scolastica in tutte le sue espressioni.

La responsabilità, però, potrà essere di natura contrattuale o extracontrattuale a seconda delle circostanze del caso concreto e sempreché non vi siano delle particolari condizioni che ne precludano la riferibilità all’istituto medesimo o al personale.

Viola Zuddas, Avvocato

Come già detto nella “PARTE 1” dell’articolo del mese scorso, sempre dedicato al processo civile per responsabilità medica, il soggetto leso, o in caso di morte i suoi familiari, che si determina ad adire l’autorità giudiziaria al fine di ottenere il risarcimento dei danni patiti per “mala sanità” è obbligato ad esperire preliminarmente uno dei due procedimenti conciliativi.

Specificatamente, con l’entrata in vigore del d.lgs 28/2010 ha preso sempre più piede una modalità di gestione del conflitto volto al raggiungimento di una transazione tra le parti coinvolte.

La scelta per la mediazione, al posto dell’accertamento tecnico preventivo, attesta una sorta di preferenza per un percorso collaborativo che prescinde dal piano meramente giuridico e tecnico, consentendo alla parte istante di imbastire una comunicazione con la parte convocata (struttura sanitaria, sanitario e/o loro assicurazioni).

Detto ciò non può non rilevarsi che le liti in subiecta materia possono essere soggettivamente molto complesse, poiché spesso coinvolgono non soltanto il paziente e il medico o il paziente e la struttura sanitaria o il paziente, il medico e la struttura sanitaria, ma anche le compagnie di assicurazione, nonché, in caso di evento morte, i familiari del defunto. Ne deriva la compresenza di un coacervo di interessi tra di loro contrapposti non agevolmente coordinabili.

In dipendenza di quanto appena evidenziato si è deciso di suddividere il procedimento di mediazione in due fasi fondamentali: la prima, atta a favorire la comunicazione tra i soggetti coinvolti e il loro reciproco riconoscimento; la seconda, diretta a trovare un punto di incontro tra le parti sul piano risarcitorio, attraverso l’esame degli aspetti medico-legali del caso di specie e di tutti gli altri elementi che potrebbero influire su tale determinazione.

I vantaggi di addivenire ad un accordo di mediazione non sono pochi.

Difatti, l’assistenza di un mediatore qualificato e competente e la presenza di un clima collaborativo tra i soggetti coinvolti, che la mediazione dovrebbe contribuire ad instaurare, costituiscono certamente motivi validi per indurre la parte che chiede l’ottenimento di un risarcimento a farla propendere per la scelta del filtro in questione.

Ancora, altri aspetti di non secondaria importanza in caso di mediazione sono le garanzie di riservatezza e confidenzialità e gli incentivi di carattere fiscale che il procedimento di mediazione assicura, oltre alla possibilità di porre in esecuzione il verbale di mediazione e l’allegato accordo.

Di converso gli svantaggi che tale tipo di scelta procedurale porta con sé sono l’onerosità del procedimento per scaglioni di importo elevato, l’eventuale incompetenza dei mediatori rispetto alla specifica tipologia di contenzioso, la condanna al pagamento delle spese in caso di rifiuto della proposta conciliativa e di successiva condanna da parte del giudice ad un importo corrispondente a quello indicato nella proposta rifiutata.

L’efficacia della mediazione, com’è facile intuire, si fonda in primo luogo sulla possibilità di riunire attorno ad un unico tavolo di discussione tutti i soggetti coinvolti nella vicenda oggetto di lite, sia per favorire la corrispondenza soggettiva e oggettiva del procedimento con il successivo eventuale processo – così soddisfacendo la condizione di procedibilità – ma anche perché aumentino le possibilità di una composizione bonaria e stragiudiziale della vertenza.

L’art. 8, comma 4-bis, d.lgs 28/2010 stabilisce che «Dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione, il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’articolo 116, secondo comma, del codice di procedura civile. Il giudice condanna la parte costituita che, nei casi previsti dall’articolo 5, non ha partecipato al procedimento senza giustificato motivo, al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio».Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

In tema di conseguenze derivanti dalla mancata partecipazione di una delle parti al procedimento di mediazione si deve precisare che queste avranno luogo, salvo casi di “giustificato motivo”.

Alla luce di quanto testè esposto ci si deve ora interrogare circa la portata del significato della locuzione “giustificato motivo”, che la norma non specifica se di tipo oggettivo o soggettivo.

