Come è noto, l’Isola di Lampedusa è stata, ancora una volta, al centro della scena mediatica a seguito degli sbarchi, avvenuti tra l’11 e il 13 settembre scorso, di circa settemila persone provenienti per lo più da Nigeria, Sierra Leone, Sudan, Ciad, Tunisia, Guinea e Camerun.  

Si tratta, forse, di uno dei più impattanti episodi di immigrazione irregolare che, per riportare le parole del Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi “pone in questi giorni il Paese e l’intera Europa di fronte a una sfida difficilissima”.  

In questo breve contributo si intende affrontare una problematica giuridica inerente all’evento degli sbarchi irregolari e spesso ignorata a fronte di questioni di natura meramente politica: i diritti dei migranti, da una parte, e gli obblighi delle autorità preposte, dall’altra, in caso di attraversamento irregolare delle frontiere esterne dell’Unione Europea. 

Il diritto dei migranti di essere informati: obbligo di informativa delle autorità

In primo luogo, giunti nelle frontiere di uno Stato membro dell’Unione, è necessario che le Autorità procedano all’identificazione del migrante e richiedente asilo. 

Nella specie, non appena sia presentata una domanda di protezione internazionale ai sensi dell’articolo 20, paragrafo 2, del Regolamento n. 604/2013 in uno Stato membro, le Autorità competenti dello stesso devono informare il richiedente dell’applicazione del presente regolamento. In particolare, le Autorità preposte devono specificare :  

  1. Le finalità del presente regolamento e le conseguenze dell’eventuale presentazione di un’altra domanda in uno Stato membro diverso, nonché le conseguenze dello spostarsi da uno Stato membro a un altro durante le fasi in cui si determina lo Stato membro competente e in cui è esaminata la domanda di protezione internazionale.
  2. I criteri di determinazione dello Stato membro competente. Al riguardo, è fondamentale informare il richiedente della sussistenza di una gerarchia di criteri per la determinazione dello Stato competente nelle varie fasi della procedura e la loro durata. E bene sottolineare, infatti, che non necessariamente lo Stato di primo approdo è quello competente ad esaminare la domanda, potendo questo criterio essere derogato da altri diretti a soddisfare interessi preminenti di natura umanitaria o per ricongiungimento familiare.
  3. Durante il colloquio, il richiedente deve essere informato del diritto di presentare informazioni relative alla presenza di familiari, parenti o persone legate da altri vincoli di parentela negli altri Stati membri. In tali casi, infatti, se un familiare di un richiedente ha presentato in uno Stato membro una domanda di protezione internazionale sulla quale non è ancora stata adottata una prima decisione di merito, l’esame della domanda di protezione internazionale compete a detto Stato membro, sempre che gli interessati abbiano espresso tale desiderio per iscritto. 
  4. Deve esse inoltre informato della possibilità di impugnare una decisione di trasferimento e, ove possibile, di chiedere la sospensione del trasferimento.
  5. I richiedenti asilo e i migranti fermati alle frontiere esterne devono inoltre fornire le proprie impronte digitali a fini identificativi. Ebbene, la raccolta di tali dati deve essere accompagnata dalla contestuale spiegazione, da parte delle Autorità, dei motivi per i quali si procede alla raccolta dei dati e la durata del trattamento. Del pari, il richiedente deve essere messo al corrente del diritto di accedere ai propri dati, di chiedere che tali dati siano rettificati se inesatti o che siano cancellati se trattati illecitamente, nonché le procedure da seguire per esercitare tali diritti, compresi gli estremi delle autorità di cui all’articolo 35 del sopracitato Regolamento e delle autorità nazionali garanti per la protezione dei dati personali che sono responsabili in merito alla tutela dei dati personali. 

Le impronte verranno poi memorizzate in un database dell’UE «Eurodac» (European Asylum Dactyloscopy,), ossia  un sistema per il confronto delle impronte digitali  che memorizza, tratta e confronta le impronte digitali di richiedenti asilo e migranti fermati alle frontiere esterne. Trattasi di un sistema che ha come fine principale, oltre che monitorare i flussi e gli spostamenti del migrante, quello di contribuire alla determinazione dello Stato membro dell’UE cui spetta il compito di esaminare una richiesta di asilo.  

Come devono essere fornite le informazioni ? 

Come precisato dal Regolamento di Dublino, le informazioni devono essere fornite al richiedente per iscritto, in una lingua che il richiedente comprende o che ragionevolmente si suppone a lui comprensibile. A questo fine, le Autorità al momento della raccolta delle impronte digitali, devono fornire un opuscolo contenente le informazioni redatte in un linguaggio chiaro, trasparente e conciso e in un formato facilmente accessibile. Ove necessario per la corretta comprensione del richiedente, le informazioni sono fornite anche oralmente, ad esempio in relazione con il colloquio personale, e in presenza di un interprete nel caso in cui le barriere linguistiche non consentano il facile acceso all’informativa. 

Garanzie Procedurali

Per concludere questa breve disamina sui diritti dei migranti e richiedenti asilo ed annessi obblighi delle Autorità competenti, appare opportuno qui precisare quali ulteriori strumenti sono posti a disposizione del richiedente dal Regolamento di Dublino. 

In particolare, il richiedente deve essere informato che, allorquando lo Stato membro richiesto accetta di prendere o riprendere in carico un richiedente, lo Stato membro richiedente notifica all’interessato la decisione di trasferirlo verso lo Stato membro competente e, se del caso, di non esaminare la sua domanda di protezione internazionale.  

In tali casi, il richiedente deve sapere che, laddove egli sia rappresentato da un avvocato o un altro consulente legale, gli Stati membri possono scegliere di notificare la decisione a tale avvocato o consulente legale invece che all’interessato e, se del caso, comunicare la decisione all’interessato. Tale decisione, deve contenere informazioni sui mezzi di impugnazione disponibili, compreso quello sul diritto di chiedere l’effetto sospensivo, ove applicabile, e sui termini per esperirli e sui termini relativi all’esecuzione del trasferimento e contiene, se necessario, le informazioni relative al luogo e alla data in cui l’interessato deve presentarsi, nel caso in cui si rechi nello Stato membro competente con i propri mezzi.  

Qualora invece l’interessato non sia assistito o rappresentato da un avvocato o da un altro consulente legale, gli Stati membri lo informano dei principali elementi della decisione e mezzi di impugnazione disponibili e dei termini per esperirli, in una lingua che il richiedente capisce o che è ragionevole supporre possa capire. 

Avvocato Eleonora Pintus

Si sa, la scelta del fotografo è uno degli aspetti più importanti legati all’organizzazione del matrimonio perché avere un bel servizio fotografico, unico e personalizzato, consente agli sposi di ricordare nel tempo le emozioni vissute nel loro giorno speciale. 

Per questo motivo, la scelta del fotografo avviene sempre con grande cura e con diversi mesi d’anticipo in modo tale da poter concordare, per tempo, non solo lo stile fotografico da dare al reportage del matrimonio ma, anche, il budget da destinarvi. 

Quest’ultimo, infatti, può variare in relazione alla complessità del servizio fotografico ed alle prestazioni ulteriori che gli sposi possono eventualmente scegliere per immortalare i momenti più importanti della giornata. 

Ma cosa accade se il fotografo, dopo aver immortalato ogni dettaglio della preparazione degli sposi, della cerimonia e della festa, non consegna loro il servizio fotografico? 

La risposta a questo interrogativo ci viene fornita dalla Corte di Cassazione che, pronunciatasi in numerosi casi simili a quello descritto, ha chiarito che gli sposi hanno diritto al risarcimento del danno patrimoniale derivato dall’inadempimento del fotografo. 

Difatti, quest’ultimo e gli sposi sono legati da un contratto in forza del quale, a fronte del pagamento del corrispettivo concordato, il fotografo deve consegnare alla coppia il reportage fotografico ed ogni altro servizio che abbiano in precedenza concordato.  

Ebbene, è evidente che la mancata consegna delle fotografie del matrimonio rappresenta un grave inadempimento da parte del fotografo poiché è venuta meno la sua prestazione principale scaturita dal contratto. 

Per tale motivo, gli sposi hanno diritto ad ottenere il risarcimento del danno di natura economico – patrimoniale ingiustamente patito, rappresentato dalla somma corrisposta in favore del fotografo, il quale, non avendo adempiuto alle proprie obbligazioni, sarà tenuto a restituire quanto percepito. 

Ma gli sposi hanno diritto ad ottenere anche il risarcimento del danno non patrimoniale, cioè di quel danno rappresentato da un pregiudizio che non ha carattere economico ma incide su altri aspetti comunque rilevanti che attengono alla sfera personale del singolo?

Per rispondere a questo interrogativo, bisogna anzitutto chiarire che la mancata consegna del servizio fotografico incide negativamente sulla sfera personale degli sposi, poiché impedisce loro di rivivere nel tempo le emozioni del matrimonio attraverso il reportage e gli eventuali altri servizi concordati in precedenza con il fotografo. 

D’altronde, il matrimonio è un evento non ripetibile che riveste notevole rilevanza per la coppia e, pertanto, la mancata consegna delle foto del matrimonio potrebbe costituire effettivamente una lesione di grave importanza di quello che viene spesso definito come “il diritto alla memoria” o “al ricordo”, che rappresenta una componente del diritto all’identità personale riconosciuto dall’art. 2 Cost.

Ma questo pregiudizio potrebbe addirittura essere qualificato giuridicamente come danno morale ed esistenziale, meritevole di risarcimento?

La Corte di Cassazione, pur non negando l’importanza che le nozze rivestono per gli sposi, ha risposto negativamente alla predetta domanda ed ha chiarito che il danno subito può sì creare dei turbamenti d’animo ma non assurge ad una gravità tale da incidere su interessi di rango costituzionale, giuridicamente tutelati. 

Deve, infatti, escludersi che il diritto di ricordare il giorno del proprio matrimonio attraverso il servizio fotografico costituisca, di per sé, un diritto fondamentale della persona costituzionalmente riconosciuto e, pertanto, la sua violazione non è fonte di un obbligo risarcitorio in relazione al profilo non patrimoniale. 

Sul punto, è utile precisare che il danno non patrimoniale è risarcibile solo quando sia stato leso in modo grave un diritto della persona tutelato dalla Costituzione o qualora ricorrano i casi espressamente previsti dalla legge. 

Nello specifico, e semplificando, devono sussistere i seguenti presupposti:  

  • l’interesse leso deve avere importanza costituzionale, ovvero deve trovare ingresso direttamente o indirettamente nella Costituzione, la quale ne impone apposita tutela, 
  • il danno non deve essere futile, ovvero non deve arrecare semplici disagi o fastidi, i quali non assurgono al rango di diritti giuridicamente rilevanti, 
  • la lesione dell’interesse deve essere grave, ovvero l’offesa deve superare una soglia minima di tollerabilità. 

Caratteristiche, quelle appena indicate, che non sussistono nell’ipotesi analizzata poiché è pur vero che il giorno delle nozze è sicuramente molto importante per gli sposi e la mancata consegna del servizio fotografico può comprensibilmente causare un turbamento d’animo negli stessi; tuttavia, il danno lamentato non presenta una gravità tale da incidere su interessi di rango costituzionale poiché il dritto a ricordare il giorno del matrimonio mediante il servizio fotografico non costituisce, di per sé, un diritto fondamentale della persona. 

Per tale motivo, gli sposi hanno diritto ad ottenere il risarcimento del danno economico – patrimoniale ingiustamente patito ma non anche quello di natura non patrimoniale poiché il pregiudizio sofferto non assurge a danno morale o esistenziale, costituzionalmente rilevante.

Avvocato Viola Zuddas

Gli acronimi DOP e IGP rappresentano l’eccellenza della produzione agroalimentare italiana ed europea e sono gli strumenti principali attraverso i quali viene tutelata la qualità dei prodotti e la garanzia di appartenenza degli stessi ad un determinato territorio. 

I prodotti italiani con marchio DOP e IGP sono numerosi, come ad esempio Grana Padano, Prosciutto di Parma, Pecorino Sardo, l’Agnello di Sardegna, Mortadella di Bologna, Bresaola della Valtellina e tanti altri. 

Inoltre, in Italia sono presenti 341 vini DOC e 78 vini DOCG, con il Piemonte a fare da capolista con ben sessanta etichette di prestigio, ma anche la Toscana, il Veneto, la Lombardia, la Puglia e la Sardegna, che vanta ben 19 vini di Denominazione di Origine controllata.  

È proprio la combinazione di fattori umani ed ambientali che conferiscono al prodotto proveniente da una specifica zona geografica delle caratteristiche uniche. 

All’evidenza, il prestigio di un prodotto dipende dalla garanzia della qualità dello stesso e dalla convinzione del consumatore che i prodotti sul mercato con denominazione protetta siano autentici. 

La materia è disciplinata al livello comunitario dal Regolamento n. 1151/2012 che definisce i requisiti, le caratteristiche e gli standard qualitativi del prodotto alimentare o agricolo, con la specifica finalità di garantire la tutela sia della reputazione e dei profitti di agricoltori e produttori e sia per fornire ai consumatori informazioni chiare e precise sui prodotti presenti sul mercato.Avv. Claudia Piroddu, Penalista

Dunque, cosa si intende con le sigle DOP e IGP e quali sono le principali differenze? 

La sigla DOP, ovvero Denominazione di Origine Protetta (contraddistinta dal bollino giallo-rosso) indica un prodotto proveniente da un determinato ambiente geografico, inteso come l’insieme dei fattori naturali e delle tecniche di produzione che lo contraddistinguono.  

È necessario, però, che le fasi di produzione, trasformazione, elaborazione e confezionamento del prodotto avvengano all’interno di una specifica zona geografica, individuata nel disciplinare di produzione. 

Con la sigla IGP, ovvero Indicazione Geografica Protetta (identificata dal bollino giallo-blu) vengono indicati i prodotti le cui caratteristiche dipendono dall’area geografica di origine, tuttavia, è sufficiente che una sola delle fasi di produzione, trasformazione ed elaborazione si svolgano nell’area geografica di riferimento. 

Vi sono ulteriori riconoscimenti europei, come ad esempio il marchio STG, ovvero Specialità Tradizionale Garantita, che indica i prodotti ottenuti mediante una ricetta tipica o con metodo di produzione tradizionale, ma senza vincolo di appartenenza ad un determinato territorio. 

Inoltre, per quanto riguarda le denominazioni enologiche, si distinguono:  

  • la sigla IGT, ovvero Indicazione Geografica Tipica, che indica i vini le cui uve provengono per almeno l’85% da una determinata area non necessariamente ristretta;  
  • la sigla DOC, ovvero Denominazione di Origine Controllata, prevede requisiti più stringenti, sia in termini di produzione che di caratteristiche chimico-fisiche e sensoriali;  
  • infine, la sigla DOCG, ovvero Denominazione di Origine Controllata Garantita, indica i vini che, essendo stati per almeno 10 anni tra i DOC, acquistano maggiore prestigio e sono sottoposti ad un controllo accurato prima della messa in commercio, che si ripete anche nella fase di imbottigliamento, demandato ad un’apposita commissione. 
La tutela comunitaria

Come anticipato, ai prodotti con marchio DOP e IGP è riconosciuta ampia tutela dinnanzi a numerose condotte illecite, comprese nell’art. 13 del Reg. n. 1151/2012, come, ad esempio, l’utilizzo commerciale del marchio registrato per indicare prodotti diversi, la contraffazione del nome registrato, l’uso di indicazioni che possano trarre in inganno il consumatore sull’origine e le qualità di un prodotto ed ancora le condotte di evocazione che inducono in errore il consumatore sulle caratteristiche del prodotto. 

A tale specifico riguardo, la Corte di Giustizia, con la sentenza del 9 settembre 2021, causa C-783/19 (caso Champanillo), ha chiarito l’ambito di applicazione dell’art. 103 del Reg. UE n. 1308/2013 e riconosciuto la protezione dei prodotti a marchio DOP e IGP di fronte a comportamenti che possono creare nella mente del consumatore medio un nesso fuorviante tra la denominazione contestata e il marchio registrato. 

Nella sentenza richiamata la Corte aveva affrontato il caso della catena spagnola di tapas bar denominata “Champanillo”, contrapposta al Comité Interprofessionnel du Vin de Champagne che chiedeva di vietare l’utilizzo del termine “Champanillo” in quanto costituiva una chiara violazione della DOP “Champagne”. 

La Corte ha accolto le richieste del Comité sul presupposto che il Reg. n. 1308/2013 tutela i prodotti a marchio DOP da tutte le pratiche che sfruttano la notorietà associata ad essi, sia con riferimento ad altri prodotti che ai servizi. 

In particolare, è stata precisata la nozione di evocazione, da intendersi come l’utilizzo indebito in ambito commerciale di un segno che incorpori anche in maniera parziale il marchio DOP, sia che si tratti di un’affinità fonetica o visiva della Denominazione di Origine Protetta o, altresì, di una vicinanza concettuale con la stessa. 

In altre parole, per connotare la condotta come illecita non occorre che si tratti di prodotti identici o simili a quello protetto, ma è necessario che sussista un nesso diretto ed univoco tra il termine e/o segno utilizzato per commercializzare il prodotto o il servizio e la DOP o IGP, tale da ingenerare confusione nel consumatore.  

La normativa italiana

In ambito nazionale, le disposizioni comunitarie in materia di DOP e IGP sono disciplinate dal D. Lvo n. 297/2004, che, in caso di violazioni, prevede sanzioni amministrative pecuniarie, nonché la sanzione dell’inibizione all’utilizzo della denominazione protetta. 

Nel codice penale, invece, è prevista la fattispecie specifica di cui all’art. 517 quater c.p., rubricata “Contraffazione di indicazioni geografiche o denominazioni di origine dei prodotti alimentari” che punisce la contraffazione, ovvero sia la falsificazione del marchio DOP e IGP, sia in caso di violazione del disciplinare di produzione di un determinato prodotto agroalimentare, con la reclusione fino a 2 anni e la multa fino a 20 mila euro, nonché l’introduzione nel territorio dello Stato, la detenzione per la vendita e la vendita o comunque la messa in circolazione dei medesimi prodotti contraffatti. 

Inoltre, è prevista la distinta ipotesi di cui al precedente art. 517 c.p., che punisce la vendita di prodotti industriali mendaci, ovvero con nomi, marchi o segni distintivi nazionali o esteri atti a indurre in inganno il compratore sull’origine, provenienza o qualità dell’opera o del prodotto. 

Infine, sono previste due ulteriori fattispecie disciplinate rispettivamente negli artt. 473 e 474 c.p. che puniscono la contraffazione, l’alterazione o l’utilizzo di marchi o segni distintivi con la reclusione da 6 mesi a 3 anni e la multa fino a 25 mila euro, nonché l’introduzione nello Stato e il commercio di prodotti con segni falsi, con la reclusione da 1 a 4 anni e con la multa fino a 35 mila euro.   

 

Avv. Claudia Piroddu

 

 

La Legge di riforma del processo tributario n. 130/2022, ha introdotto la figura del giudice monocratico, a cui è affidata la competenza delle liti, instaurate con ricorsi notificati dopo il 01.01.2023, di “scarsa” importanza economica. 

Con l’art. 40, comma 2, D. L. n. 13/2023, la materia in esame ha subito un ulteriore cambiando, ampliando il valore delle vertenze demandate alla competenza del giudice monocratico.

Pare evidente che tra le più significative novità introdotte dalla riforma del processo tributario, vi sia quella che devolute alla Corte di Giustizia Tributaria in composizione monocratica i procedimenti di modico valoreAvv. Francesco Sanna, Tributarista

Sul punto il testo normativo recita quanto appresso: “Le corti di giustizia tributaria di primo grado decidono in composizione monocratica le controversie di valore fino a 3.000 euro. Sono escluse le controversie di valore indeterminabile. Per valore della lite si intende quello determinato ai sensi dell’articolo 12, comma 2. Si tiene conto anche dell’imposta virtuale calcolata a seguito delle rettifiche di perdita. Nel procedimento davanti alla corte di giustizia tributaria di primo grado in composizione monocratica si osservano, in quanto applicabili e ove non derogate dal presente decreto, le disposizioni ivi contenute relative ai giudizi in composizione collegiale”. 

Successivamente, come detto, il D.L. n. 13/2023 ha alzato la soglia del valore della lite di competenza del giudice monocratico, portandola ad € 5.000,00. 

È bene rammentare che tale disposizione entrerà in vigore per tutti quei ricorsi che verranno notificati a partire dal 01.07.2023. 

Ma come si determina il valore di una lite tributaria?

Ai fini della determinazione del valore della lite, il comma 2, art. 4 bis D. Lgs. n. 546/92 rinvia all’art. 12, comma 2 del medesimo decreto a mente del quale: “… Per valore della lite si intende l’importo del tributo al netto degli interessi e delle eventuali sanzioni irrogate con l’atto impugnato; in caso di controversie relative esclusivamente alle irrogazioni di sanzioni, il valore è costituito dalla somma di queste”.
(sul punto ved. Circolare A.E. n. 9/E del 2012)
 

Ancora, qualora un atto si riferisca a più tributi (es. Irpef, Irap, ecc.) il valore della causa deve essere calcolato con riferimento alla somma delle imposte che costituiscono oggetto di ricorso da parte del contribuente. 

Venendo agli aspetti più processuali della riforma de qua, si evidenza come l’art. 4 bis, comma 3, del D. Lgs. n. 546/1992 stabilisca che nel giudizio in composizione monocratica, si debbano osservare le disposizioni relative ai giudizi in composizione collegiale. Ad ogni buon conto tale regola subisce delle deroghe con riferimento alla discussione delle udienze monocratiche in quanto, ai sensi dell’art. 16, comma 4, del D. L. n. 119/2018, le udienze tenute dalla Corte di Giustizia Tributaria di Primo grado in composizione monocratica devono essere svolte esclusivamente a distanza. 

Giudizio nanti il giudice monocratico

Dalla lettura del citato art. 4 bis, pare evidente la che il legislatore voglia nella sostanza equiparare il giudizio monocratico a quello davanti al giudice in composizione collegiale. Ne discende, dunque, che, così come previsto per il giudizio in composizione collegiale, anche per il giudizio in composizione monocratica, non vige l’obbligatorietà dell’assistenza tecnica per le controversie di valore non superiore ad € 3.000,00. 

Deroga alla sostanziale equiparazione tra i due giudizi risiede nella previsione della trattazione pubblica dell’udienza nanti il giudice monocratico esclusivamente a distanza, salvo espressa richiesta delle parti per comprovate ragioni. (collegamento audiovisivo che garantisca effettiva e reciproca visibilità alle parti).

Alla luce di quanto sopra e della normativa di riferimento le udienze tenute dal giudice monocratico devono essere svolte, per i ricorsi notificati dal 1° settembre 2023, esclusivamente a distanza, fatta salva la possibilità per ciascuna delle parti di richiedere nel ricorso, nel primo atto difensivo o nell’atto di appello, per comprovate ragioni, la partecipazione congiunta all’udienza del difensore, dell’ufficio e dei giudici presso la sede della Corte di Giustizia Tributaria. 

