Il 7 giugno 2022 è stato raggiunto l’accordo politico provvisorio tra il Consiglio dell’UE e il Parlamento europeo sul progetto di direttiva relativa a salari minimi adeguati nell’UE a seguito di proposta della Commissione europea del 28 ottobre 2020.  

I motivi che hanno spinto la Commissione a sollecitare l’intervento dei Legislatori trovano ragione nell’ormai radicato aumento della povertà e conseguenti diseguaglianze sociali riscontrabili nel variegato scenario europeo. 

Le cause sono molteplici ed eterogenee: le nuove tendenze strutturali che hanno rimodellato i mercati del lavoro, quali la digitalizzazione, l’aumento delle forme di lavoro atipiche, in particolare nel settore dei servizi, un aumento della percentuale di posti di lavoro a bassa qualifica e dunque a bassa retribuzione e, da ultimo, la crisi COVID-19 la quale ha colpito bruscamente tutti i settori economici, ma in particolare i settori trainati da lavoratori a basso salario, quali il commercio al dettaglio e il turismo. 

Le predette cause, riportate a titolo meramente esemplificativo, hanno senz’altro contribuito all’indebolimento delle strutture di contrattazione collettiva tradizionali cui è conseguito, inevitabilmente, un notevole aumento della povertà lavorativa e delle disuguaglianze salariali. 

Ecco che, alla luce di uno scenario poco confortante l’Unione si è attivata al fine di creare condizioni di base comuni per garantire che i lavoratori dell’UE abbiano accesso a opportunità di impiego e a salari minimi adeguati; condizione necessaria al fine di favorire una ripresa economica che sia al contempo sostenibile ed inclusiva. 

Gli obiettivi della direttiva proposta, che a breve esamineremo, sono del tutto coerenti con l’art. 31 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea secondo cui “Ogni lavoratore ha diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose”, ciò anche nei termini di garantire la riduzione del divario retributivo di genere. 

Anzitutto, è interessante sottolineare che secondo l’UE, al fine di migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle persone nel territorio dell’Unione, e dunque garantire loro dei salari equi che consentano di vivere una vita dignitosa, occorre adottare soluzioni differenti che tengano conto delle diverse tradizioni e dei diversi punti di partenza dei Paesi. 

Nella specie, la tutela garantita dal salario minimo può essere fornita sia mediante contratti collettivi, come accade in sei Stati membri, oppure mediante salari minimi legali stabiliti per legge, come accade in 21 Stati membri. 

Dunque, anziché fissare un salario minimo comune europeo, l’UE intende definire un quadro per salari minimi adeguati in Europa e per farlo rafforza il ruolo delle parti sociali e della contrattazione collettiva.Avv. Eleonora Pintus, Diritto dell’Unione Europea

La direttiva fissa, pertanto, degli obiettivi pertinenti sia per i sistemi basati su un salario minimo legale sia per quelli basati sulla contrattazione collettiva. 

Nuovi obiettivi e come raggiungerli

Come riportato da fonti ufficiali, la direttiva fissa tre obiettivi principali:  

  • stabilisce procedure per l’adeguatezza del salario minimo legale; 
  •  promuove la contrattazione collettiva sulla determinazione del salario; 
  • migliora l’accesso effettivo alla protezione del salario minimo per quei lavoratori che hanno diritto a un salario minimo ai sensi del diritto nazionale (come, ad esempio, quello da salario minimo legale o da contratti collettivi). 

Quanto al primo, gli Stati membri con salari minimi legali sono tenuti a mettere in atto un quadro procedurale per fissare e aggiornare questi salari minimi secondo una serie di criteri improntati alla trasparenza. Gli aggiornamenti dei salari minimi legali dovranno avvenire ogni due anni (o quattro in alcuni casi) e nella procedura di definizione e aggiornamento dei salari minimi legali dovranno essere coinvolte le parti sociali. 

Con il secondo obiettivo, i legislatori hanno convenuto che i paesi dovrebbero promuovere il rafforzamento della capacità delle parti sociali nella contrattazione collettiva e, laddove la contrattazione collettiva sia inferiore a una soglia dell’80%, gli Stati membri sono chiamati a definire un piano d’azione per aumentare progressivamente il tasso di copertura della contrattazione collettiva. 

Nel terzo obiettivo, invece, il Consiglio e il Parlamento europeo hanno concordato di migliorare l’accesso effettivo dei lavoratori alla protezione del salario minimo attraverso: maggiori controlli da parte degli ispettorati del lavoro oppure mediante l’implementazione della capacità delle autorità di perseguire i datori di lavoro non conformi. 

Come anticipato, l’accordo raggiunto è solamente provvisorio e dovrà essere confermato dal Coreper cui farà seguito una votazione formale sia in seno al Consiglio che al Parlamento europeo. 

Definita la cornice della disciplina, viene spontaneo chiedersi quali obblighi gravano, per l’effetto, in capo agli Stati membri. 

Obblighi degli Stati: cosa accadrà in Italia?

Lo strumento normativo prescelto, ossia la Direttiva, consente di fissare prescrizioni minime in materia di condizioni di lavoro applicabili progressivamente dagli Stati membri i quali, a tal fine, saranno chiamati a recepirla nell’ordinamento interno mediante l’adozione di un atto normativo idoneo al conseguimento dello scopo fissato dalla norma comunitaria.  

Nel caso in esame, una volta adottata la Direttiva, gli Stati membri avranno due anni di tempo per recepirla nel diritto nazionale.  

Tuttavia, non bisogna dimenticare che, poiché la competenza in merito alle retribuzioni a livello nazionale spetta agli Stati membri, l’intervento dell’Unione non può che essere circoscritto alle sole situazioni che possono essere affrontate e risolte efficientemente solo a livello europeo. È esattamente ciò che accade nell’ipotesi di accesso a un salario minimo adeguato in cui l’Unione interviene al fine di eliminare le discrepanze nel mercato unico. 

Questo cosa comporta dal lato pratico? 

Ciò comporta che gli Stati membri in cui sono già in vigore disposizioni più favorevoli di quelle elaborate nella proposta di direttiva non saranno tenuti a modificare i loro sistemi di determinazione dei salari minimi sebbene, nell’ottica di migliorare le condizioni di vita e lavoro dei lavoratori, potranno liberamente decidere di andare oltre le prescrizioni minime stabilite. 

La proposta lascia pertanto quanto più margine possibile per le decisioni nazionali. 

Quanto all’Italia, il Ministro dello sviluppo economico ha commentato che i salari rispettano già la soglia minima prevista dall’accordo ma non ha del tutto escluso la possibilità di recepire la direttiva, perlomeno per alcuni settori produttivi. 

Nel nostro paese come è noto, nel 2019 sono state avanzate alcune proposte di legge da parte del Movimento 5 Stelle e del Centro sinistra (cd. ddl Catalfo), ad oggi all’esame del Senato, che prevede: un salario minimo orario di 9 euro lordi l’ora; il riconoscimento dei Ccnl maggiormente rappresentativi, in chiave anti-dumping; un meccanismo di rivalutazione legata all’indice dei prezzi al consumo. 

In conclusione, riassunti gli indirizzi comunitari sul punto, nell’attesa di approvazione definitiva della Direttiva sui salari minimi, non ci si può che auspicare che gli Stati, mossi dall’impulso del legislatore europeo, si attivino al fine di adottare politiche ed applichino disposizioni legislative, regolamentari o amministrative più favorevoli ai lavoratori e riconoscano loro un reddito sufficiente a raggiungere una soglia che garantisca una vita dignitosa ovunque essi decidano di lavorare. 

Eleonora Pintus, Avvocato

 

Come abbiamo già visto brevemente nella precedente pillola di diritto di febbraio, nei mesi scorsi il Governo ha approvato due provvedimenti per riformare i meccanismi con cui vengono assegnate le concessioni pubbliche agli stabilimenti balneari. 

Tali provvedimenti, in sostanza, danno attuazione alle sent. n.17–18/2021 del Consiglio di Stato che impongono lo stop delle proroghe delle concessioni marittime da gennaio 2024 conformemente alla normativa europea in materia di liberalizzazione. 

Sul punto, infatti, è bene ricordare che la Corte di giustizia nella sentenza del 14 luglio 2016, C-458/14 e C-67/15 con riferimento all’art. 12 paragrafi 1 e 2 della direttiva 2006/123/CE e dell’art. 49 TFUE ha sancito alcuni importanti principi – e contestualmente ha dettato degli altrettanto importanti criteri applicativi – in materia di libera circolazione dei servizi, di par condicio, di imparzialità e di trasparenza per le concessioni balneari. 

Dunque, prima delle pronunce del Consiglio di Stato, nel nostro ordinamento vi era un vero e proprio contrasto tra la normativa nazionale  (in particolare l’art. 1, commi 682 e 683, L. n. 145 del 2018 che dispone la proroga automatica e generalizzata fino al 31 dicembre 2033 delle concessioni demaniali in essere) e le norme dell’Unione Europea direttamente applicabili. 

Peraltro, inizialmente il conflitto è stato risolto in favore della normativa nazionale sul presupposto che il diritto dell’Unione non avrebbe potuto imporre l’obbligo di evidenza pubblica per il rilascio delle concessioni demaniali marittime con finalità turistico-ricreative. 

Successivamente, proprio la sentenza n.17/2021 del Consiglio di Stato ha affermato la preminenza del diritto comunitario ed ha precisato che: «il diritto dell’Unione impone che il rilascio o il rinnovo delle concessioni demaniali marittime (o lacuali o fluviali) avvenga all’esito di una procedura di evidenza pubblica, con conseguente incompatibilità della disciplina nazionale che prevede la proroga automatica ex lege fino al 31 dicembre 2033 delle concessioni in essere.» 

Ebbene, come chiarito dallo stesso Consiglio di Stato, per garantire una più efficiente gestione del patrimonio costiero e una correlata offerta di servizi pubblici di migliore qualità è previsto un giusto rapporto tra servizi offerti e tariffe proposte ed un adeguato equilibrio tra le aree demaniali in concessione e quelle libere o libere attrezzate. 

A quest’ultimo proposito, da un report del Demanio Marittimo del Ministero delle Infrastrutture emerge che in Italia quasi il 50% (in alcune Regioni addirittura il 70%) delle coste sabbiose è occupato da stabilimenti balneari: si tratta di una percentuale di occupazione molto elevata se si considera che i tratti di litorale soggetti ad erosione sono in costante aumento e che una parte significativa della costa “libera” risulta non fruibile per finalità turistico-ricreative, perché inquinata o comunque abbandonata.Avv. Viola Zuddas, Civilista

Per le concessioni balneari, dunque, dovranno essere organizzate gare pubbliche con regole equilibrate e pubblicità internazionale, nel rispetto del principio di non discriminazione in base alla nazionalità e di quello di parità di trattamento di ogni potenziale offerente, cui dev’essere garantito un «adeguato livello di pubblicità» che consenta l’apertura del relativo mercato alla concorrenza. 

È chiaro che tali principi sono correlati con l’attuazione di due obblighi fondamentali: 

  • obbligo di trasparenza: volto a scongiurare eventuali disparità di trattamento a danno di imprese con sede in un altro Stato membro che potrebbero essere interessate all’appalto, 
  • obbligo di imparzialità: che impone un rigido controllo sulle procedure di aggiudicazione. 

Sul punto è molto importante sottolineare che a differenza di un appalto “normale”, che riguarda un determinato bene o servizio e che viene eseguito una tantum, nel caso delle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreative la Pubblica Amministrazione mette a disposizione dei privati concessionari un complesso di beni demaniali che, valutati unitariamente e complessivamente, costituiscono uno dei patrimoni naturalistici (in termini di coste, laghi e fiumi e connesse aree marittime, lacuali o fluviali) più rinomati e attrattivi del mondo. 

Lo stesso Consiglio di Stato, peraltro, precisa che: «il giro d’affari stimato del settore si aggira intorno ai quindici miliardi di euro all’anno, a fronte dei quali l’ammontare dei canoni di concessione supera di poco i cento milioni di euro, il che rende evidente il potenziale maggior introito per le casse pubbliche a seguito di una gestione maggiormente efficiente delle medesime.» 

Pertanto, può affermarsi che una delle (tante) ragioni sottese a questa riforma sia di carattere squisitamente economico – patrimoniale, poiché non si può sminuire l’importanza e la potenzialità economica del patrimonio costiero nazionale sottraendolo, di fatto, alle regole delle concorrenza: da una parte, infatti, si verificherebbe la violazione dei principi di libera iniziativa economica e di ragionevolezza derivanti da una proroga generalizzata e automatica delle concessioni demaniali e, dall’altra, permarrebbe comunque il contrasto con i principi europei a tutela della concorrenza e della libera circolazione.Avv. Viola Zuddas, Civilista

Secondo le intenzioni del legislatore comunitario e nazionale, eliminare l’automatismo della concessione balneare, dunque, risponde all’esigenza di trovare il miglior concessionario sotto il profilo economico (che si traduce in migliore offerta di servizi e migliore rapporto tra questi e tariffe proposte) e, altresì, a quello di assicurare la maggiore trasparenza nelle scelte amministrative (che dovrebbe incentivare gli investimenti nel nostro Paese). 

In conclusione, dunque, le norme legislative nazionali che hanno disposto (e che in futuro dovessero ancora disporre) la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative (compresa la moratoria introdotta con l’emergenza da Covid-19 dall’art. 182, comma 2, D.L. n. 34/2020, convertito in legge n. 77/2020) sono in contrasto con il diritto comunitario e, pertanto, non devono essere applicate né dai giudici né dalla pubblica amministrazione. 

Tuttavia, al fine di evitare il significativo impatto socio-economico che deriverebbe da una decadenza immediata e generalizzata di tutte le concessioni in essere e considerati i tempi tecnici perché le amministrazioni predispongano le procedure di gara richieste, le concessioni demaniali per finalità turistico-ricreative già in essere continuano ad essere efficaci sino al 31 dicembre 2023, fermo restando che, oltre tale data, anche in assenza di una disciplina legislativa che riordini la materia conformemente ai principi comunitari, esse cesseranno di produrre effetti, nonostante qualsiasi eventuale ulteriore proroga legislativa che dovesse nel frattempo intervenire, la quale andrebbe considerata senza effetto perché in contrasto con le norme dell’ordinamento dell’U.E. 

Non resta, quindi, che aspettare l’approvazione del DDL Concorrenza per vedere in che modo il Governo darà attuazione ai principi dettati dal Consiglio di Stato.

Viola Zuddas, Avvocato

Diritto d’autore e fotografia

Il diritto d’autore consiste in una serie di tutele di carattere morale e patrimoniale per l’autore di opere creative, aventi il carattere di originalità e novità. 

I diritti morali sono perpetui e irrinunciabili, salvo alcune eccezioni, mentre quelli patrimoniali sono limitati nel tempo e se ne può disporre. In generale questi ultimi durano quanto la vita dell’autore e fino a 70 anni dopo la sua morte (oppure 20 anni dalla creazione dell’opera come vedremo in seguito). 

Questa distinzione ci permette di separare la figura in esame dal copyright, che è un istituto differente in quanto relativo all’aspetto solamente economico e che nasce a seguito di specifico deposito. Il diritto d’autore invece si acquista con la creazione dell’opera. 

Nel nostro ordinamento, le fonti principali che disciplinano il diritto d’autore sono la legge 633/41 e il libro V titolo IX del Codice Civile, mentre a livello europeo sono state emanate nel tempo diverse direttive. 

Con specifico riferimento alle fotografie, la legge sul diritto d’autore le identifica all’art.2 e separa quelle aventi carattere creativo da quelle non aventi carattere creativo, ossia opere fotografiche e semplici fotografie. Questa distinzione è importante perché è proprio l’aspetto della creatività che genera le piene tutele previste dalla legge, per cui non sono previsti depositi o altri formalismi.Massimo Serra,Fotografo

Nel caso in cui l’opera non raggiunga un certo grado di creatività è comunque prevista una tutela minima, consistente nel diritto esclusivo di diffondere e riprodurre le immagini per 20 anni dalla loro creazione, purché la foto non abbia mera valenza documentativa (come la foto di un cantiere) e siano riportati il nome dell’autore (o in caso foto di opere d’arte, dell’autore della stessa) e l’anno di esecuzione dello scatto (anche nei metadata, in caso di file digitali).