Partendo dalla considerazione che per “giustificato motivo” non possa essere intendersi la asserita infondatezza della pretesa avversaria e/o il personale scetticismo nei confronti dell’istituto della mediazione, proviamo a individuare – come fatto dalla migliore dottrina e giurisprudenza – alcune ipotesi in cui si dovrebbe ritenersi sussistere il “giustificato motivo”:

  1. incompetenza territoriale dell’organismo di mediazione adito la cui sede operativa deve trovarsi il «luogo del giudice territorialmente competente per la controversia»;
  2. proposizione della domanda di mediazione innanzi a un organismo diverso da quello individuato convenzionalmente dalle parti nella clausola di mediazione;
  3. mancanza o invalida comunicazione alla controparte, imputabile all’organismo o alla parte istante;
  4. impossibilità oggettiva della parte convocata di partecipare al primo incontro;
  5. ricezione di una istanza di mediazione dalla quale non si evinca la materia del contendere.

Infine, si precisa che per poter ritenere espletata la condizione di procedibilità (oltre alla mancata partecipazione del chiamato per ragioni non giustificate) occorre tenere conto di quanto disposto dal citato art. 5, comma 2-bis, secondo cui «la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l’accordo».

E’ evidente che la fattispecie di mancato accordo costituisce ipotesi distinta e ben diversa da quella di mancata partecipazione.

Le ragioni che possono condurre al mancato raggiungimento di un accordo di mediazione sono le più disparate. In sintesi possono essere distinte in:

  1. ragioni attinenti alla funzionalità e/o efficienza dell’organismo di mediazione adito o alla serietà, imparzialità, competenza del mediatore designato o alla idoneità dei luoghi della mediazione o infine o a mere esigenze di opportunità;
  2. ragioni attinenti alla fondatezza o no della pretesa.

(https://www.questionegiustizia.it)

Francesco Sanna, Avvocato

Il viaggio è parte essenziale della nostra vita.

Si viaggia per motivi di studio, lavoro, vacanza e non solo.

Ebbene, anche durante un viaggio all’estero potrebbe sopraggiungere la necessità di acquistare un farmaco prescritto con ricetta dal proprio medico.

In questi casi, al fine di ottenere il medicinale in un altro Stato membro dell’Unione Europea, è sufficiente presentare la prescrizione rilasciata dal medico curante nazionale?

La risposta è affermativa.

L’artico 11 della Direttiva n. 2011/24 relativa ai diritti dei pazienti all`assistenza sanitaria transfrontaliera (recepita in Italia con d.lgs. n.38/2014) prevede un reciproco riconoscimento delle ricette all`interno dell`UE.Avv. Eleonora Pintus, Diritto dell’Unione Europea

La normativa suddetta ammette che il medico di base possa rilasciare una ricetta utilizzabile in un altro paese dell’UE, nota anche come “ricetta transfrontaliera”, al fine di ottenere il medicinale prescritto anche oltre i confini nazionali.

Al fine di agevolare l’accesso ad un’assistenza sanitaria transfrontaliera sicura e di qualità nell’Unione, e a garantire la mobilità dei pazienti, non è stato previsto un unico modello in tutta Europa ma resta prerogativa degli Stati membri adottare un proprio modello di ricetta destinata ad essere utilizzata in un altro Paese dell’UE.

Tuttavia, al fine di ottenere il farmaco oggetto di prescrizione medica in un altro Stato, è necessario che la ricetta – generalmente cartacea – contenga alcune essenziali, ed imprescindibili, informazioni:

  • i dati del paziente: nome e cognome (scritti entrambi per esteso) e data di nascita;
  • la data di emissione;
  • i dati del medico che prescrive il medicinale;
  • i dati del medicinale prescritto: nome comune – come previsto dalla direttiva di esecuzione n. 2012/52 comportante misure destinate ad agevolare il riconoscimento delle ricette mediche emesse in un altro Stato membro – preferibile al nome commerciale (giacché questo può variare a seconda dei Paesi); formato; quantità; concentrazione e posologia.

Vi è da dire che, in ogni caso, il riconoscimento della ricetta medica non pregiudica le norme nazionali che regolano la prescrizione e la fornitura di medicinali.Avv. Eleonora Pintus, Diritto dell’Unione Europea

Ciò significa che le stesse prescrizioni soggiacciono alle norme nazionali del Paese nel quale vengono presentate per l’acquisto del farmaco e, dunque, che i medicinali saranno dispensati in linea con la normativa nazionale.