Stante la vigenza delle medesime regole tra il processo celebrato davanti al giudice monocratico e quello davanti al collegio, la disciplina dell’appello sarà la stessa. 

Così, la pronuncia dell’organo monocratico può essere appellata, al pari di quella adottata dal collegio, dinanzi la competente Corte di Giustizia Tributaria di Secondo grado in composizione collegiale. 

In conclusione, l’aver attribuito al giudice monocratico tale area di competenza di fatto permetterà – almeno questa è la ratio della riforma e la speranza del legislatore – di avere una maggiore efficienza del processo tributario, deflazionando il contenzioso delle Corti di Giustizia Tributaria le quali non verranno più investite delle controversie di modico valore. 

Avvocato Francesco Sanna

Con il decreto-legge 30 marzo 2023 n. 34 è stata prevista, per il secondo trimestre dell’anno 2023, la rideterminazione da parte dell’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente delle agevolazioni riguardo le tariffe per la fornitura di energia elettrica riferite alle utenze domestiche intestate a clienti economicamente svantaggiati e a quelli che si trovano in gravi condizioni di salute. 

Il decreto in parola ha, altresì, stabilito l’applicazione dell’aliquota IVA al 5% riferita alla somministrazione di gas metano destinato alla combustione per usi civili ed industriali contabilizzate nei mesi di aprile, maggio e giugno. 

Anche l’Europa si è mossa al fine di aiutare i cittadini UE, approvando il piano europeo pluriennale denominato REPowerEU. 

Ad ogni modo, in attesa dell’adozione di misure concrete da parte dell’Europa, la bozza del decreto prevede anche che nel periodo compreso tra ottobre e dicembre 2023 venga riconosciuto un contributo, erogato in quota fissa e differenziato in base alle zone climatiche, ai clienti domestici qualora la media dei prezzi giornalieri del gas naturale superi una soglia in via di definizione di euro/MWh. 

Per quanto concerne gli aiuti previsti in favore delle imprese per l’acquisto di energia elettrica e gas naturale fino al 30 giugno 2023 si è optato per il riconoscimento di un contributo straordinario sotto forma di credito di imposta. 

Chi beneficerà di tale contributo?
  • Le imprese a forte consumo di energia elettrica che devono far fronte ad un aumento del prezzo del kWh, riferito al secondo trimestre 2023, superiore al 30% rispetto al medesimo periodo dell’anno 2019. 
  • Le imprese dotate di contatori di energia elettrica di potenza pari o superiore a 4,5 kW, i cui costi per kWh della spesa sostenuta per la componente energetica nel secondo trimestre dell’anno 2023 abbiano subito un incremento del costo per kWh superiore al 30% del corrispondente prezzo medio riferito al medesimo trimestre dell’anno 2019. 
  • Le imprese a forte consumo di gas naturale nel caso in cui il prezzo di riferimento del gas abbia subito un incremento superiore al 30% del corrispondente prezzo medio riferito al medesimo trimestre dell’anno 2019.  
  • I crediti d’imposta, i quali non concorrono alla formazione del reddito d’impresa e della base imponibile, sono utilizzabili esclusivamente in compensazione entro la data del 31 dicembre 2023. 

    Ancora, i crediti d’imposta sono cumulabili con altre agevolazioni che abbiano ad oggetto i medesimi costi e sono cedibili ad altri soggetti, i quali a loro volta possono effettuare solo due cessioni in favore di banche e intermediari finanziari ovvero di imprese di assicurazione autorizzate ad operare in Italia ai sensi del codice delle assicurazioni private. 

    Infine, sempre nell’ottica di far fronte al caro energia, è stato istituito il contributo di solidarietà temporaneo relativo all’anno 2023. 

    Il contributo è rivolto ai soggetti che esercitano in Italia attività di produzione di energia elettrica o gas metano, di estrazione di gas naturale, di rivendita di energia elettrica, gas metano e gas naturale, di produzione, distribuzione e commercio di prodotti petroliferi, nonché di importazione di tali beni o di introduzione in Italia degli stessi, provenienti da altri Stati dell’Unione europea per la loro successiva rivendita. 

    La circolare 4/2023 evidenzia che la misura in analisi corrisponde al contributo temporaneo istituito dalla Ue con il regolamento UE 2022/1854 la cui finalità è di “attenuare gli effetti economici diretti dell’impennata dei prezzi dell’energia sui bilanci delle autorità pubbliche, sui clienti finali e sulle imprese in tutta l’Unione”. Nello specifico, si tratta di uno strumento che genera entrate supplementari a favore delle autorità nazionali per prestare sostegno finanziario alle famiglie e alle imprese pesantemente colpite dall’impennata dei prezzi dell’energia, garantendo condizioni di parità in tutta l’Unione. 

    Tale strumento prevede che le riserve del patrimonio netto accantonate in sospensione d’imposta o vincolate a copertura delle eccedenze dedotte nel limite del 30%, antecedenti al periodo d’imposta del 1° gennaio 2022, non concorreranno alla determinazione del reddito complessivo relativo al periodo di imposta a quello in corso al primo gennaio 2023. 

    Avv. Francesco Sanna

    La disciplina in materia di stupefacenti è contenuta nel D.P.R. n. 309/90, che nell’art. 73, co. 1, punisce chiunque “coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope”, tra quelle compiutamente elencate in un’apposita tabella.     

    Come si evidenzia dalla mera lettura della norma, ciò che consente di attribuire rilevanza penale alle molteplici condotte elencate riguarda proprio la necessaria individuazione della tipologia di sostanza, oggetto materiale dell’attività posta in essere. 

    Tra l’altro, ai fini della sussistenza del reato e dello stesso giudizio penale, ad assumere rilievo non è soltanto, come detto, la classificazione della sostanza, ma altresì anche la quantità della stessa, quale elemento decisivo per stabilire la maggiore o minore “gravità” della condotta contestata.  

    Ne consegue che, qualora nel corso dell’attività di indagine, pur a fronte dello svolgimento di attività di intercettazione telefonica o ambientale, la sostanza stupefacente oggetto della presunta attività di cessione e/o traffico illecito non venga rinvenuta da parte degli inquirenti, risulta particolarmente difficile l’accertamento della responsabilità penale in capo all’autore delle predette condotte.   

    Per descrivere tutti i casi in cui gli indizi a carico del soggetto consistono nelle sole conversazioni intercettate –peraltro, sovente caratterizzate dall’utilizzo di linguaggio criptico, dalle quali può solo ipotizzarsi il coinvolgimento in una delle attività menzionate nel Testo Unico in materia di stupefacenti- senza che, tuttavia, venga sequestrata alcuna sostanza stupefacente, viene comunemente utilizzata l’espressione “droga parlata”.Avv. Claudia Piroddu, Penalista

    Si tratta, quindi, di fattispecie in cui, pur in presenza di numerose conversazioni intercettate, non vi siano in concreto riscontri con riferimento al sequestro dello stupefacente, all’identificazione degli acquirenti finali, alle eventuali testimonianze, ai luoghi in cui viene detenuta la sostanza, ai trasporti della stessa, nonché in merito alle somme oggetto di transazione (si veda Cass. pen., sent. n. 11655/2015). 

    Sotto il profilo probatorio, tali ipotesi sono accomunate dalla medesima problematica, ovvero: è possibile giungere all’affermazione della penale responsabilità per il reato di cessione di stupefacenti solo sulla base delle mere intercettazioni telefoniche, in cui, per giunta, non si fa nemmeno un chiaro riferimento alla compravendita dello stupefacente? 

    In ottica difensiva, la problematica non è certo di poco conto, anche alla luce del fatto che nei processi di cd. “droga parlata”, il linguaggio utilizzato nelle conversazioni oggetto di captazione è spesso poco chiaro, ambiguo e difficilmente decifrabile, al punto tale da lasciare notevole spazio per una ricostruzione alternativa delle vicende oggetto di imputazione.    

    Invero, spesso gli interlocutori non menzionano mai lo stupefacente, ma utilizzano altre espressioni (ad esempio, si parla di “formaggio”, “torte”, “olio”, “fiori”, “piastrelle” etc.), così pure non vi è una chiara indicazione dei quantitativi ceduti o acquistati e, talvolta, nemmeno del prezzo. 

    Pertanto, al fine di dirimere la questione, si è delineato un orientamento giurisprudenziale piuttosto rigoroso in tema di valutazione della prova, laddove non è ammessa alcuna motivazione del dato probatorio che risulti “sbrigativa” (si veda Cass. pen., sent. n. 38341/2020), poiché la valutazione delle dichiarazioni emerse nel corso dell’attività di intercettazione deve connotarsi da un “rigore logico-argomentativo assoluto, assistito da un alto grado di credibilità razionale” (si veda Cass. pen., sent. n. 15616/2021).  

    Le soluzioni prospettate

    Con la recente sentenza n. 32426 del 2022, la Corte di Cassazione ha affrontato proprio il caso di un soggetto che ha intrattenuto per un certo periodo di tempo diversi colloqui telefonici, volti alla consegna di beni -mai espressamente indicati, sia nella tipologia, che nel quantitativo- con altro soggetto affiliato ad un’organizzazione dedita al traffico internazionale di eroina. 

    In base a quanto detto finora, non vi è alcun dubbio che tale fattispecie, laddove l’attività di indagine non è culminata con il sequestro dello stupefacente asseritamente oggetto di compravendita, rientra appieno nell’ambito della cd. “droga parlata”. 

    Nel caso di specie, sia il giudice di primo grado che la Corte di Appello sono giunti all’affermazione della penale responsabilità dell’imputato a titolo di concorso nella cessione di diversi e imprecisati quantitativi di eroina e altro stupefacente. 

    Nel confermare la sentenza impugnata, la Corte di Cassazione ha dato risalto a due elementi, ovvero: 

    1. il tenore volutamente criptico delle conversazioni captate, nella misura in cui, qualora si trattasse di una normale compravendita di merce lecita, non vi sarebbe alcun motivo per utilizzare un linguaggio ambiguo;
    2. i rapporti personali tra l’imputato e l’interlocutore, quale soggetto appartenente ad un’associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacente, peraltro, già giudicato per altri reati sempre in materia di stupefacenti.

    Prendendo le mosse dal caso concretamente analizzato, giova sottolineare che per poter ritenere un soggetto responsabile di un reato è necessario che le prove raccolte nel giudizio consentano di dimostrare, al di là del ragionevole dubbio, la partecipazione del medesimo al traffico dello stupefacente.  

    In altri termini, sotto il profilo logico, è necessario che gli elementi indiziari complessivamente valutati, nel rispetto dei criteri indicati nell’art. 192 c.p.p. (gravità, precisione e concordanza), conducano ad escludere qualsiasi lettura alternativa e altrettanto credibile dei fatti oggetto di contestazione, rispetto all’ipotesi formulata dalla pubblica accusa (si veda, Cass. pen., sent. n. 50905/2011).Avv. Claudia Piroddu, Penalista

    A tale specifico riguardo e a seconda del caso di volta in volta prospettato, possono essere diversi gli elementi che consentono, anche in assenza di ulteriori riscontri, ma sulla base delle mere intercettazioni telefoniche, di ritenere che un soggetto abbia posto in essere attività di traffico illegale di stupefacenti.  

    In tema di “droga parlata”, infatti, occorre valutare nel complesso il tenore dei dialoghi, specie nel caso in cui, tenuto conto del contesto ambientale e dei rapporti tra gli interlocutori, l’espressione criptica non abbia alcun senso logico nel contesto espressivo in cui viene utilizzata, tale cioè da far ritenere che il termine in uso venga in realtà adoperato per indicare dell’altro. 

    Particolare risalto viene, inoltre, riconosciuto alle modalità della compravendita (prezzo, valore della merce, quantitativo, suddivisione del “carico”) del trasporto, nonché della cura adoperata per eludere eventuali controlli da parte delle forze dell’ordine (si veda, Cass. pen., sent. n. 50995/2013).     

    In conclusione, ogni qual volta all’esito delle indagini e, nella specie tenuto conto del tenore delle conversazioni intercettate, persista l’incertezza sulla tipologia, sulla quantità e qualità della sostanza o, più genericamente, della “merce” oggetto di scambio, in mancanza di una motivazione adeguata e rigorosa da parte del giudice, non sarà possibile giungere ad una sentenza di condanna (si veda, Cass. pen., sent. n. 11655/2016).  

    Avv. Claudia Piroddu

     

     

    La cd. “Plastic tax” o tassa sulla plastica monouso è stata introdotta con la Legge di bilancio 2020, commi 634-658, e consiste in un’imposta, già applicata in altri Stati europei, sul consumo dei manufatti in plastica con singolo impiego, denominati con l’acronimo “MACSI”, da attuarsi in seguito all’emanazione delle disposizioni attuative da parte dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli. 

    Nel corso degli anni, l’entrata in vigore della plastic tax –originariamente prevista per il mese di luglio 2020- ha subito diverse proroghe e, in ultimo, la Legge di bilancio 2023 ha disposto l’ulteriore rinvio al 1 gennaio 2024.  

    L’imposta ha una duplice finalità che consiste, da un lato, nel recuperare gettito erariale e dall’altro lato, nel promuovere la riduzione della produzione e del consumo di plastica non riciclabile, nonché del conseguente impatto ambientale.  

    Infatti, prima ancora di individuare i prodotti e i soggetti ai quali risulta applicabile l’imposta, giova sottolineare che l’introduzione di costi aggiuntivi sui beni contenenti materiale plastico non possa non avere impatto anche sul consumatore e, pertanto, sul prezzo finale del prodotto. 

    Sebbene il meccanismo della tassazione che colpisce la produzione abbia la finalità di incentivare un cambiamento dei materiali utilizzati ad es. nel packaging o in generale negli imballaggi, d’altra parte questo non basta, poiché risulta necessario introdurre anche misure volte ad indirizzare i processi di produzione verso materiali riciclabili. 

    Ad ogni modo, con l’introduzione del tributo viene data attuazione alla Direttiva europea del 5 giugno 2019 n. 2019/904/UE che sancisce il divieto di utilizzo di manufatti in plastica (come ad es. posate, piatti, cannucce etc.) e, al contempo, obbliga gli Stati membri ad adottare misure finalizzate a ridurre il consumo di alcuni prodotti in plastica monouso per i quali non esiste alternativa, nonché a monitorare il consumo di tali prodotti e le misure adottate.   

    Fatta questa doverosa premessa, occorre chiarire quali siano i prodotti a cui può essere applicata l’imposta di nuova formulazione.  

    Al fine di delimitare l’ambito di applicazione della Plastic tax, l’art. 1, comma 634 della Legge di bilancio 2020, innanzi tutto, individua e racchiude i prodotti per i quali è previsto il pagamento dell’imposta nell’acronimo “MACSI”.Avv. Claudia Piroddu, Penalista

    In particolare, si parla di manufatti con singolo impiego che hanno o sono destinati ad avere funzione di contenimento, protezione, manipolazione o consegna di merci o prodotti alimentari, purché gli stessi: 

    1. siano realizzati, anche in forma di fogli, pellicole o strisce, con l’impiego, anche parziale, di materie plastiche costituite da polimeri organici di origine sintetica;
    2. non siano ideati, progettati o immessi sul mercato per compiere più trasferimenti durante il loro ciclo di vita o per essere riutilizzati per lo stesso scopo per il quale sono stati ideati.

    Rientrano nella nozione in esame anche i dispositivi realizzati, anche solo in parte, con materie plastiche che consentono la chiusura, la commercializzazione o la presentazione dei medesimi MACSI o di manufatti costituiti con materie diverse dalla plastica, nonché i prodotti semilavorati e le cd. preforme, ovvero i prodotti ottenuti dallo stampaggio di PET destinati ad essere utilizzati come contenitori di bevande o bottiglie. 

    Sono esclusi dall’applicazione dell’imposta i MACSI compostabili, i dispositivi medici e i MACSI adibiti a contenere e proteggere preparati medicinali. 

    Non si può far a meno di notare che si tratti di una definizione in grado di ricomprendere nell’ambito della tassazione un’ampia tipologia di beni, ossia tanto quelli realizzati con un vero e proprio impiego di materie plastiche, quanto quelli realizzati dalla commistione di materiale plastico e materiale di altra natura, come tale non imponibile. 

    Pertanto, stante l’oggettiva difficoltà di fornire una nozione univoca, al fine di individuare con certezza i prodotti destinatari dell’imposta, nell’art. 1, co. 651, della disposizione sopra richiamata, viene stabilito che sia l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli a dover procedere alla concreta identificazione dei MACSI mediante l’indicazione per ciascuna merce dei corrispondenti codici della nomenclatura combinata. 

    L’imposta e le sanzioni

    La Plastic tax è fissata al valore di 0,45 euro per ogni chilogrammo venduto di prodotti di plastica monouso o MACSI, tuttavia, è prevista, altresì, una soglia di esenzione dell’imposta, che, pertanto, non sarà applicabile qualora l’importo dovuto sia inferiore o pari a 25 euro, e ciò è frutto di un parziale correttivo alla normativa originaria in cui veniva indicata una soglia inferiore. 

    L’obbligazione tributaria sorge al momento della produzione, dell’importazione definitiva nel territorio nazionale, ovvero dell’introduzione dei predetti beni nel medesimo territorio da altri Paesi UE e diviene esigibile all’atto di immissione in consumo dei MACSI nel territorio italiano. 

    È bene precisare che l’immissione in consumo dei MACSI si verifica all’atto della loro cessione, sia con riferimento alle merci prodotte in Italia e sia a quelle provenienti da Paesi europei o Stati terzi e ciò tanto nel caso in cui l’acquisto sia effettuato nell’esercizio di attività economica, quanto da parte del consumatore privato.  

    Il pagamento dell’imposta è previsto a carico del fabbricante (per i MACSI realizzati nel territorio nazionale), dell’acquirente nell’esercizio di attività economica o del cedente qualora i prodotti siano acquistati dal consumatore privato (per i MACSI provenienti da Paesi UE), dell’importatore (per i MACSI provenienti da Paesi terzi), nonché dei committenti italiani o esteri che cedono i prodotti ad altri soggetti nazionali.Avv. Claudia Piroddu, Penalista

    L’accertamento dell’imposta dovuta viene effettuato sulla base di dichiarazioni trimestrali contenenti tutti gli elementi necessari per determinare il debito d’imposta, presentate dai soggetti obbligati all’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, entro la fine del mese successivo al trimestre cui la dichiarazione di riferisce.      

    È, dunque, la stessa Agenzia delle Dogane e dei Monopoli ad essere tenuta a svolgere attività di accertamento, verifica e controllo dell’imposta, con facoltà di accedere presso di impianti di produzione, nonché la Guardia di Finanza, alla quale è demandato il consueto compito di verificare la regolarità delle dichiarazioni e dei pagamenti effettuati. 

    Quanto alle sanzioni applicabili, la norma distingue alcune ipotesi, ovvero: 

    1. in caso di mancato pagamento è prevista una sanzione amministrativa pari al quintuplo della tassa evasa e in misura comunque non inferiore a 250 euro;
    2. in caso di ritardato pagamento è prevista una sanzione amministrativa corrispondente al 25% dell’imposta dovuta, per un importo non inferiore a 150 euro;
    3. in caso di tardiva presentazione della dichiarazione trimestrale è prevista una sanzione da 250 a 2.500 euro.

    Da ultimo, giova precisare che la norma introduce anche un sistema di incentivi per le imprese. 

    Nella specie, è previsto un credito di imposta per le imprese, attive nel settore delle materie plastiche, che abbiano proceduto all’adeguamento tecnologico della produzione di manufatti biodegradabili e compostabili, secondo gli standard prefissati. 

    Si tratta di un credito di imposta, utilizzabile in compensazione, previsto nella misura del 10% delle spese sostenute per l’adeguamento, fino ad un importo massimo di 20 mila euro per ciascun beneficiario, che dovrà essere indicato nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo di imposta nel corso del quale interviene il provvedimento di concessione e in quelle relative ai periodi di imposta successivi fino a quando se ne conclude l’utilizzo.

    Avv. Claudia Piroddu

     

    Il termine “sharenting” è il frutto dell’unione delle parole “to share” (condividere) e “parenting” (genitorialità) e con esso si fa riferimento al fenomeno, sempre più diffuso, della condivisione sui social di immagini e video che ritraggono minori.

    Difatti, oramai è consuetudine che genitori e parenti condividano sui vari social contenuti raffiguranti soggetti minorenni, anche in tenerissima età, e che di conseguenza quest’ultimi già a pochi mesi dalla nascita abbiano una vera e propria identità digitale.

    Tutto ciò non poteva e non può che essere oggetto di attento studio e analisi da parte dell’antropologia e della pedagogia, nonché del diritto.

    Un recente studio condotto dall’università dell’Indiana ha appurato che il 92% dei bambini e delle bambine che vivono in America già all’età di 2 anni si ritrovano (ovviamente a loro insaputa) ad avere un’identità digitale creata da terzi (solitamente genitori e parenti).Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

    Stante la relativa novità del tema – in questi ultimi anni in continua crescita esponenziale – gli studiosi delle scienze umanistiche non hanno ancora certezze in ordine alla natura, entità e gravità delle possibili ripercussioni che tale fenomeno possa avere sullo sviluppo e sulla crescita dei minori. Tuttavia, tutti sono concordi nel ritenere che il ritrovarsi con una vita “già raccontata” (per giunta da altri, senza esserne coscienti e senza possedere ancora un vero senso del proprio io) è determinante nello sviluppo della personalità e della psiche del soggetto, il quale dovrebbe avere la possibilità/diritto di iniziare a formarsi e farsi conoscere all’esterno in modo autonomo sin dalla nascita fino ad arrivare all’adolescenza e poi all’età della maturità.

    Ancora, si ritiene che – benché ogni caso sia unico e specifico – le conseguenze negative che subirà il bambino saranno tanto maggiori quanto più i contenuti e le immagini, date letteralmente in pasto al mondo sconfinato di internet, saranno percepiti da questo come distanti dalla reale percezione che questi ha di sé.Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

    In buona sostanza, il soggetto potrebbe dover convivere suo malgrado con una “propria” identità creata da altri per lui su internet ed un’altra diversa (quella vera di tutti giorni) che lui vive e sente come propria; il tutto con le conseguenze che ben si possono immaginare dal punto di vista psicologico e di formazione della personalità.

    Il caso affrontato dal Tribunale di Rieti con la sentenza n. 443 del 17 ottobre 2022

    In generale quando si affronta il fenomeno della sovraesposizione è bene rammentare che le questioni giuridiche che vengono sollevate sono diverse e trasversali, spaziando dalla violazione della privacy e della riservatezza dei dati personali, alla tutela dell’immagine del bambino/a, al rischio di creazione di contenuti idonei alla proliferazione di ambienti pedopornografici, alla problematica dello sfruttamento del lavoro minorile, ecc.

    Le leggi nazionali e sovranazionali tutelano il diritto del minore alla propria immagine e identità, pretendendo che la pubblicazione di foto e video dei minori di 14 anni possa avvenire solo con il consenso di entrambi i genitori, poiché l’attività di diffusione dell’immagine non è ritenuta un atto di ordinaria amministrazione (che può essere quindi compiuto senza confrontarsi con l’altro genitore) ma al contrario necessita del comune accordo.