Per riassumere, possiamo individuare quindi 3 categorie: 

  • opere fotografiche, tutelate per tutta la vita dell’autore e fino a 70 dopo la sua morte;
  • fotografie semplici, tutelate per 20 anni dalla loro creazione;
  • riproduzioni fotografiche, prive di tutela. 

Va segnalato che definire con certezza quando sia presente o meno l’aspetto della creatività non è semplice e tale identificazione è demandata al giudice. 

Ad ogni modo, possiamo affermare che in via generale è vietato utilizzare un’immagine altrui a meno che non abbiamo ricevuto esplicita autorizzazione dall’autore (sia per le opere fotografiche che per le semplici fotografie) e senza citarne la paternità. Fanno eccezione le finalità didattiche e di cronaca purché non a scopo di lucro, ma anche qui non esistono linee definite precisamente dalla legge e saranno i giudici a formare il diritto in su tali questioni. È sempre previsto un equo compenso per il fotografo se noto.  

In questo scenario occorrerà analizzare gli specifici profili per evidenziare la lesione dei diritti morali e patrimoniali. 

Il rapido avanzamento delle tecnologie e la celerità con cui le opere possono circolare oggi, in maniera spesso indiscriminata, pongono nuovi e sempre più complessi problemi di tutela. La legge sul diritto d’autore trova difficile applicazione online ed è spesso il formante giurisprudenziale a tracciare il terreno su cui muoversi.  

È capitato a chiunque di scaricare delle fotografie disponibili online e questo può configurare un illecito. Internet è neutro rispetto al contenuto veicolato, il quale può essere protetto dal diritto d’autore. Qualora decidessimo di utilizzare un’immagine reperita sul web senza apposita licenza, potremmo ricevere un semplice invito a rimuovere l’immagine, salvo che l’autore ritenga di aver subito un danno economico inteso come mancato guadagno. L’autore potrebbe però lamentare anche un danno morale nel caso in cui il nostro utilizzo fosse contrario ai suoi principi e valori.  

La condivisione di qualsiasi fotografia sui social network od in genere nel web è da considerarsi lecita quando sia possibile risalire all’autore, nonché alla data e all’eventuale titolo o nome dell’opera fotografica. La stessa pubblicazione sui social da parte dell’autore è infatti espressione manifesta di tale volontà di condivisione e allo stesso tempo rappresenta una presunzione grave, precisa e concordante della titolarità dei diritti fotografici legati all’opera pubblicata (Trib. Roma sent n. 12076/2015).Massimo Serra,Fotografo

Il diritto d’autore si applica anche sulle immagini elaborate, finché l’originale resta riconoscibile. Per poter pubblicare online un’immagine senza alcuna conseguenza occorre accertare, confrontando direttamente le immagini, che nell’elaborazione non sia in alcun modo riconoscibile l’originale oppure serve un diritto di utilizzo con il consenso della modifica all’originale. 

Facendo un esempio possiamo dire che il diritto d’autore è violato e sarà possibile ricorrere per vie legali quando venga pubblicata una nostra foto di paesaggio su una rivista o un giornale senza autorizzazione, anche se sprovvista di logo o firma e pubblicata online. 

Diverso è il caso in cui la nostra fotografia sia pubblicata su alcuni meta che prevedono tra le condizioni generali, spesso accettate in maniera superficiale, anche la possibilità di utilizzo di ciò che noi carichiamo.

Massimo Serra, Fotografo

La fotografia mi ha sempre incuriosito. Ho iniziato a studiarla mentre frequentavo Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Cagliari e una volta conseguita la Laurea ho deciso di dedicarmi totalmente alla mia passione.  

Svolgo la professione di fotografo e video maker freelance da oltre 11 anni in tutta la Sardegna, occupandomi principalmente di interni, commerciale e reportage.  

Collaboro con numerose agenzie estere e locali, professionisti, imprenditori e ho svolto diversi lavori per le Pubbliche Amministrazioni. 

Focus di diritto civile • Avv. Francesco Sanna

Il rafforzamento della tutela del diritto d’autore

Il decreto legislativo del 4 novembre 2021 ha recepito la Direttiva (UE) 2019/790 – cosiddetta “Direttiva Copyright” – sul diritto d’autore e sui diritti connessi nel mercato unico digitale. 

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

La tutela penale del diritto d’autore

Nell’Ordinamento italiano il diritto d’autore è disciplinato dal codice civile, negli artt. 2575 c.c. e seg., e dalla Legge del 22 aprile 1941 n. 633, che introducono diversi strumenti di tutela, sia in sede civile che in sede penale. 

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Focus di diritto civile • Avv. Viola Zuddas

I non fungible token (NFT) ed il diritto d’autore

I non fungible token (“NFT”) possono essere definiti come dei “gettoni” digitali non fungibili, cioè non riproducibili e quindi non sostituibili perché unici, che garantiscono a chi li possieda un certificato di esistenza e di proprietà scritto sulla blockchain.  

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Diritti d’autore nel mercato digitale

Come evidenziato anche nell’approfondimento a cura del fotografo Massimo Serra, chiunque crei un’opera letteraria, scientifica o artistica originale, quali articoli, film, canzoni, sculture o anche fotografie, è tutelato dal diritto d’autore o copyright. 

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Si sa che l’Italia, con i suoi monumenti, opere d’arte, patrimonio paesaggistico e tradizioni così variegate è considerato uno dei principali centri culturali ed ambientali del mondo, tanto da vantare il maggior numero di siti iscritti nella lista dei patrimoni dell’umanità dell’Unesco. 

La tutela del patrimonio culturale si basa su un complesso intreccio normativo a livello internazionale, europeo e nazionale. 

Quanto alla disciplina comunitaria, occorre precisare che, sebbene la politica culturale e la cura del patrimonio culturale rientrino tra le materie di competenza degli Stati membri, l’articolo 3, paragrafo 3, del Trattato sull’Unione europea afferma che l’Unione “vigila sulla salvaguardia e sullo sviluppo del patrimonio culturale europeo”. A tal fine, il dettato di cui all’articolo 167 del TFUE dispone ulteriormente che l’Unione è chiamata, in particolare, ad incoraggiare la cooperazione tra gli Stati membri e sostenere il miglioramento “della conoscenza e della diffusione della cultura e della storia dei popoli europei” nonché la “conservazione e salvaguardia del patrimonio culturale di importanza europea”. In tal senso, il Parlamento Europeo insieme al Consiglio sono chiamati ad adottare misure di incentivazione al fine di promuovere la conservazione del patrimonio culturale. 

Ma quali sono i beni oggetto di protezione? 

Sebbene la risposta a questa domanda possa sembrare semplice, al fine di identificare l’oggetto della protezione è preliminarmente necessario identificare un bene come “culturale”, cioè quei beni che, nel loro complesso, costituiscono il patrimonio storico, artistico e culturale identitari di un popolo e, dunque, meritevoli di conoscenza e trasmissione.  

Nell’ordinamento italiano, l’attuale definizione giuridica di “bene culturale” è contenuta nel Codice dei beni culturali e del paesaggio agli articoli 2 e 10 del Decreto Legislativo 22 gennaio 2004 n. 42 secondo cui il patrimonio culturale è costituito dai beni culturali e dai beni paesaggistici. 

Si considerano beni culturali le cose immobili e mobili che, ai sensi degli articoli 10 e 11, presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimonianze aventi valore di civiltà. D’altra parte, devono considerarsi come beni paesaggistici gli immobili e le aree che costituiscono espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio, e gli altri beni individuati dalla legge o in base alla legge. 

Come si può notare, la nozione di bene culturale è particolarmente ampia in quanto ricomprende non solo, ad esempio, le opere d’arte, ma tutto ciò che conserva valore e memoria storica, tanto materiali –  come libri documenti, edifici, siti, reperti e monumenti archeologici –  quanto immateriali, quali le manifestazioni e rappresentazioni popolari, manifestazioni storiche, riti religiosi e processioni come “La Faradda di li candareri” che si tiene a Sassari (Sardegna) la sera precedente alla festa della Madonna Assunta in cui vengono portati su spalla i maestosi candelieri. 

I beni del patrimonio culturale sono destinati alla fruizione della collettività, compatibilmente con le esigenze di uso istituzionale e sempre che non vi ostino ragioni di tutela. 

Come tale, la loro conservazione deve essere garantita e la ricerca del nuovo patrimonio storico implementata. 

Finanziamenti UE in Italia e in Sardegna: la valorizzazione nazionale e internazionale dei Giganti di Mont’e Prama.

L’inserimento del patrimonio culturale nei trattati dell’UE ha portato l’Unione a compiere le prime azioni a sostegno della cultura già nel 1995, mediante la creazione di specifici programmi d’azione dedicati alla tutela del patrimonio culturale e il relativo accesso, la cooperazione con i paesi terzi, organizzazioni internazionali come l’Unesco e il Consiglio d’Europa oltre che attraverso l’adozione di programmi di finanziamento per la ricerca, formazione e mobilità professionale. 

Tra questi rientra il recentissimo programma di lavoro 2022 di “Europa creativa” che prevede una dotazione di circa 385 milioni di euro diretti a rafforzare il suo sostegno ai partner dei settori culturali. 

La sezione Cultura del programma comprende nuovi bandi e iniziative per i settori della musica, del patrimonio culturale, delle arti dello spettacolo e della letteratura oltre che un programma dettagliato di mobilità che offrirà ad artisti, creatori o professionisti della cultura l’opportunità di recarsi all’estero per presentare il loro lavoro o creare congiuntamente nuove espressioni artistiche. 

Poiché i settori culturali e creativi sono sempre stati uno dei settori di punta dell’UE in quanto elementi di coesione sociale, della diversità dell’Europa, come pure della sua economia, per il periodo 2021 – 2027, il bilancio totale destinato ad Europa creativa è stato aumentato a circa 2,4 miliardi di euro, così esprimendo l’impegno dell’Unione europea di sostenere la ripresa del settore e di tutti gli ambiti dei settori culturali e creativi. 

Nel 2021 l’UE è entrata in un nuovo periodo di programmazione pluriennale: con le norme per il FESR, ossia il Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR), uno dei principali strumenti finanziari della politica di coesione, l’UE che si prefigge di contribuire ad appianare le disparità esistenti a livello regionale. 

Un esempio? 

Un investimento di 50 milioni di euro del Fondo europeo di sviluppo regionale nel proseguimento dei lavori di conservazione e restauro del sito archeologico di Pompei, esempio e simbolo dell’archeologia italiana. 

Ma tra le più recenti scoperte archeologiche che l’Unione mira a promuovere ci sono le antichissime culture megalitiche della Sardegna e dell’età Nuragica tra cui i maestosi Guerrieri di Mont’e Prama che, fino a settembre 2022, saranno al centro di un incredibile evento internazionale nei prestigiosi musei di quattro importanti città europee ( Berlino, San Pietroburgo, Salonicco e Napoli) per promuovere la cultura europea e per rendere fruibile la cultura e la civiltà del più antico popolo del Mediterraneo. Gli oltre 213.000 visitatori registrati nelle due sedi di Berlino e San Pietroburgo segnano un ottimo risultato che pone ottime prospettive di successo nella prossima tappa, in Grecia, che ospiterà la mostra dall’11 febbraio al 15 maggio 2022. 

Eccezionalmente, grazie al Ministero della Cultura italiano e alla direzione del Museo archeologico nazionale di Cagliari, una di queste affascinanti, grandi sculture sarà ospite d’onore dell’esposizione “Sardegna Isola Megalitica. Dai menhir ai nuraghi: storie di pietra nel cuore del Mediterraneo”, una mostra promossa dalla Regione Sardegna-Assessorato del Turismo, Artigianato e Commercio con il Museo Archeologico Nazionale di Cagliari e la Direzione Regionale Musei della Sardegna, con il Patrocinio del MAECI e del MIC, la collaborazione della Fondazione di Sardegna e il coordinamento generale di Villaggio Globale International la quale si inserisce all’interno di un articolato progetto di “Heritage Tourism” finanziato proprio dall’Unione Europea, sull’archeologia sarda nel contesto del Mediterraneo. 

In conclusione, questo breve contributo, oltre che suggerire le innumerevoli opportunità di finanziamento destinate dall’Unione alle realtà regionali, mira a sottolineare, altresì, come I finanziamenti destinati alla promozione, valorizzazione e mobilità della cultura rafforzino, direttamente ed indirettamente, il motto stesso dell’Europa “Uniti nella diversità” perché è nella promozione, tutela e divulgazione del patrimonio culturale di un popolo e delle sue origini che deriva la conoscenza, l’inclusione ed il rispetto reciproco dei popoli.Avv. Eleonora Pintus, Diritto dell’Unione Europea

Eleonora Pintus, Avvocato

 

Quanto è sostenibile lo Smart Working nel lungo periodo?
Domenica 23 Febbraio 2020, direzione Vienna: ricevo comunicazione via mail che il Gruppo UniCredit ha imposto il blocco delle trasferte e constestualmente l’obbligo di attivare l’operatività in remoto.

Il Remote working era facoltativo fino ad 1 giorno alla settimana, ma nella pratica una % minimale della popolazione Operations (insieme di strutture decentrate di circa 4.000 colleghi che svolgono attività amministrative di back-office) usufruiva di questa opzione.

Alcune necessità fondamentali per una transizione in full remote working: messa a disposizione di PC portatile per tutti i dipendenti; dimensionamento dei server per garantire un sistema di accesso in sicurezza per oltre 80.000 utenti connessi contemporanei; garantire il piano di continuità operativa attraverso la gestione dei poli di back-up e la combinazione di attività remotizzabili e non (una % delle attività è per natura paper-based, per cui richiede presenza in ufficio).

A fine Marzo, mentre altre società e istituzioni discutono dell’implementazione dello smart working, UniCredit è operativa con l’intera popolazione remotizzata: un salto quantico in poche settimane.Luca Carta, Group OPS Capacity & Performance Mgmt

Ai meeting ricorrenti sull’emergenza sanitaria, si affiancano gli incontri verticali focalizzati sui risultati di business e sulla produttività operativa delle strutture ICT e Operations.

Il monitoraggio degli indicatori industriali in Operations (volumi, produttività, livelli di servizio, incidenti operativi) è parte della mission del mio team, per cui vi è forte interesse a comprendere le dinamiche complessive e la reazione al remote working dei colleghi, in precedenza non abituati al lavoro da casa.

I risultati sono ottimi: la produttività dei team di lavoro cresce, i livelli di servizio in linea con gli standard, gli errori operativi pressoché nulli.

La disponibilità di strumenti operativi evoluti, di allocazione dinamica di attività-risorse e monitoraggio, rappresenta un elemento essenziale per garantire reportistica giornaliera oggettiva in UniCredit.Luca Carta, Group OPS Capacity & Performance Mgmt

Dopo 2 anni di contesto pandemico, si aprono i dibattiti societari e accademici: questo scenario è sostenibile dal punto di vista sociale e accademico ? Tante risposte discordanti a numerosi quesiti posti nelle varie sfere di analisi.

Per quanto riguarda la mia personale esperienza ed opinione, è possibile affermare con ampia certezza che la produttività equivalente/superiore e la comodità di lavorare da casa rendono lo smart working un vero e proprio asset sia per l’azienda che per il dipendente.

La vera sfida è rappresentata dal contesto normativo e dall’evoluzione dei contratti di lavoro, con l’ipotesi di introdurre meccanismi flessibili di retribuzione/gestione ferie legati alla produttività.Luca Carta, Group OPS Capacity & Performance Mgmt

I risultati dipenderanno dalla disponibilità di tutte le parti in causa, a cooperare e rivedere le proprie posizioni di campo.