Ad esempio, in alcuni Sati il numero di giorni della posologia potrebbe variare, oppure, laddove la ricetta presentata, secondo la normativa del Paese di destinazione, non fosse più valida , il farmacista non è tenuto a dispensare il farmaco.

Allo stesso modo, il riconoscimento di una prescrizione non pregiudica il diritto del farmacista, in base al diritto nazionale, di rifiutarsi, per motivi di carattere etico, di dispensare il medicinale prescritto in un altro Stato membro.

In conclusione, e al di là dei limiti dettati dalla normativa nazionale dello Stato di destinazione, se la ricetta contiene tutte le informazioni necessarie, la farmacia è tenuta a rilasciare il farmaco e, in caso di rifiuto, è prevista la possibilità per il paziente di contattare lo sportello nazionale per l’assistenza sanitaria all’estero del Paese in questione.

Eleonora Pintus, Avvocato

Con il D.L. n. 132/2021, entrato in vigore il 30 settembre 2021, il Consiglio dei Ministri ha introdotto una rilevante modifica alla norma che disciplina l’acquisizione dei tabulati telefonici e telematici per finalità di accertamento e repressione dei reati.

Pare appena opportuno sottolineare che i tabulati telefonici e i dati relativi al traffico web assumano un’importanza peculiare nello svolgimento delle indagini, specie nella fase iniziale, in cui qualsiasi elemento può essere utile per indirizzare gli investigatori.

Il traffico telefonico e telematico di una determinata utenza, infatti, è suscettibile di fornire una notevole quantità di informazioni cd. sensibili.

Proprio attraverso l’analisi di tali dati è possibile ricostruire non solo gli spostamenti di una persona, attraverso le “celle” che il terminale ha agganciato per connettersi, ma anche individuare i contatti con le altre utenze e, quindi, ricostruire la rete di frequentazioni della persona oggetto di indagine, nonché i siti web che la stessa ha visitato in un preciso arco temporale.

È, quindi, evidente che si pone la necessità di bilanciare, da un lato, le esigenze di giustizia penale e di indagine e, dall’altro lato, quelle di tutela della privacy, da un utilizzo sproporzionato e talvolta inutile dei dati personali.

La norma di riferimento è l’art. 132 del cd. Codice della privacy (D. Lgs n. 196/2003) che, nella sua formulazione originaria, anteriore al D.L. n. 132/2021, prevedeva che il Pubblico Ministero –soggetto titolare delle indagini penali- potesse disporre autonomamente l’acquisizione dei tabulati telefonici.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Ciò poteva avvenire per qualsiasi tipo di reato e non solo nei confronti dell’indagato, ma di chiunque, con il solo limite temporale del periodo di conservazione dei dati del traffico telefonico e telematico a cui è tenuto il fornitore del servizio, fissato rispettivamente in 24 e 12 mesi dalla data della comunicazione e, per talune tipologie di reati gravi, in 72 mesi, secondo quanto previsto dalla controversa L. n. 167/2017.

Fatta questa premessa, è bene chiarire che con il D.L. n. 132/2021, il Governo, nel rispetto dei principi enunciati dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea nella sentenza del 2 marzo 2021, causa C-746/18, ha scelto una linea maggiormente “garantista”, introducendo dei requisiti e limiti specifici per l’acquisizione dei tabulati.

Quali sono le modifiche?

La nuova disciplina

La Corte di Giustizia dell’Unione europea, partendo dall’esigenza di bilanciare adeguatamente gli interessi coinvolti, ha ritenuto di circoscrivere le attività di acquisizione dei tabulati telefonici e telematici, sia attraverso l’individuazione dei reati per i quali potrà essere richiesta l’acquisizione e sia attraverso una limitazione al potere di iniziativa attribuito all’organo requirente.

A tale riguardo, non bisogna dimenticare l’intervento del Garante per la protezione dei dati personali che, proprio all’indomani della sentenza della CGUE, ha sollecitato l’introduzione di una riforma della materia.

In particolare, nella normativa italiana vi sarebbe una chiara mancanza di bilanciamento tra la protezione dei dati e le esigenze di pubblica sicurezza, reso ancor più evidente dalla L. n. 167/2017, citata poc’anzi, che ha esteso notevolmente il termine massimo per la conservazione dei tabulati, determinando in conseguenza l’obbligo di conservazione generalizzata dei tabulati di tutti gli utenti per un periodo di 6 anni.