    Per quanto concerne la diffusione di immagini di persone maggiori di 14 anni è necessario il loro consenso. Tant’è che il tribunale di Chieti (sentenza n. 403/2020) ha formalmente diffidato una coppia di genitori che pubblicavano sui social foto del figlio senza il suo consenso.

    Ma cosa accade se a diffondere le immagini di un minore è un parente diverso dai genitori?

    Nel caso sottoposto all’attenzione del tribunale di Rieti a divulgare fotografie e video su facebook di due bambini era stata la zia.

    Nello specifico, il padre di due gemelli aveva citato in giudizio la cognata perché questa aveva pubblicato svariate immagini dei figli senza il suo consenso e nonostante le sue richieste di non diffondere più alcun contenuto che ritraeva la sua famiglia.

    Difatti, la donna aveva pubblicato un video e ben 52 fotografie dei nipoti, oltre a 7 fotografie del cognato. In quest’ultimo caso le foto erano state pubblicate sia dalla donna che da un suo amico, con tanto di tag che permetteva di risalire all’identità dei soggetti ritratti.Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

    Dopo le lamentele dell’uomo, la donna aveva rimosso le di lui fotografie e il tag ma aveva continuato a pubblicare quelle dei nipoti.

    In particolare, secondo il giudicante la condotta posta in essere dalla zia dei gemelli era ancor più grave perché questa aveva diffuso immagini dei minori da soli, in primo piano e in costume da bagno; il tutto per di più con un profilo impostato in modalità pubblica.

    Quest’ultima circostanza – che rendeva i contenuti visibili a tutti – in aggiunta alla durata dell’esposizione (fotografie caricate online da circa 5 anni) sono state ritenute dai giudici particolarmente gravi, convincendo gli stessi a condannare la signora ad un risarcimento pari a 5mila euro in favore del padre dei bambini.

    La normativa di riferimento posta alla base della decisione de qua è il diritto costituzionalmente garantito all’immagine e alla riservatezza della persona (art. 2 Cost.), che nel caso dei bambini gode di una tutela privilegiata (L. 176/1991 ratifica Convenzione di New York sui diritti del fanciullo), l’articolo 10 del codice civile ed infine il Regolamento Europeo sulla Privacy, il quale dispone che: <<I minori meritano una specifica protezione relativamente ai loro dati personali, in quanto possono essere meno consapevoli dei rischi, delle conseguenze e delle misure di salvaguardia interessate nonché dei loro diritti in relazione al trattamento dei dati personali (…)>>.

    Avv. Francesco Sanna

    Nei giorni scorsi, la giornalista Selvaggia Lucarelli ha condotto un’interessante inchiesta sull’iniziativa promossa da Balocco e dall’imprenditrice Chiara Ferragni che, nelle precedenti settimane, hanno pubblicizzato l’ingresso nel mercato natalizio del pandoro dell’azienda dolciaria griffato Chiara Ferragni. 

    Dalla nota pubblicata sul sito dall’azienda e dal post caricato su instagram dall’imprenditrice parrebbe evincersi che la vendita del pandoro sarebbe finalizzata a sostenere un importante progetto di ricerca condotto dall’ospedale Regina Margherita di Torino e che, quindi, parte del ricavato dovrebbe essere devoluto a favore delle cure terapeutiche per i bambini affetti da osteosarcoma e sarcoma di Ewing. 

    Tuttavia, come riportato da Lucarelli sui propri canali social e su Domani, quotidiano di informazione su cui scrive, quella che è stata presentata come un’iniziativa benefica è, in realtà, un’operazione commerciale slegata dall’intento dichiarato, tant’è che Balocco avrebbe già effettuato una donazione in favore dell’ospedale a prescindere dalla quantità di pandori venduti. 

    Infatti Lucarelli, nell’analizzare la descrizione del post dell’imprenditrice, ha messo in evidenza la presenza – tra gli altri – dell’hasthag “adv” che indica che il contenuto è sponsorizzato, ossia che ha finalità commerciale. 

    Ebbene, al di là del merito della vicenda, è interessante soffermarsi sulle tutele che vengono riconosciute dal nostro ordinamento al follower che nella fruizione di un contenuto veicolato sui social sia destinatario – più o meno consapevole – di un messaggio pubblicitario.Avv. Viola Zuddas, Civilista

    L’hasthag “adv”(che deriva da “advertising”) – insieme a “partnership”,  “ad”, “sponsorizzato”, ecc.- è definito “hasthag della trasparenza”, in quanto chiarisce che il contenuto che si sta visualizzando attraverso una storia o un post è frutto di un accordo commerciale tra l’influencer, il creator o il blogger e un dato brand e che, quindi, la comunicazione ha finalità pubblicitaria. 

    Il fenomeno definito “influencer marketing” con il tempo è cresciuto notevolmente grazie al fatto che, per la pubblicizzazione dei propri prodotti, le aziende che in passato si affidavano soltanto a personaggi famosi hanno deciso di avvalersi anche di persone “comuni”, o con un numero non elevato di followers, perché capaci di creare un rapporto all’apparenza più intimo e “vero” con gli utenti. 

    Questo comporta che i followers spesso non rilevano la natura “commerciale” della comunicazione fatta dagli influencer o dai creator e, quindi, i contenuti da loro pubblicati vengono sostanzialmente percepiti come un “consiglio” derivante dalla loro esperienza personale. 

    Tale distorsione è dovuta dal fatto che gli utenti si imbattono in tantissimi contenuti, caricati quotidianamente nei profili personali degli influencer o dei creator, che danno l’impressione di una narrazione privata del loro quotidiano soprattutto quando siano realizzati con tecniche fotografiche (volutamente?) non “professionali” e siano inseriti, magari, in un contesto definibile “familiare” o percepibile come tale. 

    Come è evidente, si tratta di un fenomeno particolarmente insidioso in quanto, proprio per le modalità con cui avviene la comunicazione ed il rapporto che si instaura, il follower non rileva immediatamente l’intento pubblicitario di un dato contenuto (quindi il suo carattere commerciale) e, pertanto, il suo approccio è scevro da quelle “accortezze” che altrimenti adotterebbe naturalmente.Avv. Viola Zuddas, Civilista

    Quando sussistono questi presupposti ed in assenza di specifiche indicazioni sulla natura “commerciale” del contenuto non vi è dubbio che si configuri una vera e propria pubblicità occulta. 

    Ebbene, sulla scorta di quanto previsto già nel Codice del Consumo sul tema, negli anni scorsi l’Autorità Antitrust (con la collaborazione del Nucleo speciale Antitrust della Guardia di Finanza e sulla spinta dell’Unione Nazionale Consumatori e del Codacons) ha intrapreso un’attività di monitoraggio di alcuni tra i principali influencer e società titolari di marchi prestigiosi, che più di altre si avvalevano della loro collaborazione, inviando delle lettere cosiddette di “moral suasion” per sollecitare la massima trasparenza e chiarezza sull’intento commerciale esistente dietro i post pubblicati. 

    Con il tempo e con la diffusione del fenomeno, l’attività condotta dall’Antitrust si è ampliata e si è rivolta a tutti gli operatori coinvolti a vario titolo (anche ai gestori delle piattaforme social, per intenderci) che sono stati invitati ad adeguare la propria comunicazione ed i contenuti pubblicati alle prescrizioni del Codice del Consumo. 

    L’Autorità ha, dunque, individuato delle regole generali di condotta volte a rendere chiaramente ed immediatamente riconoscibile per gli utenti la finalità promozionale dei contenuti diffusi nei social, attraverso l’inserimento di specifici avvisi (come i cosiddetti “hasthag della trasparenza”) anche qualora il prodotto sponsorizzato sia offerto “gratuitamente” all’influencer o al creator.Avv. Viola Zuddas, Civilista

    A tale ultimo riguardo, infatti, il prodotto non è un semplice regalo ma rientra in un accordo contrattuale più ampio in cui dietro la consegna dello stesso vi è l’impegno, da parte dell’influencer o del creator, di pubblicare un certo numero di contenuti promozionali: in questo caso, quindi, la controprestazione per la pubblicità fatta è rappresentata non dal denaro pagato dall’azienda ma dal bene stesso che l’influencer o il creator ha ricevuto. 

    In parallelo all’attività svolta dall’AGCM deve segnalarsi quella condotta dall’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria (I.A.P.) che tramite la digital chart (confluita nel “Codice di autodisciplina”) ha indicato i parametri per una comunicazione commerciale «onesta, veritiera e corretta» a tutela dei consumatori ed anche della leale concorrenza tra le imprese, cui la stessa Autorità fa spesso riferimento. 

    Tornando, quindi, al caso Balocco – Ferragni, è pur vero che nella descrizione del post pubblicato sul proprio profilo instagram l’imprenditrice abbia inserito l’hasthag “adv”, conformemente alle indicazioni dell’Antitrust; tuttavia, può legittimamente affermarsi che questo non sia stato sufficiente per chiarire agli utenti la natura commerciale dell’iniziativa dal momento che in tantissimi hanno acquistato il pandoro nella convinzione che parte del ricavato sarebbe stato devoluto in beneficenza. 

    Sarà interessante confrontare i dati delle vendite di Balocco di quest’anno con quelli degli anni precedenti per verificare l’impatto dell’accordo commerciale con Ferragni, e poi anche raffrontarli con i numeri registrati dalle altre aziende dolciarie, poiché evidentemente potrebbe altresì porsi un problema in punto di concorrenza nel mercato. 

    In conclusione, questa vicenda testimonia quanto sia necessario ed urgente predisporre un’apposita disciplina capace di regolamentare l’influencer marketing per tutelare anzitutto gli utenti – consumatori da contenuti ingannevoli e, poi, anche per consentire ai brand di operare nel rispetto dei principi della concorrenza nel mercato, e infine anche per le piattaforme stesse che non devono incorrere in responsabilità in ordine ai contenuti pubblicati che siano contrari alle norme vigenti.

    Viola Zuddas, Avvocato

     

    L’art. 600-ter, primo comma, n. 1, c.p., rubricato “Pornografia minorile”, punisce, con la reclusione da 6 a 12 anni, “Chiunque, utilizzando minori di anni diciotto, realizza esibizioni o spettacoli pornografici ovvero produce materiale pornografico”. 

    Dalla semplice lettura della norma, si comprende immediatamente l’illiceità della condotta di chi utilizzi il minore che non abbia compiuto i 14 anni di età o qualora sussista una condizione di costrizione del minore, ovvero di violenza, minaccia o, più in generale, di abuso. 

    In tali casi, infatti, non può esservi alcun dubbio in ordine alla rilevanza penale della realizzazione di immagini o video che abbiano ad oggetto la vita privata sessuale del minore, in quanto, da un lato, si esclude che l’infraquattordicenne abbia raggiunto l’età per esprimere validamente il consenso sessuale e, dall’altro lato, poiché la costrizione implica di per sé l’offesa all’integrità psicofisica del minore. 

    Tuttavia, cosa accade nel caso in cui vengano realizzate delle fotografie o registrazioni video con il consenso del minore ultraquattordicenne e nel contesto di una relazione sentimentale con una persona maggiorenne?  

    In questa ipotesi, infatti, non tutte le condotte assumono rilievo penale, specie laddove le stesse siano il frutto di una libera scelta e sempre che il materiale prodotto sia destinato ad un uso strettamente privato. 

    Per capire la distinzione tra ciò che integra il reato e ciò che, invece, si colloca al di fuori della sfera penale, occorre partire dal concetto di utilizzazione, che costituisce l’elemento fondante e necessario per la configurabilità della fattispecie criminosa. 

    Sul punto sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che, con la sentenza del 9 febbraio 2022, n. 4616, hanno individuato gli elementi costitutivi del reato in esame. 

    L’utilizzazione del minore e il consenso 

    In tema di produzione di materiale pornografico assume rilievo centrale il concetto di utilizzazione del minore, il quale, innanzitutto, consente di escludere la rilevanza penale del materiale autoprodotto dal minore medesimo. 

    Il concetto di utilizzazione, infatti, implica la strumentalizzazione del minore, che diventa un semplice “mezzo” per soddisfare il desiderio sessuale dell’adulto o, in senso più ampio, una qualsiasi utilità. 

    Ne consegue che qualora risulti provata l’utilizzazione del minore, quand’anche vi fosse il consenso del medesimo, lo stesso non può comunque escludere la rilevanza penale della condotta, poiché il consenso deve considerarsi libero e non il risultato della condotta di abuso perpetrata dall’adulto. 

    All’evidenza, quindi, diventa fondamentale individuare una serie di elementi indicatori di una condizione di utilizzazione del minore. 

    A tal fine, le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno enucleato alcuni elementi in grado di viziare il consenso, ovvero: 

    • la posizione di supremazia rivestita dal soggetto agente nei confronti del minore e la conseguente abusività della condotta realizzata; 
    • la dazione o la promessa di denaro in cambio della produzione del materiale pornografico e il conseguente abuso della condizione di svantaggio economico assunta dal minore; 
    • la sussistenza di condotte di violenza, minaccia (anche indiretta e insidiosa) inganno o abuso di autorità, quali modalità per ottenere la produzione del materiale pornografico; 
    • il fine commerciale perseguito; 
    • l’età del minore coinvolto, ossia se risulti inferiore a quella prevista per la valida formulazione del consenso sessuale, nonché il grado di maturità psicofisica raggiunto. 

    Ebbene, il requisito comune a tutte le ipotesi poc’anzi elencate si riscontra nella determinazione di una forma di condizionamento del minore o comunque nella formazione di dinamiche che vedono l’autore della condotta in una posizione di primazia rispetto al minore, il quale, proprio in conseguenza della condotta perpetrata dall’adulto o, più in generale, trovandosi in una delle situazioni rammentate, non è in grado di esprimere validamente il consenso e diventa un mero strumento  assoggettato al volere dell’agente.Avv. Claudia Piroddu, Penalista

    Dunque, fatte queste doverose precisazioni, anche nel caso in cui il minore ultraquattordicenne e l’adulto siano legati da una relazione sentimentale e vi sia il consenso, la rilevanza penale della condotta di produzione di materiale pornografico non è necessariamente esclusa. 

    In questa ipotesi occorre vagliare con maggiore rigore la presenza degli indicatori enunciati poco sopra, al fine di accertare se il consenso possa dirsi prestato validamente e liberamente oppure se risulti il frutto di condizionamenti o pressioni psicologiche più o meno insidiose. 

    Peraltro, giova precisare che il consenso espresso al compimento dell’atto sessuale non implica in via automatica anche quello all’effettuazione di riprese o fotografie dal contenuto pornografico. 

    Invero, affinché il consenso possa dirsi valido è necessario che si estenda anche in relazione all’ulteriore attività di registrazione dell’atto sessuale, nonché alla conservazione delle immagini così ottenute. 

    Avendo, invece, riguardo alla successiva diffusione online del materiale attinente alla sfera sessuale del minore –anche mediante l’invio a terze persone su chat Whatsapp o Telegram-, considerato che il minore non possa mai acconsentire validamente alla messa in circolazione del materiale pornografico prodotto, in quanto egli non ha certamente raggiunto il grado di maturità tale da consentirgli di esprimere una scelta consapevole e ponderata,  la condotta di diffusione del materiale pedopornografico rientra indubbiamente nell’ambito dell’art. 600-ter c.p.

    Tuttavia, la responsabilità del soggetto agente viene meno in caso di eventi imprevedibili e comunque a lui non imputabili, ovvero se egli dimostri di aver adottato tutte le cautele necessarie ed evitare la messa in circolazione del materiale.  


    Claudia Piroddu, Avvocato

     

    Reddito di libertà: una misura a sostegno delle donne vittime di violenza

    La Convenzione di Istanbul (maggio 2011), all’interno della definizione di violenza domestica, insieme alle più conosciute forme di violenza fisica, sessuale e psicologica, inserisce la violenza economica.  

    L’indipendenza economica, infatti, è un aspetto rilevante, anche se spesso poco evidenziato, delle situazioni di subalternità in ambito relazionale e domestico. 

    Nel contesto socio culturale italiano e non solo, le donne molto spesso hanno difficoltà ad individuare la violenza economica come un abuso perché culturalmente è considerato normale che una donna non lavori.Claudio Casti, Operatore Patronato Inac Cagliari

    La marcata differenza nella gestione del denaro all’interno del nucleo familiare spesso va di pari passo con la separazione dei ruoli all’interno dello stesso. Questa separazione a sua volta alimenta un circolo vizioso che rafforza la posizione di subalternità: dalle statistiche redatte grazie ai dati raccolti nei Centri antiviolenza, una donna su tre subisce violenza economica (dati aggiornati al 2021), ma i numeri reali potrebbero essere ben più alti.  

    Il fenomeno non è ben conosciuto e le donne spesso si rivolgono a un centro antiviolenza solo quando la forma di violenza che subiscono si fa più eclatante.  

    Lo sportello Mia Economia di Fondazione Pangea ha stilato un identikit delle vittime di violenza economica. Gli abusi si verificano a tutti i livelli socio-economici, sono vissuti da donne di ogni classe e livello di reddito e riguardano principalmente la fascia d’età tra i 40 e i 60 anni. 

    Lo stato emergenziale del 2020 e il conseguente periodo di lockdown hanno portato maggiormente all’attenzione pubblica i casi limite di violenza di genere all’interno del contesto familiare, mettendo anche in luce situazioni di prevaricazione psicologica ed economica. 

    Le motivazioni che possono spingere a non abbandonare il nucleo familiare e a sopportare i soprusi di un compagno violento sono spesso riconducibili al fatto che lo stesso è l’unico percettore di reddito della famiglia.Claudio Casti, Operatore Patronato Inac Cagliari

    In questo contesto trova finalmente applicazione il D.P.C.M. del 17 dicembre 2020, ex art. 105 – bis del decreto Rilancio 34/2020, che introduce il cosiddetto Reddito di Libertà (Rdl) per le donne vittime di violenza, per cui viene stanziato un fondo di 9 milioni di euro. Ulteriori somme integrative possono essere stanziate dalle singole Regioni/Province autonome ad integrazione di quanto spettante, come indicato dal messaggio INPS 1053 del 7 marzo 2022. 

    Partendo dal presupposto che un primo passo verso l’uscita dalla posizione di subalternità parte dal raggiungimento dell’indipendenza economica, il Reddito di Libertà è volto proprio ad agevolare un percorso di emancipazione delle donne vittime di violenza e in condizione di povertà nonché il sostegno per l’istruzione e la formazione dei figli minori, e opera parallelamente al percorso di emancipazione e autonomia intrapreso presso il Centro antiviolenza.  

    Emerge dalle statistiche dei Centri antiviolenza che una donna su tre che vi si presenta, lo fa con i figli, fatto non marginale che evidenzia l’importanza del supporto offerto dalla misura Rdl.  

    Il contributo economico viene erogato dalle Regioni per tramite dei Comuni, su domanda presso l’Ufficio dei Servizi Sociali e consiste in 400 euro mensili non imponibili, spettanti per un massimo di 12 mensilità.Claudio Casti, Operatore Patronato Inac Cagliari

    Il contributo non è incompatibile con altre prestazioni a sostegno del reddito erogate dall’INPS o eventuale pensione di invalidità, e spetta alle donne cittadine italiane, cittadine della Comunità Europea, o extracomunitarie munite di regolare permesso di soggiorno. Rientrano inoltre tra le beneficiarie le cittadine straniere con status di rifugiate politiche o protezione sussidiaria. 

    Alla domanda andrà allegata la dichiarazione del responsabile legale del Centro antiviolenza che ha preso in carico la vittima di violenza, e la dichiarazione dello stato di bisogno straordinario ed urgente, firmata dal responsabile del Servizio Sociale di riferimento. 

    Claudio Casti, Operatore Patronato Inac Cagliari

    Sono nato a Cagliari nel 1981, dopo gli studi in biologia, dal 2008 ho lavorato al Caf – Cia e al Patronato Inac nelle sedi di Cagliari, San Sperate e Sestu.
    Dal 2014 sono operatore nella sede provinciale del Patronato Inac di Cagliari.
     

     

     

    Focus di diritto civile  • Avv. Francesco Sanna

    Matrimonio forzato e violenza di genere

    La Corte di Cassazione ha stabilito, con l’ordinanza del 20 aprile 2022 n. 12647, che la violenza fisica e psichica esercitate contro una donna per costringerla a convolare a nozze configura una vera e propria fattispecie di violenza di genere. 

    In generale, la violenza in parola rientra tra quelle oggetto di riconoscimento di protezione internazionale e così il matrimonio imposto con la coercizione fisica e psichica consumate nei confronti di una donna, costituisce violenza di genere. 

    Secondo la giurisprudenza del Supremo Collegio – in ossequio a quanto sancito dalla Convenzione di Istanbul – l’obbligo a contrarre matrimonio non si può considerare come fatto di natura privata ma rientra nell’ambito della violenza di genere e qu8ndi meritevole di piena tutela.Avv. Francesco Sanna, Diritto Civile

    Ciò vale anche se la donna in questione è sottoposta a codici di comportamento, come il Codice del Kanun, applicato nelle aree rurali del nord dell’Albania, dove la posizione della donna – ancora oggi purtroppo – è di completa sottomissione all’uomo. 

    I fatti oggetto di causa 

    Una donna albanese, fuggita dall’Albania perché i familiari le volevano imporre il matrimonio con un uomo vent’anni più grande di lei, aveva chiesto il riconoscimento della protezione internazionale e, in particolare, dello status di rifugiata e, in via subordinata, il riconoscimento della protezione sussidiaria e, in via di ulteriore subordine, il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari. 

    La competente commissione territoriale aveva respinto l’istanza e la donna decise di presentare contro questo provvedimento ricorso davanti al Tribunale. 

    In precedenza aveva cercato di opporsi scappando di casa senza successo ed era stata sottoposta a violenze fisiche e psicologiche, oltrechè a minacce da parte del padre che deteneva illegalmente armi da fuoco. 

    La povera ragazza, come ultimo disperato tentativo di sottrarsi al matrimonio forzato, si era rifugiata in un convento di suore che l’avevano aiutata a fuggire in Italia il giorno prima della data fissata per le nozze. 

    Il Tribunale, pur considerando credendo alla versione dei fatti resi dalla donna, suffragati della documentazione prodotta, rigettavano il ricorso. 

    La decisione del Tribunale 

    Secondo i giudici di merito, il Paese di origine della ragazza aveva garantito idonee forme di protezione e il matrimonio imposto non poteva considerarsi alla stessa stregua di una forma di persecuzione, presupposto necessario ai fini del riconoscimento dello status di rifugiata. 

    Ancora, secondo il Tribunale, la protezione sussidiaria poteva essere concessa se si fosse dimostrato che la giovane era sottoposta alla disciplina del Codice del Kanun. 