Luca Carta, Group OPS Capacity & Performance Mgmt

Ho conseguito la laurea triennale in Economia e Finanza presso l’Università di Cagliari e perfezionato i miei studi all’Università Bocconi di Milano con un master in Finanza.
Nonostante il background accademico incentrato su elementi quantitativi, inizio il percorso lavorativo in ambito consulenziale a carattere ICT e Operations presso Banche, Assicurazioni e Oil&Gas.
Dopo 8 anni di consulenza, intermediati da un’esperienza da start-upper, entro in Cerved, realtà leader in Italia nella Business Information & Rating, con il ruolo di supporto al COO.
Nel Maggio 2019 mi trasferisco in UniCredit per seguire una funzione di governance nelle Operations di Gruppo, con il compito di gestire dinamicamente “capacity e attività”, monitorare gli indicatori industriali e presidiare i contratti con i fornitori italiani di back-office.

Focus di diritto tributario, diritto del lavoro • Avv. Francesco Sanna

Smart working e imposizione fiscale

Lo smart working (“lavoro agile), introdotto nel nostro ordinamento nel 2017, è un fenomeno che si stava già diffondendo, ma che visto la sua definitiva affermazione con l’avvento del Covid-19. 

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

Smart working: salute e sicurezza del lavoratore

Il cd. lavoro agile o smart working è disciplinato nella Legge n. 81/2017, rubricata “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”.

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Focus di diritto civile, diritto del lavoro • Avv. Viola Zuddas

Smart working e diritto alla disconnessione

Lo smart working (o “lavoro agile”), la cui definizione è contenuta nella Legge n. 81/2017, è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato che si caratterizza per la flessibilità organizzativa riconosciuta al lavoratore che, semplificando, non è sottoposto a particolari vincoli di orario o di luogo di lavoro e può, in accordo con il datore di lavoro, organizzare la propria attività per fasi, cicli e obiettivi.

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Il diritto alla disconnessione nell’UE: esigenze normative

La digitalizzazione e l’utilizzo adeguato degli strumenti digitali hanno portato numerosi vantaggi e benefici economici e sociali ai datori di lavoro e ai lavoratori, quali, in particolare, quello di migliorare l’equilibrio tra vita professionale e vita privata oltre che la riduzione dei tempi di spostamento.

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Sono sempre di più i giovani che, facendosi portatori di idee originali ed innovative, cercano di trovare uno spazio nel mercato dell’imprenditoria attraverso la traduzione dei loro progetti in opportunità professionali. 

Nascono così le start-up, ossia organizzazioni di recente creazione che possono operare in diversi campi, non solo tecnologico, con l’obiettivo principale di crescere e trasformarsi velocemente in grandi imprese grazie ai loro prodotti innovativi.  

È proprio l’innovazione al centro del modello di business della start-up: esse nascono, infatti, per soddisfare esigenze non ancora soddisfatte dal mercato.  

Va da sé che a contraddistinguere le start-up sia proprio il rischio estremamente elevato connesso alla riuscita del progetto il quale, stante la sua innovatività, è maggiormente esposto a numerose variabili e dunque al fallimento. 

Pertanto, stante la difficoltà a fornire i livelli di garanzie richiesti, tali imprese – poco conosciute e non quotate – potrebbero avere problemi ad ottenere finanziamenti sufficienti presso le banche.  

Ecco perché, al fine di garantire spazio alla giovane imprenditoria, generalmente priva di un proprio capitale ed incapace di fornire garanzie, sono stati creati dei fondi che raccolgono somme di denaro da parte di investitori interessati al progetto di investimento.Avv. Eleonora Pintus, Diritto dell’Unione Europea

Detta operazione prende il nome di private equity: trattasi di un’operazione finanziaria di medio-lungo termine, posta in essere da investitori specializzati e finalizzata ad apportare capitale di rischio in una società (detta target), generalmente non quotata, in base a una valutazione positiva della sua attitudine alla crescita. 

I fondi di private equity hanno una durata media di dieci o dodici anni. 

Ciò detto, si specifica che laddove il fondo investa in una società che si trova nella sua fase iniziale, ossia le start-up, allora si parla più propriamente di fondi di venture capital, ossia fondi che investono in aziende non quotate, nuove, innovative e con un elevato potenziale di crescita e sviluppo. 

Cos’è il venture capital e come ottenere finanziamenti?

Il venture capital, come detto, è un tipo di private equity che si concentra sul finanziamento di start-up o piccole imprese emergenti, innovative e in fase di avviamento che si ritiene abbiano un alto potenziale di crescita.  

Gli investimenti di venture capital sono di solito effettuati tramite un fondo, che mette insieme capitale di diversi investitori (soci sottoscrittori del fondo o limited partner), il quale viene gestito a sua volta da un gestore del fondo (socio amministratore o general partner).  

Se dunque l’idea e il modello imprenditoriale si rivelano potenzialmente vincenti, superati i “timori” connessi ai rischi impliciti, le start-up vengono considerate idonee a generare alti rendimenti e, come tale, potenziali destinatari del finanziamento. 

I venture capitalist, dunque, colmano il deficit di finanziamento imposto dai finanziamenti tradizionali perché sono disposti ad accettare maggiori rischi rispetto alle banche, contando sulle opportunità di alto rendimento della giovane impresa o, più semplicemente, per ragioni strategiche. 

È nella fase di sviluppo iniziale e successiva, ossia quella in cui vi è bisogno di più capitale per sviluppare e realizzare il modello imprenditoriale, che i venture capitalist entrano in gioco per poi “uscire” soltanto alla fine di tale fase. Ciò avviene quando le imprese di successo iniziano a divenire profittevoli e ad aumentare entrate e utili: in tal caso, se i venture capitalist hanno investito in tali imprese cercheranno di venderle per ottenere un rendimento. 

Ma come si può accedere al venture capital in Europa?  

Il mercato dei venture capital in Europa

In linea con gli obiettivi del piano d’azione europeo, noto come Strategia Europa 2020, per migliorare l’accesso ai finanziamenti per le piccole e medie imprese (“PMI) è stato adottato il Regolamento UE n. 345/2013 del Parlamento Europeo e del Consiglio sui “Fondi Europei per il Venture Capital”, entrato in vigore il 22 luglio 2013. 

Senza addentrarci nella complessiva normativa in materia, è qui sufficiente sottolineare che il Regolamento detta una disciplina comune a livello europeo di cui sono destinatari i fondi di investimento per il venture capital e mira a superare la diversità e complessità delle legislazioni degli Stati europei e, di conseguenza, degli elevati costi di raccolta che per lungo tempo hanno disincentivato questa tipologia di fondi.  

Il Regolamento stabilisce norme uniformi applicabili a tutti i fondi europei per il venture capital che desiderino raccogliere e investire capitale con la denominazione “EuVECA” (European Venture Capital Fund); ciò da cui discende un’applicazione uniforme della normativa nei confronti dei gestori di fondi operanti in Europa e conseguente eliminazione di indebite distorsioni tra fondi particolari di Stati membri differenti. 

Nell’ambito del quadro finanziario pluriennale 2014-2020, l’UE ha sostenuto l’accesso delle PMI e delle piccole e medie imprese al capitale di rischio attraverso vari programmi, quali: 

  • lo strumento finanziario azionario unico dell’UE che sostiene la crescita, la ricerca e l’innovazione (R&I) delle imprese europee dalla fase iniziale, compresa l’avviamento, fino alla fase di espansione e crescita. 
  • il Fondo europeo per gli investimenti strategici (FEIS) dispone di uno strumento di capitale proprio. 
  • il programma Pan-European Venture Capital Fund-of-Funds ( VentureEU ) che ha come fine quello di colmare ulteriormente il divario azionario dell’Europa investendo in VC Fund-of-funds. 
  • il programma ESCALAR (European Scale-up Action for Risk Capital): un meccanismo di rischio/rendimento per supportare le scale-up con capitale di rischio e finanziamento della crescita. 

In conclusione, vista la complessità del settore, si segnala al giovane imprenditore che legge questo contributo che, al fine di scoprire quale finanziamento si addice alle proprie esigenze, è possibile visitare il sito dello Startup Europe Club per cercare possibilità di finanziamento. 

Da ultimo, si segnala, altresì, che per aumentare la visibilità del proprio progetto imprenditoriale, è possibile registrarlo nel portale dei progetti di investimento europei ed entrare in contatto con eventuali investitori a livello internazionale. 

Eleonora Pintus, Avvocato

La Camera ha dato il via libera al cosiddetto “Decreto Bollette”, recante ‹‹misure urgenti per il contenimento dei costi dell’energia elettrica e del gas naturale, per lo sviluppo delle energie rinnovabili e per il rilancio delle politiche industriali››. L’iter legislativo si preannuncia – almeno nelle intenzioni – particolarmente veloce, stante la data limite fissata al 30 aprile 2022 per la sua conversione in legge. 

Ma quali sono le principali misure previste da questo intervento legislativo? 

  • Viene data la possibilità di realizzare impianti per autoconsumo entro 10 chilometri dall’utenza interessata. Il Ministero della Transizione ecologica, di concerto con il Mims e Mef, stabilirà entro 90 giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione le procedure semplificate per la realizzazione di detti impianti, oltreché per quelli fotovoltaici, biogas e biometano, nonché per la ricostruzione di linee elettriche già esistenti. 
  • Dal 1° maggio 2022 al 31 marzo 2023 la ‹‹media ponderata delle temperature dell’aria, misurate nei singoli ambienti di ciascuna unità immobiliare per la climatizzazione invernale ed estiva degli edifici pubblici non devono superare rispettivamente i 19 gradi (+ 2 di tolleranza) e non deve essere minore dei 27 gradi (-2 di tolleranza)››. Il provvedimento, altresì, è diretto ad incrementare l’efficienza energetica degli impianti di illuminazione pubblica, mediante l’introduzione di sensoristica ad hoc, ammodernando o sostituendo gli impianti o i dispositivi esistenti e individuando le aree, urbane ed extraurbane, in cui applicare tecnologie più avanzate. 
  • Entro 90 giorni dall’entrata in vigore del decreto dovrà essere predisposta dal Mite la cosiddetta “Strategia nazionale contro la povertà energetica”. In buona sostanza dovrà vedere la luce un documento contenente un programma per il raggiungimento e consolidamento nel breve, medio e lungo periodo di una politica energetica improntata all’autosufficienza del paese Italia. 
  • Vengono rafforzati i bonus sociali in ordine alle forniture di energia elettrica e gas in favore dei clienti economicamente svantaggiati ed in gravi condizioni di salute. 
  • Con riferimento al secondo trimestre 2022, si avrà l’azzeramento delle aliquote relative agli oneri generali di sistema applicate alle utenze domestiche e a quelle non domestiche in bassa tensione, per altri usi, con potenza disponibile pari o superiore a 16,5 kW, anche connesse in media e alta/altissima tensione o per usi di illuminazione pubblica o di ricarica di veicoli elettrici in luoghi accessibili al pubblico. 
  • Si è stabilità la riduzione al 5% dell’aliquota IVA applicabile alle somministrazioni di gas metano per usi civili e industriali relativamente ai mesi di aprile, maggio e giugno 2022. 
  • Per le imprese a forte consumo di energia elettrica che abbiano subito un significativo incremento del relativo costo, è riconosciuto un contributo straordinario sotto forma di credito di imposta pari al 20% delle spese sostenute per la componente energetica acquistata ed effettivamente utilizzata nel secondo trimestre 2022. 
  • Fino al 30 giugno 2022, non è dovuta alcuna commissione per le garanzie rilasciate dal Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese a sostegno delle esigenze di liquidità conseguenti agli aumenti dei prezzi dell’energia. 
  • Viene aumentato di 25 milioni di euro per l’anno 2022 il sostegno finanziario per l’autotrasporto, riconoscendo alle imprese italiane di logistica e di trasporto delle merci in conto terzi, un credito d’imposta per l’acquisto del componente AdBlue per la trazione dei mezzi di ultima generazione. 
E la Sardegna?

È prevista una parziale destinazione (fino al 60%) dell’energia, ritirata dal Gse (gestore dei servizi energetici) da produttori di rinnovabili mediante contratti di ritiro e vendita di almeno tre anni, con prezzi agevolati prioritariamente a clienti industriali energivori, con particolare attenzione alle imprese localizzate in Sicilia e Sardegna. 

Questo emendamento, inserito dopo forti insistenze da parte delle maggiori isole italiane (Sardegna e Sicilia in primis) si pone in coerenza con il declamato obiettivo dei rappresentanti politici sardi di giungere ad una perfetta perequazione tariffaria, grazie alla quale consentire alle aziende che operano in Sardegna una situazione di reale competitività con quelle delle altre Regioni.

La parificazione, almeno parziale, presente nel decreto in analisi servirà a colmare in parte il differenziale tra i maggiori costi dell’energia sostenuti delle imprese sarde nei confronti di quelli sostenuti dalle imprese operanti nelle altre regioni dello “stivale”.  

Francesco Sanna, Avvocato

 

La disciplina di ingresso e di soggiorno degli stranieri nel territorio dello Stato si presenta come particolarmente complessa ed articolata in quanto frutto dell’intreccio normativo vigente a livello sovranazionale.

Per quanto è di interesse in questo contributo, si evidenzia, fin da subito, che il principale testo di riferimento in materia di immigrazione a livello nazionale è il Testo Unico dell’Immigrazione il quale, come si legge tra i principi generali, indica le azioni e gli interventi che lo Stato italiano, anche in cooperazione con gli altri Stati membri dell’Unione europea, con le organizzazioni internazionali, con le istituzioni comunitarie e con organizzazioni non governative, si propone di svolgere in materia di immigrazione, anche mediante la conclusione di accordi con i Paesi di origine.

Il presente testo individua i criteri generali per la definizione dei flussi di ingresso nel territorio dello Stato, delinea gli interventi pubblici volti a favorire le relazioni familiari, l’inserimento sociale e l’integrazione culturale degli stranieri residenti in Italia, nel rispetto delle diversità e delle identità culturali delle persone, purché non siano in contrasto con l’ordinamento giuridico.

Al riguardo, il Titolo secondo del Testo Unico dell’immigrazione è dedicato interamente all’analisi delle disposizioni sull’ingresso e soggiorno nel territorio dello Stato, prestando particolare attenzione a situazioni di carattere umanitario alle quali sono dedicate le disposizioni di cui al Capo III.

Tra queste, per quanto è di maggiore interesse, all’art. 18-bis del TUI, è previsto il riconoscimento del “Permesso di soggiorno per le vittime di violenza domestica”.

La norma in esame prevede espressamente che quando, nel corso di operazioni di polizia, di indagini o di un procedimento per taluno dei delitti previsti dagli articoli 572, 582, 583, 583-bis, 605, 609-bis e 612-bis del codice penale o per uno dei delitti previsti dall’articolo 380 del codice di procedura penale, commessi sul territorio nazionale in ambito di violenza domestica, siano accertate situazioni di violenza o abuso nei confronti di uno straniero ed emerga un concreto ed attuale pericolo per la sua incolumità il questore, con il parere favorevole dell’autorità giudiziaria procedente ovvero su proposta di quest’ultima, rilascia un permesso di soggiorno per consentire alla vittima di sottrarsi alla violenza.

Affinché il permesso di soggiorno possa essere rilasciato allo straniero è, dunque, necessario che siano accertate violenze domestiche o abusi nei confronti di uno straniero nel corso di operazioni di polizia, indagini o procedimenti penali esclusivamente nelle ipotesi in cui si ravvisi la fattispecie delittuosa di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.), lesioni personali semplici e aggravate (artt. 582 e 583 c.p.), mutilazioni genitali femminili (art. 583-bis c.p.), sequestro di persona (art. 605 c.p.), violenza sessuale (art. 609-bis c.p.), atti persecutori (art. 612-bis c.p.), o delitti per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza (art. 380 c.p.p.).

Ma cosa si intende per violenza domestica?

Secondo l’articolo in esame, si intendono per violenza domestica uno o più atti, gravi ovvero non episodici, di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra persone legate, attualmente o in passato, da un vincolo di matrimonio o anche da mera relazione affettiva.