Su tali presupposti, il Garante ha sollecitato il Parlamento e il Governo a predisporre una disciplina che consenta di delineare chiaramente le condizioni, i limiti e i termini della conservazione dei dati, che tenga conto della gravità dei reati per i quali si procede e che comunque preveda un controllo da parte dell’autorità giudicante, organo terzo e imparziale.

Il Legislatore italiano, pertanto, in applicazione dei suddetti principi, ha previsto la nuova disciplina che consente l’acquisizione dei dati telefonici e telematici, purché:

  • ricorrano sufficienti indizi circa la commissione di taluni reati, ossia devono sussistere elementi chiari e consistenti in ordine non solo alla realizzazione del reato, ma anche alla riferibilità dello stesso ad un soggetto determinato;
  • deve trattarsi di reati per i quali la Legge stabilisce la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a 3 anni e dei reati di minaccia, molestia o disturbo alle persone con il mezzo del telefono, quando siano caratterizzati da condotte gravi;
  • infine, è necessario che i dati relativi al traffico telefonico e telematico siano rilevanti ai fini della prosecuzione delle indagini.

Qualora siano soddisfatti tutti i requisiti oggettivi richiesti dalla nuova disposizione, i dati sono acquisiti con decreto motivato del giudice su richiesta del pubblico ministero o su istanza del difensore dell’imputato, della persona sottoposta a indagini, della persona offesa e delle altre parti private.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Tale disposizione costituisce, senza alcun dubbio, il cuore della riforma.

Da una parte, infatti, la norma introduce una limitazione al potere di indagine esercitato dal pubblico ministero, poiché egli –in qualità di parte del processo, al pari della difesa dell’imputato e delle parti private- non potrà più disporre autonomamente l’acquisizione dei tabulati, ma dovrà sottoporre tale richiesta alla decisione del giudice, organo terzo ed imparziale, tenuto a vagliare rigorosamente la sussistenza dei presupposti di Legge poc’anzi menzionati.

D’altra parte, non può trascurarsi che la norma attribuisca anche al difensore dell’imputato, alla persona sottoposta a indagini, alla persona offesa e alle altre parti private il potere di richiedere direttamente al giudice l’acquisizione dei tabulati, riconoscendo, quindi, una ruolo decisivo all’iniziativa di tutte le parti del processo, non solo alla pubblica accusa.

Da ultimo, il D.L. in esame ha ulteriormente introdotto una specifica “procedura d’urgenza”, che, ai sensi dell’art. 1, co. 3 bis, nel caso in cui ricorrono ragioni di urgenza e vi è fondato motivo di ritenere che dal ritardo possa derivare un grave pregiudizio alle indagini, consente al pubblico ministero di disporre di sua iniziativa l’acquisizione dei dati con decreto motivato.

Tuttavia, anche in tale ipotesi -pensata proprio per salvaguardare le esigenze di celerità delle indagini- è previsto l’intervento del giudice, al quale il provvedimento deve essere comunicato immediatamente e, comunque, non oltre le 48 ore, affinché quest’ultimo decida entro le successive 48 ore sulla convalida dello stesso.

All’evidenza, deve trattarsi di uno strumento di carattere comunque eccezionale che, in ogni caso, richiede il controllo, seppur successivo, da parte dell’autorità giudicante che, in caso di mancata convalida nei termini e nei modi previsti, comporta l’inutilizzabilità dei dati ottenuti.

In definitiva, la riforma introduce senza alcun dubbio un chiaro limite al potere di indagine del pubblico ministero che potrà richiedere direttamente i tabulati e il traffico web solo in caso di urgenza, ma resta comunque vincolato alla decisione del giudice.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

La norma si applicherà, dunque, a tutti i nuovi procedimenti e, altresì, in virtù del principio applicabile alle disposizioni procedurali del tempus regit actum, anche ai procedimenti pendenti, per i quali risulta necessaria una verifica da parte dell’organo giudicante circa la sussistenza delle condizioni per l’utilizzabilità dei tabulati e log richiesti.

Claudia Piroddu, Avvocato

Oggi, 27 settembre, è la giornata mondiale del turismo, ricorrenza istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1980 per rendere la comunità internazionale consapevole del ruolo del turismo e del suo impatto sui valori sociali, politici, economici e culturali delle persone in tutto il mondo.