    Questo codice impone alla donna una posizione di sottomissione rispetto all’uomo, al punto di essere definita come “niente altro che un otre da riempire”.Avv. Francesco Sanna, Diritto Civile

    La soggezione al codice sopra menzionato avrebbe integrato un danno grave che la legge avrebbe potuto e dovuto punire, ma secondo i giudici, nel caso specifico, la ragazza avrebbe potuto ignorare il Codice del Kanun. 

    Ragion per cui il Tribunale aveva rigettato le richieste della giovane donna. 

    L’ordinanza della Corte di Cassazione 

    Di converso la Suprema Corte di Cassazione ha considerato fondato il ricorso della ragazza ritenendo il decreto impugnato affetto da inemendabili errori di diritto. 

    La Corte ha censurato, per quanto qui di interesse, il decreto impugnato laddove definisce il racconto della richiedente asilo come una semplice vicenda endofamiliare di natura privatistica. 

    Sul punto, la giurisprudenza di legittimità (Cass. 12333/2017; Cass. 16172/2021), in casi simili, ha affermato che il matrimonio coartato e la reiterata violenza fisica e psichica integrano una violenza di genere.Avv. Francesco Sanna, Diritto Civile

    I Supremi Giudici hanno ricordato come il matrimonio imposto al quale si sommano atti di violenza fisica e psichica, costituisca un motivo di riconoscimento della protezione internazionale. Difatti. il matrimonio imposto e la violenza fisica e psichica consumata ai danni di una donna integrano una violenza di genere e, come tali, rientrano tra le ipotesi di riconoscimento della protezione internazionale (Cass. 15466/2014, Cass. 25873/2013, Cass. 25463/2016, Cass. 28152/2017). 

    Sempre secondo i Giudici della Cassazione, il Tribunale avrebbe ignorato le norme contenute nella Convenzione di Istanbul del 2011 (ratificata dall’Italia con legge 77/2013) sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica. 

    I giudici di merito, escludendo il riconoscimento della protezione internazionale, hanno sbagliato a considerare decisivo il provvedimento temporaneo assunto dallo Stato di origine della donna, senza valutare il prosieguo della vicenda, vale a dire, la fuga in convento e la partenza per l’Italia il giorno precedente alle nozze.Avv. Francesco Sanna, Diritto Civile

    Hanno sbagliato ad escludere la ricorrente dai soggetti meritevoli di tutela pur ammettendo che era stata privata della libertà di autodeterminarsi, come scegliere se e chi sposare. 

    Alla luce di quanto sopra motivato, la Cassazione ha accolto il ricorso e ha cassato la decisione con rinvio dopo avere considerato le fonti relative alla condizione delle donne in Albania, in particolare, il rapporto annuale 2017/2018 di Amnesty International sull’inadeguatezza delle misure di protezione delle donne dalla violenza domestica. 

    In virtù ed in ossequio alla decisione del Supremo Collegio, il giudice del rinvio dovrà riesaminare i fatti e dare applicazione ai principi di diritto sopra sanciti, al fine di stabilire: 

    “se, in caso di rientro nel Paese di origine, esista la certezza, la probabilità, o anche l’unico rischio, per la richiedente asilo, di subire nuovamente atti di violenza di genere, per aver opposto, nell’esercizio della sua fondamentale libertà di autodeterminazione, un rifiuto ad un matrimonio combinato, subendo, di conseguenza, atti di violenza fisica e psichica.”

     

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    Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

    La violenza economica può integrare il reato di maltrattamenti?

    Prima di esaminare i principali orientamenti giurisprudenziali in tema di maltrattamenti contro i familiari e conviventi, occorre premettere che la violenza domestica e di genere si manifesta attraverso molteplici modalità e, pertanto, non può essere circoscritta esclusivamente alle condotte di violenza fisica, ma vi rientrano anche quei comportamenti finalizzati ad esercitare un controllo sulla vittima, tanto sul piano psicologico, quanto sotto il profilo economico, attraverso la privazione dei mezzi di sussistenza. 

    In particolare, la Convenzione di Istanbul, ratificata con la L. 27 giugno 2013, n. 77, all’art. 3, sancisce il diritto delle donne a vivere libere da qualsiasi forma di violenza e prevaricazione. 

    Sebbene nel codice penale italiano non compaia una vera e propria definizione di “violenza domestica”, la stessa, in linea con quanto stabilito dalla Convenzione poc’anzi menzionata, deve essere intesa come l’insieme dei comportamenti vessatori volti a ledere la dignità della persona, limitandone la sfera di autodeterminazione, fino a ridurla ad essere un mero strumento di soddisfacimento dei bisogni del soggetto maltrattante.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

    A tale riguardo, giova precisare che il reato di maltrattamenti previsto nell’art. 572 c.p. –applicabile sia ai membri del nucleo familiare che alle “famiglie di fatto”, nonché ogni qual volta i soggetti siano legati da rapporti di reciproca assistenza e protezione, ivi compresi i luoghi di lavoro (si veda, Cass. pen., sent. n. 51591/2016)- si caratterizza, sotto il profilo materiale, nel compimento di una serie di atti di violenza fisica e psicologica, reiterati nel tempo. 

    Invero, trattandosi di un reato necessariamente abituale, le condotte devono inserirsi in un contesto unitario, suscettibile di imporre alla vittima un contesto di vita opprimente ed insostenibile. 

    Con riferimento all’elemento psicologico, è richiesto il dolo, che consiste nella volontà dell’autore delle condotte di sottomettere la persona offesa, negandole la libertà e la dignità. 

    Attraverso la norma in esame, quindi, il Legislatore ha voluto introdurre uno strumento di tutela della dignità personale dei componenti della famiglia e della tollerabilità della convivenza tra gli stessi. 

    I comportamenti ascrivibili al delitto di maltrattamenti possono consistere in percosse, lesioni, offese, minacce, umiliazioni, sofferenze morali e violazioni della sfera sessuale della vittima, così da ingenerare una sopraffazione sistematica e da rendere la convivenza particolarmente dolorosa e degradante. 

    Ebbene, la violenza economica subita dal coniuge o dal convivente, all’evidenza, ben può costituire una delle modalità attraverso le quali si esplica il reato di maltrattamenti previsto nel citato art. 572 c.p., essendo una condotta astrattamente idonea ad integrare gli elementi costitutivi del delitto de quo.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

    Sul punto, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18937 del 10 gennaio 2016, ha, tuttavia, ribadito che la privazione delle disponibilità economiche, consistente, ad esempio, nell’impedire alla persona offesa l’uso del bancomat o del conto corrente, nonché nell’impedire alla stessa di essere economicamente indipendente dal soggetto maltrattante o nel concederle, sempre sotto costante controllo, limitate somme di denaro da destinare solamente all’acquisto di beni di prima necessità, è soltanto una delle numerose modalità di maltrattamento previste dalla norma incriminatrice. 

    In altri termini, affinché la cd. violenza economica sia idonea ad integrare il reato di maltrattamenti è necessario che la medesima si configuri come condotta vessatoria e che, quindi, sia inserita all’interno di una cornice abituale di violenza fisica e/o psicologica. 

    Nella specie, giova sottolineare, infatti, che le decisioni aventi ad oggetto la gestione delle spese inerenti il ménage familiare, anche nell’ipotesi in cui non siano pienamente condivise da entrambi i coniugi, non possono di per sé integrare il reato di maltrattamenti, a meno che non costituiscano il frutto di comprovati atti di violenza fisica o di prevaricazione psicologica, suscettibili di provocare un vero e proprio stato di prostrazione psico-fisica della vittima (si veda, Cass. pen., sent. n. 43960/2015). 

    In conclusione, le condotte di privazione delle disponibilità economiche, anche quelle perpetrate in un contesto sociale agiato,  per poter integrare in reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. devono essere inserite in una condotta criminosa più ampia, tali cioè da configurare condotte abituali che ledono la dignità personale di chi le subisce e da rendere scarsamente tollerabile la prosecuzione della convivenza.   

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    Focus di diritto civile • Avv. Viola Zuddas

    La violenza di genere ed i maltrattamenti economici

    La violenza contro le donne rappresenta una violazione dei diritti umani che ha varie e preoccupanti sfaccettature poiché colpisce tantissimi e diversi aspetti della vita di chi la subisce. 

    Come abbiamo avuto modo di analizzare nei precedenti articoli e focus sul tema, ci sono diverse forme di violenza: accanto a quella fisica, che si distingue per l’impiego di forza volta a sopraffare fisicamente una persona attraverso anche botte e percosse, c’è la violenza psicologica che si caratterizza per comportamenti o atteggiamenti idonei ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di un danno ingiusto, consistenti in minacce, insulti, umiliazioni, atti denigratori di vario tipo, ecc. 

    Ad ogni forma di violenza ovviamente sono collegati effetti differenti che incidono -a breve o a lungo termine- su diversi aspetti della vita della persona, come ad esempio sulla salute fisica, mentale e altresì su quella sessuale. 

    La violenza, peraltro, può avere pure risvolti negativi sulla sfera economica perché, come già anticipato, ha diverse sfaccettature e può nascondersi anche dietro azioni dal carattere puramente omissivo che non si ripercuotono sull’integrità psico – fisica della vittima ma, appunto, su aspetti patrimoniali. 

    Questo discorso è tanto più vero quanto è più marcato il divario economico tra i due compagni o tra i due coniugi e, a maggior ragione, nell’ipotesi in cui vi sia una vera e propria dipendenza economica da parte di uno nei confronti dell’altro. 

    Difatti, generalmente le vittime di questo tipo di violenza non hanno fonti di guadagno proprie e per poter far fronte alle spese quotidiane sono costrette a chiedere somme di denaro al compagno / coniuge che le elargisce non senza rimostranze o, nei casi con maggiore conflittualità, oppone addirittura un netto rifiuto. 

    In un simile contesto, dunque, può accadere che il compagno/coniuge economicamente più forte impedisca all’altro di raggiungere la propria indipendenza, magari semplicemente scoraggiando delle scelte di vita, di lavoro o di studio che potrebbero portare un certo grado di soddisfazione anche economica.Avv. Viola Zuddas, Diritto Civile

    Questo può avvenire attraverso una serie di condotte, spesso molto differenti tra loro e quindi difficilmente riconoscibili a prima vista, che però mirano ad impedire all’altro la partecipazione alla gestione delle finanze familiari e, come detto, a privarlo di adeguate risorse economiche. 

    Tra queste le più diffuse, e quindi note, sono: 

    • non fornire alcuna informazione sul conto corrente e negarvi l’accesso,
    • controllo ossessivo delle spese sostenute dall’altro, magari anche dietro presentazione di scontrini e fatture per verificarne gli importi,
    • nessuna elargizione di denaro contante se non nella misura strettamente necessaria per far fronte a delle spese irrinunciabili per la gestione della casa e, comunque, già preventivate e concordate,
    • non fornire alcuna indicazione circa la situazione economico – patrimoniale propria né del nucleo familiare, in maniera tale da tenere all’oscuro l’altro su tutte le questioni economiche concernenti il ménage familiare,
    • ritardo nella corresponsione del denaro per far fronte alle spese necessarie, ecc. 

    Queste sono solo alcune delle condotte che vengono poste in essere e che, assieme ad altri fattori tipici, concorrono ad integrare i cosiddetti “maltrattamenti economici”. 

    Come già detto, si tratta di una forma di violenza che viene esercitata contro una persona dipendente economicamente che spesso è la propria compagna o la propria moglie: pertanto, queste condotte rientrano a pieno titolo nella violenza di genere. 

    Sul punto è importante ricordare che si parla di “violenza di genere” per descrivere tutte quelle forme di violenza che riguardano le persone discriminate in base al sesso e che, in un modo o in un altro, riflettono la disparità di potere e di condizione su cui si fonda il rapporto tra uomo e donna, ed in cui quest’ultima è in posizione subordinata al primo.Avv. Viola Zuddas, Diritto Civile

    Si parla, in sostanza, di struttura o sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale. 

    Ci sono, ovviamente, casi in cui le violenze sono esercitate anche contro gli uomini – e , si badi bene, sono altrettanto esecrabili – però costituiscono una percentuale talmente irrisoria che il fenomeno non è valutato come una fattispecie a sé, tipica e riconoscibile come, al contrario, avviene nei casi di violenza contro le donne o, più nello specifico, di femminicidio. 

    Al riguardo, deve precisarsi che l’aumento dei casi di violenza di genere ha spinto il Legislatore nazionale ad agire sotto un duplice profilo:  

    • da una parte ha inteso reprimere più duramente alcuni delitti: pensiamo, ad esempio, alla Legge sul femminicidio ed al cosiddetto Codice Rosso che prevedono un inasprimento della pena comminata per alcuni delitti come il reato di minaccia, di violenza sessuale e di stalking, 
    • dall’altra, invece, si è concentrato per riconoscere maggiore tutela per le vittime: pensiamo, ad esempio, all’istituzione dei fondi a sostegno delle donne vittime di violenza e degli orfani di crimini domestici non autosufficienti economicamente. 

    Tuttavia, in tema di maltrattamenti economici il Legislatore italiano (disattendendo i principi UE sanciti con la Convenzione di Istanbul) non ha ancora adottato delle misure specifiche che consentano alla donna che ne è vittima di ottenere in tempi rapidi una tutela efficace, giacché disposizioni come quelle previste in tema di maltrattamenti in famiglia richiedono, comunque, che vengano posti in essere anche atti di violenza fisica o di prevaricazione psicologica. 

    Non sempre, però, ciò accade perché i maltrattamenti economici sono espressione subdola della violenza di genere e, tendenzialmente, sono connotati da attività di carattere omissivo che, comunque, non incidono sull’integrità fisica della vittima. 

    In sostanza, dunque, la “sola” violenza economica non è sufficiente per la configurazione di alcuna fattispecie delittuosa e, conseguentemente, per far ottenere tutela alla donna. 

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    Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

    Il Fondo sociale Europeo Plus a tutela delle donne

    Come rilevato dalla recente Proposta di direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’8 marzo 2022 sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza di genere “Per violenza contro le donne si intende una violenza di genere perpetrata nei confronti di una donna in quanto tale o che colpisce per antonomasia le donne”.

    Per violenza, dunque, si intendono tutti gli atti di violenza di genere che provocano o potrebbero provocare danni o qualunque espressione di sofferenze fisiche, sessuali, psicologiche ed anche economiche perpetrate a danno delle donne, ivi compresa la mera minaccia di metterle in pratica Questo tipo di violenza affonda le sue radici nella disparità di genere che, solo a partire dagli anni 90, è stata considerata una forma di discriminazione nei confronti delle donne e una violazione dei diritti umani. Oggi, la violenza di genere nei confronti delle donne è al centro del dibattito politico e oggetto di tutela multilivello, tanto nazionale quanto europeo ed internazionale. 

    In questo contesto, come anche evidenziato nel Focus dell’esperto del mese, “la Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa per la prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul)”, adottata nel 2011 ed entrata in vigore nel 2014, rappresenta il principale strumento giuridico vincolante in vigore per la protezione delle donne vittime di violenza, per la prevenzione delle forme di violenza di genere e violenza domestica.  

    Sebbene a livello Europeo nessuno strumento giuridico si occupa in modo specifico della violenza contro le donne e della violenza domestica, ve ne sono alcuni particolarmente rilevanti che stabiliscono norme generali applicabili anche a questa categoria di vittime di violenza la cui espressione può assumere varie forme. A titolo esemplificativo si può menzionare: la direttiva 2012/29/UE “direttiva sui diritti delle vittime”; le direttiva 2011/99/UE (“direttiva sull’ordine di protezione europeo”) e il regolamento (UE) n. 606/2013 (“regolamento sul riconoscimento reciproco”),che consentono il riconoscimento transfrontaliero degli ordini di protezione emessi a norma del diritto nazionale; la direttiva 2004/80/CE del Consiglio (“direttiva sull’indennizzo”) che consente alle vittime di reati intenzionali violenti di chiedere un risarcimento da parte dello Stato; le “direttive sulla parità di genere” che stabiliscono che le molestie sessuali e a sfondo sessuale sul lavoro sono contrarie al principio della parità di trattamento tra uomini e donne. 

    Le disposizioni vigenti a livello dell’Unione e nazionale si sono rivelate del tutto insufficienti ed inefficaci a combattere e prevenire efficacemente la violenza contro le donne e la violenza domestica. Quest’ultima, in particolare, è un grave problema sociale che, con difficoltà, emerge dal contesto delle mura domestiche ove può manifestarsi in svariate forme tra le quali, come anticipato, oltre che di carattere fisico, sessuale, e psicologico, può declinarsi nelle forme della violenza di tipo economico. Detta condotta, può manifestarsi con comportamenti diretti a limitare o negare l’accesso alle risorse economiche e familiari, o controllare l’utilizzo del denaro, o ancora impedire di avere un lavoro e un’entrata finanziaria personale, al fine di esercitare sulla vittima un controllo indiretto e renderla incapace di esercitare la propria indipendenza e individualità. 

    Al fine di garantire una maggior tutela, l’Unione Europea non solo mira fornire un quadro giuridico generale in grado di combattere efficacemente la violenza contro le donne e la violenza domestica in tutta l’Unione introducendo misure riguardanti la definizione dei reati e delle pene irrogabili, la protezione delle vittime e l’accesso alla giustizia, la prevenzione, il coordinamento e la cooperazione, ma mira a fornire diretta assistenza alle vittime mediante strumenti di assistenza economica e finanziaria che possano aiutarle a raggiungere una dimensione di indipendenza economica. 

    Il Fondo Sociale Europeo Plus

    Tra gli strumenti di più recente attuazione che tiene conto delle esigenze specifiche delle donne non possiamo non richiamare il Fondo sociale europeo Plus. Si tratta di un programma di finanziamento che intende aiutare gli Stati membri non solo ad affrontare l’emergenza causata dalla pandemia di coronavirus, ma soprattutto a ottenere elevati livelli di occupazione e una protezione sociale equa.  

    Il fondo mira a prestare particolare tutela alle donne attraverso il finanziamento di progetti nelle regioni dell’UE per offrire loro nuove opportunità attraverso l’accesso a finanziamenti, l’assistenza personalizzata o la consulenza per aiutarle ad avviare un’impresa.  

    Il 25 agosto la Commissione ha approvato il nuovo il Programma Regionale del Fondo Sociale Europeo Plus per il periodo di programmazione comunitaria 2021-2027 seguito, a livello regionale, dall’approvazione del “PR FSE+ Sardegna” che ha consentito alla Regione Sardegna di ottenere una dote finanziaria notevole, di 744 milioni di euro. Si tratta di uno strumento fondamentale per raggiungere in Sardegna migliori condizioni in termini di occupazione, istruzione, formazione e politiche sociali che consentirà di migliorare la condizione occupazionale di migliaia di disoccupati sardi, e soprattutto di giovani e donne, attraverso il potenziamento dell’offerta formativa e dei servizi sociali per le fasce più fragili e vulnerabili.

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    L’articolo 9 della Costituzione, per ciò che qui interessa, prescrive che la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica e, altresì, tutela il paesaggio ed il patrimonio storico ed artistico della Nazione. 

    Affinché lo Stato, gli enti territoriali e gli enti pubblici riescano nel loro compito, il Legislatore ha messo loro a disposizione una serie di norme che garantiscono la libera formazione della cultura in tutte le sue manifestazioni. 

    Vi è, infatti, un complesso di prescrizioni che attribuiscono autonomia alle strutture che si dedicano alla crescita del patrimonio culturale in quanto espressione delle tradizioni, dei costumi, della civiltà dei popoli e, in sostanza, perché ne rappresentano la memoria storica. 

    Tra queste strutture, ovviamente, non possono non menzionarsi i musei. 

    Come si legge nel Decreto ministeriale MiBACT del 23 dicembre 2014 recante “Organizzazione e funzionamento dei musei statali”, i  musei sono istituzioni permanenti, senza scopo di lucro, al servizio della società e del suo sviluppo. 

    Essi, dunque, rivestono un ruolo fondamentale per la collettività poiché custodiscono il suo patrimonio culturale promuovendone la conoscenza presso il pubblico e la comunità scientifica, e ne condividono valori e peculiarità con il resto del mondo, consentendo di comprendere il tessuto socio – culturale di atri Paesi. 

    Tutto questo è possibile anche grazie al fatto che i musei assicurano la pubblica fruizione delle opere che custodiscono, garantendo l’accessibilità e promuovendo l’inclusione. 

    L’importanza dei musei è stata indirettamente e distopicamente riconosciuta anche da diverse associazioni ambientaliste che hanno deciso di eseguire delle azioni dimostrative di resistenza civile imbrattando delle famosissime opere d’arte per attirare l’attenzione sulla crisi climatica.Avv. Viola Zuddas, Civilista

    In particolare, alcuni attivisti di Just Stop Oil e Letzte Generation hanno preso di mira opere come “I Girasoli” di Van Gogh, una delle versioni dei “Covoni” di Monet, “La Ragazza col turbante” (anche conosciuta come “Ragazza con l’orecchino di perla”) di Jan Vermeercon, con delle performance che hanno sollevato tantissime polemiche in quanto, almeno in apparenza, hanno messo in pericolo le opere stesse. 

    In realtà tutti i quadri erano protetti da un vetro che fortunatamente ne ha preservato l’integrità. 

    Ma cosa accade in Italia se un’opera d’arte viene danneggiata?

    Il Legislatore italiano ha inteso riformare le disposizioni penali a tutela del patrimonio culturale, che si trovano oggi contenute prevalentemente nel Codice dei beni culturali (cioè, il d.lgs. n. 42 del 2004), inserendole nel codice penale per dotare l’ordinamento di una disciplina più razionale ed organica. 

    A tal fine, il 3 marzo 2022 è stata approvata la L.22/2022 recante “Disposizioni in materia di reati contro il patrimonio culturale”, che si pone in continuità con la Convenzione europea di Nicosia, ratificata dall’Italia il 12 gennaio 2022. 

    L’obiettivo dichiarato è, quindi, quello di tutelare, conformemente al disposto dell’articolo 9 della Costituzione, il patrimonio culturale, storico ed artistico mediante: 

    • la previsione di nuove fattispecie di reato per reprimere condotte criminose contro beni di rilevanza costituzionale, 
    • l’inasprimento delle sanzioni previste per i reati già tipizzati, attuando al contempo quindi anche la finalità deterrente e general preventiva dell’impianto normativo.Avv. Viola Zuddas, Civilista

    Per ciò che qui è di interesse, è stato introdotto l’art. 518 duodecies c.p., rubricato “Distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o paesaggistici” che ai primi due commi prescrive: «Chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende in tutto o in parte inservibili o non fruibili beni culturali o paesaggistici propri o altrui è punito con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da euro 2.500 a euro 15.000. 

    Chiunque, fuori dei casi di cui al primo comma, deturpa o imbratta beni culturali o paesaggistici propri o altrui, ovvero destina beni culturali a un uso incompatibile con il loro carattere storico o artistico ovvero pregiudizievole per la loro conservazione o integrità, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 1.500 a euro 10.000.» 

    Nell’ultimo comma si precisa che la sospensione condizionale della pena è subordinata al ripristino dello stato dei luoghi o all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato ovvero alla prestazione di attività non retribuita a favore della collettività per un tempo determinato, comunque non superiore alla durata della pena sospesa, secondo le modalità indicate dal giudice nella sentenza di condanna. 