La violenza domestica suscettibile di riconoscimento del permesso di soggiorno, dunque, è oggi circoscritta alle sole ipotesi di violenza che si manifesta nelle condotte penalmente sanzionabili di cui all’attuale impostazione dell’art. 18 bis del TUI, ma non anche nelle ipotesi in cui la violenza si manifesti sotto altre forme.

Ebbene, i più recenti casi di cronaca giudiziaria hanno messo in evidenza una eclatante lacuna dell’assetto normativo italiano che, in contrasto con gli obblighi assunti a livello internazionale, non prevede un sistema di tutele completo per le vittime – per la maggior parte donne, secondo l’ultimo rapporto ministeriale – di condotte coercitive dirette, ad esempio, a costringere un adulto o un minore a contrarre un matrimonio e nell’attirare l’adulto o il minore nel territorio dello Stato estero, diverso da quello di residenza, con lo scopo di costringerlo a contrarre matrimonio.

Detta lacuna è stata parzialmente colmata dagli ultimi interventi normativi in ambito penale: in risposta a detto fenomeno, con la legge del 19 luglio 2019 n. 69, è stato infatti inserito nel Codice penale, l’art. 558 – bis c.p. che disciplina il reato di “Costrizione o induzione al matrimonio”, il quale punisce con la reclusione da uno a cinque anni, chiunque con violenza o minaccia costringa una persona a contrarre matrimonio o unione civile o, approfittando delle condizioni di vulnerabilità o di inferiorità psichica o di necessità di una persona, con abuso delle relazioni familiari, domestiche, lavorative o dell’autorità derivante dall’affidamento della persona per ragioni di cura, istruzione o educazione, vigilanza o custodia, la induca a contrarre matrimonio o unione civile. Con aggravio di pena se la vittima è minore di anni 14.

Matrimonio forzato: la Camera approva la “Legge Saman”

Al fine di garantire una tutela completa delle vittime, e ridurre, se non eliminare del tutto, l’abisso tra i requisiti e le garanzie formali previsti dalle Convenzioni internazionali e la vita quotidiana delle vittime di violenze, il Parlamento ha adottato la proposta di legge A.C. 3200 volta ad introdurre nel nostro ordinamento il reato di matrimonio forzato, di cui all’art. 558-bis c.p., nel novero dei reati presupposti al rilascio allo straniero del permesso di soggiorno per le vittime di violenza domestica di cui all’art. 18 del Test Unico Immigrazione.

La proposta di legge, presentata dopo il caso di Saman Abbas, diciottenne di origini pakistane che sarebbe stata uccisa dai parenti poiché si era opposta al matrimonio combinato con suo cugino, è stata approvata nella seduta del 5 aprile 2022 dall’Assemblea della Camera dei deputati.

L’introduzione della fattispecie delittuosa di cui all’art. 558-bis c.p. tra i reati che consentono l’eventuale rilascio di un titolo abilitativo speciale al soggiorno rappresenta un concreto passo avanti per lo Stato che, in quanto firmatario di plurimi trattati internazionali per la tutela delle donne e, più in generale, vittime di violenze, ha dato luogo ad azioni concrete atte a garantire la piena tutela delle vittime di violenza, così realizzando, mediante interventi normativi orizzontali, una piena e concreta tutela multilivello in ossequio agli obblighi assunti a livello sovranazionale.

Eleonora Pintus, Avvocato

Con decreto del 20 dicembre 2021, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 20 gennaio 2022, il Ministero della Giustizia ha introdotto i criteri e le modalità di erogazione del Fondo per il rimborso delle spese legali sostenute dagli imputati assolti, previsto nella Legge di bilancio per il 2021. 

Con l’approvazione della Legge di bilancio, infatti, è stato istituito un apposito Fondo, con dotazione annua pari a 8 milioni di euro, a decorrere dal 1 gennaio 2021. 

Per poter ottenere il rimborso, almeno parziale, delle spese legali è necessario il possesso di tutti i requisiti stringenti previsti nel decreto attuativo. 

Vediamo di cosa si tratta. 

Innanzi tutto, è necessario che la sentenza penale sia divenuta irrevocabile successivamente alla data del 1 gennaio 2021, con la conseguenza che qualora la sentenza sia passata in giudicato in data anteriore, l’ammissione al beneficio resta preclusa.  

Occorre precisare, inoltre, che il rimborso spetta esclusivamente agli imputati che siano stati assolti con “formula piena”, ovvero con una delle formule assolutorie di seguito indicate: perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. 

La norma chiarisce, inoltre, che non è possibile ottenere il rimborso nel caso in cui l’imputato abbia ottenuto un’assoluzione parziale, cioè nel caso in cui gli siano stati contestati più reati e per alcuni di essi ha ottenuto una pronuncia assolutoria nei limiti anzi detti, mentre per altri ha subito una condanna. 

Si esclude, altresì, l’ipotesi in cui il reato è stato dichiarato estinto per intervenuta prescrizione o per amnistia o nel caso in cui il reato è stato depenalizzato. 

Il rimborso può essere richiesto con riferimento alle somme effettivamente corrisposte dall’imputato al proprio difensore, quindi, con esclusione del soggetto che nel procedimento penale abbia beneficiato del patrocinio a spese dello stato, nonché qualora abbia ottenuto la condanna del querelante alla rifusione delle spese di lite ed, infine, quando il medesimo abbia diritto al rimborso delle spese legali da parte dell’Ente da cui dipende o presta servizio. 

Ad ogni modo, è previsto un limite massimo dell’importo rimborsabile, fissato dalla norma nella somma di euro 10.500 –esentasse, che, pertanto, non concorre alla formazione del reddito- per ciascun procedimento penale. 

In caso di ammissione della domanda e comunque entro i limiti delle risorse assegnate, il predetto importo viene corrisposto direttamente all’imputato non in un’unica soluzione, ma ripartito in tre quote annuali di pari importo, erogate a partire dall’anno successivo a quello in cui la sentenza di assoluzione è divenuta irrevocabile. 

Come richiedere il rimborso delle spese legali?

Una volta verificata la sussistenza dei requisiti poc’anzi menzionati, occorre presentare la domanda di rimborso sulla piattaforma telematica del Ministero della Giustizia, mediante credenziali SPID. 

A tal fine, ai sensi dell’art. 3 del Decreto attuativo, è necessario indicare: 

  • i dati anagrafici e il codice fiscale dell’imputato assolto, ove diversi dal richiedente; 
  • l’ufficio giudiziario che ha pronunciato la decisione divenuta irrevocabile, la data della sentenza, la data di irrevocabilità,  il numero del registro notizie di reato e il numero del registro generale dell’ufficio gip/gup o del dibattimento che ha emesso la sentenza; 
  • le formule con le quali l’imputato è stato assolto;  
  • la durata complessiva del processo, calcolata dalla richiesta di rinvio a giudizio fino alla data di irrevocabilità della sentenza; 
  • il grado di giudizio nel quale è stata emessa la sentenza, specificando se la sentenza è stata emessa in sede di rinvio dalla Corte di Cassazione; 
  • l’importo complessivo delle spese legali per le quali è chiesto il rimborso. 

A tale ultimo riguardo, è necessario che le spese legali siano state corrisposte al difensore mediante bonifico bancario, a seguito di emissione di parcella vidimata dal Consiglio dell’Ordine di appartenenza, corredate di apposite fatture, trattandosi di documentazione che dovrà essere allegata all’istanza di accesso al Fondo.  

L’istanza così compilata dovrà essere presentata entro e non oltre il 31 marzo dell’anno successivo a quello in corso alla data di irrevocabilità delle sentenza di assoluzione, pena la irricevibilità della domanda stessa. 

Tuttavia, per le sentenze divenute irrevocabili nel 2021, le domande potranno essere presentate a partire dal 1 marzo 2022 e fino al 30 giugno 2022. 

La norma individua, infine, dei criteri di preferenza relativi alle istanze pervenute. 

Infatti, verrà data precedenza alle istanza relative ad imputato assolto in via definitiva con sentenza della Corte di Cassazione, ovvero dal giudice del rinvio o comunque all’esito di un processo durato oltre otto anni, a seguire le istanze relative a sentenze pronunciate dal giudice di appello o comunque all’esito di un processo durato più di cinque anni e fino a otto anni, ed, infine, a quelle relative a sentenze pronunciate dal giudice di primo grado o comunque all’esito di un processo durato fino a cinque anni. 

Inoltre, nell’ambito di ciascun gruppo verrà data preferenza alle istanze relative ai processi più lunghi e a parità di durata a quelle con più imputati con reddito inferiore. 

Il Ministero effettuerà una verifica circa la corrispondenza dei dati dichiarati e, dopo aver esaminato le istanze, approverà un elenco definitivo, indicato per ciascuna l’importo rimborsabile. 

Il predetto elenco verrà pubblicato nel sito ministeriale e verrà emesso mandato di pagamento nel successivo termine di 15 giorni. 

Claudia Piroddu, Avvocato

La sicurezza dei prodotti cosmetici

Per poter definire la sicurezza di un prodotto cosmetico è necessario fare una premessa: i cosmetici, per loro definizione, non possono provocare effetti nocivi, ma solo effetti benefici per l’organismo.

Ai sensi dell’art.3 del Regolamento 1223/2009, Testo Unico in materia vigente nel territorio europeo, i prodotti cosmetici messi a disposizione sul mercato “sono sicuri per la salute umana se utilizzati in condizioni d’uso normali o ragionevolmente prevedibili”.

La sicurezza dei prodotti cosmetici è, dunque, un requisito essenziale ai fini della loro immissione sul mercato.
Come tale, al fine di garantire tale adempimento, la presentazione non deve essere ingannevole, l’etichetta deve indicare istruzioni d’uso, avvertenze, modalità di smaltimento del prodotto e qualsiasi altra informazione necessaria al consumatore.Lucia Palmas, Farmacista

Appare tuttavia spontaneo chiedersi come, dal punto di vista pratico, venga garantita la sicurezza di un prodotto cosmetico.

Anzitutto, il primo passo verso la sicurezza è garantito dal soddisfacimento delle GMP, Buone Pratiche di Fabbricazione. Trattasi di un insieme di processi, procedure e documenti, che le aziende cosmetiche sono tenute a rispettare in conformità al predetto Regolamento e che assicurano che i cosmetici siano prodotti secondo gli standard di qualità previsti dalla normativa vigente.

In secondo luogo, è necessario l’intervento di un soggetto deputato al controllo preventivo all’immissione in commercio dei prodotti cosmetici
Questi, nella specie, deve assicurarsi che i prodotti siano previamente sottoposti ad una valutazione della sicurezza.
Lucia Palmas, Farmacista

La relazione sulla sicurezza consta di due parti:

  • la prima include le caratteristiche tecniche del prodotto;
  • la seconda parte è, invece, la vera e propria valutazione della sicurezza effettuata da un “valutatore della sicurezza”, ossia un soggetto dotato di competenze tecniche, titoli ed esperienza necessari per effettuare questo tanto tecnico quanto delicato test di valutazione.

Il valutatore, dunque, è chiamato a redigere la relazione in seguito allo studio del prodotto, spiegando la motivazione scientifica alla base delle conclusioni della valutazione, le conclusioni ed eventuali avvertenze da riportare in etichetta; infine firma il tutto con data e luogo.

Questo documento viene inserito nel PIF, Product information file, che contiene le informazioni sul prodotto cosmetico e viene detenuto dalla persona responsabile nell’eventualità in cui le autorità possano richiederlo.

In questa fase assume un ruolo particolarmente rilevante un organo della Commissione Europea, il “CSSC”, Comitato Scientifico per la Sicurezza dei Consumatori, il quale si occupa di esprimere pareri in materia non alimentare, e quindi anche cosmetica, a seguito di espressa richiesta da parte della Commissione Europea.
Dopo aver effettuato la valutazione del rischio della sostanza in esame, il Comitato può alternativamente esprimere parere positivo, legittimando l’utilizzo della sostanza, oppure parere negativo, con conseguente richiesta di intervento della Commissione Europea affinché ne vieti o limiti l’uso.Lucia Palmas, Farmacista

Dagli anni ‘70 questa istituzione ha valutato tantissimi ingredienti cosmetici al fine di garantire la loro sicurezza e permettendo l’aggiornamento degli allegati al Regolamento relativi alle sostanze vietate o il cui uso è limitato.

Un altro aspetto che garantisce la sicurezza dei prodotti è dato dalla fitta rete di sorveglianza post market che viene attuata in ogni Stato dagli organi preposti. In Italia, ad esempio, questo compito è svolto dal Ministero della salute che incarica gli organi territorialmente competenti, ossia NAS e ASL.

Questi ultimi possono, nell’ambito della loro attività ispettiva: richiedere la documentazione informativa sul prodotto alla persona responsabile; disporre il ritiro di lotti interessati da eventuali discrepanze; effettuare analisi e cooperare con le autorità di altri Stati membri qualora sia necessario.

In questo ambito si colloca la Cosmetovigilanza la quale costituisce la raccolta, valutazione e monitoraggio delle segnalazioni di effetti indesiderabili osservati durante o dopo l’utilizzo normale o ragionevolmente prevedibile di un prodotto cosmetico. Ciò è particolarmente rilevante in quanto, qualora un prodotto dovesse provocare effetti indesiderati in una parte notevole della popolazione, scatta l’allerta per CSSC che studierà il caso, con conseguente adozione di adeguati provvedimenti da parte della Commissione.

Come si può notare, il sistema che garantisce la sicurezza dei prodotti cosmetici è molto complesso ed efficiente.

In ogni caso, è sempre opportuno che il consumatore utilizzi i prodotti cautamente e secondo le indicazioni riportate in etichetta.

Lucia Palmas, Farmacista

Mi sono laureata in Chimica e Tecnologia Farmaceutiche presso l’Università di Cagliari con una tesi sull’utilizzo di principi attivi estratti da agrumi autoctoni come antibatterici.
Ho conseguito l’abilitazione alla professione di farmacista e in seguito al mio percorso di studi ho svolto alcune esperienze professionali e accademiche all’estero, prima in Spagna (Oviedo) presso una start up di biotecnologie con applicazioni nel campo farmaceutico e cosmetico, poi in Argentina presso la rinomata “Universidad de Buenos Aires, facultad de farmacia” presso cui ho svolto attività di ricerca per lo sviluppo di una terapia antitubercolare.
Ho, inoltre, pubblicato come co-autore un articolo scientifico nella rivista “Molecules”.
Attualmente sono una specializzanda al secondo anno presso COSMAST, Master in Scienza e Tecnologia Cosmetiche dell’Università di Ferrara.

Focus di diritto tributario • Avv. Francesco Sanna

Aliquota IVA applicabile alle cessioni dei prodotti cosmetici

In ordine all’ambito di applicazione dell’articolo 124 del decreto Rilancio, si specifica che con la locuzione ‹‹detergenti disinfettanti per mani›› il legislatore ha voluto far riferimento ai soli prodotti per le mani con azione disinfettante (i.e. biocidi e presidi medico-chirurgici), soggetti alla preventiva autorizzazione delle autorità competenti. I comuni igienizzanti/detergenti per le mani, per i quali non è prevista alcuna specifica autorizzazione, non possono dunque considerarsi ricompresi nell’elenco di cui all’articolo 124 del decreto in esame, in quanto non svolgono un’azione disinfettante, limitandosi a rimuovere lo sporco e i microrganismi in esso presenti.

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

La disciplina penale italiana in materia di prodotti cosmetici

Con il Decreto legislativo n. 204 del 4 dicembre 2015, rubricato “Disciplina sanzionatoria per la violazione del regolamento n. 1223/2009 sui prodotti cosmetici”, sono state introdotte sanzioni di natura penale ed amministrativa per le violazioni degli obblighi derivanti dalla normativa europea, in materia di fabbricazione, produzione, distribuzione e messa in commercio di prodotti cosmetici.