Quest’anno, l’Organizzazione Mondiale del Turismo (OMT), cioè l’agenzia delle Nazioni Unite competente per la promozione del turismo, ha voluto porre l’attenzione sull’impatto che la pandemia ha avuto sulle imprese e sui lavoratori impegnati in questo settore e, proprio per questo motivo, l’oggetto della giornata mondiale del turismo 2021 è “Il turismo per la crescita inclusiva. La persona oltre le statistiche”.

L’obiettivo da raggiungere, oggi più che mai, è quindi la promozione di un turismo responsabile, sostenibile e universalmente accessibile, cioè un turismo che rispetti la natura e, in generale, che preservi l’ambiente in cui viviamo e che, al contempo, contribuisca all’espansione economica, all’osservanza dei diritti umani e delle libertà fondamentali senza distinzione di razza, sesso, lingua e religione.

La pandemia, purtroppo, ha colpito il settore turistico di tutte le economie, sia quelle dei Paesi più ricchi che quelle dei Paesi ancora in via di sviluppo: questi ultimi, in particolare, hanno visto acuirsi il divario rispetto alle economie più forti poiché privi di una struttura economico – organizzativa tale da consentire di arginare gli effetti della crisi.

Non bisogna dimenticare, infatti, che in tutto il mondo milioni di imprese e di posti di lavoro dipendono dal settore turistico, che è anche una forza trainante nella protezione del patrimonio naturale e culturale.

Sicuramente, uno degli strumenti più efficaci per promuovere la ripresa di questo settore e valorizzare l’inclusione è quello di individuare nuove destinazioni turistiche al fine di assicurare una distribuzione equilibrata dei flussi di visitatori e favorire la crescita economica e sociale dei Paesi in via di sviluppo.

In questo modo, dunque, si potrebbe contrastare la cosiddetta “stagionalità” dei flussi turistici, ovvero quel tipo di turismo che prevede lo spostamento di milioni di persone concentrato in determinati periodi dell’anno e nelle mete più gettonate.

Questo tipo di turismo, infatti, crea inevitabilmente un sovraffollamento di visitatori che, spesso, risulta essere dannoso per l’ambiente e scarsamente gestibile sotto il profilo dei servizi locali.

Il turismo in Sardegna tra stagionalità e sostenibilità

Per quanto riguarda la Sardegna (e, in generale, le località turistiche balneari) il flusso di turisti si concentra, solitamente, da maggio ad ottobre, con picchi in luglio ed agosto.

La stagionalità, quindi, rappresenta un problema per la gestione dei visitatori, poiché non tutte le mete sono effettivamente attrezzate per ospitare e ricevere un afflusso consistente di turisti; inoltre, rappresenta un problema per l’economia, in quanto gran parte di coloro che operano nel settore turistico ha un contratto stagionale, appunto, e risulta disoccupata nei mesi di cosiddetta “bassa stagione”.

Per contrastare le distorsioni negative del mercato che derivano da questo fenomeno, dunque, si dovrebbe puntare maggiormente su un turismo sostenibile da praticare tutto l’anno, attraverso la valorizzazione delle risorse del territorio ed il potenziamento delle strutture ricettive.

Possiamo dire che questa estate il turismo in Sardegna sia stato davvero “sostenibile”?

Come sappiamo, nonostante la pandemia, la stagione turistica in Sardegna ha registrato dei dati impressionanti: l’isola, infatti, è stata una delle mete più ambite di questa estate con oltre 10 milioni di turisti che vi hanno soggiornato dal mese di giugno a quello di settembre.

Sul punto, riportiamo qualche interessante dato condiviso dal dott. Giovanni Depau, Food&Beverage manager dell’hotel Stella Maris, del Cruccuris Resort e di Sa Mirada Apartments.

Precisamente, in queste strutture, situate nel comune di Villasimius, è stato riscontrato in media un aumento del +30% di presenze rispetto alla precedente stagione, con un picco di prenotazioni del +83,42% nel mese di giugno per il Cruccuris Resort.

Questi dati, quindi, confermano la grande ripresa del turismo locale che è sicuramente in crescita rispetto al trend registrato nella stagione estiva 2020, anche se non ha ancora raggiunto i livelli dell’estate 2019, rispetto alla quale si riscontra comunque un calo quasi del -50%.