    Si tratta di una norma molto più severa e ampia rispetto al dettato dell’art. 733 c.p., rubricato “Danneggiamento al patrimonio archeologico, storico o artistico nazionale”, che prescrive l’arresto fino a un anno o con l’ammenda non inferiore a euro 2.065 in caso di distruzione, deterioramento o danneggiamento di un monumento o un’altra cosa propria se l’autore è a conoscenza del rilevante pregio e se dal fatto deriva un nocumento al patrimonio archeologico, storico, o artistico nazionale. 

    L’intento del Legislatore è, quindi, chiarissimo: l’inasprimento delle norme penali è necessario e funzionale ad attuare la tutela del patrimonio artistico e storico della Nazione che rappresenta uno dei principi fondamentali del nostro Paese, come prescritto dall’art. 9 Cost.Avv. Viola Zuddas, Civilista

    D’altronde, quando si parla del patrimonio artistico e storico si fa riferimento a tutto quel complesso di beni pubblici e privati che testimoniano le origini e l’evolversi della civiltà italiana e che, dunque, sono legati alla nostra identità culturale. 

    I musei, nello specifico, rivestono un ruolo fondamentale nella salvaguardia e diffusione della cultura e, pertanto, ormai ci si deve aspettare che vengano impiegati come strumento di protesta civile per veicolare la diffusione di messaggi particolarmente importanti, come quelli legati ai cambiamenti climatici: ciò che conta, però, è che il tutto avvenga nel pieno rispetto delle opere che vi sono custodite, di chi le ha create e di chi vuole usufruirne.

    Viola Zuddas, Avvocato

     

     

    Domotica e sicurezza nelle abitazioni 

    La domotica è la disciplina che ha come fine quello di controllare, gestire e automatizzare tutti gli aspetti di una abitazione attraverso l’uso della tecnologia. 

    Lo smartphone, il tablet e gli assistenti vocali diventano i mezzi e l’estensione di un controllo costante sempre a portata di mano. 

    La sicurezza tramite video sorveglianza è un settore di grande rilevanza della domotica odierna che, grazie alla presenza di numerosi dispositivi sul mercato, permette di controllare e interagire con la propria abitazione grazie ad internet, 24 ore al giorno, ovunque ci si trovi nel mondo. 

    Le telecamere disponibili all’acquisto hanno qualità visive ad altissima definizione e funzionano egregiamente tramite wireless. Filippo Camboni, Ingegnere

    In esterno le telecamere lavorano in sinergia con sensori ad infrarosso per la visione notturna: potenti luci led si accendono quando i sensori di movimento rilevano qualcuno o qualcosa, registrando un evento in sviluppo davanti all’abitazione. 

    All’interno hanno sistemi ad infrarosso migliorati e la capacità di seguire gli spostamenti e “vedere” cosa succede ad ampio raggio. 

    Il video in sé può contenere svariate informazioni personali e/o riguardanti terze persone, chiamati “metadati”: ad esempio i volti sono identificati non solo passivamente ma, anche, con il riconoscimento dell’identità della persona; le targhe automobilistiche sono lette e non solo video-registrate; la traccia audio con informazioni sensibili è aggiunta al video grazie ai microfoni integrati nei dispositivi; infine, compaiono gli orari di un dato avvenimento.Filippo Camboni, Ingegnere

    Ma cosa accade se nel monitorare un’area privata si registrano anche immagini riguardanti ambienti comuni aperti al pubblico?

    È sicuramente interessante analizzare il caso in cui il monitoraggio di un’area privata comporti l’acquisizione di video e/o immagini di parti comuni di passaggio di uno stabile, come nel caso di un posto auto privato in un cortile comune, aperto al pubblico, dove può transitare chiunque. 

    Anzitutto, deve chiarirsi che, nel caso in cui venga rilevato il passaggio di una persona viene immediatamente trasmessa una notifica all’utente che può effettuare un controllo istantaneo accedendo alle immagini ed ai video acquisiti: questi possono essere salvati sia in locale sul proprio smartphone, sia sul cloud. 

    Il cloud è uno spazio apposito, digitale, gestito dalle grandi compagnie informatiche dove vengono immagazzinati tutti i dati e le informazioni che, quindi, sono conservati ed utilizzabili dall’utente in qualunque momento.Filippo Camboni, Ingegnere

    Il tempo di archiviazione e la disponibilità di spazio sono pressoché infiniti finché si acquista spazio sul cloud 

    Tuttavia, la gestione del materiale digitale è definita da chi effettua la registrazione e dalle normative in vigore, che verranno trattate negli articoli degli avvocati di ForJus. 

    In parallelo, anche le misure di sicurezza digitale si sono evolute con il crescere della tecnologia dei dispositivi. 

    I produttori delle telecamere forniscono all’utente un dominio dedicato, il cui accesso alla visione “live” e delle registrazioni è reso possibile tramite delle credenziali personali. 

    Devono essere scelti dall’utente un “nome” e una “password”, preferibilmente robusti, ovvero complicati, e non banali. 

    Inoltre, si aggiunge la verifica in due passaggi, cioè un ulteriore livello di sicurezza che prevede che, nonostante l’inserimento dei dati di autenticazione sia corretto, venga inviato un codice univoco al numero di cellulare per confermare l’accesso e completare la procedura.Filippo Camboni, Ingegnere

    Altresì, le grandi aziende informatiche propongono delle sicurezze ulteriori, da sommarsi a quelle dei produttori dei dispositivi, con dei servizi “Secure Video” il cui utilizzo permette una crittografia end-to-end, in cui i dati ai due estremi server-utente sono criptati e, dunque, non si può accedere come intermediari malevoli intercettandone i contenuti. 

    Oltre a quanto già detto, è sempre raccomandato scegliere anche le password del sistema wi-fi solide ed effettuare sempre gli aggiornamenti dei sistemi in modo da chiudere falle informatiche per rendere più difficile possibile attingere ai dati personali. 

    Filippo Camboni, Ingegnere meccanico

    Ho conseguito la laurea in Ingegneria Meccanica con una prova finale sullo studio e validità di nuove applicazioni biomediche sulle protesi d’anca. 
    In seguito con una votazione di 110/110 e Lode ho concluso la Laurea Magistrale in ingegneria Meccanica con particolare riferimento alla parte Gestionale e alla Progettazione meccanica.  

    In collaborazione con Sardegna Ricerche ho portato avanti un progetto di sviluppo sulla valorizzazione di prodotti tipici sardi, realizzando dei dispositivi robotici per la raccolta e mondatura automatizzata dello zafferano. 
    Inoltre ho aiutato per diversi anni nella didattica universitaria collaborando nel corso di Meccanica applicata alle Macchine svolgendo lezioni e assistenza.
    In aggiunta, seguendo la passione per lo sport, che ho praticato da sempre provando varie discipline, ho ottenuto la certificazione di istruttore fitness riconosciuta dal CONI.

    Dopo aver maturato varie esperienze nel settore dell’informatica ho scelto di approfondire il settore delle nuove tecnologie, con particolare attenzione allo studio della domotica, specialmente
    wireless, con dispostivi innovativi di facile installazione. 

    Il proposito è quello di gestire e controllare il dispendio termico degli edifici, migliorare il consumo energetico e utilizzare recenti impianti sulla sicurezza delle abitazioni.

    Da qui l’idea di creare Smart Haus, un riferimento chiaro sulle possibilità attuali della domotica wireless
    Lo scopo è mostrare attraverso spiegazioni mirate e video illustrativi come funzionano i dispositivi domotici e i loro possibili utilizzi e automazioni. 

    Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Francesco Sanna

    Glossario sul GDPR

    Il tema oggetto del focus di questo mese presenta vari punti di contatto con la disciplina riguardante il diritto alla privacy, nonché l’utilizzo, la conservazione e la sicurezza dei dati che vengono acquisiti per mezzo delle tecnologie oramai di utilizzo comune nei vari contesti sociali.
    Ciò premesso, pare utile fornire un glossario sui termini utilizzati nel regolamento sulla protezione dei dati (GDPR) n. 2016/67, in materia di trattamento dei dati personali e di
    privacy.

    • «dato personale»: qualsiasi informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile («interessato»). Si considera identificabile la persona fisica che può essere identificata, direttamente o indirettamente, con particolare riferimento ad un dato identificativo come il nome, un numero di identificazione, dati relativi all’ubicazione, un identificativo online o a uno o più elementi caratteristici della sua identità fisica, genetica, psichica, economica, culturale o sociale; 
    •  «trattamento»: qualsiasi operazione o insieme di operazioni, compiute con o senza l’ausilio di processi automatizzati e applicate a dati personali o insiemi di dati personali, come la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la strutturazione, la conservazione, l’adattamento o la modifica, l’estrazione, la consultazione, l’uso, la comunicazione mediante trasmissione, diffusione o qualsiasi altra forma di messa a disposizione, il raffronto o l’interconnessione, la limitazione, la cancellazione o la distruzione; 
    • «limitazione di trattamento»: il contrassegno dei dati personali conservati con l’obiettivo di limitarne il trattamento in futuro; 
    • «profilazione»: qualsiasi forma di trattamento automatizzato di dati personali consistente nell’utilizzo di tali dati utile per la valutazione di aspetti personali relativi a una persona fisica, in particolare per analizzare o prevedere aspetti riguardanti il rendimento professionale, la situazione economica, la salute, le preferenze personali, gli interessi, l’affidabilità, il comportamento, l’ubicazione o gli spostamenti di detta persona fisica; 
    • «pseudonimizzazione»: il trattamento dei dati personali in una forma che impedisca l’identificazione dell’utente, a condizione che le informazioni aggiuntive siano conservate separatamente e soggette a misure tecniche e organizzative intese a garantire che tali dati personali non siano attribuiti ad una persona fisica identificata o identificabile; – «archivio»: qualsiasi insieme strutturato di dati personali accessibili secondo criteri determinati, indipendentemente dal fatto che tale insieme sia centralizzato, decentralizzato o ripartito in modo funzionale o geografico; 
    • «titolare del trattamento»: la persona fisica o giuridica, l’autorità pubblica, il servizio o altro organismo che, singolarmente o insieme ad altri, determina le finalità e i mezzi del trattamento di dati personali; quando le finalità e i mezzi di tale trattamento sono determinati dal diritto dell’Unione o degli Stati membri, il titolare del trattamento o i criteri specifici applicabili alla sua designazione possono essere stabiliti dal diritto dell’Unione o degli Stati membri; 
    • «responsabile del trattamento»: la persona fisica o giuridica, l’autorità pubblica, il servizio o altro organismo che tratta dati personali per conto del titolare del trattamento; 
    • «autorizzati»: persone fisiche autorizzate a compiere operazioni di trattamento dal Titolare o dal Responsabile; 
    • «Interessato»: persona fisica cui si riferiscono i dati personali; 
    • «terzo»: la persona fisica o giuridica, l’autorità pubblica, il servizio o altro organismo che non sia l’interessato, il titolare del trattamento, il responsabile del trattamento e le persone autorizzate al trattamento dei dati personali che operano sotto l’autorità diretta del titolare o del responsabile; 
    • «consenso dell’interessato»: qualsiasi manifestazione di volontà libera, specifica, informata e inequivocabile dell’interessato, con la quale lo stesso manifesta il proprio assenso, mediante dichiarazione o azione positiva inequivocabile, che i dati personali che lo riguardano siano oggetto di trattamento; 
    • «violazione dei dati personali»: la violazione di sicurezza che comporta accidentalmente o in modo illecito la distruzione, la perdita, la modifica, la divulgazione non autorizzata o l’accesso ai dati personali trasmessi, conservati o comunque trattati; 
    • «dati genetici»: i dati personali relativi alle caratteristiche genetiche ereditarie o acquisite di una persona fisica che forniscono informazioni univoche sulla fisiologia o sulla salute di detta persona fisica e che risultano in particolare dall’analisi di un campione biologico della persona fisica in questione; 
    • «dati biometrici»: i dati personali ottenuti da un trattamento tecnico specifico relativi alle caratteristiche fisiche, fisiologiche o comportamentali di una persona fisica che ne consentono o confermano l’identificazione univoca, quali l’immagine facciale o i dati dattiloscopici; 
    • «dati relativi alla salute»: i dati personali attinenti alla salute fisica o mentale di una persona fisica, compresa la prestazione di servizi di assistenza sanitaria, che rivelano informazioni relative al suo stato di salute; 
    • «dati identificativi»: i dati personali che permettono l’identificazione diretta dell’interessato; 
    • «dati sensibili»: i dati personali idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale. I dati di salute non possono essere diffusi. I dati sensibili sono oggetto di comunicazione, anche verso soggetti pubblici, solo se prevista da disposizioni di legge o di regolamento; – «dato anonimo»: il dato che in origine, o a seguito di trattamento, non può essere associato ad un interessato identificato o identificabile; 
    • «comunicazione»: il dare conoscenza dei dati personali ad uno o più soggetti determinati diversi dall’interessato, dal rappresentante del titolare nel territorio dello Stato, dal responsabile e dagli autorizzati, in qualunque forma, anche mediante la loro messa a disposizione o consultazione; 
    • «Autorità Garante della protezione dei dati personali»: l’autorità pubblica indipendente deputata al controllo del rispetto della normativa vigente in materia di protezione dei dati personali. 
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    Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

    L’installazione di un sistema di videosorveglianza può costituire reato?

    La Corte di Cassazione, in linea con le indicazioni fornite dal Garante della Privacy, si è pronunciata più volte e spesso in maniera contrastante sulle modalità di utilizzo degli impianti di videosorveglianza, al fine di contemperare, da un lato, le esigenze di tutela della persona e del patrimonio, e dall’altro lato di garantire la tutela della riservatezza, in armonia con i principi costituzionali.  

    In particolare, pare utile soffermarsi sul tema della videosorveglianza nel condominio, avendo riguardo alle telecamere installate dal singolo condomino che, tuttavia, ad esempio, riprendano il viale di ingresso comune a più immobili e, quindi, utilizzato da tutti i proprietari oppure il parcheggio condominiale in cui sostano anche le altre auto. 

    In questi casi, infatti, il condomino ha la possibilità di accertare la eventuale commissione di illeciti, ma altresì di controllare ciò che avviene, tanto nelle aree di sua esclusiva proprietà, quanto nelle parti comuni del condominio in uso ad altri soggetti. 

    Dunque, tale condotta può costituire una violazione della privacy? 

    Per rispondere al quesito occorre innanzi tutto prendere in esame la norma incriminatrice astrattamente applicabile, ovvero l’art. 615 bis c.p. rubricato “Interferenze illecite nella vita privata”.
    L’articolo in oggetto punisce con la reclusione da 6 mesi a 4 anni “chiunque, mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonore, si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nei luoghi indicati nell’art. 614”.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale

    All’evidenza, la norma risulta astrattamente applicabile anche all’utilizzo di telecamere installate nella propria abitazione che, però, riprendano fatti della vita privata altrui che si svolgono in taluni luoghi soggetti a particolare tutela, ovvero il domicilio, la privata dimora o le appartenenze di essi. 

    Questo principio è di facile comprensione con riferimento alle immagini che ritraggono, ad esempio, il terrazzo o la finestra del vicino, poiché in tale ipotesi la condotta risulta posta in essere in violazione dell’altrui riservatezza e, dunque, chiaramente illecita. 

    Cosa accade, invece, quando le telecamere ritraggono il pianerottolo o il parcheggio comune a più soggetti? 

    Si tratta di luoghi assimilabili alla nozione di “privata dimora” e come tali sottratti alle ingerenze esterne?  

    Sul punto, non vi è univocità nelle pronunce della Corte di Cassazione. 

    Un primo orientamento, meno restrittivo, sostiene che l’uso di telecamere installate all’interno della propria abitazione, che riprendono l’area condominiale destinata a parcheggio e il relativo ingresso, non configura il delitto di interferenze illecite nella vita privata di cui all’art. 615 bis c.p. (si veda: Cass., sent. n. 30191/2021). 

    Invero, si tratterebbe di luoghi destinati all’uso di un numero indeterminato di persone e, pertanto, esclusi dalla tutela prevista dalla norma in esame, la quale presuppone, sia con riferimento al domicilio e sia alla privata dimora e alle appartenenze di essi, che sussista una particolare relazione tra il soggetto e l’ambiente in cui vive la sua vita privata, in modo da sottrarla ad ingerenze esterne, indipendentemente dalla sua presenza (si veda: Cass., sent. n. 44701/2008 e Cass., sent. 34151/2017). 

    Il secondo orientamento, invece, colloca tali condotte nell’ambito di applicabilità dell’articolo 615 bis c.p., in quanto l’androne, le scale di un palazzo e il garage si considerano come “appartenenze” a luoghi di privata dimora, posto che trattasi di luoghi, pur non materialmente legati all’abitazione principale, che con essa abbiano un rapporto funzionale di servizio o accessorietà (si veda: Cass., sent. n. 34783/2022). 

    Le pertinenze di una privata dimora rientrerebbero, pertanto, nel concetto di privata dimora, in quanto luoghi suscettibili di essere utilizzati in maniera apprezzabile e non occasionalmente per lo svolgimento della vita personale, che li rende, peraltro, non accessibili da terzi senza il consenso del titolare.  

    In conclusione, alla luce della giurisprudenza citata e in mancanza un indirizzo maggioritario, è bene porre in essere taluni accorgimenti per un uso corretto e lecito di un sistema di videosorveglianza, la cui finalità resta quella di garantire la tutela della persona e del patrimonio, avendo cura di posizionare la telecamera in modo tale che l’inquadratura ritragga esclusivamente ciò che accade nel luogo di esclusiva pertinenza del soggetto interessato, senza alcuna interferenza nella vita privata altrui. 

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    Focus di diritto civile, condominio • Avv. Viola Zuddas

    I sistemi di videosorveglianza in Condominio

    L’installazione di un impianto di videosorveglianza in Condominio deve avvenire, anzitutto, nel rispetto delle prescrizioni previste dal Codice Civile, dal Codice Penale e dalle linee guida del Garante della Privacy che, con il Regolamento n.2016/679, ha disciplinato compiutamente la materia.
    Difatti, è stato previsto un articolato sistema per tutelare la sicurezza delle persone e delle cose dei condomini che potrebbero subire un serio pregiudizio dal trattamento illecito dei dati personali raccolti nel caso in cui, come purtroppo talvolta accade, questi siano impiegati per scopi estranei alle esigenze condominiali. 

    A tale proposito, anzitutto, è bene segnalare che l’attività di videosorveglianza dev’essere effettuata nel rispetto del cosiddetto “principio di minimizzazione dei dati”, in base al quale: 

    • la scelta delle modalità di ripresa dev’essere effettuata in relazione alle finalità per le quali si raccolgono i dati, operando opportune distinzioni tra le aree condominiali, quelle di proprietà esclusiva di terzi e quelle aperte al pubblico,  
    • i dati trattati devono essere pertinenti e coerenti con le finalità per le quali si raccolgono, 
    • i dati trattati non devono essere eccedenti rispetto alle finalità per le quali si raccolgono. 

    Da ciò ne consegue che, ad esempio, possono essere attivati sistemi di videosorveglianza che riguardino aree comuni, di pertinenza del Condominio, purché adeguatamente segnalati con appositi cartelli. 

    A quest’ultimo riguardo, i cartelli devono contenere l’informativa del trattamento dei dati personali che può essere fornita utilizzando un modello semplificato, da posizionare prima dell’ingresso alla zona sorvegliata, che deve contenere, tra le altre informazioni: 

    • le indicazioni sul titolare del trattamento, 
    • le indicazioni sulla finalità perseguita, 
    • il rinvio a un testo completo contenente tutti gli elementi di cui all´art. 13 del Regolamento, con specifica indicazione di come e dove trovarlo (ad esempio, sul sito Internet del titolare del trattamento dei dati). 

    Cosa serve per installare un sistema di videosorveglianza in Condominio? 

    La legge di riforma della materia condominiale (Legge n.220/2012), poi, ha introdotto l’articolo 1122 ter c.c., rubricato “Impianti di videosorveglianza sulle parti comuni”, che regolamenta l’installazione sulle parti comuni dell’edificio di impianti volti a consentire la videosorveglianza sulle medesime. 

    La norma in analisi, nello specifico, prescrive che le deliberazioni concernenti l’installazione sulle parti comuni dell’edificio di impianti volti a consentire la videosorveglianza su di esse sono approvate dall’assemblea con la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del valore dello stabile. 

    Non è necessaria, dunque, una preventiva autorizzazione da parte del Garante della Privacy ma è unicamente sufficiente la deliberazione condominiale con la maggioranza prescritta dalla norma.  

    Per quanto tempo possono essere conservate le immagini? 

    Una volta raccolti, i dati non possono essere conservati per un tempo superiore a quanto sia strettamente necessario allo scopo per il quale sono stati acquisiti: il titolare del trattamento deve individuare i tempi di conservazione delle immagini tenuto conto del contesto e delle finalità del trattamento e, altresì, del rischio per la sicurezza e libertà delle persone e dei beni. 

    Ci sono, però, delle specifiche disposizioni che prevedono espressamente determinati tempi di conservazione dei dati: pensiamo, ad esempio, alle immagini raccolte dai sistemi di videosorveglianza dei Comuni al fine di tutelare la sicurezza urbana, per le quali è prevista la conservazione fino a sette giorni dalla registrazione, salvo peculiari esigenze. 

    Al di fuori di questi casi, però, generalmente le immagini vengono conservate per pochi giorni (uno o due) in considerazione del fatto che il Condominio si dota di sistemi di videosorveglianza per prevenire i furti e per accertare, nel caso in cui questi vengano commessi, chi siano i responsabili degli stessi: pertanto, è sufficiente un periodo limitato di conservazione, giacché tendenzialmente ci si accorge del danno in poco tempo. 

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    Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

    Assistenti vocali invadenti: le linee guida UE

    Come spiegato nel Focus del nostro collaboratore, la domotica è la disciplina che mira a migliorare la funzionalità delle nostre case grazie a un insieme di automazioni e tecnologie domestiche che consentono di gestire da remoto tutti gli apparecchi di un’abitazione tramite strumenti quali lo smartphone, il tablet e gli assistenti vocali. 

    È evidente che, ogni tecnologia passibile di controllo a distanza, e in particolare gli assistenti vocali, è in grado di raccogliere un’enorme quantità di dati, quali: 

    • preferenze e le abitudini: relative allo stile di vita, ai consumi e agli interessi personali, stato emotivo; 
    • dati biometrici: quali la voce ed il timbro vocale; 
    • geolocalizzazione: posizione, il domicilio, l’indirizzo del posto di lavoro, i percorsi compiuti; 
    • tratti principali: (sesso, età, ecc.) dei soggetti che si trovano nello stesso ambiente dell’assistente vocale; 

    L’aumento sempre più crescente della presenza di dispositivi smart nelle nostre case rende più elevato il rischio che tali dati possano essere utilizzati a vantaggio delle società al fine di creare distorsioni nel mercato. 