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Focus di diritto civile, tutela della persona • Avv. Viola Zuddas

Cosmetici e sperimentazione sugli animali

Per prodotto cosmetico, ai sensi dell’art. 2 del Regolamento CE n.1223/2009 (per leggerlo per intero cliccare il seguente link: eur-lex.europa.eu ) si intende «qualsiasi sostanza o miscela destinata ad essere applicata sulle superfici esterne del corpo umano (epidermide, sistema pilifero e capelli, unghie, labbra, organi genitali esterni) oppure sui denti e sulle mucose della bocca allo scopo esclusivamente o prevalentemente di pulirli, profumarli, modificarne l’aspetto, proteggerli, mantenerli in buono stato o correggere gli odori corporei».

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Sostanze vietate dal 1° marzo 2022: obblighi e responsabilità

Come ben evidenziato dalla Dott.ssa Lucia Palmas nel focus dal Titolo “La sicurezza dei prodotti cosmetici”, la commercializzazione dei prodotti cosmetici nel territorio dell’Unione Europea soggiace ad una disciplina particolarmente stringente in materia di sicurezza.
A tal riguardo, meritano di essere trattate le recenti novità legislative introdotte dal Regolamento (UE) 2021/1902 che modifica proprio gli allegati II, III e V del regolamento (CE) n. 1223/2009 .

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L’accisa è un tributo indiretto che colpisce singole produzioni e singoli consumi. È indiretto perché il produttore, che paga il tributo, la gira al consumatore. Tipicamente l’accisa si distingue da altri tributi (ad esempio l’IVA) perché è applicata: a specifiche categorie di prodotti, alla quantità di prodotto e non sul prezzo ed una sola volta. 

Spesso alle accise si sommano altre imposte come l’IVA o dazi doganali o tasse di importazione. 

Le accise sono quindi una tassa che lo Stato pone sulla fabbricazione o sulla vendita di prodotti di consumo e viene calcolata in percentuale secondo quantità già determinate. 

L’avversione che da sempre accompagna questo tributo deriva, con tutta probabilità, dal fatto che le accise vengono pagate su beni che tutti sono “costretti” ad acquistare, oltrechè dalle periodiche promesse (mai mantenute) di taglio o eliminazione da parte dei vari governi che si sono succeduti nel tempo. 

L’importanza del tributo in questione per lo Stato è da sempre evidente; difatti, il legislatore ha fatto spesso ricorso ad esse per fronteggiare disastri naturali e altre situazioni di emergenza, in modo tale da trovare subito importanti fondi. E ancora oggi esse risultano essere uno strumento fondamentale per l’economia statale, dato che una modifica del loro peso provoca un immediato beneficio per le entrate pubbliche. 

Le accise offrono allo Stato due fondamentali vantaggi rispetto alle altre imposte: garantiscono un gettito immediato, sicuro e costante per le casse erariali, oltre al fatto che l’introito da queste derivante scatta nel momento (o poco dopo) in cui i prodotti fabbricati vengono immessi nel circuito del consumo.Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

Quindi, proprio questi benefici hanno indotto i vari governi, nelle proprie manovre fiscali, a rimodulare le accise già esistenti e a inventarne di nuove. 

Sicuramente le accise più famose sono quelle che colpiscono i carburanti, ma è bene sapere che queste vengono applicate e, quindi, pagate da tutti i contribuenti anche per godere di altri prodotti, quali ad esempio: bevande alcooliche (liquori, grappe, brandy), fiammiferi, tabacchi lavorati (sigarette), energia elettrica, ecc. 

Come detto, però, quelle più “tristemente” famose sono le accise su benzina, gasolio e gpl. Le accise applicate a tali prodotti sono oltre 15 e gravano per circa il 50% su un litro di benzina. 

Di seguito l’elenco completo di quelle poste sui carburanti in Italia, con l’anno e il motivo di introduzione:  

1) finanziamento della crisi di Suez (1956) – 0,00723 euro;  

2) ricostruzione post disastro del Vajont (1963) – 0,00516 euro;  

3) ricostruzione post alluvione di Firenze (1966) – 0,00516 euro;  

4) ricostruzione post terremoto del Belice (1968) – 0,00516 euro;  

5) ricostruzione post terremoto del Friuli (1976) – 0,00511 euro;  

6) ricostruzione post terremoto dell’Irpinia (1980) – 0,0387 euro;  

7) finanziamento missione ONU in Libano (1982 – 1983) – 0,106 euro;  

8) finanziamento missione ONU in Bosnia (1996) – 0,0114 euro;  

9) rinnovo contratto autoferrotranvieri (2004) – 0,020 euro; 

10) acquisto autobus ecologici (2005) – 0,005 euro;  

11) ricostruzione post terremoto de L’Aquila (2009) – 0,0051 euro;  

12) finanziamento alla cultura (2011) – 0,0071;  

13) finanziamento crisi migratoria libica (2011) – 0,040 euro;  

14) ricostruzione per alluvione che ha colpito Toscana e Liguria (2011) – 0,0089 euro;  

15) finanziamento decreto “Salva Italia” (2011) – 0,082 euro;  

16) finanziamento per ricostruzione post terremoto dell’Emilia (2012) – 0,024 euro;  

17) finanziamento del “Bonus gestori” (2014) – 0,005 euro;  

18) finanziamento del “Decreto fare” (2014) – 0,0024 

Come si può vedere Il ricorso a questo strumento è aumentato nel corso degli anni: in quarant’anni – tra il 1956 e il 1996 – sono state introdotte otto accise e le altre dieci in soli dieci anni, tra il 2004 e il 2014. 

Venendo ai nostri giorni, il Consiglio dei ministri ha approvato all’unanimità il decreto contenente le misure urgenti per contrastare gli effetti economici generati dalla crisi in Ucraina. Tra le misure approvate c’è anche il taglio delle accise sui carburanti di circa 25 centesimi di euro a litro sul costo del prodotto. 

Inoltre, nella bozza del decreto si prevede che «l’importo del valore di buoni benzina o analoghi titoli ceduti a titolo gratuito da aziende private ai lavoratori dipendenti per l’acquisto di carburanti, nel limite di euro 200 per lavoratore non concorre alla formazione del reddito». 

Francesco Sanna, Avvocato

Dopo la sentenza n. 257/21 con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge della Regione Sardegna 13 luglio 2020, n. 21 di cui abbiamo trattato qualche tempo fa (clicca qui per un approfondimento: www.forjus.it), la Corte Costituzionale è tornata ad esprimersi sulla pianificazione urbanistica comunale (in particolare per ciò che concerne il cosiddetto “Piano Casa”) e quella paesaggistica operata dalla Regione Sardegna. 

Anche in questo caso, la vicenda prende le mosse dal ricorso promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri avente ad oggetto delle previsioni della Regione Sardegna che derogherebbero alla pianificazione urbanistica comunale e a quella paesaggistica e agevolerebbero «la massiccia trasformazione edificatoria del territorio, anche in ambiti di pregio», con il conseguente «grave abbassamento del livello della tutela del paesaggio». 

La posizione del Governo

Il ricorso presentato dall’avvocatura Generale dello Stato è piuttosto complesso ed è articolato in molteplici motivi di impugnazione riguardanti diversi articoli della legge della Regione Sardegna 18 gennaio 2021, n. 1, recante “Disposizioni per il riuso, la riqualificazione ed il recupero del patrimonio edilizio esistente ed in materia di governo del territorio. Misure straordinarie urgenti e modifiche alle leggi regionali n. 8 del 2015, n. 23 del 1985, n. 24 del 2016 e n. 16 del 2017”. 

Senza voler entrare eccessivamente nel dettaglio, ciò che accomuna e fonda tutti i motivi di impugnazione è il convincimento che la Regione avrebbe esercitato unilateralmente la propria potestà legislativa statutaria nella materia edilizia e urbanistica, sottraendosi all’obbligo di copianificazione con lo Stato. 

Sul punto è importante ricordare che il coordinamento tra Stato e Regione è necessario, soprattutto, quando vengano in rilievo interessi generali riconducibili alla competenza esclusiva statale nella materia della conservazione ambientale e paesaggistica. 

Come si legge nella premessa del ricorso, inoltre, l’avvocatura Generale dello Stato ricorda che l’art. 3, lettera f) dello Statuto speciale per la Sardegna attribuisce alla Regione la potestà legislativa nella materia edilizia e urbanistica che comprende anche la «pianificazione del paesaggio in senso lato», ma la assoggetta al rispetto delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica, come quelle dettate dal Codice dei beni culturali e del paesaggio. 

Per ragioni legate alla complessità del ricorso e della sentenza, in questo articolo ci soffermeremo unicamente sulle impugnazioni aventi ad oggetto le disposizioni relative al cosiddetto “Piano Casa”, che riguardano principalmente la proroga del termine per completare le edificazioni e, altresì, la possibilità di incrementi volumetrici al di fuori delle prescrizioni del piano paesaggistico. 

Per quanto riguarda il primo aspetto controverso, deve ricordarsi che originariamente il termine per completare le edificazioni in zona agricola «nei casi in cui non sarebbe possibile ottenere il rinnovo del titolo edilizio ormai divenuto inefficace, a causa di una sopravvenuta disciplina pianificatoria incompatibile» era fissato al 31 dicembre 2020, mentre l’impugnata disposizione della Regione Sardegna disporrebbe la proroga del termine alla data del 31 dicembre 2023. 

Secondo la difesa statale, dunque, la Regione avrebbe violato le norme fondamentali di riforma economico-sociale di competenza legislativa esclusiva dello Stato soprattutto per quanto riguarda la «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni valevoli sull’intero territorio nazionale», salvando dalla decadenza del titolo edilizio nel caso di mancato rispetto dei termini per l’ultimazione delle opere. 

Per quanto riguarda il secondo aspetto controverso, ovvero quello legato alla possibilità di incrementi volumetrici, secondo l’avvocatura Generale dello Stato la Regione avrebbe travalicato i limiti della propria competenza, ponendo in essere un’attività non rispettosa del principio di leale collaborazione poiché avrebbe permesso incrementi volumetrici eludendo il piano paesaggistico regionale (il cosiddetto P.P.R.) «e potenzialmente in deroga ad esso», anche per quanto riguarda le strutture destinate all’esercizio di attività turistico-ricettive, sanitarie e socio-sanitarie», pure in aree vincolate. 

La posizione della Regione

La Regione Sardegna, costituitasi in giudizio, ha chiesto di dichiarare improcedibili, inammissibili, irricevibili o comunque non fondate le questioni di legittimità costituzionale promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri. 

Si sostiene, infatti, che non venga adeguatamente valorizzata la potestà legislativa che compete alla Regione autonoma della Sardegna nella materia dell’edilizia e dell’urbanistica, con riguardo anche a profili di tutela paesistico-ambientale, rispetto alla quale la medesima ha il potere / dovere di redazione ed approvazione dei piani paesaggistici. 

Per quanto riguarda il primo aspetto controverso, ovvero la proroga al 2023 del termine per completare le edificazioni, la Regione afferma l’inammissibilità dell’eccezione sul presupposto che non sarebbe stata richiamata puntualmente la normativa oggetto di proroga e ciò non consentirebbe di conoscere il reale fondamento delle censure mosse. 

Per quanto riguarda il secondo aspetto controverso, ovvero quello concernente gli incrementi volumetrici, la legislazione statale non vieterebbe di computare i volumi condonati e, pertanto, dalla previsione impugnata dal Governo non deriverebbe alcun ampliamento volumetrico in deroga alla pianificazione paesaggistica, posto che la Regione ben potrebbe intervenire anche sulla disciplina del paesaggio medesimo. 

Inoltre, il legislatore regionale consentirebbe unicamente l’ultimazione di edifici legittimamente realizzati nel rispetto degli standard urbanistici vigenti per le zone agricole, mentre sarebbero escluse le aree contraddistinte da pericolosità idraulica o da frana elevata o molto elevata, o gravate da un vincolo di inedificabilità assoluta: pertanto, la Regione non avrebbe travalicato i limiti di sua competenza né, tantomeno, derogato alle prescrizioni del piano paesaggistico regionale che riguarderebbero tutt’altri beni. 

La decisione della Corte Costituzionale

Con la sentenza n.24/2022, la Corte Costituzionale ha respinto le eccezioni preliminari sollevate dalla Regione in ordine alla presunta intempestività del ricorso proposto ed ha accolto parte dei motivi di impugnazione proposti nel ricorso presentato dal Presidente del Consiglio dei ministri. 

La sentenza si presenta piuttosto lunga ed articolata (cliccando il seguente link è possibile leggerla per intero: www.cortecostituzionale.it) e nel suo dispositivo esamina, in primo luogo, le questioni di legittimità costituzionale che attengono alla normativa edilizia e urbanistica e poi quelle che attengono alla normativa regionale che interferisce in misura prevalente con la tutela paesaggistica. 

Per quanto riguarda le prime, nell’esercizio della competenza primaria nella materia edilizia e urbanistica la Regione autonoma Sardegna incontra un doppio limite: quello delle previsioni contenute nel Testo Unico dell’edilizia e quello, ancor più significativo, della tutela ambientale, garantita dalla normativa statale e realizzata attraverso la redazione dei piani paesaggistici.Avv. Viola Zuddas, Civilista

Per questo motivo, le doglianze sollevate dal Governo con l’impugnazione delle disposizioni relative al cosiddetto “Piano Casa” sono fondate. 

Infatti, l’art. 15 del T.U. dell’edilizia disciplina l’efficacia temporale e la decadenza del permesso di costruire: quest’ultimo decade quando i lavori non siano cominciati entro un termine che non può essere superiore a un anno dal rilascio del titolo, o non siano ultimati entro un termine che non può superare i tre anni dall’inizio dei lavori. 

Nel delimitare l’arco temporale di validità dei titoli edilizi, la normativa statale detta standard uniformi e si rivela di cruciale importanza in un ordinato governo del territorio, che non può tollerare difformità tra Regioni con riguardo all’aspetto prioritario della durata e dell’efficacia dei titoli edilizi. 

La normativa regionale, infatti, nel prolungare i termini entro i quali è possibile richiedere il permesso di costruire per completare le costruzioni nelle zone agricole, anche quando il titolo sia decaduto e non possa essere rinnovato, deroga in maniera indiscriminata alla decadenza sancita dalla legislazione statale, senza richiedere le tassative condizioni individuate dal T.U. dell’edilizia. 

In questa prospettiva, si può cogliere come le disposizioni regionali siano lesive delle prescrizioni statali che si pongono come norme fondamentali di riforma economico-sociale che, in quanto tali, vincolano la potestà legislativa primaria della Regione autonoma Sardegna nella materia dell’edilizia e dell’urbanistica. 

Per quanto riguarda le questioni di legittimità costituzionale che attengono alla normativa regionale che interferisce in misura prevalente con la tutela paesaggistica, la Corte Costituzionale afferma che il sistema della pianificazione paesaggistica, che deve essere salvaguardato nella sua impronta unitaria e nella sua forza vincolante, rappresenta attuazione dell’art. 9 Cost. ed è funzionale a una tutela organica e di ampio respiro, che non tollera interventi frammentari e incoerenti.Avv. Viola Zuddas, Civilista

La peculiarità del bene giuridico ambiente, nella cui complessità ricade anche il paesaggio, «riverbera i suoi effetti anche quando si tratta di Regioni speciali o di Province autonome», con l’ulteriore precisazione, però, che qui occorre tener conto degli statuti speciali di autonomia. 

Lo statuto speciale attribuisce alla Regione autonoma Sardegna la potestà legislativa primaria nella materia «edilizia ed urbanistica», nella quale è espressamente ricompresa «la redazione e l’approvazione dei piani territoriali paesistici» fermo restando, però, il vincolo per la Regione al rispetto del principio di co-pianificazione. 

È, dunque, precluso al legislatore regionale derogare alle prescrizioni del piano paesaggistico senza una previa rideterminazione dei suoi contenuti con lo Stato. 

Viola Zuddas, Avvocato

La lesione dell’integrità territoriale, della sovranità e dell’indipendenza dell’Ucraina entro i suoi confini riconosciuti a livello internazionale a seguito dell’aggressione militare della Federazione russa rappresenta una grave violazione del diritto internazionale e dei principi della Carta delle Nazioni Unite.