A contendere a Villasimius il ruolo di meta più ambita da parte dei turisti c’è, come ogni estate, anche l’arcipelago di La Maddalena, che è il primo Parco Nazionale della Sardegna.

Ebbene, tutti noi abbiamo impresse nella mente le riprese aeree girate in elicottero a fine agosto (condivise dal profilo twitter @NavigoPerCaso e poi diffuse da diverse testate giornalistiche sia sui social che in trasmissioni televisive – immagini simili sono state trasmesse anche da “Linea Blu” nella puntata del 18 settembre) che testimoniavano la presenza di imbarcazioni di grandi dimensioni che si stendevano come un tappeto nell’arcipelago di La Maddalena.

Guardando quelle immagini, non si può non pensare che l’ambiente marino, già piuttosto fragile, sia stato sottoposto a dure pressioni a causa del grandissimo afflusso dei turisti che si sono riversati in massa nel Parco per godere della sua indiscutibile bellezza.

In proposito, si deve ricordare che nel Parco non ci sono limiti né sul numero di accessi né sulle dimensioni delle imbarcazioni: i visitatori, infatti, devono semplicemente pagare un ticket commisurato al tipo di natante, che consente loro di navigare, ormeggiare, ancorare e sostare entro i 300 metri dalla costa.

Non vi è dubbio, quindi, che in questa bellissima area marina (ed anche in altre zone) sia assolutamente necessario adottare dei provvedimenti atti a prevenire ed a porre rimedio agli inconvenienti ambientali e naturalistici derivanti da flussi turistici intensissimi che sono sempre in costante aumento.

In definitiva, possiamo dire che anche in questa stagione, nonostante gli strascichi della pandemia, abbiamo assistito ad un turismo di massa, poiché, in un lasso di tempo circoscritto, milioni di persone si sono riversate in alcune mete specifiche che, spesso, non sono riuscite a gestire dei numeri così importanti.

Per promuovere un turismo che sia davvero inclusivo e sostenibile sarebbe, dunque, necessario assicurare una distribuzione equilibrata dei flussi turistici così da tutelare il territorio per preservarlo per le generazioni future.

Viola Zuddas, Avvocato

Come ogni anno, anche nell’estate appena trascorsa, la Sardegna -e in particolare la vasta area dell’oristanese compresa tra il Marghine e il Montiferru- ha dovuto far fronte al devastante fenomeno degli incendi boschivi.

Tuttavia, la nostra isola non è l’unica regione italiana ad essere interessata dall’emergenza incendi, ma si tratta di una problematica che investe tutto il territorio nazionale.

Secondo un recente studio realizzato dalla Coldiretti, quest’anno, in Italia si è registrato un incremento del fenomeno pari al 256% rispetto all’estate scorsa, che ha determinato la distruzione di migliaia di ettari di boschi e macchia mediterranea, con una stima di costi di spegnimento e bonifica che si aggirano intorno al miliardo di euro.

Dinnanzi a tali dati allarmanti e stante la necessità di introdurre al più presto misure efficaci per contrastare il fenomeno degli incendi boschivi, il Governo ha adottato il D.L. n. 120/2021, entrato in vigore il 10 settembre 2021.

Giova precisare che il decreto legge è un atto normativo di carattere provvisorio, emanato dal Governo nei casi di straordinaria necessità ed urgenza, ex art. 77 Cost., avente forza di Legge, ma che, tuttavia, deve essere convertito in Legge dal Parlamento, nei tempi e con le modalità previste.

Ebbene, il Decreto in esame prevede alcune modifiche al codice penale e, nella specie, all’art. 423 bis, con l’introduzione di due nuovi articoli, l’art. 423 ter e 423 quater.

La fattispecie

Ancora prima del recente intervento normativo, il codice penale italiano già prevedeva una fattispecie specifica, volta a sanzionare chiunque cagioni un incendio boschivo.

Invero, l’art. 423 bis c.p. punisce chiunque cagiona un incendio doloso su boschi, selve o foreste o su vivai forestali destinati al rimboschimento con la reclusione da 4 a 10 anni, mentre nel caso di incendio colposo, la pena è della reclusione da 1 a 5 anni.

Si tratta di un reato collocato tra i delitti contro l’incolumità pubblica, pertanto, lo scopo della norma incriminatrice è quello di tutelare la sicurezza di un numero indeterminato di persone, nonché di preservare l’ambiente.