    Ciò è quanto emerso da un primo report pubblicato dalla Commissione Europea a seguito di un’inchiesta sulla concorrenza e sulle potenziali questioni antitrust all’interno del mercato degli assistenti vocali e dei dispositivi “smart” per la domotica intelligente. 

    Ad esito dell’inchiesta, la Commissione ha fatto sapere che le informazioni raccolte nell’indagine settoriale verranno utilizzati come base dei suoi lavori per l’attuazione della strategia digitale europea per l’elaborazione di linee guida a tutela della privacy e dell’antitrust; ciò al fine di rafforzare anche l’attuale disciplina sugli assistenti vocali.Avv. Eleonora Pintus, Diritto Internazionale e dell’Unione Europea

    Linee guida 02/2021 sugli assistenti vocali virtuali

    Il 7 luglio 2021 sono state adottate, in via definitiva, le Linee guida sugli assistenti vocali – cd. Linee Guida 02/2021 sugli assistenti vocali virtuali (o Virtual Voice Assistant – VVA) – al fine di regolare le modalità di raccolta dei dati personali degli utenti in un’ottica di massima trasparenza per l’utente. 

    Le presenti linee guida prendono in considerazione le quattro finalità principali per cui i VVA trattano dati personali: l’esecuzione di richieste, il miglioramento del modello di apprendimento automatico dell’VVA, l’identificazione biometrica e la profilazione a fini di personalizzazione dei contenuti o della pubblicità. 

    Occorre ricordare che gli assistenti vocali raccolgono e memorizzano enormi quantità di dati e informazioni personali, appartenenti sia all’utilizzatore che agli eventuali terzi presenti nello stesso ambiente dell’utilizzatore.  

    Per tale ragione, al fine di prestare una maggior tutela, le Linee prescrivono ai fornitori/progettisti di VVA di implementare meccanismi di controllo dell’accesso per garantire la riservatezza, l’integrità e la disponibilità dei dati personali, che vadano oltre l’impostazione di una semplice password la quale, in alcuni casi, si rivela del tutto insufficiente. Come tale, laddove possibile, i progettisti dovrebbero valutare l’opportunità di applicare tecnologie in grado di filtrare i dati non necessari e garantire che sia registrata soltanto la voce dell’utente. 

    Le Linee, dunque, non solo offrono spunti su come garantire una maggiore tutela dell’utente e dei terzi che entrano a contatto con i VVA, ma mira, altresì, a rendere edotti gli utenti stessi dei rischi e benefici connessi all’utilizzo di tali strumenti.  

    Ciò, ad esempio informandoli su quali dati sono stati memorizzati oppure offrendo soluzioni tecniche, come l’apprendimento di uno specifico linguaggio che consenta di impedire l’accensione accidentale dell’assistente o di eliminare tutte le parole, tranne quelle necessarie per far entrare in funzione l’assistente.

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    Secondo il rapporto “HIV/AIDS surveillance in Europe 2021”, pubblicato a novembre 2021 dall’ECDC e dall’Ufficio europeo dell’OMS, nel 2020, in 46 dei 53 Paesi dell’OMS Europa sono state registrate ben 104.765 nuove diagnosi di HIV, tra cui 14.971 dai Paesi di Unione europea (UE) e Spazio economico europeo (SEE). 

    L’infezione da HIV e l’AIDS continua, dunque, ad incidere in maniera esponenziale sulla salute e il benessere di milioni di persone anche nella Regione Europea dell’OMS. 

    Per esigenze di carattere espositivo, escludendo fin da subito ogni volontà di compiere divulgazione scientifica in campo medico, appare necessario evidenziare che Hiv e Aids non sono la stessa cosa. 

    L’Hiv (Human immunodeficiency virus) è un virus che distrugge un tipo di globuli bianchi responsabili della risposta immunitaria dell’organismo. La presenza di anticorpi anti-Hiv nel sangue viene definita sieropositività all’Hiv. L’infezione da Hiv non si manifesta con sintomi particolari ma si rivela attraverso gli effetti che il virus provoca direttamente sul sistema immunitario.   

    L’Aids (Acquired immune deficiency sindrome), invece, costituisce uno stadio clinico avanzato dell’infezione da Hiv la quale può manifestarsi persino a distanza di anni nelle persone con HIV, ciò quando l’organismo perde la sua capacità di combattere anche le infezioni più banali (infezioni/malattie opportunistiche). 

    I progressi della ricerca scientifica e l’uso della terapia antiretrovirale hanno reso possibile alle persone con Hiv di avere una buona qualità di vita. Difatti, sebbene ad oggi non esista una cura capace di eliminare completamente il virus dall’organismo e così guarire in via definitiva dall’infezione da HIV, la sottoposizione a terapie altamente efficaci – i cosiddetti farmaci antiretrovirali (ART, Anti-Retroviral Therapy) – permette di controllare l’infezione nel lungo periodo, trasformando l’HIV/AIDS in malattia cronica. 

    Tuttavia, nonostante i progressi scientifici degli ultimi anni, a seguito dell’epidemia da COVID-19, è emerso l’enorme deficit delle strutture ospedaliere che, a causa altresì delle successive restrizioni di bilancio, hanno manifestato difficoltà nell’erogazione di servizi. In generale, il numero dei pazienti nelle strutture ospedaliere è aumentato e ciò ha conseguentemente imposto alle stesse strutture ed al personale sanitario operante di rivoluzionare l’erogazione delle prestazioni.Avv. Eleonora Pintus, Diritto Internazionale e dell’Unione Europea

    Sanità digitale: le nuove sfide a sostegno dell’HIV e AIDS

    Le nuove sfide globali a fronte di situazioni di emergenza (quali una pandemia globale) hanno aumentato le preoccupazioni sulla capacità degli ospedali di fornire terapie adeguate e costanti (anche) nella prevenzione dell’HIV.  

    In tal senso si inserisce la lungimirante azione dell’Unione Europea che nell’ambito del programma “Horizon 2020” ha elaborato e finanziato il programma “EmERGE” (Evaluating mHealth technology in HIV to improve Empowerment and healthcare utilisation: Research and innovation to Generate Evidence for personalised care). 

    EmERGE è, nello specifico, un’applicazione mobile (APP) e un portale web per la gestione dell’HIV che ha come obiettivo principale la creazione di una connessione virtuale tra paziente e medico attraverso una piattaforma sanitaria digitale conforme al GDPR.  

    Questa si inserisce perfettamente in quella che viene comunemente definita come “mHealth” (mobile health, ossia “salute mobile”) che racchiude il più ampio concetto di cure mediche digitali o wireless, ossia la possibilità di accedere ai servizi sanitari preventivi, sorveglianza delle malattie, supporto al trattamento, monitoraggio delle epidemie e gestione delle malattie croniche da remoto attraverso dispositivi mobili, quali i telefoni cellulari. 

    Ma come funziona?

    La piattaforma mHealth è in inserita nel server all’interno del firewall dell’ospedale o della clinica ed è deputata alla ricezione dei dati dal database della clinica tramite un’API e successiva trasmissione all’applicazione scaricata sul dispositivo mobile Android o iOS del paziente. 

    I dati possono riguardare risultati di esami, informazioni sui farmaci o anche appuntamenti.  

    La “digitalizzazione della salute” ha sortito numerosi vantaggi anche per soggetti affetti da HIV. Secondo un recente studio condotto su un gruppo di pazienti sieropositivi, è stato sufficiente visitare i pazienti una volta all’anno, per poi controllare i risultati intermedi prima che venissero cifrati e inseriti nell’applicazione. I risultati dello studio non solo sono risultati soddisfacenti (in quanto il 99 % dei pazienti ha mantenuto una bassa carica virale) ma il monitoraggio da remoto ha perfino consentito di ridurre l’affluenza alle cliniche del 30 %.1 

    EmERGE e GDPR: la tutela dei dati personali

    La salute digitale impone necessariamente una “protezione rafforzata” nel trattamento di informazioni. Ciò ancor più se si tratta di informazioni delicate come lo sono quelle relative all’infezione da virus dell’immunodeficienza giacché dalla loro diffusione può derivare un grave pregiudizio per la vita privata e la dignità personale degli interessati.  

    Appare dunque fondamentale ed imprescindibile che la Sanità digitalesi allinei al Regolamento Europeo sulla protezione dei dati personali. 

    Ma accanto al GDPR, a livello nazionale occorre richiamare anche una normativa specifica in materia di HIV: si tratta della Legge 05 giugno 1990, n. 135 “Programma di interventi urgenti per la prevenzione e la lotta contro l’AIDS”. 

    In particolare, l’art. 5 (Accertamento dell’infezione), espressamente integrato dal Codice Privacy, sancisce diritti fondamentali ed inderogabili del paziente nonché obblighi a carico dell’operatore sanitario. In particolare si legge che: 

    • L’operatore sanitario e ogni altro soggetto che viene a conoscenza di un caso di AIDS, ovvero di un caso di infezione da HIV, deve adottare ogni misura per garantire la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali dell’interessato, nonché della relativa dignità. 
    • Nessuno può essere sottoposto, senza il suo consenso, ad analisi dirette ad accertare l’infezione da HIV se non per motivi di necessità clinica nel suo interesse.  
    • La comunicazione di risultati di accertamenti diagnostici per infezione da HIV deve essere fornita esclusivamente al paziente interessato. 
    • I dati sulla sieropositività o di diagnosi di HIV sono riportabili in cartella solo con manifestazione del consenso del paziente. 

    Possiamo dunque riconoscere che la medicina mobile sta contribuendo ad apportare innumerevoli vantaggi, per pazienti e strutture ospedaliere. La piattaforma è stata recentemente ampliata per includere anche la messaggistica bidirezionale e il video, ed è sempre più concreta la disponibilità di un modello di percorso digitale per la profilassi pre-esposizione per la prevenzione dell’HIV (PrEP).  

    Grazie agli sforzi dell’Unione Europea, gli Stati membri hanno la possibilità di rendere più efficiente ed efficace la sanità pubblica e dare un importante contributo alla digitalizzazione dei servizi sanitari in tutta Europa. 

    Eleonora Pintus, Avvocato

    A ciascuno di noi potrebbe capitare che dall’appartamento del vicino promanino, quotidianamente e magari per diverse ore al giorno, odori ed immissioni di calore e rumore che eccedono la normale tollerabilità e che sconvolgono le abitudini del proprietario di casa che le subisce. 

    Potrebbe, quindi, anche accadere che, a seguito di tale situazione, il proprietario di casa non possa servirsi pienamente della propria abitazione perché, ad esempio, non può più utilizzare la terrazza né tenere liberamente aperte le finestre per evitare il propagarsi delle esalazioni. 

    Come si deve comportare il proprietario in situazioni come quella appena descritta? 

    Cosa dice la legge

    Anzitutto, deve precisarsi che l’art. 844 c.c., rubricato “Immissioni”, prescrive che «Il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi. Nell’applicare questa norma l’autorità giudiziaria deve contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà. Può tener conto della priorità di un determinato uso.» 

    Tale norma regola la disciplina delle immissioni, che trova applicazione anche in materia di proprietà condominiale e di comunione, allorché un condomino, nel godimento della propria unità pure se soggetta a destinazione differente (es. locale commerciale), dia luogo ad immissioni moleste nella proprietà di altri condomini. 

    La ratio della disposizione in commento, quindi, è quella di tutelare la proprietà nella sua pienezza con riferimento anche alle esigenze di vita del proprietario e di piena fruibilità del bene. 

    Da ciò ne discende che colui che subisce delle immissioni intollerabili, che si propagano continuamente o periodicamente, è sicuramente legittimato ad ottenere sia la cessazione della molestia che il risarcimento del danno patito o, comunque, un indennizzo che ristori il pregiudizio sofferto.Avv. Viola Zuddas, Civilista

    Ma cosa si intende per “immissione intollerabile”?

    Per giurisprudenza ormai costante, è considerata intollerabile quell’immissione, sia essa olfattiva, uditiva o di calore, che per le sue caratteristiche è idonea ad incidere in maniera negativa sul normale svolgimento delle attività quotidiane. 

    Essa, quindi, dev’essere tale da coinvolgere le abitudini della persona e compromettere, così, la qualità della sua vita. 

    Il giudizio sulla tollerabilità si deve formulare tenendo in considerazione la condizione dei luoghi (ad esempio se tratti di un’abitazione o di un locale commerciale adibito a ristorante, se si trovi in centro città o in campagna…) che impone il successivo contemperamento degli interessi coinvolti, come prescritto dall’art. 844 c.c.: pertanto, nell’ipotesi in cui lo svolgimento di un’attività produttiva comporti delle immissioni, la soglia di tollerabilità può essere innalzata secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti. 

    Tuttavia, nell’ottica di un necessario contemperamento di interessi che vede contrapporsi le esigenze di produzione e le esigenze di vita, queste ultime devono sicuramente considerarsi preminenti. 

    Difatti, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata, è da ritenersi prevalente il diritto, e l’interesse, ad una normale qualità della vita. 

    Il principio di precauzione ed il risarcimento del danno

    Deve ricordarsi, poi, che il principio di precauzione, sancito a livello comunitario anche come cardine della politica ambientale (tutelare l’ambiente risulta essenziale per salvaguardare la qualità della vita),  riconosce al diritto alla salute, che è evidentemente connesso con la qualità della vita, una tutela talmente estesa che non risulta necessaria una sua lesione certificata ed effettiva.Avv. Viola Zuddas, Civilista

    È sufficiente, infatti, che vi sia una situazione potenzialmente pregiudizievole per la salute affinché questa venga tutelata. 

    La Corte di Cassazione ha chiarito che: «Il danno non patrimoniale conseguente ad immissioni illecite è risarcibile indipendentemente da un danno biologico documentato, quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione e del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti, la cui tutela è ulteriormente rafforzata dall’art. 8 Conv. Eur. Dir. Uomo, norma alla quale il giudice interno è tenuto ad uniformarsi. Ne consegue che, considerata la natura del pregiudizio oggetto di tutela, la relativa prova può essere fornita anche mediante presunzioni, sulla base delle nozioni di comune esperienza.» (Cass. civ. sent. n.16408/17, che richiama Cass. civ. SS. UU. sent. n. 2611/17, Cass. civ. sent. n.20927/2015 e Cass. civ. sent. n.26899/2014). 

    Sulla base del principio di diritto espresso dalla Suprema Corte, dunque, deve affermarsi che nell’ipotesi in cui taluno subisse un pregiudizio in danno della propria salute sarà legittimato ad ottenere pieno ed integrale ristoro, anche eventualmente in via equitativa. 

    A tale ultimo riguardo, deve infatti chiarirsi che qualora non sia possibile quantificare con precisione il danno ingiustamente patito il Giudice potrà liquidarlo equitativamente, ai sensi dell’art. 1226 c.c., purché sia stata data comunque prova della sua sussistenza. 

    Il Giudice, dunque, ben potrà valutare secondo il proprio prudente apprezzamento, e sulla base delle nozioni di comune esperienza, il danno sofferto ingiustamente, tenendo conto sia della natura degli interessi oggetto di tutela, sia del perdurare della condotta illegittima di controparte. 

    Viola Zuddas, Avvocato

     

     

    Interessante pronuncia del Tribunale di Bolzano che, con sentenza del 30 giugno 2022, n. 381, in tema di guida in stato di ebbrezza e corretto funzionamento dell’etilometro, ha assolto l’imputato in quanto non può ritenersi provato al di là di ogni ragionevole dubbio il superamento della soglia di rilevanza penale dell’ebbrezza alcolica.  

    Nel caso in oggetto, l’imputato è stato tratto a giudizio per rispondere del reato di cui all’art. 186 CdS, co. 2, lett. c), che prevede l’ammenda da euro 1.500 a euro 6.000 e l’arresto da sei mesi ad un anno, qualora sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro.  

    La norma prevede, inoltre, la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da uno a due anni (che viene raddoppiata nel caso in cui il veicolo appartiene a persona estranea al reato), nonché la revoca della patente in caso di recidiva nel biennio. 

    Nella fattispecie per cui è processo, l’imputato era rimasto coinvolto in un sinistro stradale ed, essendo risultato positivo all’accertamento preliminare (cd. pretest), veniva sottoposto ad accertamento etilometrico mediante apposita apparecchiatura,  previo avviso della facoltà di farsi assistere da un difensore. 

    All’esito della prima prova veniva riscontrato un tasso alcolemico pari a 2,30 g/l, mentre all’esito della seconda prova risultava un valore pari a 2,13 g/l. 

    Tanto premesso, nel corso del processo la difesa, a mezzo del proprio consulente tecnico, ha evidenziato una serie di difformità e vizi dell’apparecchiatura utilizzata, tali da ingenerare dubbi sull’affidabilità della misurazione, al punto da considerarsi determinante per assolvere l’imputato. 

    Cosa si intende per etilometro non a norma? 

    La normativa

    La normativa di settore introduce diversi requisiti per lo più di natura tecnica, la cui sussistenza, però, risulta fondamentale ai fini del valore probatorio delle misurazioni del tasso alcolemico, sulle quali si fonda la contestazione della violazione. 

    Vediamoli insieme. 

    Innanzi tutto, l’art. 379 del D.P.R. n. 495 del 1992 prevede essenzialmente che:  

    1. gli etilometri devono rispondere ai requisiti stabiliti con disciplinare tecnico approvato con decreto del Ministro dei Trasporti di concerto con il Ministro della Sanità;
    2. essi sono soggetti alla preventiva omologazione da parte della Direzione Generale della T.C. che vi provvede sulla base delle verifiche e prove effettuate dal Centro Superiore Ricerche e Prove Autoveicolo, in modo tale da verificarne la rispondenza ai requisiti prescritti;
    3. i medesimi apparecchi, prima della loro concreta utilizzazione, devono essere sottoposti a verifiche e prove, da cui deriva la necessità della loro sottoposizione ad una visita preventiva che si risolve nella cd. taratura obbligatoria annuale, il cui esito positivo deve essere annotato sul libretto dell’etilometro, con la precisazione che, in caso di esito negativo, l’etilometro è ritirato dall’uso.

    È previsto, inoltre, che ogni etilometro debba essere accompagnato dal libretto metrologico che contiene i dati identificativi dell’apparecchio (quali costruttore, matricola, omologazione etc.) e la registrazione delle operazioni di controllo. 

    Deve aggiungersi che l’omologazione rilasciata dal Ministero dei Trasporti è valida solo a nome del richiedente e non è trasmissibile a soggetti diversi e che ogni etilometro deve riportare su una targhetta inamovibile, oltre agli estremi della omologazione eseguita e del numero di identificazione, anche l’indicazione del costruttore. 

    La decisione

    Come detto sopra, la difesa si è avvalsa di un consulente tecnico che ha evidenziato numerose criticità riguardanti sia l’omologazione dell’etilometro utilizzato per l’effettuazione delle misurazioni del tasso alcoli metrico dell’imputato e sia le verifiche e la manutenzione dello stesso, ovvero tutti elementi necessari per garantire il corretto funzionamento dell’apparecchio. 

    In particolare, è emerso che il certificato di omologazione, chiesto e ottenuto nel 1999, risulta essere stato rilasciato ad un soggetto diverso da quello legittimato, ossia il costruttore, e ciò in contrasto con la normativa citata poc’anzi. 

    Si legge, inoltre, nella sentenza in commento che la targhetta dell’etilometro “lungi dall’essere inamovibile così come prescritto dall’art. 4, co. 1, D.M. n. 196/90, oltre a riportare il nominativo di un soggetto diverso dall’intestatario del certificato di omologazione, risulta essere manomessa, come documentato dalle fotografie allegate alla relazione tecnica”. 

    Ciò che più rileva è che l’apparecchio non risulta essere stato sottoposto alle verifiche periodiche richieste, tanto con riferimento alla verifica della giusta calibratura, quanto all’attività di manutenzione, che, per l’appunto, non è stata fatta, nonostante si tratti di un apparecchio vecchio. 

    Altro aspetto di interesse riguarda l’effettuazione della misurazione e la procedura seguita dagli operanti. 

    A tale riguardo, la difesa ha eccepito che non è stato effettuato il risciacquo della bocca dell’imputato prima di eseguire il test, nonostante la normativa preveda che non debba esserci alcun inquinamento della prova.  

    Non solo, ma l’inattendibilità della misurazione parrebbe desumibile anche dalla temperatura ambientale sussistente al momento del controllo. 

    Infatti, tenuto conto delle caratteristiche tecniche dell’apparecchio utilizzato, la temperatura registrata nel caso di specie è risultata pari a 3 gradi sotto zero, mentre la soglia di attendibilità dei risultati è 0 – 45 gradi. 

    D’altro canto, pur a fronte di tali contestazioni e prospettazioni difensive, il Pubblico Ministero non ha fornito alcuna prova volta a confutare la sussistenza dei vizi e delle difformità indicate dalla difesa. 

    Sul punto, è principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità che: “In tema di guida in stato di ebbrezza è configurabile a carico del pubblico ministero l’onere di fornire la prova dell’omologazione dell’etilometro e della sua sottoposizione alle verifiche periodiche previste dalla legge nei casi di contestazione da parte dell’imputato del buon funzionamento dell’apparecchio” (si veda Cass. pen., sent. n. 3201 del 12.12.2019). 

    In definitiva, dinnanzi ai documentati elementi oggettivi che dimostrano il malfunzionamento dell’apparecchio e quindi l’inattendibilità della misurazione, sia la positività al cd. pretest (che si considera un accertamento necessario esclusivamente a rendere legittima la successiva verifica mediante etilometro) e sia i restanti elementi annotati nel verbale, ovvero l’asserito equilibrio precario e alito vinoso, non si considerano dati sufficienti per ritenere raggiunta la prova del superamento della soglia alcolemica prevista per Legge. 

    Pertanto, il Tribunale ha concluso che in assenza del sicuro riscontro tecnico in ordine alla esatta percentuale di concentrazione di alcol contenuta nel sangue dell’imputato, il medesimo deve essere mandato assolto perché il fatto non sussiste. 

    Claudia Piroddu, Avvocato

     

    Taglio del cuneo fiscale per redditi medio bassi, anticipo della rivalutazione delle pensioni, estensione del bonus da 200,00 euro ai lavoratori che fino ad ora erano rimasti esclusi, proroga dello sconto sulle accise dei carburanti, misure per fronteggiare l’emergenza idrica; ma anche crediti d’imposta per le imprese e innalzamento del tetto dei fringe benefit esentasse a 516,00 euro. 

    Questo, in estrema sintesi, quanto risulta dal testo del decreto Aiuti-bis varato dal Governo nel Consiglio dei Ministri, con bozza del 4 agosto 2022. 

    Le risorse stanziate, pari a circa 17 miliardi di euro, sono state ricavate in larga misura dal tesoretto generato dalle maggiori entrate fiscali incassate dallo Stato. Con riferimento, infatti, alla precedente relazione, approvata durante il Consiglio dei Ministri del 26 luglio e inviata in Parlamento, l’incremento delle entrate proveniente dall’IVA, dovuto all’aumento dei prezzi dell’energia e all’impennata dell’inflazione, ha messo a disposizione del Governo dimissionario quasi 17 miliardi di euro per il decreto Aiuti-bis. 