L’invasione del territorio ucraino, alla quale il mondo assiste attonito, inorridito dallo scenario bellico, distopico e anacronistico, che sta causando sofferenze e perdite di vite umane, costituisce un evidente rischio per la sicurezza e la stabilità europea e mondiale.

In questo contesto, sono sempre più pressanti le istanze di Stati terzi vicini ai confini europei che, a partire dalla stessa Ucraina, chiedono di entrare a far parte dell’Unione Europea.

Ed infatti, alla domanda di adesione firmata e trasmessa dal Presidente ucraino Zelensky che chiede la “adesione immediata attraverso una nuova procedura speciale”, hanno fatto eco anche gli Stati della Moldavia e Georgia.

Ma il processo di adesione all’Unione Europea è davvero così semplice?

Prima di rispondere a questa domanda, è opportuno fare una doverosa e necessaria premessa: i Trattati istitutivi non prevedono procedure speciali di adesione.Avv. Eleonora Pintus, Diritto dell’Unione Europea

La procedura di adesione all’Unione Europea: iter in tre fasi

Il Trattato dell’Unione Europea prevede un’unica procedura di adesione all’Unione che, per complessità, richiede una gestione di lunga durata.

Per brevità, possiamo riassumere questa articolata procedura in tre semplici fasi: domanda di adesione e valutazione; negoziazione e accordo di adesione; ratifica dell’accordo di adesione.

Anzitutto, è bene evidenziare che la base giuridica della procedura di adesione è l’articolo 49 del Trattato dell’Unione Europea, il quale precisa che ogni Stato Europeo che rispetti e promuova i valori su cui si fonda l’Unione di cui all’articolo 2 del Trattato -ossia il rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e dei diritti umani –può domandare di diventare membro dell’Unione.

Il paese che intende aderire all’UE deve sottoporre la sua candidatura al Consiglio, il quale dovrà pronunciarsi all’unanimità previa consultazione della Commissione e del Parlamento europeo che si esprime a maggioranza dei suoi membri.

In questa prima fase, le istituzioni coinvolte dovranno valutare se lo Stato candidato soddisfi o meno determinati criteri di adesione, meglio noti come “criteri di Copenaghen”, e così definiti perché stabiliti in occasione del Consiglio europeo di Copenaghen nel 1993 e rafforzati in sede del Consiglio europeo di Madrid nel 1995.

Tali criteri sono:

  • la presenza di istituzioni stabili a garanzia della democrazia, dello Stato di diritto, dei diritti umani, del rispetto e della tutela delle minoranze;
  • un’economia di mercato affidabile e capace di far fronte alle forze del mercato e alla pressione concorrenziale all’interno dell’Unione;
  • la capacità di accettare gli obblighi derivanti dall’adesione, e in particolare la capacità di attuare efficacemente il corpo del diritto dell’Unione (l’acquis communautaire), nonché l’adesione agli obiettivi dell’unione politica, economica e monetaria.

Superato il vaglio iniziale, dopo che tutti gli Stati membri hanno raggiunto un accordo unanime, se la Commissione dà parere positivo, il Consiglio europeo avvia i negoziati di adesione che riguardano le condizioni in base alle quali il Paese candidato sarà ammesso nell’Unione.

Quando i negoziati su tutti i settori sono completati, si avvia la terza ed ultima fase della procedura che consiste nella redazione di un accordo di adesione contenente le condizioni e gli adattamenti dei trattati su cui è fondata l’Unione.

Tale trattato, previo consenso del Parlamento europeo e l’approvazione unanime del Consiglio, dovrà infine essere firmato e ratificato –cioè trasposto all’interno dell’ordinamento nazionale secondo quanto previsto dalla normativa costituzionale vigente –da tutti gli Stati membri dell’Unione e dal Paese candidato.

Come si può facilmente notare, la procedura di adesione è particolarmente complessa: da un lato, infatti, lo stato candidato deve soddisfare i criteri di adesione particolarmente stringenti e, dall’altro, è necessario superare il vaglio unanime degli Stati membri dell’Unione, oltre che degli altri attori coinvolti nel processo decisionale.

Ad oggi, dunque, l’unica strada percorribile per entrare a far parte dell’Unione è quella tracciata dall’articolo 49 del Trattato dell’Unione Europea.

L’inserimento di una nuova procedura di adesione implicherebbe l’attivazione della procedura di modifica dei Trattati istitutivi stessi che, data la sua particolare complessità, non rappresenta certamente la soluzione per rispondere positivamente alle attuali esigenze di celerità ed eccezionalità dettate dal conflitto in corso.

Eleonora Pintus, Avvocato

Sport e Pandemia: la capacità del non arrendersi mai

Ricordo ancora le emozioni dei giorni in cui i notiziari parlavano del dilagare di una nuova malattia in Cina, di cui era responsabile la variante di un Virus che già tempo addietro aveva messo in ginocchio la popolazione mondiale. 

I pensieri comuni erano per la gran parte “Tanto è lontano, non arriverà mai da noi”, “è solo un’influenza” “In Europa siamo molto più attenti all’igiene: figuriamoci se qui può svilupparsi”. 

Ma non avevamo ancora finito di pronunciare queste frasi, che il primo caso Covid venne verificato anche in Italia. 

La convinzione di restare al di fuori dell’influenza del virus era talmente forte che, non appena ci siamo resi conto che aveva colpito anche noi, si è trasformata in terrore. 

Lo sport che insegno ormai da anni, il CrossFit, si è sempre svolto all’interno di posti grandi, areati e dotati di attrezzatura ad uso individuale per i Workout (gli allenamenti) previsti durante l’ora di lezione. Nonostante questo, anche adottando maggiori accorgimenti legati alla pulizia degli attrezzi e dei locali, e un maggiore contingentamento degli allievi, non potevamo garantire al 100% le interferenze tra le persone: siamo una Community, lo Sport è l’emblema della socialità e il nostro compito e dovere come allenatori, è quello di tutelare la salute dei nostri allievi a 360 gradi. 

Cosicché, prima ancora che venisse espressamente emanato un Decreto che ce lo imponesse, abbiamo deciso, per senso di responsabilità, di chiudere; ma quello che avremmo pensato sarebbe durato una sola settimana, si è trasformato in un tempo indefinito. 

Uno degli insegnamenti che attraverso il CrossFit trasmettiamo ai nostri allievi, è lo sviluppo della capacità di adattamento alle situazioni e ai cambiamenti, cercando in ogni modo di uscire e non stallare nella propria routine ma piuttosto di essere pronti per ciò che non si conosce e non si può comprendere (prepare for the Unknown and the unknowable). Così, dopo un primo momento di disorientamento e tentativi disordinati di fare allenamenti in videochiamata, ci siamo organizzati e abbiamo iniziato le nostre lezioni online attraverso l’uso di piattaforme studiate apposta per consentire l’incontro simultaneo, a distanza, di un alto numero di utenti. 

La risposta è stata incredibile e gratificante: in un momento in cui sembravamo aver perso tutto, ecco che avevamo qualcosa; in un momento in cui per la maggior parte di noi la vita si alternava tra letto, tavola, divano e serie TV, la nostra giornata era nuovamente scandita da un momento di attività e socialità, attraverso le classi online. 

Questo non solo ci ha permesso di restare uniti, ma ha rafforzato i legami tra noi e i nostri ragazzi. Loro ci hanno sostenuto in tutti i modi, ci hanno appoggiato e non ci hanno mai abbandonato, ripagando tutti gli sforzi compiuti per difendere gli obiettivi del nostro lavoro: garantire la loro sicurezza, salvaguardare la loro salute ed educarli a trovare, in ogni situazione, la forza, la volontà e il modo di prendersi cura di sé. 

Nonostante alla fine siamo risultati essere uno dei primi settori ad aver chiuso in entrambi i lockdown, uno degli ultimi ad essere coinvolti nella riapertura e siamo stati costretti a lavorare all’aperto con l’adozione dei colori delle Regioni, mettendo mano ai risparmi per poter adattare il nostro lavoro alle norme in continuo cambiamento che ci sono state imposte, abbiamo saputo reagire ogni volta nel pieno rispetto delle regole e della tutela dei nostri iscritti.

Laura Macciò, Istruttrice FIDAL & FIPE L1, CF – L2 

Da sempre nel mondo dello sport, dopo una Laurea in Ingegneria, ho cominciato a lavorare nel settore del Fitness dove opero ormai da 15 anni. 

Ho conseguito il primo Livello come allenatrice di Atletica Leggera e Sollevamento Pesi nelle rispettive federazioni Coni, nonché le Certificazioni ufficiali per diventare Trainer CrossFit. 

Questo altro non è che un programma di rafforzamento e condizionamento fisico mirato ad acquisire benessere completo e generale. E’ definito “lo sport del fitness” e consiste nello svolgere “movimenti funzionali ad alta intensità costantemente variati”. 

Attualmente insegno a Nettuno in provincia di Roma, al Box certificato CrossFit 4112. 

Credo fermamente in quello che faccio perché, attraverso il CrossFit, riesco ogni giorno a portare le persone che alleno a compiere un passo verso il loro miglioramento e il superamento dei propri limiti. Questo metodo infatti, grazie alla adattabilità e versatilità dei movimenti che utilizza, permette di allenarsi a chiunque e in qualsiasi condizione (non solo in termini di condizioni fisiche, ma anche di livello di Fitness generale). 

Focus di diritto tributario • Avv. Francesco Sanna

Il regime fiscale delle ASD e SSD

Il D. Lgs. 28 febbraio 2021, n. 36, intitolato “riforma delle disposizioni in materia di enti sportivi dilettantistici e professionisti e in materia di lavoro sportivo” e la cui entrata in vigore è – in parte – stata rinviata, definisce l’associazione e la società sportiva dilettantistiche come quel soggetto giuridico, affiliato ad una Federazione sportiva nazionale, ad una Disciplina sportiva associata o ad Ente di promozione sportiva, che svolge, senza scopo di lucro, attività sportiva nonché la formazione, la didattica, la preparazione e l’assistenza all’attività sportiva. 

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

Sport e carcere

Come abbiamo visto nel Focus a cura di Laura Macciò, la pandemia ha avuto delle ripercussioni gravissime anche nel settore dello sport, tanto per gli operatori –che per lunghi periodi hanno dovuto cessare qualsiasi attività in presenza– quanto in termini di salute psicofisica di chi lo pratica. 

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Focus di diritto civile • Avv. Viola Zuddas

Lo sport per l’inclusione e l’uguaglianza di genere

Noi tutti sappiamo che lo sport è uno degli strumenti più importanti che abbiamo a disposizione per migliorare la nostra condizione fisica e psicologica e, in generale, la salute: l’attività fisica, infatti, riveste un ruolo primario di tipo preventivo e, altresì, terapeutico nel trattamento di alcune condizioni e patologie. 

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Ue e sport: i finanziamenti del 2022

Lo sport è uno dei settori di più recente intervento dell’Unione Europea. 
La sua competenza in materia non è di carattere esclusivo ma diretto a sostenere e rafforzare quella dei singoli Stati membri. 

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Nella giornata tra il 23 ed il 24 febbraio, le truppe russe hanno invaso l’Ucraina dopo che, nella notte precedente, era giunto l’ordine di attacco del presidente Vladimir Putin che, in un messaggio televisivo, aveva spiegato di aver autorizzato «un’operazione speciale» in Ucraina per «smilitarizzare il Paese» e «proteggere il Donbass». 

Il Donbass è un’area mineraria sita nella parte orientale dell’Ucraina confinante con la Russia e in cui la maggior parte della popolazione è di etnia e lingua russa: nel 2014, milizie armate filo-russe hanno invaso quest’area ed hanno proclamato le regioni di Donetsk e Lugansk “repubbliche indipendenti”. 

La posizione della Russia

Qualche giorno fa, il presidente Putin – in violazione della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina – ha riconosciuto le regioni separatiste annettendole, di fatto, alla Russia ed inviando le proprie truppe per difenderne i confini. 

Uno degli obiettivi del presidente russo è quello di assicurarsi che la Russia abbia un ruolo di superpotenza globale negli affari internazionali, attraverso la ricostituzione dell’influenza di Mosca sulle ex repubbliche sovietiche. 

Per fare ciò, però, secondo il Cremlino è necessario proteggere la Russia con degli “stati cuscinetto” che la difendano dalla presenza della Nato che si è fatta sempre più pressante lungo i suoi confini. 

La Nato, infatti, eroga aiuti finanziari e armamenti all’Ucraina che – secondo quanto dichiarato dallo stesso Putin – rappresenterebbe una reale minaccia strategica per la Russia poiché non solo ha competenze nucleari molto vaste in termini di reattori, tecnologia, ecc. ma, altresì, ha diversi missili in dotazione. 

Così il Cremlino, prima dell’ordine d’attacco di Putin, aveva presentato una bozza d’accordo alla Nato (oltre che agli USA) che prevedeva, da una parte, che l’Alleanza Atlantica mettesse fine alla sua espansione a Est e vietasse future adesioni di ex stati sovietici tra cui l’Ucraina, e, dall’altra, la demilitarizzazione di quest’ultima.  

Tuttavia, nonostante gli sforzi diplomatici profusi negli scorsi giorni, non è stato possibile raggiungere alcun accordo nei termini imposti da Putin, in quanto, come si apprende dalle dichiarazioni rilasciate dal generale della Nato Stoltenberg, l’Ucraina stessa dovrebbe avere il diritto / potere di decidere in autonomia se aderire alla Nato, avviando la relativa procedura, e se smilitarizzarsi. 

Pertanto, alcuna decisione in tal senso può essere assunta dalla Nato né, tantomeno, può essere imposta dalla Russia. 

La posizione dell’Ucraina

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha dichiarato che la democrazia è stata colpita nella propria legittima sovranità e, nonostante ciò, ha preso l’impegno di non utilizzare la forza militare per replicare agli attacchi della Russia ma solamente per difendere la propria popolazione.
Per fare ciò, ha chiesto agli stati europei interventi multipli per sostenere l’Ucraina.
Quest’ultima, infatti, ha bisogno non soltanto di sostegno tecnico-militare per contrastare le truppe avversarie ed isolare la leadership russa ma, altresì, economico affinché il Cremlino possa subire dure sanzioni che ne blocchino, di fatto, l’economia. 

La risposta dell’UE

L’UE ha fortemente condannato l’attacco russo, definendolo «ingiustificato, ingiustificabile e non provocato» e, pur riconoscendo Putin come unico responsabile, si è sempre dimostrata intenzionata a cercare una soluzione pacifica alla crisi che – secondo la presidente della Commissione Ursula Von Der Leyen – mira alla stabilità dell’Europa e dell’intero ordine internazionale. 

Per questo motivo, l’UE e gli Alleati della Nato si sono coordinati per potenziare immediatamente le misure di sicurezza sul fianco Est dell’Alleanza ed hanno rafforzato il contributo allo spiegamento militare in favore di tutti i Paesi Alleati più direttamente esposti. 

Intanto, in queste ore è in corso la riunione virtuale del G7 alla quale parteciperà anche il segretario generale della Nato Stoltenberg e nella quale verrà deciso un pacchetto di sanzioni molto dure nei confronti della Russia. 

In particolare, la presidente della Commissione Ursula Von Der Leyen ha anticipato – nella conferenza stampa tenuta insieme alle più alte cariche UE – che «Cercheremo di bloccare i vari settori dell’economia russa, dalla tecnologia alla strategia di mercato; cercheremo di bloccare la capacità di ammodernamento della Russia e congeleremo i vari asset della Russia nell’Unione europea e chiuderemo l’accesso alle banche europee e ai mercati finanziari da parte della Russia».  

La reazione dell’Italia

Nella serata di ieri, vi è stata un’intensa riunione del Comitato interministeriale per la sicurezza della Repubblica, presieduto dal presidente del Consiglio, cui è stato conferito pieno mandato per una risposta dura in ambito UE che, come sopra precisato, si muoverà principalmente sul piano delle sanzioni economiche. 