È bene precisare che, ai sensi dell’art. 2 della L. n. 353/2000, per incendio boschivo si intende “un fuoco con suscettibilità ad espandersi su aree boscate, cespugliate o arborate, comprese eventuali strutture ed infrastrutture antropizzate poste all’interno delle predette aree, oppure su terreni coltivati o incolti e pascoli limitrofi a dette aree”.

Quindi, affinché il reato possa configurarsi occorre che la condotta del soggetto agente, sia essa volontaria o colposa, abbia causato la propagazione del fuoco che, per la sua caratteristica forza distruttiva, è suscettibile di espandersi rapidamente e in maniera incontrollata, mettendo così in pericolo le persone e i luoghi tutelati e ciò a prescindere dal verificarsi di un danno concreto.

Le modifiche

Il D.L. n. 120/2021 ha introdotto tre nuovi commi al dettato dell’art. 423 bis c.p.

In particolare, è prevista una circostanza aggravante, punita con la reclusione da 7 a 12 anni, qualora il soggetto commetta il reato di incendio boschivo “con abuso dei poteri o con la violazione dei doveri inerenti allo svolgimento di servizi nell’ambito della prevenzione e della lotta attiva contro gli incendi boschivi”.

Il considerevole inasprimento di pena trova la sua ragion d’essere nell’esigenza di contrastare in maniera decisa la commissione di simili condotte da parte di coloro che dovrebbero operare per proteggere l’ambiente, poiché, proprio in conseguenza delle mansioni svolte, la condotta assume un intrinseco e maggiore disvalore sociale.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Inoltre, nei successivi commi sono previste due circostanze attenuanti applicabili nel caso in cui l’autore del reato si adopera per evitare che l’attività delittuosa venga portata a conseguenze ulteriori o provvede alla messa in sicurezza e al ripristino dello stato dei luoghi, oppure quando il soggetto aiuti l’autorità giudiziaria nella ricostruzione dei fatti o nella individuazione degli autori del reato.

La finalità di prevenzione, nonché deterrente del fenomeno degli incendi boschivi, attuata con il Decreto Legge in esame, è ancora più chiara nei nuovi artt. 423 ter e 423 quater c.p., che, attraverso l’applicazione di pene accessorie e della confisca, mirano a colpire gli interessi, per lo più di natura economica, degli autori del reato.

Infatti, in caso di condanna alla reclusione non inferiore a due anni, la norma prevede la pena accessoria dell’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego nei confronti del dipendente di amministrazioni o di enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica.

In ogni caso, alla condanna consegue anche l’interdizione da cinque a dieci anni dall’assunzione di incarichi o dallo svolgimento di servizi nell’ambito della lotta attiva contro gli incendi boschivi.

È stata introdotta anche un’ipotesi di confisca obbligatoria dei beni che costituiscono il prodotto o il profitto del reato e, ove non sia possibile, di beni di valore equivalente di cui il condannato abbia la disponibilità.

Non vi è dubbio che le modifiche in materia penale poc’anzi richiamate da sole non siano sufficienti per affrontare efficacemente l’emergenza incendi.

Invero, proprio alla luce di quanto è accaduto i mesi scorsi, unitamente all’intervento sanzionatorio, si è reso necessario, da un lato, il rafforzamento delle misure di controllo del territorio, prevenzione e coordinamento e, dall’altro lato, la predisposizione di interventi per la tutela del patrimonio boschivo.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

A tal fine, il D.L. n. 120/2021 prevede l’adozione di un Piano Nazionale di coordinamento per l’aggiornamento tecnologico e l’accrescimento della capacità operativa nelle azioni di previsione, prevenzione e lotta attiva contro gli incendi boschivi, redatto sulla base delle valutazioni effettuate ogni tre anni dalla Protezione Civile in merito lo stato dei luoghi e delle risorse.

Non solo, ma è prevista una maggiore attenzione in merito alle attività di pulizia e manutenzione dei boschi, l’adozione di specifici divieti di pascolo, caccia e raccolta dei prodotti del sottobosco nelle aree percorse dal fuoco, nonché la predisposizione di postazioni di atterraggio dei mezzi di soccorso, la realizzazione di infrastrutture, vie di accesso e tracciati spartifuoco, tutte attività finalizzate alla prevenzione degli incendi, ma anche a velocizzare gli interventi di spegnimento.

Claudia Piroddu, Avvocato