    Il decreto Aiuti-bis introduce un taglio aggiuntivo del cuneo contributivo destinato ai lavoratori con retribuzione imponibile fino a 35.000,00 euro l’anno. La misura si affianca al vigente esonero contributivo dello 0,8% introdotto dalla legge di Bilancio 2022. L’ulteriore sforbiciata al cuneo si attesta, per i redditi medio bassi, al 2% e produrrà i suoi effetti retroattivamente a partire da luglio. 

    Il decreto stabilisce, altresì, che per i periodi di paga dal 1° luglio 2022 al 31 dicembre 2022, compresa la tredicesima o i relativi ratei erogati nei predetti periodi di paga, l’esonero sulla quota dei contributi previdenziali per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti a carico del lavoratore di cui all’articolo 1, comma 121, della legge 30 dicembre 2021, n. 234, è incrementato di 1,20%. 

    All’estensione del bonus da 200 euro sono destinati, invece, circa 40 miliardi di euro, per i lavoratori fino ad ora rimasti esclusi. Il contributo verrà percepito entro ottobre e coinvolge una platea di circa 125mila lavoratori che, pur percependo un reddito inferiore ai 35.000,00 euro, nei primi sei mesi dell’anno non hanno beneficiato dell’esonero contributivo previsto dalla legge di Bilancio 2022, in quanto interessati da eventi coperti solo figurativamente dall’INPS. A questi lavoratori l’indennità è riconosciuta in via automatica, sulla base di un’autodichiarazione, nella retribuzione erogata a ottobre. 

    Il pacchetto di misure previste dal decreto Aiuti-bis prevede, all’art. 23, che venga rifinanziato, con ulteriori 100 milioni di euro, il fondo per il sostegno del potere d’acquisto anche dei lavoratori autonomi. La dotazione del Fondo, originariamente di 500 milioni nel primo decreto Aiuti, cresce così a 600 milioni di euro per l’anno 2022. 

    I pensionati non avranno ritocchi ad agosto, ma vedranno gli effetti del nuovo intervento da ottobre, quando arriverà, in anticipo di tre mesi, la rivalutazione ordinariamente prevista a gennaio 2023. L’art. 22 del testo varato dal Consiglio dei Ministri dispone, infatti, che per ‹‹contrastare gli effetti negativi dell’inflazione per l’anno 2022 e sostenere il potere di acquisto delle prestazioni pensionistiche, in via eccezionale: il conguaglio per il calcolo della perequazione delle pensioni per l’anno 2021 è anticipato al primo ottobre 2022; la percentuale di variazione per il calcolo della perequazione delle pensioni per l’anno 2022 è anticipata, per una quota pari a due punti percentuali, con decorrenza dal primo ottobre 2022, con relativo riconoscimento anche sulla tredicesima mensilità››. 

    Il nuovo meccanismo anticipa, in concreto, la rivalutazione del 2% ai soli pensionati che ricevono fino a 2.692,00 euro lordi al mese, cioè 34.996,00 euro all’anno. 

    Per quanto attiene il caro energia, carburanti e i fondi per l’emergenza idrica, il decreto Aiuti-bis proroga, solo fino al 20 settembre, l’attuale sconto sulle accise dei carburanti, in vigore fino al 21 agosto. La misura, che fissa lo sconto di 30 centesimi IVA inclusa, esigerà dalle casse dello Stato circa un miliardo. 

    Per quanto riguarda l’abbattimento degli oneri di sistema in bolletta, la proroga è al quarto trimestre dell’anno: pertanto, proseguono per tutto il 2022 gli sconti per tutte le utenze elettriche e del gas. 

    Nel decreto sono previste anche misure per fronteggiare l’emergenza idrica e che prevedono uno stanziamento di 200 milioni di euro a favore delle imprese agricole che hanno subito danni derivanti dall’eccezionale siccità.Avv. Francesco Sanna, Civilista e Tributarista

    In particolare, la norma prevede misure di accelerazione e semplificazione per la realizzazione di infrastrutture idriche. Il provvedimento in esame punta a ridurre i tempi di realizzazione degli interventi necessari alla mitigazione dei danni connessi alla siccità e a potenziare le infrastrutture, sia sul fronte procedurale e di riduzione dei tempi, sia su quello della disciplina dell’esecuzione delle opere, nonché su quello processuale in caso di contenzioso. 

    Inoltre trova spazio anche lo stop alle modifiche unilaterali dei contratti dei fornitori di energia, frequenti in questa fase di prezzi al rialzo. La norma sospende fino al 31 ottobre l’efficacia di ogni eventuale clausola contrattuale che consente all’impresa fornitrice di energia elettrica e gas naturale di modificare unilateralmente le condizioni generali di contratto relative alla definizione del prezzo nei rapporti con i clienti domestici, ancorché sia contrattualmente riconosciuto il diritto di recesso alla controparte.  

    In materia di welfare aziendale viene innalzato, con effetto retroattivo per l’anno 2022, il tetto dei fringe benefit esentasse da 258,00 euro a 516,00 euro che potranno essere utilizzati anche per pagare le bollette di acqua, luce e gas. 

    L’Esecutivo ha, infatti, deciso di raddoppiare la soglia esentasse dei vari benefit, che in molti casi fanno da corollario agli accordi aziendali ed al rinnovo dei contratti. 

    Il credito d’imposta per gas ed elettricità per le imprese avrà una dotazione di circa 3mld di euro. La misura estende al terzo trimestre le agevolazioni per gasivori ed energivori, ma anche quelle per le aziende che, pur non rientrando in queste categorie, sono gravate da fatture del gas e della luce particolarmente pesanti. Il 15% verrà riconosciuto alle aziende che potranno dimostrare aumenti fino al 30%. Per le imprese energivore il credito d’imposta arriva al 25%. 

    Francesco Sanna, Avvocato

    Come abbiamo visto nei nostri precedenti articoli e nei focus a cura dell’Arch. Carlo Murtas di Hinternos dedicati a questo tema, il Superbonus 110% è stato introdotto dal Governo presieduto da Giuseppe Conte come strumento volto a rilanciare l’economia e, al contempo, tutelare l’ambiente. 

    Lo stesso, infatti, è stato definito come la chiave “green” per la ripartenza economica del Paese tant’è che la riqualificazione energetica degli immobili nel 2021 ha generato un volume d’affari complessivo di 65 miliardi di euro nella filiera delle costruzioni (a fronte dei 30 miliardi dell’anno precedente – dati CNA, Confederazione nazionale dell’artigianato e della piccola e media impresa). 

    Dati che, tra l’altro, sono stati di recente confermati dal Dipartimento Politica Economica (cosiddetto DiPE) di Palazzo Chigi che sul proprio sito riporta l’analisi compiuta da Luiss Business School e Openeconomics che parla di «valore aggiunto di 16,64 miliardi di euro per una spesa di 8,75 nel 2020-2022.» 

    Tuttavia, nel corso dell’ultimo anno si sono succeduti diversi emendamenti che hanno inciso notevolmente sulla disciplina che governa il Superbonus 110% tanto da creare zone d’ombra ed un’incertezza diffusa non soltanto tra i professionisti che operano nel settore ma, anche, tra i committenti stessi. 

    Incertezza che, come facilmente intuibile, ha bloccato l’esecuzione dei lavori già in corso ed ha impedito l’avvio di nuovi cantieri, con disastrose conseguenze economiche per i professionisti coinvolti e le imprese. 

    Difatti, secondo quanto riportato da Ansa.it e da CNA le frequenti modifiche normative ed il blocco dell’acquisto dei crediti da parte degli istituti bancari e postali legati ai bonus rischia di far fallire 33.000 imprese artigiane cui, a livello nazionale, si stima sia collegata la perdita di 150.000 posti di lavoro nel comparto dell’edilizia.Avv. Viola Zuddas, Civilista

    Questa situazione è dovuta al fatto che migliaia di imprese che hanno lavorato per realizzare delle opere hanno applicato lo sconto in fattura, anticipando – in sostanza – il contributo di cui avrebbero poi beneficiato i committenti facendo affidamento sulla possibilità di recuperare il valore della prestazione attraverso la cessione dei crediti ad intermediari finanziari o soggetti terzi, così come prescritto dalla normativa. 

    Tuttavia, a causa del blocco legato alla cessione dei crediti le imprese non sono riuscite ad incassare il corrispettivo dell’opera prestata e, dunque, si sono travate i cassetti fiscali pieni di crediti inceduti e senza liquidità. 

    Per capire la serietà del fenomeno è importante riportare i dati di un’apposita indagine condotta da CNA dalla quale è emerso che i crediti fiscali delle imprese che hanno riconosciuto lo sconto in fattura e che non sono ancora stati monetizzati attraverso una cessione ammontano a quasi 2,6 miliardi di euro. 

    Ebbene, come già anticipato, la gravità della situazione in cui versano le imprese si ripercuote necessariamente anche sugli altri operatori del settore: per non essere schiacciate dalla mancata cessione dei crediti, le imprese stanno ricorrendo a mutui e prestiti di vario genere per pagare i collaboratori ed i dipendenti ma c’è anche chi sta pagando in ritardo i fornitori o posticipa il pagamento di tasse e imposte e, infine, anche chi non riesce a sostenere alcun costo né di manodopera né di fornitura. 

    E lo Stato?

    È del tutto evidente che risulti assolutamente necessario un intervento deciso da parte dello Stato per scongiurare una gravissima crisi economica e sociale. 

    Per questo motivo, nelle scorse settimane è stato approvato dalle Commissioni Bilancio e Finanze della Camera un emendamento inserito nel cosiddetto “decreto Aiuti” che, almeno nelle intenzioni dichiarate, dovrebbe far ripartire il mercato dei crediti legati ai bonus edilizi.Avv. Viola Zuddas, Civilista

    In precedenza, l’articolo 29-bis del cosiddetto “decreto Energia” aveva portato da tre a quattro il numero di cessioni di crediti effettuabili con delle peculiarità: 

    • la seconda e la terza cessione si sarebbero potute fare soltanto a favore di banche, intermediari finanziari e società appartenenti a un gruppo bancario vigilato, 
    • la quarta cessione si sarebbe potuta fare da parte delle sole banche a favore dei soggetti coi quali ci fosse un contratto di conto corrente, con il risultato che le banche avrebbero potuto cedere il credito ai correntisti che siano clienti professionali loro o della loro capogruppo. 

    Con l’ultimo emendamento, invece, le banche avranno la possibilità di cedere i crediti legati ai bonus edilizi non più a favore dei clienti professionali privati ma a favore di soggetti diversi dai consumatori o utenti, a patto che siano sempre correntisti. 

    Deve, inoltre, aggiungersi che l’emendamento non incide sulla responsabilità dei cessionari, regolandola compiutamente, sicché sarà comunque necessario indagare caso per caso per valutare quale sia il grado di diligenza che il cessionario sia tenuto ad applicare in considerazione della propria natura. 

    Difatti, è bene ricordare che il grado di diligenza che sia lecito aspettarsi sarà tanto maggiore quanto più è professionale la figura con cui si entrerà in contatto: ad esempio, un intermediario finanziario sarà tenuto ad osservare diligenza professionale, dunque, “qualificata” e perciò superiore rispetto a quella che ci si può aspettare da un privato. 

    Questa misura è davvero risolutiva?

    Purtroppo, anche il Decreto Aiuti non si dimostra idoneo a far ripartire il mercato dei crediti legati al Superbonus 110% né, tantomeno, a far uscire dalla crisi le migliaia di imprese e professionisti del settore dell’edilizia. 

    Infatti, ai sensi comma 3 dell’articolo 57 le nuove norme in materia di cedibilità del credito si applicano alle comunicazioni della prima cessione o dello sconto in fattura inviate all’Agenzia delle Entrate a partire dal 1° maggio 2022.Avv. Viola Zuddas, Civilista

    Ed i crediti maturati anteriormente? 

    Ebbene, proprio questi crediti – che, evidentemente, sono quelli più consistenti e problematici per le imprese – sono esclusi dalle novità introdotte dal Decreto Aiuti e, pertanto, la loro cessione rimane assolutamente limitata e vincolata. 

    Dunque le banche, ovvero le società appartenenti ad un gruppo bancario iscritto all’albo tenuto dalla Banca d’Italia, potranno cedere i crediti a società, professionisti e partite Iva soltanto in ordine alle comunicazioni della prima cessione o dello sconto in fattura inviate all’Agenzia delle Entrate a far data dal 1° maggio 2022. 

    Leggendo i dati delle ricerche effettuate da diversi istituti – Ance, il Sole 24 Ore, il Dipartimento Politica Economica, Luiss Business School e Openeconomics, per citarne alcuni –  emerge che il Superbonus 110% è uno strumento che produce un notevole ritorno economico nelle casse dello Stato, grazie anche alle migliaia di posti di lavoro che crea, e, al contempo, contribuisce a rendere gli edifici più sicuri ed ecosostenibili. 

    Viene, quindi, da domandarsi perché il Governo sia così ostinatamente contrario a questa misura, tanto da negare i risvolti più che positivi che questa ha avuto sull’economia nazionale.

    Viola Zuddas, Avvocato

    Con il termine “cittadinanza” si indica il rapporto tra un individuo e lo Stato al quale l’ordinamento giuridico ricollega la pienezza dei diritti civili e politici.

    In Italia, è legge del 5 febbraio 1992 n. 91 a disciplinare l’acquisto della cittadinanza. Questa prevede, in particolare, diverse modalità di acquisto:

    • jure sanguinis: se si nasce o si è adottati da cittadini italiani.
    • per matrimonio o unione civile: il coniuge, straniero o apolide, di cittadino italiano può chiedere di acquistare la cittadinanza italiana quando, dopo il matrimonio, risieda legalmente in Italia da almeno due anni nel territorio della Repubblica, oppure dopo tre anni dalla data del matrimonio se residente all’estero, e purché, al momento dell’adozione del provvedimento di concessione, non sia intervenuto lo scioglimento, l’annullamento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio e non sussista la separazione personale dei coniugi. I termini sono ridotti della metà, in presenza di figli nati o adottati dai coniugi.
    • acquisto jure soli: trattasi di una modalità di acquisto residuale nel caso in cui i genitori secondo le legge del loro Paese non possano trasmettere al figlio la propria cittadinanza.

    Occorre evidenziare che la cittadinanza può essere richiesta anche dagli stranieri che risiedono regolarmente in Italia da almeno dieci anni (purché soddisfino determinati requisiti, tra cui quelli di carattere reddituale) ed altresì i ragazzi nati in Italia da genitori stranieri al compimento del diciottesimo anno di età, e purché: risiedano legalmente in Italia e senza interruzioni fino al compimento dei diciotto anni; siano in possesso di un titolo di soggiorno; siano iscritti all’anagrafe del Comune di residenza.

    La cornice normativa sopra riportata è stata più volte messa in discussione dal dibattito politico nazionale.

    Solo qualche tempo fa, ad esempio, le forze di governo hanno (ri)portato al centro dell’attenzione l’annosa questione afferente al cosiddetto “Ius soli”, che prevede l’acquisizione automatica della cittadinanza per chiunque nasca nel territorio dello Stato (come accade, ad esempio, in Francia o negli Stati Uniti d’America).

    Ma ancor più di recente, il dibattito nazionale sulle riforme della cittadinanza si è acuito a seguito della proposta di legge A.C. 105-A, che ha come relatore il deputato Brescia, sullo Ius Scholae.

    La proposta di Legge sullo Ius Scholae: di cosa si tratta?

    Il 9 marzo scorso è stato adottato dalla Commissione affari costituzionali della Camera un testo base per la riforma della disciplina dei modi d’acquisto della cittadinanza, il quale prevede una nuova possibilità d’acquisto della cittadinanza che, se approvata, andrebbe a sommarsi a quelle attualmente offerte dalla legge.

    Si parla a riguardo di Ius Scholae proprio per evidenziare il ruolo centrale attribuito alla scuola e, dunque, all’istruzione, per l’accesso alla cittadinanza.

    Quali sono i presupposti per accedervi?

    La proposta riguarderebbe i figli di stranieri che soddisfano le seguenti condizioni:

    • nascita in Italia, o inizio del soggiorno in Italia entro il compimento del dodicesimo anno d’età;
    • residenza legale e senza interruzioni sul territorio nazionale;
    • aver “frequentato regolarmente, nel territorio nazionale, per almeno cinque anni, uno o più cicli scolastici presso istituti appartenenti al sistema nazionale di istruzione o percorsi di istruzione e formazione professionale triennale o quadriennale idonei al conseguimento di una qualifica”.

    In presenza dei requisiti di cui sopra, la cittadinanza verrebbe acquistata a seguito di manifestazione di volontà da parte di entrambi o uno dei genitori del minore legalmente residente in Italia o, altrimenti, da chi ne esercita la responsabilità genitoriale, e prima del compimento della maggiore età dell’interessato.

    In ogni caso, nell’ipotesi in cui il genitore non dovesse trasmettere la dichiarazione di volontà, questa può essere trasmessa dal minore entro due anni dal compimento della maggiore età.

    A differenza delle proposte riguardanti, ad esempio, lo Ius soli, lo Ius Scholae prevede la possibilità di acquistare la cittadinanza soltanto a seguito di un processo di integrazione che passa per l’educazione scolastica.

    Si tratta, dunque, di un’alternativa di acquisto dello status di cittadino sicuramente più celere e vantaggiosa rispetto a quelle attualmente vigenti in quanto consentirebbe un acquisto anticipato della cittadinanza per i figli di stranieri che altrimenti diverrebbero cittadini solo a seguito dell’acquisto della cittadinanza da parte di un genitore o, se nati in Italia, al compimento del diciottesimo anno di età oppure, alternativamente, per naturalizzazione.Avv. Eleonora Pintus, Diritto Internazionale e dell’Unione Europea

    Tuttavia, non si può negare che il testo così formulato possa ostacolare l’accesso alla cittadinanza. Ciò in quanto, si legge nella bozza, condizione necessaria per la presentazione della domanda e relativa concessione del beneficio è il requisito della residenza legale ed ininterrotta del minore e dei genitori o dell’esercente la responsabilità genitoriale.

    Questa condizione andrebbe senz’altro a limitare la possibilità di accesso allo status di cittadino per il ragazzo poiché subordina la sua posizione a quella del genitore o del responsabile che, in alcuni casi, potrebbero non essere titolari – per qualunque motivo – di un valido titolo di soggiorno.

    La proposta di legge sullo Ius scholae rappresenta senz’altro un grande passo avanti nella battaglia per l’integrazione ed il riconoscimento dei diritti civili ma non si può negare che il testo nella sua attuale formulazione, ora all’esame della Camera, possa determinare l’insorgere di ostacoli di accesso allo status difficilmente superabili.

    Eleonora Pintus, Avvocato

     

    PNRR e sport: occasione di riqualificazione urbana

    In seguito alla crisi globale derivata dalla pandemia da Covid-19, che ha travolto l’intero pianeta, la Commissione europea ha lavorato ad un piano di ripresa dedicato a tutti i paesi membri dell’Unione europea, volto a sanare i danni economici e sociali derivati dall’emergenza sanitaria. 

    Con questi presupposti è nato lo strumento finanziario denominato NextGenerationEU, dedicato al finanziamento di interventi finalizzati allo sviluppo economico e alla crescita sostenibile dei paesi colpiti dalle difficoltà generate dal coronavirus. 

    Il principale mezzo attuativo di questo pacchetto di finanziamenti europei è il RRF, Dispositivo per la ripresa e la resilienza, che ha consentito agli stati europei di presentare un proprio piano di investimenti, in linea con i principi del NGEU. 

    L’Italia, uno dei paesi più colpiti dalla crisi economica, ha quindi progettato e dato vita al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), un piano che prevede sei missioni:  

    1. digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo, 
    2. rivoluzione verde e transizione ecologica,
    3. infrastrutture per una mobilità sostenibile,
    4. istruzione e ricerca,
    5. inclusione e coesione,
    6. salute.

    La missione n.5, suddivisa in tre componenti, è fortemente legata al mondo dello sport, strumento di coesione sociale, e punta essenzialmente sulla realizzazione di nuove strutture e sulla ristrutturazione del patrimonio impiantistico sportivo esistente, mirando alla sostenibilità e alla socializzazione come mezzi per la riqualificazione di aree urbane destinate alla collettività.Elena Falqui, Ingegnere

    L’investimento relativo all’edilizia sportiva si articola in due avvisi, dedicati a due gruppi denominati cluster 1/2 e 3, che differiscono per la tipologia dei Comuni destinatari e la configurazione delle proposte.  

    Il cluster 3 è quello rivolto ai Comuni italiani che presentino progetti accompagnati dalla sponsorizzazione di una federazione sportiva, che manifesti e sottoscriva il proprio interesse negli interventi, al fine di garantire una maggiore promozione e una condivisione di livello nazionale, grazie alla partecipazione di enti che assicureranno la funzionalità degli impianti promossi. 

    La manifestazione di interesse pubblicata dal governo, e destinata ai Comuni italiani, prevede un importo finanziabile pari a Euro 162.000.000,00, ed è destinata a progetti riguardanti impianti di proprietà pubblica, con un tetto di contributo di 4 milioni di euro a intervento; il bando indica la possibilità di individuare un singolo intervento, sia per i presentanti domanda, che per le Federazioni sportive, che possono esprimere il loro interesse su un unico progetto. Le domande di partecipazione dovevano essere consegnate entro il 22 aprile 2022, tramite invio alla pec del governo dedicata, con una prima descrizione dell’intervento proposto e delle finalità prefisse, l’indicazione dei soggetti coinvolti e della loro capacità economica, oltre ad un cronoprogramma per la realizzazione delle opere (per un approfondimento clicca il link: https://www.sport.governo.it/media/3380/cluster-3-avviso-pubblico-di-invito-a-manifestare-interesse.pdf). 

    La procedura per l’ammissibilità delle istanze sarà improntata alla definizione di un quadro nazionale omogeneo, impostato sul censimento delle strutture sportive attualmente esistenti sul territorio, individuando quindi gli interventi che possano maggiormente rispondere alle finalità prescritte dal PNRR, per garantire la massima riposta in termini di ricrescita economica e sociale. 

    I progetti che si aggiudicheranno il finanziamento avranno l’obbligo di andare in appalto e aggiudicazione entro il 31 marzo 2023 e dovranno concludersi con la fine lavori entro il 31 gennaio 2026. 

    La riqualificazione dell’impiantistica sportiva, oltre alla creazione di nuovi poli dedicati allo sport che riconfigureranno e trasformeranno grandi aree cittadine, recuperando e valorizzando aree urbane in disuso, avrà inoltre un importante impatto relativamente all’opportunità di poter programmare e organizzare manifestazioni di vario livello da parte dei vari comuni italiani, che potranno contare su strutture adeguate sotto ogni profilo. 