Il Premier, durante la conferenza stampa tenutasi nella giornata del 24 febbraio, ha affermato che «il Governo italiano condanna l’attacco della Russia all’Ucraina» e che «l’Italia è vicina al popolo e alle istituzioni ucraine in questo momento drammatico. Siamo al lavoro con gli alleati europei e della Nato per rispondere immediatamente, con unità e determinazione». 

Il Presidente del Consiglio ha, anche, precisato che l’ambasciata italiana a Kiev, che pure è in massima allerta, è comunque pienamente operativa e, nel coordinarsi con le altre ambasciate, mantiene i rapporti con le autorità ucraine per tutelare i circa 2000 italiani residenti.

Viola Zuddas, Avvocato

Se ne parlava ormai da tempo e la maggior parte di coloro che leggono questo contributo probabilmente ha già vissuto il temuto e scongiurato rincaro bollette di luce e gas.

Come annunciato dall’ARERA, l’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente, nel primo trimestre del 2022 le bollette di luce e gas aumenteranno rispettivamente del 55% e 41% in più.

Le cause dell’aumento in tutta Europa sono principalmente due: crescita dei prezzi dell’energia elettrica e del gas naturale sul mercato all’ingrosso – riconducibile anche ad una più ampia crisi internazionale, di cui non si discuterà in questa sede – e crescita dei prezzi dei permessi di emissione di CO2 nel sistema europeo ETS.

La Direttiva 2003/87/CE “EU Emission Trading System” (modificata da ultimo dalla direttiva UE 2018/410) prevede che dal primo gennaio 2005 gli impianti grandi emettitori dell’Unione Europa possano funzionare esclusivamente con un’autorizzazione alle emissioni di gas serra.

È stato così creato un sistema Europeo (detto appunto ETS, da Emission Trading System) istitutivo di un simil mercato ove gli impianti grandi emittori dell’Unione Europea possono comprare delle “quote di emissione” di CO2 nell’ambito di aste pubbliche europee o riceverne a titolo gratuito o, in alternativa, approvvigionarsene sul mercato.

Ciò si traduce nella necessità delle aziende più inquinanti di acquistare sempre più permessi al fine di continuare ad emettere CO2 senza incorrere in sanzioni mentre le aziende più capaci di contenere le emissioni avranno la possibilità di vendere le proprie quote inutilizzate.

Questa breve analisi, a parere di chi scrive, è necessaria, oltre che doverosa, al fine di far comprendere a chi legge che l’esorbitante aumento dei prezzi scaturisce proprio dalla combinazione di questi due fattori, ossia il maggior costo della materia prima e dei permessi di emissione, con conseguente aumento dei prezzi dell’energia elettrica all’ingrosso e, per l’effetto, in un aumento considerevole dei prezzi per i fruitori dell’energia che hanno visto crescere considerevolmente i prezzi in bolletta, tanto in Italia quanto in Europa.

Appare dunque evidente che la soluzione al problema debba essere cercata non (solo) entro i confini nazionali quanto, piuttosto, a livello Comunitario al fine di fornire una risposta comune all’interno dello spazio europeo.

La risposta Europea all’aumento dei prezzi dell’energia elettrica: la Toolbox Europea
La “Toolbox” è l’insieme di misure approvate dalla Commissione europea il 13 ottobre 2021 al fine di contenere l’impatto dei rincari delle bollette energetiche sui cittadini.
In particolare, vengono fornite agli Stati membri una serie di indicazioni affinché vengano adottate iniziativea tutela di consumatori e aziende.
Il pacchetto di strumenti presentato dalla Commissione aiuterà gli Stati membri a sostenere sia i consumatori che l’industria.
Nella specie, il Toolbox prevede misure a breve e medio termine.
Tra le misure a breve termine, che mirano a rispondere ai bisogni precisi dei consumatori e dell’industria per far fronte all’attuale impennata dei prezzi dell’energia, sono previste:
  1. Azioni di sostegno di emergenza al reddito e prevenzione della sospensione delle forniture. Gli Stati possono, ad esempio: versare prestazioni sociali alle persone più a rischio per aiutarle a pagare le bollette dell’energia; introdurre misure per evitare la sospensione della fornitura di energia o autorizzare temporaneamente proroghe del pagamento delle bollette.
  2. Esenzioni e sgravi fiscali. Gli Stati membri possono applicare temporaneamente alle famiglie vulnerabili esenzioni dalle imposte o imposte ad aliquote ridotte per l’energia elettrica, il gas naturale, il carbone e i combustibili solidi.
  3. Aiuti alle famiglie e alle imprese.
  4. Cooperazione rafforzata e monitoraggio a livello UE: ad esempio attraverso indagini su potenziali comportamenti anticoncorrenziali nel mercato dell’energia.

Quanto alle misure strutturali a medio termine, necessarie per evitare future impennate dei prezzi, la Commissione rileva l’importanza di integrare ulteriormente il mercato, responsabilizzare i consumatori e, soprattutto –in linea con il green deal europeo (vedi anche il nostro focus sul Superbonus 110% e Green Deal Europeo) decarbonizzare il sistema energetico.

Quali le azioni necessarie nei prossimi anni?

  1. Creare un sistema energetico UE resiliente. Al riguardo, la Commissione intende, tra le altre: valutare l’opportunità di rivedere il regolamento sulla sicurezza dell’approvvigionamento per adattarlo alla crescente diffusione dei gas rinnovabili, oltre che migliorare l’uso e il funzionamento dello stoccaggio del gas in tutto il mercato unico
  2. Sostenere la partecipazione attiva dei consumatori fornendo loro informazioni, ad esempio tramite la possibilità di cambiare fornitore più rapidamente e facilmente.
  3. Intensificare gli investimenti nelle energie rinnovabili.

Ma quali azioni ha intrapreso l’Italia in tal senso?

L’azione dell’Italia contro il caro bollette: il Decreto legge recante misure urgenti per il contenimento dei costi dell’energia elettrica del 18 febbraio 2022

Il Governo nazionale, in linea con le direttive fornite dall’Europa, ha adottato il recentissimo “Decreto legge recante misure urgenti per il contenimento dei costi dell’energia elettrica e del gas naturale, per lo sviluppo delle energie rinnovabili, per il rilancio delle politiche industriali” composto di 37 articoli, con il quale mira a fronteggiare l’impatto del caro bollette sia nel breve termine, mediante lo stanziamento di risorse per arginare gli aumenti, sia nel medio -lungo termine, mediante il potenziamento delle energie rinnovabili e sull’aumento della produzione di gas nazionale.

Ammontano a circa 5,8 miliardi le risorse stanziate dal decreto energia per ridurre gli effetti dell’esorbitante aumento dei prezzi nel settore energetico e destinati, in particolare, all’azzeramento degli oneri di sistema per famiglie e imprese, alla riduzione dell’Iva sul gas al 5% e riduzione degli oneri generali nel settore del gas.

In conclusione, il breve quadro fin qui esposto mostra come l’aumento dei prezzi sia la diretta conseguenza di una radicata politica energetica che oggi, sotto più profili, ci troviamo a fronteggiare.

Appare dunque evidente che al fine di trovare una soluzione efficiente ed efficace occorre un intervento concertato dell’Unione edegli Stati membri al fine di elaborare, nel medio periodo, una politica sempre più green e definire un programma di accelerazione e semplificazione sul fronte delle energie rinnovabili.

Eleonora Pintus, Avvocato

L’Agenzia delle Entrate non parla di cartella esattoriale, bensì d cartella di pagamento definendola come quell’atto amministrativo caratterizzato da evidenti finalità di riscossione tramite il ruolo. 

L’incarico di riscuotere quanto dovuto dal contribuente è affidato al cosiddetto concessionario, il quale avrà l’onere di notificare (art. 25, D.P.R. 29 settembre 1973 n. 602) il provvedimento esattivo e, se del caso, iniziare le azioni esecutive e/o cautelari del credito ai danni del soggetto passivo. 

Proprio in ordine all’atto esattoriale in parola è bene precisare come questo costituisca a tutti gli effetti un titolo esecutivo, ex art. 474 c.p.c., al pari delle sentenze e degli altri provvedimenti emessi dall’autorità giudiziaria. 

Pertanto, in forza del principio di esecutività del titolo, il concessionario è legittimato a promuovere un pignoramento ai danni del destinatario non prima di 60 giorni dalla notifica della citata cartella esattoriale (art. 50, comma 1, D.P.R. 29 settembre 1973 n. 602), eccezion fatta per le seguenti fattispecie: pagamento della somma per l’intero, presentazione dell’istanza di rateizzo presso l’Ente della Riscossione, sospensione amministrativa, sospensione giudiziale, impugnazione della cartella esattoriale tramite la presentazione del reclamo/ricorso. 

Ciò detto, è bene rammentare come la cartella esattoriale è strettamente collegata all’esistenza del ruolo, il quale viene così delineato nel citato D.P.R., lett. b): ‹‹l’elenco dei debitori e delle somme da essi dovute formato dall’ufficio ai fini della riscossione a mezzo del concessionario››. 

Ancora, all’art. 12, rubricato “formazione e contenuti dei ruoli”, vengono specificati gli elementi costitutivi del ruolo, cioè del documento interno all’ufficio creditore (ad esempio l’Agenzia delle Entrate, l’Inps), i quali dovranno essere presenti anche nella cartella esattoriale, costituendone elementi essenziali anche di questa: le somme dovute, gli estremi identificativi del debitore, la data in cui il ruolo diviene esecutivo, il riferimento all’eventuale precedente atto di accertamento ovvero, in mancanza, la motivazione, anche sintetica, della pretesa. 

E proprio la motivazione del ruolo è elemento fondamentale ed imprescindibile per la validità della successiva cartella esattoriale; il tutto al fine di permettere al contribuente di poter esercitare il proprio diritto di difesa (art. 24 Cost.) a seguito della notifica dell’atto impositivo in questione.Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

Pertanto, riassumendo, dopo la formazione del ruolo, redatto dall’Ufficio (creditore) e trasmesso all’Ente della Riscossione, quest’ultimo ha l’onere di comunicare formalmente al contribuente la pretesa dell’Erario. Tale comunicazione avviene mediante la notifica della cartella esattoriale. 

I termini per la notifica dell’atto in parola sono disciplinati all’art. 25, D.P.R. citato, il quale sancisce che ‹‹il concessionario notifica la cartella di pagamento al debitore iscritto a ruolo o al coobbligato nei confronti dei quali procede, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre››: 

– ‹‹del terzo anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, ovvero a quello di scadenza del versamento dell’unica o ultima rata se il termine per il versamento delle somme risultanti dalla dichiarazione scade oltre il 31 dicembre dell’anno in cui la dichiarazione è presentata, per le somme che risultano dovute a seguito dell’attività di liquidazione prevista dall’articolo 36-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, nonché del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione del sostituto d’imposta per le somme che risultano dovute ai sensi degli articoli 19 e 20 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917››. 

 – ‹‹del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, per le somme che risultano dovute a seguito dell’attività di controllo formale prevista dall’articolo 36-ter del citato decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973››. 

‹‹del secondo anno successivo a quello in cui l’accertamento è divenuto definitivo, per le somme dovute in base agli accertamenti dell’ufficio››. 

– ‹‹del terzo anno successivo a quello di scadenza dell’ultima rata del piano di rateazione per le somme dovute a seguito degli inadempimenti di cui all’articolo 15-ter›› 

Come appare evidente, la norma in analisi prevede precisi termini decadenziali per poter effettuare la notifica dell’atto esattoriale, pena l’impossibilità per l’Erario di pretendere gli importi in danno del contribuente, il quale davanti ad una tardiva notifica della cartella esattoriale ha comunque l’onere di eccepire tale questione all’interno del proprio reclamo/ricorso. 

Per completezza pare opportuno evidenziare che l’operatività applicativa dell’art. 25 citato, è stata estesa anche all’IVA, stante il fatto che il D.P.R. n. 602/73 ha ad oggetto le imposte sui redditi. 

In sostanza, il D. Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, ha introdotto il riordino della disciplina della riscossione mediante ruolo, cosicché i crediti esattoriali tributari aventi ad oggetto imposte sui redditi ed IVA devono essere notificati – attraverso lo strumento della cartella esattoriale – in determinati periodi, pena la decadenza. 

Francesco Sanna, Avvocato

Con la sentenza n. 257/21, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge della Regione Sardegna 13 luglio 2020, n. 21, recante “Norme di interpretazione autentica del Piano paesaggistico regionale”, il cosiddetto “P.P.R.”, attraverso il quale la Regione aveva dato avvio ad iniziative unilaterali in ordine alla pianificazione del territorio sardo, interessandosi in particolare al tratto costiero dell’asse viario Sassari-Alghero ritenuto di preminente interesse per lo sviluppo economico dell’isola. 

La vicenda prende le mosse dal ricorso promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri che, appunto, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1 della predetta Legge, eccependo che le iniziative assunte dalla Regione Sardegna – oltre a violare il principio di leale collaborazione tra Stato e Regione – eccederebbero «l’ambito della competenza statutaria della Regione autonoma della Sardegna» e contrasterebbero con gli artt. 3, 9, 117, commi primo – quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU)-, e secondo, lettera s), della Costituzione.  

Secondo l’Avvocatura Generale dello Stato, quindi, l’interpretazione data dalla Regione Sardegna sarebbe contrastante con il principio della leale collaborazione, che deve permeare i rapporti con lo Stato, e per di più potrebbe in concreto causare un allargamento delle maglie dei vincoli urbanistici e paesaggistici, consentendo edificazioni e incrementi volumetrici con grave danno per il territorio. 

Cos’è il Piano Paesaggistico?

Prima di esaminare più accuratamente la vicenda, è opportuno fare chiarezza sul Piano Paesaggistico Regionale. 

Ebbene, sul sito della Regione Sardegna (clicca il link per un approfondimento:sardegnaterritorio.it) si legge che il P.P.R. nasce per la difesa dell’ambiente e del territorio e consiste in un moderno quadro legislativo che guida e coordina la pianificazione e lo sviluppo sostenibile dell’isola partendo dalle sue coste.  

Nello specifico, il P.P.R. persegue il fine di preservare, tutelare, valorizzare e tramandare alle generazioni future l’identità ambientale, storica, culturale e insediativa del territorio sardo; proteggere e tutelare il paesaggio culturale e naturale e la relativa biodiversità; assicurare la salvaguardia del territorio e promuoverne forme di sviluppo sostenibile al fine di conservarne e migliorarne le qualità.Avv. Viola Zuddas, Civilista

Affinché ciò avvenga nel modo migliore possibile, è imposta la pianificazione congiunta tra Regione e Ministero della cultura (“MiC”) per la tutela di alcuni beni ritenuti di interesse storico, culturale, archeologico e paesaggistico: in questo modo si dà attuazione a regole uniformi e condivise con il Governo centrale, sulla scorta del combinato disposto degli artt. 9 e 17 della Costituzione e del Codice dei beni culturali e del paesaggio. 

La posizione del Governo

Per ciò che riguarda la vicenda in oggetto, è bene precisare che l’art. 1, comma 2, della legge reg. Sardegna n. 21 del 2020 si occupa specificamente della disciplina della fascia costiera (considerata bene paesaggistico vincolato), per la cui pianificazione è necessaria una stretta collaborazione tra Stato e Regione che si inserisce in un progetto più ampio di pianificazione congiunta dell’intero territorio sardo. 

Secondo il Governo, la Regione avrebbe travalicato le proprie competenze statutarie, sottraendo unilateralmente alla copianficazione obbligatoria il tratto costiero dell’asse viario Sassari-Alghero che, come noto, riveste un ruolo strategico nel territorio insulare regionale, in quanto è a fortissima vocazione turistica. 

Detto tratto, peraltro, è inserito in un contesto ritenuto di particolare fragilità paesaggistica e dunque rientra tra i beni individuati dal P.P.R. e sottoposti – proprio per la loro natura di “beni paesaggistici” – a tutela individuale e mirata. 

Ebbene, in considerazione delle caratteristiche sopra richiamate, a parere del Governo, la Regione avrebbe anche sconfinato nella competenza legislativa esclusiva dello Stato nella materia della tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, poiché avrebbe inteso disciplinare autonomamente – e, dunque, non in maniera condivisa – la pianificazione dell’asse viario Sassari-Alghero, con un generale abbassamento di tutela che sarebbe stato potenzialmente idoneo ad incidere in maniera significativamente negativa sulle prospettive di sviluppo e turismo davvero sostenibili. 

La posizione della Regione  

La Regione Sardegna, invece, ha respinto le censure mosse dal Governo muovendo da quella che viene definita “interpretazione autentica” della Legge Regionale. 

In particolare, il legislatore regionale ha inteso sottrarre all’obbligo di pianificazione condivisa l’asse viario Sassari-Alghero sul presupposto che, attraverso la realizzazione di quattro corsie nello sviluppo geometrico del lotto n. 1, avrebbe creato «un’infrastruttura determinante per assicurare lo sviluppo sostenibile del territorio», dotata di «carattere strategico» e contraddistinta da «preminente interesse nazionale e regionale». 

Nelle intenzioni della Regione, inoltre, tale infrastruttura sarebbe dovuta essere conforme alle pregresse valutazioni di impatto ambientale e autorizzazioni paesistico-ambientali e, pertanto, non avrebbe arrecato alcun nocumento al territorio. 

Detti motivi, dunque, a parere della Regione sarebbero stati sufficienti per derogare alla disciplina del P.P.R. e per di più, data la loro importanza, le avrebbero consentito di esimersi dal coordinamento con il Governo. 

La decisione della Corte Costituzionale  

La Corte Costituzionale ha accolto il ricorso presentato dal Presidente del Consiglio dei ministri, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge della Regione Sardegna 13 luglio 2020, n. 21. 

A giudizio della Corte, infatti, l’adeguamento unilaterale del P.P.R. da parte della Regione Sardegna è dissonante rispetto al percorso prefigurato dal legislatore statale e originariamente condiviso con la stessa Regione, poiché contravviene al principio di leale collaborazione, il cui rilievo è confermato dallo stesso legislatore nazionale come norma di riforma economico – sociale che vincola l’autonomia speciale.Avv. Viola Zuddas, Civilista

Ricorda, la Corte, che le intese intercorse tra Regione e Stato erano proprio volte ad un’adeguata tutela e valorizzazione del paesaggio, funzionale ad una più ampia ed efficace salvaguardia dell’ambiente che, necessariamente, richiede la copianificazione degli interventi sul territorio soprattutto (ma non solo) quando questi ricadano su beni di interesse paesaggistico e, perciò, vincolati.

Viola Zuddas, Avvocato

Con la Legge regionale n. 17 del 22 novembre 2021, la Giunta regionale sarda ha vietato il prelievo, la raccolta, la detenzione, il trasporto, lo sbarco e la commercializzazione degli esemplari di riccio di mare (cd. Paracentrotus lividus) e dei relativi prodotti derivati freschi, a decorrere dal sessantesimo giorno successivo all’entrata in vigore della disposizione e comunque fino alla data 30 aprile 2024. 

Unitamente al fermo della pesca, la Regione Sardegna ha, altresì, predisposto degli interventi a sostegno dei pescatori subacquei professionali, con uno stanziamento in totale di 2 milioni e 800 mila euro da ripartire nei tre anni. 

È stata ulteriormente prevista anche l’attivazione di un piano di monitoraggio scientifico, di concerto con gli operatori del settore, per valutare gli effetti della chiusura temporanea e l’avvio di attività di recupero ambientale, come la pulizia dei fondali e la rimozione delle attrezzature da pesca. 

Il provvedimento ha suscitato l’immediata reazione delle associazioni dei pescatori professionisti, che comprende circa 200 operatori, tant’è vero che nei giorni scorsi la Commissione Attività Produttive del Consiglio regionale ha valutato l’ipotesi di rinvio del fermo biologico a fine aprile 2022, per consentire la chiusura della stagione di pesca dei ricci di mare e, al contempo, la predisposizione di un adeguato piano di indennizzi destinati agli operatori del settore.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Vi è chi sostiene che l’efficacia di un provvedimento così rigoroso, che colpisce direttamente i pescatori professionisti, potrebbe essere vanificata in mancanza di adeguati controlli contro l’abusivismo ed, altresì, che sussiste la necessità di garantire l’effettivo e soprattutto tempestivo sostegno economico ai lavoratori.  

Peraltro, tra le ipotesi sul tavolo, vi è anche quella di impiegare i pescatori colpiti dalla drastica misura nelle attività alternative di recupero ambientale, come ad esempio quella della rimozione della plastica in mare, al fine di garantire gli indennizzi in tempi rapidi, ma, com’è ovvio, si tratta di attività per le quali occorre una programmazione strutturata.  

Sulla base di tali presupposti, nella tarda serata di ieri, il Consiglio regionale ha accolto le richieste degli operatori del settore è ha deciso per il rinvio del blocco della pesca al prossimo 15 aprile, confermando al contempo il fermo triennale, che viene, dunque, prorogato al 30 aprile 2025.   

Ad ogni modo, per comprendere meglio la questione, è necessario partire dalla finalità che ha determinato l’introduzione del fermo triennale. 

La Legge regionale n. 17 del 22 novembre 2021

Il provvedimento, approvato dalla Giunta regionale su proposta dell’assessore all’agricoltura Gabriella Murgia, si è reso necessario per consentire il ripopolamento della specie, messa a rischio dal massiccio prelievo effettuato negli ultimi anni e dallo sovrasfruttamento della risorsa che, qualora venisse perpetrato, potrebbe condurre all’estinzione commerciale della specie.  

Nel mondo, ogni anno, si consumano circa 75 mila tonnellate di ricci di mare e, solo in Italia, circa 2 mila tonnellate, provenienti principalmente da Puglia, Sicilia e Sardegna, ma proprio in quest’ultima regione il rischio di estinzione risulta particolarmente elevato.  

I ricci di mare, infatti, svolgono un ruolo importante tanto nel mantenimento dell’ecosistema marino quanto nel settore commerciale, ragion per cui, da un lato, occorre garantire la sopravvivenza degli stessi e, dall’altro lato, evitare una proliferazione incontrollata che potrebbe ridurre la biodiversità nelle zone interessate. 

Si tratta, quindi, di individuare un punto di equilibrio tra le esigenze degli operatori del settore -che devono far fronte a una richiesta sempre maggiore da parte del consumatore- e la necessità di tutelare l’ambiente.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

Per tali ragioni, proprio in Sardegna, già da molti anni si è cercato di intervenire per arrestare il collasso della specie, attraverso l’introduzione del cd. fermo biologico, che comporta il divieto di pesca, vendita e consumo dei ricci di mare dal mese di maggio fino a giugno, ovvero durante il periodo di riproduzione. 

Il fermo temporaneo è accompagnato da una precisa regolamentazione dell’attività, nonché dei requisiti per il suo corretto svolgimento, sennonché la predetta misura non è stata sufficiente a ridurre il rischio di estinzione e ha reso inevitabile l’adozione del fermo triennale. 

Le violazioni della normativa vigente comportano l’applicazione di sanzioni sia di natura penale che amministrativa.   

Fermo biologico e pesca illegale 

Con l’espressione “pesca illegale” si intende la pesca esercitata senza il possesso di licenza o autorizzazione valide, nonché in violazione delle norme previste a livello internazionale, nazionale e regionale, come ad esempio la pesca praticata in zone dove è imposto il divieto, oppure con l’utilizzo di attrezzi non conformi e, altresì, quando non si rispetta il periodo di fermo pesca stabilito. 

Come si immagina, tale attività illecita determina delle ripercussioni pesantissime sull’ecosistema e cagiona un grave danno economico e biologico, in quanto genera delle distorsioni nel mercato legale e provoca il depauperamento degli stock ittici, con la distruzione degli habitat marini e la conseguente perdita della biodiversità.   

Dunque, al fine di tutelare le risorse biologiche il cui ambiente abituale o naturale di vita sono le acque marine, nonché di prevenire, scoraggiare ed eliminare la pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata, l’art. 7, co. 1, del D. Lvo. 19 gennaio 2012, n. 4, individua una vasta gamma di attività considerate illeciti penali e, pertanto, punite con l’arresto e la multa.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

In particolare, nel successivo art. 8, co. 1 e 2, del menzionato Decreto, viene sanzionato chi cattura specie di cui è vietata la pesca, utilizza materiale esplosivo, cattura e trasporta pesci storditi e uccisi con metodi vietati o pesca in acque di altri Stati, con la pena dell’arresto da 2 mesi a 2 anni e la multa fino a 12 mila euro. 

Inoltre, costituisce reato anche la sottrazione del pescato da altre attività di pesca, l’esercizio della pesca in spregio delle distanze stabilite dalla normativa vigente e, altresì, la detenzione, il trasporto e il commercio del raccolto ottenuto illegalmente, tutte condotte punite, a seguito di querela di parte, con l’arresto da 1 mese a 1 anno e la multa fino a 6 mila euro. 

Vi è poi l’applicazione di pene accessorie, come la confisca del pescato e dell’attrezzatura utilizzata per la pesca, nonché la sospensione o la revoca della licenza e la sospensione dell’esercizio commerciale. 

Al di fuori dalle ipotesi in cui la condotta costituisca reato, il D. Lvo n. 4/2012 prevede, inoltre, degli illeciti amministrativi, tra i quali rientra, per espressa previsione nell’art. 10, co. 1, lett. d), anche l’attività di pesca di stock ittici per i quali la pesca è sospesa ai fini del ripopolamento per la ricostituzione degli stessi.  

Tale condotta comporta nei confronti del trasgressore il pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria da un importo minimo di 2 mila euro ad un massimo di 12 mila euro. 

Claudia Piroddu, Avvocato

Superbonus: lo strumento green per la ripartenza economica

Nel mio precedente Focus (clicca qui per leggerlo: Le caratteristiche principali del superbonus 110) ho chiarito quali siano le caratteristiche principali del Superbonus110%, ovvero l’agevolazione statale – introdotta dal Governo Conte – che permette di detrarre tutte le spese affrontate per lavori di efficientamento energetico con un’aliquota del 110%. 

Si tratta, come evidente, di uno strumento finalizzato a rilanciare rapidamente il comparto dell’edilizia poiché rappresenta per tutte le figure coinvolte nel processo edilizio (dal committente ai progettisti, dagli impresari agli istituti di credito) un’ottima opportunità per eseguire, a costi contenuti, degli specifici interventi sugli immobili. 

Questo strumento, però, non è stato attuato solo per consentire la ripresa dell’economia ma, anche, per rispondere alle importanti sfide climatiche ed ambientali previste per il settore civile dal Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima.Carlo Murtas, Architetto

Difatti, secondo quanto sostenuto dal Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri On. Riccardo Fraccaro (clicca qui per il suo intervento completo: https://www.governo.it/it/articolo/superbonus-la-chiave-la-ripartenza-green/15950) non è più possibile immaginare una crescita economica fondata sull’abuso e lo spreco di risorse e quindi, in concreto, non sostenibile. 

Per questo motivo, il Governo Conte ha introdotto lo strumento del Superbonus 110% con il quale far fronte alle necessità economico – produttive del Paese nel rispetto delle esigenze di sostenibilità non più differibili. 

Ma in che modo il Superbonus 110% può essere considerato uno strumento green? 

Il Superbonus 110% è stato definito “la chiave della ripartenza green del Paese” perché, attraverso la previsione della detrazione con aliquota del 110%, incentiva l’esecuzione di interventi di riqualificazione energetica e sismica di edifici residenziali. 

Relativamente a questi è stato precisato da diverse circolari dell’Agenzia delle Entrate che, considerata l’assenza di specifiche indicazioni normative, si deve ritenere che la categoria degli interventi di riqualificazione energetica comprenda qualsiasi intervento, o insieme sistematico di interventi, che incida in positivo sulla prestazione energetica. 

In sostanza, quindi, è richiesto che venga realizzata la maggior efficienza energetica prevista dalla norma che, semplificando, si traduce nella riduzione di almeno due classi energetiche rispetto alla situazione ante intervento. 

La classe energetica di un determinato appartamento o edificio è attribuita in base all’indice di prestazione energetica calcolato valutando l’energia totale consumata dall’edificio climatizzato secondo i servizi energetici presenti e per il tipo di immobile, per metro quadro di superficie ogni anno, considerando un utilizzo.Carlo Murtas, Architetto

In questo calcolo, dunque, viene tenuto in debita considerazione il flusso energetico dell’immobile, il cui bilancio deve essere attentamente valutato sia in termini di apporto (ovvero, quanta energia è necessaria per un normale utilizzo) che in termini di dispersione (ovvero, quanta energia si disperde con il normale utilizzo). 

La dichiarazione dell’insieme dei fattori positivi e negativi, indicati attraverso valori predefiniti in base a parametri fissi o variabili, è contenuta all’interno del cosiddetto documento A.P.E., ovvero l’Attestato di Prestazione Energetica 

Maggiore è la classe attribuita ad un immobile, migliore è l’efficienza energetica dello stesso e questo certifica un impatto più contenuto sull’ambiente poiché, semplificando, per garantire determinate prestazioni si consuma di meno.   

Il miglioramento energetico dev’essere poi dimostrato dall’A.P.E., predisposto ante e post intervento, rilasciato da un tecnico abilitato attraverso una dichiarazione asseverata. 

L’asseverazione deve certificare la corretta esecuzione dei lavori, il rispetto dei requisiti tecnici, dei massimali di spesa e la congruità dei costi e può essere eseguita anche a stato avanzamento lavori (cosiddetti “S.A.L.”).  

Successivamente, l’asseverazione dovrà essere inviata ad ENEA in formato telematico entro 90 giorni dal termine dei lavori, o ad ogni S.A.L., che a sua volta rilascia una ricevuta informatica comprensiva di un codice identificativo. 

In conclusione, il Superbonus 110% è davvero uno strumento green utile per la ripartenza economica perché, attraverso la previsione di importanti incentivi e sgravi fiscali – tra l’altro prorogati dalla Legge di Bilancio 2022 – promuove degli interventi più sostenibili per l’ambiente. 

Carlo Murtas, Architetto

Sono laureato in architettura delle costruzioni ed esercito la professione di architetto presso Hinternos, il mio studio di Cagliari, in viale Diaz n. 29.

Hinternos è uno studio multidisciplinare di architettura nel quale si affrontano progetti che spaziano dalla piccola scala del design alle ristrutturazioni di interni ed efficientamento energetico degli edifici.

 

Focus di diritto tributario • Avv. Francesco Sanna

Benefici fiscali e riduzioni aliquote IVA negli interventi edilizi

In primo luogo è bene ricordare che nel sistema giuridico italiano esistono differenti aliquote fiscali che si applicano ogniqualvolta si ha un esborso economico per lavori di ristrutturazioni edilizie. A tal proposito, in base alla tipologia di intervento tali aliquote variano. 

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Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

Abusi edilizi e Superbonus 110%

Una delle novità più significative e controverse introdotte dal D.L. n. 77/2021, cd. Decreto semplificazioni bis, riguarda la modifica dell’art. 119, co. 13 ter del Decreto Rilancio, in materia di abusi edilizi.

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Focus di diritto civile • Avv. Viola Zuddas

Un anno di Superbonus: primi bilanci e novità

Come abbiamo avuto modo di apprendere dal focus dell’Arch. Carlo Murtas e dalla pillola di diritto pubblicata sui nostri canali social, il Superbonus 110% è uno strumento volto a favorire gli interventi di efficientamento energetico per rilanciare rapidamente il comparto dell’edilizia e rispondere alle importanti sfide climatiche ed ambientali.  

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Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

Superbonus: la strategia green approvata dall’Europa

Come evidenziato dal nostro collaboratore, Arch. Carlo Murtas, il Superbonus 110% può certamente essere considerato uno strumento green utile per la ripartenza economica del Paese perché, attraverso la previsione di importanti incentivi e sgravi fiscali, promuove degli interventi più sostenibili per l’ambiente.

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