    Basti pensare che solo nel nostro comune di Cagliari sono presenti più di 30 impianti dedicati allo sport di proprietà pubblica con gestione diretta, convenzionata o in concessione, ma che la maggior parte di questi versa in pessime condizioni e ha urgente necessità di ristrutturazioni importanti e, punto fondamentale, non sono a norma per l’apertura al pubblico durante le manifestazioni di qualsiasi entità  poiché non certificate per la prevenzione degli incendi (Certificato di Prevenzione Incendi – CPI).Elena Falqui, Ingegnere

    Gli eventi sportivi svolti nell’ultimo anno hanno avuto un riscontro molto positivo da parte del pubblico che, dopo le restrizioni degli ultimi anni, ha accolto con entusiasmo la recente riapertura a capienza piena degli impianti sportivi, come dimostrato, ad esempio, dagli Internazionali d’Italia di tennis di maggio di quest’anno, che hanno superato il record assoluto di partecipazione di spettatori della storia del torneo. 

    Gli italiani hanno necessità di riscatto, di ripartenza e di socialità e lo sport è sicuramente uno dei mezzi principali per garantire questo processo e le manifestazioni di alto livello sono uno strumento per una crescita economica.

    Elena Falqui, Ingegnere

    Mi sono laureata nel 2007 in Tecnologie per la Conservazione e il Restauro dei Beni Culturali e nel 2010 in Ingegneria Edile, col massimo dei voti presso la facoltà di Ingegneria e Architettura di Cagliari; ho conseguito il Master di II livello in Progettazione di impianti sportivi presso la Sapienza a Roma nel 2011.
    Ho svolto inizialmente l’attività di libero professionista presso uno studio privato e contemporaneamente presso lo studio di Ingegneria e Architettura di famiglia.
    Nel 2012 ho intrapreso la mia prima esperienza a Roma, affiancando l’architetto incaricato, dal CONI e dalla FIT, della progettazione degli spazi del Foro Italico a Roma in occasione degli Internazionali BNL d’Italia.
    Nello stesso anno sono stata assunta dalla FIT, ho proseguito l’affiancamento col progettista degli IBI; ho svolto anche il ruolo di referente FIT per gli impianti sportivi di tennis in tutta Italia e ho fatto parte per alcuni anni della Commissione Impianti Sportivi; ho anche partecipato al gruppo di controllo sul “Fondo Rotativo FIT”, verificando, dal punto di vista tecnico, le richieste di finanziamenti dei circoli affiliati.
    Dal 2019 sono diventata un collaboratore esterno della Federazione Italiana Tennis e tuttora proseguo il mio percorso nel mondo dello Sport.
    Da ottobre 2021 sono inserita nell’elenco del corpo nazionale dei Vigili del fuoco come professionista abilitata  alla progettazione antincendio.
    Mi occupo principalmente della progettazione degli spazi, della direzione dei lavori, della sicurezza sia in fase di progettazione che esecuzione nei cantieri, della stesura di Piani Safety&Security e sono il referente nei rapporti con l’amministrazione locale durante la programmazione di manifestazioni sportive. 

     

    Focus di diritto tributario • Avv. Francesco Sanna

    PNRR e la riforma fiscale

    A più di otto mesi dall’approvazione del Piano, si riconferma il consenso sul PNRR come grande occasione per il rilancio del Paese, ma aumenta la sfiducia sulla capacità del Governo di raggiungere gli obiettivi prefissati.
    Questo è quanto emerge dal sondaggio e dall’analisi sui risultati effettuati da Ernst & Young. 

    Oggi, l’83% (contro il 92% di settembre 2021) dei manager vede il PNRR come occasione unica per il rilancio del Paese.

    Per il 32% dei manager italiani la riforma del fisco e della giustizia civile sono prioritarie per rendere l’Italia più attrattiva per gli investitori stranieri. A seguire la realizzazione di grandi infrastrutture tecnologiche (27%), riforma della giustizia amministrativa (27%) e realizzazione di grandi infrastrutture fisiche (21%) 

    La riforma fiscale ed il riordino della tassazione sono ritenuti unanimemente questioni decisive per attrarre i capitali stranieri e quindi consentire la ripresa economica. E proprio in ragione della importanza e del mancato raggiungimento dei risultati prestabiliti si evidenzia un forte scontento per la situazione in cui versa il fisco.Francesco Sanna, Avvocato

    Secondo le ultime rilevazioni, i manager chiedono (85%) maggiore stabilità della normativa, limitazione della decretazione d’urgenza (69%), coinvolgimento delle parti sociali nelle discussioni (58%) e rafforzamento di organico e competenze dell’amministrazione finanziaria (54%). 

    Fiscalità e Green Deal: leva fondamentale per incentivare aziende e consumatori a comportamenti sostenibili, ma per l’84% dei manager serve maggiore uniformità tra i Paesi europei. 

    Incentivi fiscali: l’80% degli intervistati ne riconosce i vantaggi per imprese e consumatori, ma sono necessari meccanismi di controllo mirati per evitare abusi, soprattutto relativamente all’ecobonus. 

    Nel corso dell’evento tenutosi a Milano il 14 marzo 2022 i rappresentanti del mondo istituzionale, accademico e delle imprese nel corso dell’EY Tax Day, si sono confrontati sulle aspettative dell’opinione pubblica e dei manager rispetto all’impatto del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) sull’economia del Paese. 

    Nel corso dell’evento, EY e SWG hanno presentato i risultati di un’indagine, condotta su un campione di oltre 1200 persone tra manager e opinione pubblica, che analizza la fiducia sull’impatto del Recovery Plan e sulla riforma fiscale, a svariati mesi dall’approvazione in via definitiva del PNRR.  

    Un’ampia quota della popolazione e 1/3 dei manager intervistati affermano di non conoscere o comprendere i vari aspetti del Piano in maniera adeguata in quanto si rileva una moltiplicazione e diffusione delle informazioni ritenuta non ottimale. Dai dati si rileva inoltre una certa fiducia nei confronti dell’azione svolta dal Governo, soprattutto tra i manager intervistati. Anche in relazione al raggiungimento degli scopi previsti, oltre un terzo degli intervistati (ovvero 34% della popolazione e 36% dei manager) indica che gli obiettivi ad oggi conseguiti con il PNRR sono inferiori rispetto a quanto concordato in sede europea, suggerendo dunque un certo scetticismo generale sullo stato della sua attuazione. 

    I dati dell’indagine illustrano quali sono le riforme percepite più importanti. Tra queste c’è quella del fisco e della giustizia civile (entrambe per il 32% dei manager) sono essenziali per aumentare l’attrattività del Paese nei confronti degli investitori esteri. 

    Il sistema fiscale è uno dei temi centrali per il futuro del Paese. La possibilità di capire e quindi attuare l’imposizione tributaria nelle sue varie articolazioni è alla base del cosiddetto patto sociale e richiede semplificazioni oltre che nuove forme di ricerca del senso e del consenso, tanto in chiave domestica che di attrattività estera. Questa attenzione nasce da una valutazione particolarmente severa del sistema attuale che vede popolazione e manager allineati nel ritenere il sistema di oggi poco efficace, equo ed efficiente. Secondo l’85% dei manager e l’83% della popolazione la complessità del sistema fiscale italiano è un ostacolo alla competitività internazionale delle imprese italiane e, secondo l’86% dei manager, la sua complessità ostacola l’ingresso di imprese estere interessate a investire nel Paese. 

    Le aspettative legate a una riforma del sistema più equo ed efficiente vanno innanzitutto nella direzione di una maggiore stabilità della normativa. Sono soprattutto i manager a chiedere (85%) maggiore stabilità, limitando il ricorso a decretazioni d’urgenza evitandone la retroattività (secondo il 69%), ma anche (58%) coinvolgendo le parti sociali nelle discussioni e mettendo a disposizione dei servizi personale più competente.

    L’intero pacchetto di richieste si orienta fortemente verso un intervento per la creazione di un sistema fiscale stabile e affidabile che consenta di programmare le attività anche nel medio periodo e con il quale sia possibile costruire delle interlocuzioni positive a vari livelli.Francesco Sanna, Avvocato

    Al netto di questa aspettativa, si constata che la riforma in corso non è ancora in grado di raggiungere gli obiettivi desiderati: solo poco più del 30% dei manager ritiene che il processo di riforma in atto sia vicino alle esigenze delle imprese e ancora meno (il 28%) reputa che favorisca la competitività delle imprese italiane. Sul fronte della giustizia tributaria, i manager intervistati concordano nella costruzione di un sistema più snello e semplice, con un maggiore livello di competenza e di professionalità dei vari attori e che consenta un’interlocuzione costante tra Stato e contribuenti ai vari livelli possibili. 

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    Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu

    PNRR e prevenzione delle infiltrazioni mafiose

    Il d.l. 6 novembre 2021 n. 152, denominato “Disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e per la prevenzione delle infiltrazioni mafiose”, così come convertito con la L. 29 dicembre 2021 n. 233, ha introdotto, per quanto qui di interesse, oltre alla riforma del processo penale mirata alla digitalizzazione e ad una serie di interventi per garantire maggiore celerità del procedimento, anche delle importanti novità in materia di misure di prevenzione antimafia, intervenendo sul cd. Codice antimafia.

    Invero, proprio la previsione di ingenti investimenti inerenti il PNRR ha incrementato notevolmente il rischio di insorgenza di fenomeni di corruzione e di infiltrazioni mafiose nel settore imprenditoriale, al punto che si è reso necessario un rafforzamento delle strategie e delle misure di contrasto. 

    L’obbiettivo della norma è quello, da un lato, di consentire alle imprese che operano lecitamente di partecipare ai bandi di gara previsti dal PNRR nel pieno rispetto delle regole della concorrenza e, dall’altro lato, di prevenire la partecipazione di soggetti legati alla criminalità organizzata, ciò anche attraverso l’implementazione del sistema di prevenzione antimafia e lo snellimento delle procedure. 

    Innanzi tutto, la riforma introduce una modifica nel procedimento di rilascio delle misure interdittive antimafia, mediante l’inserimento di una fase di contradditorio preliminare con il soggetto interessato. 

    Giova precisare che l’interdittiva antimafia è una misura di carattere preventivo applicabile nei confronti di imprenditori e società direttamente o indirettamente collegate con la criminalità organizzata, che comporta l’interdizione delle imprese destinatarie a contrarre la Pubblica Amministrazione o a ricevere erogazioni pubbliche. 

    In particolare, l’informativa antimafia interdittiva è un provvedimento amministrativo che si fonda sugli accertamenti effettuati dagli organi di polizia ed è applicata dal Prefetto territorialmente competente, con lo scopo di tutelare l’ordine pubblico, la libera concorrenza tra le imprese e il buon andamento della Pubblica Amministrazione. 

    Il provvedimento è applicabile nel caso in cui dall’esame degli elementi di indagine emerga un attuale, univoco e grave pericolo concreto di infiltrazione mafiosa nell’impresa, pertanto, non è richiesto l’accertamento “al di là del ragionevole dubbio” del compimento di una condotta penalmente rilevante, bensì è sufficiente la sussistenza del rischio di infiltrazioni mafiose, valutato in base al noto criterio del “più probabile che non”.  

    A tale riguardo, il Consiglio di Stato con la sentenza dell’11 gennaio 2021, n. 383 ha precisato che ai fini della adozione dell’informativa antimafia: “da un lato, occorre non già provare l’intervenuta infiltrazione mafiosa, bensì soltanto la sussistenza di elementi sintomatico presuntivi dai quali – secondo un giudizio prognostico discrezionale – sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata; d’altro lato, detti elementi vanno considerati in modo unitario, e non atomistico, cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri”. 

    Quanto alla riforma, come detto, viene introdotta una fase di contradditorio preliminare che, nella specie, prevede che qualora il Prefetto ritenga sussistenti i presupposti per l’applicazione del provvedimento de quo, purché non ricorrano esigenze di celerità, dà tempestiva comunicazione al destinatario, indicando un termine non superiore a 20 giorni, entro il quale quest’ultimo può far pervenire osservazioni scritte o chiedere l’audizione, al fine di chiarire la propria posizione. 

    Tuttavia, la procedura deve concludersi entro 60 giorni dalla notifica della comunicazione, ad esito della quale il Prefetto può alternativamente rilasciare l’informazione antimafia liberatoria oppure disporre l’applicazione della misura di prevenzione collaborativa o adottare il provvedimento interdittivo. 

    Tale procedura, che, all’evidenza, comporta una discovery delle informazioni raccolte dagli organi di polizia in merito alla posizione del soggetto interessato, proprio al fine di salvaguardare le esigenze di indagine, prevede una limitazione alla comunicazione di tutte quelle informazioni il cui disvelamento possa pregiudicare i procedimenti amministrativi o le attività processuali in corso.   

    Il Decreto introduce, altresì, l’art. 94 bis del Cod. Antimafia che prevede nuove misure amministrative di prevenzione collaborativa, nel caso in cui si tratti di una agevolazione di tipo occasionale, già delineata nell’art. 34 bis. 

    Lo scopo è quello di salvaguardare le imprese che appaiano solo marginalmente contaminate da presenze mafiose, consentendo alle stesse di adottare ogni misura utile per continuare ad operare legittimamente.   

    In tale ipotesi, il Prefetto può prescrivere all’impresa, società o associazione interessata l’osservanza, per un periodo tra 6 e 12 mesi, di una o più misure organizzative per rimuovere e prevenire le cause di agevolazione, anche disponendo la nomina di uno o più esperti incaricati di coadiuvare il soggetto interessato nell’adozione delle predette misure. 

    Qualora, alla scadenza del termine indicato, il Prefetto accerti il venir meno dell’agevolazione occasionale rilascia l’informazione antimafia liberatoria, mentre, in caso contrario, adotta l’informativa antimafia interdittiva.

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    Focus di diritto civile, tutela della persona • Avv. Viola Zuddas

    Il PNRR al servizio dello sport per l’inclusione sociale

    Come chiarito dal Dipartimento per lo sport (clicca qui per un approfondimento: https://www.sport.governo.it/it/pnrr/sport-e-inclusione-sociale-avvisi-a-manifestare-interesse/ ) il PNRR si pone (anche) l’obiettivo di incrementare l’inclusione e l’integrazione sociale attraverso la realizzazione e/o la rigenerazione di impianti sportivi che favoriscano il recupero di aree urbane destinate alla collettività.

    A tal fine, come già precisato dall’Ing. Elena Falqui nel suo focus, è previsto anche il coinvolgimento delle Federazioni che dovrebbe consentire di promuovere maggiormente la cultura sportiva e, in generale, la partecipazione allo sport, garantendo la medesima visibilità a tutte le discipline. 

    In particolare, a tale scopo, sono stati identificati tre cluster di intervento, suddivisi in due avvisi pubblici di invito a manifestare interesse: 

    • Avviso 1, relativo ai cluster 1 e 2: è destinato ai Comuni capoluogo di Regione, ai Comuni capoluogo di Provincia con popolazione superiore ai 20.000 abitanti e ai Comuni con popolazione superiore ai 50.000 abitanti, per la realizzazione o la rigenerazione di impianto polivalente indoor, Cittadella dello sport o impianto natatorio. 
    • Avviso 2, relativo al cluster 3: è destinato a tutti i Comuni italiani ed è finalizzato alla realizzazione di nuovi impianti o alla rigenerazione di impianti esistenti che siano di interesse delle Federazioni Sportive Nazionali e delle Federazioni Sportive Paralimpiche, a livello nazionale, così come individuate dal Comitato Olimpico Nazionale Italiano e dal Comitato Italiano Paralimpico. 

    Semplificando, quindi, al fine di promuovere l’inclusione e l’integrazione sociale i progetti finanziati con il PNRR dovranno sostenere: 

    • la costruzione e la riqualificazione di impianti sportivi ubicati in aree svantaggiate del Paese comprese le periferie metropolitane, 
    • la distribuzione di attrezzature sportive per le aree degradate ritenute necessarie per l’allestimento di strutture sportive che possano anche rimuovere gli squilibri economici e sociali, 
    • il completamento e l’adeguamento di impianti sportivi esistenti da destinare all’attività agonistica nazionale ed internazionale. 

    Questi progetti, dunque, dovrebbero permettere, anzitutto, la creazione di nuovi posti di lavoro che potranno servire per rilanciare un settore che, negli ultimi anni, è entrato in crisi. 

    Non vi è dubbio, infatti, che la pandemia ha avuto un profondo impatto anche sul mondo dello sport che ha subito – soprattutto tra l’anno 2020 ed il 2021- ingenti perdite economiche causate dalla impossibilità di realizzare eventi e competizioni sportive per ragioni legate alla sicurezza sanitaria.  

    A ciò si aggiunga che la mancata organizzazione delle manifestazioni sportive ha causato degli importanti danni anche al settore del turismo sportivo, sia estivo che invernale, e di conseguenza su tutte le attività che hanno sempre gravitato attorno ad esso. 

    Ebbene, i predetti progetti dovrebbero, altresì, consentire l’integrazione di persone svantaggiate o emarginate che potranno beneficiare, e quindi usufruire, di attrezzature ed impianti sportivi anche in aree periferiche delle città. 

    Gli investimenti, infatti, serviranno a ridurre situazioni di emarginazione e degrado sociale attraverso la riqualificazione delle aree pubbliche e promuovendo attività sportive e, altresì, lo sviluppo della relativa cultura: valorizzando il potenziale di ogni territorio e rafforzando i servizi sociali di prossimità per il sostegno alle persone emarginate si mira, quindi, a colmare il cosiddetto “divario di cittadinanza”.

    Qual è l’iter da seguire una volta presentato il progetto?

    Come chiarito dal Dipartimento per lo sport (clicca qui per un approfondimento: https://www.sport.governo.it/media/3504/avviso-pubblico-sport-e-periferie-2022.pdf ) il Responsabile Unico del Procedimento (RUP) provvederà alla verifica della singola proposta progettuale pervenuta con riferimento: 

    • alla regolarità della trasmissione e  
    • alla verifica di ammissibilità formale della domanda in relazione alla sussistenza delle cause di esclusione. 

    Successivamente, le proposte progettuali risultate ricevibili e ammissibili saranno valutate da un’apposita Commissione nominata con provvedimento del Capo del Dipartimento per lo sport, che attribuirà un punteggio in base ai diversi criteri di valutazione indicati nel relativo avviso. 

    Infine, il finanziamento verrà erogato sulla base di apposita convenzione sottoscritta con firma digitale tra il Capo del Dipartimento per lo sport e il legale rappresentante del soggetto richiedente: tale convenzione sarà volta a disciplinare la realizzazione delle attività, i reciproci rapporti e responsabilità nonché le modalità di erogazione del contributo che, in ogni caso, verrà corrisposto in proporzione agli stati di avanzamento dei lavori, certificati dal direttore dei lavori e approvati dal RUP dell’ente beneficiario. 

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    Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus

    Next generation EU e PNRR: inclusione di soggetti fragili e vulnerabili 

    Al fine di riparare i danni economici e sociali causati dall’emergenza sanitaria da COVID-19 e creare una solida base per una comune ripartenza europea, la Commissione europea, il Parlamento europeo e i leader dell’UE hanno concordato un piano di ripresa di carattere finanziario denominato NextGenerationEU, espressione di una nuova politica di coesione.

    Trattasi del più grande pacchetto di risorse economiche temporaneo mai finanziato dall’UE pari 750 miliardi di euro pensato per stimolare una “ripresa sostenibile, uniforme, inclusiva ed equa” e diretta a garantire la possibilità di fare fronte a future ed impreviste esigenze. 

    Per rendere l’Europa più verde, più digitale e più sicura, l’UE mette a disposizione degli stati i finanziamenti di NextGenerationEU non appena questi diventano disponibili e i progetti vengono realizzati e presentati alla Commissione Europea. 

    In questo contesto si inserisce il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), lo strumento che traccia gli obiettivi, le riforme e gli investimenti che l’Italia intende realizzare grazie all’utilizzo dei fondi europei di Next Generation EU, per attenuare l’impatto economico e sociale della pandemia e rendere l’Italia un Paese più equo, green e inclusivo, con un’economia più competitiva, dinamica e innovativa. 

    Tra i principali obiettivi del nuovo programma, vi è anche quello di rafforzare l’inclusione sociale, soprattutto dei soggetti fragili e vulnerabili. 

    Come? 

    In Italia, con Decreto n. 5 del 15 febbraio 2022 del Direttore Generale per la Lotta alla povertà e per la programmazione sociale, è stato adottato l’Avviso pubblico n. 1/2022 per presentare Proposte di intervento da parte degli Ambiti Territoriali Sociali da finanziare nell’ambito del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) finanziato dall’Unione europea - Next generation Eu. 

    Di cosa si tratta?

    L’Avviso intende favorire le attività di inclusione sociale di specifiche categorie di soggetti fragili e vulnerabili: famiglie e bambini, anziani non autosufficienti, disabili o anche persone senza dimora.  

    La misura prevede interventi di rafforzamento dei servizi a supporto delle famiglie in difficoltà, soluzioni alloggiative, dotazioni strumentali a sostegno di persone anziane per garantire loro una vita autonoma e indipendente, forme di sostegno agli operatori sociali per fronteggiare il fenomeno del burn out ed ancora iniziative di housing sociale di carattere sia temporaneo che definitivo.   

    In particolare, fra le attività previste per il sostegno degli anziani e dei disabili vi è il rafforzamento dei servizi sociali offerti dal territorio, come infermieri, caregiver, badanti per chi vive in casa – così da consentire loro di rimanere nello stesso luogo dove hanno vissuto per tutta la vita – nonché il rafforzamento delle strutture di ricovero per coloro che preferiscono allontanarsi dall’ambiente domestico. 

    Questa linea di intervento consiste nella realizzazione e adattamento di abitazioni in cui potranno vivere gruppi di persone con disabilità, attraverso il reperimento di spazi ed ambienti esistenti. Ogni abitazione sarà strutturata e personalizzata mediante strumenti e tecnologie di domotica e interazione a distanza, in base alle necessità degli ospiti.  

    È interessante rilevare che l’Avviso prevede la possibilità di attuare i progetti di intervento per soluzioni alloggiative anche mediante la destinazione a tale finalità di beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata.Francesco Sanna, Avvocato

    La possibilità di utilizzo di immobili confiscati e sequestrati alla criminalità organizzata e in seguito trasferiti alla disponibilità degli Enti Pubblici, al fine di potenziare l’edilizia residenziale pubblica e migliorare i servizi di prossimità, concerne tutte le linee di attività e non solo quelle dedicate ai percorsi di autonomia per persone anziane e con disabilità.  

    I destinatari dell’avviso sono gli Ambiti Territoriali Sociali (ATS), circa 600 – competenti alla presentazione di progetti singolarmente o anche di concerto, con individuazione di un ATS capofila assegnatario delle risorse – e i Comuni singoli. Le Regioni e Province Autonome avranno un ruolo di coordinamento e di programmazione per lo sviluppo dei sistemi sociali territoriali. 

    A seguito della presentazione dei progetti, con il Decreto Direttoriale numero 98 del 9 maggio 2022, gli uffici del ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali hanno assegnato ai vari Ambiti territoriali sociali in Italia le risorse economiche, legate al PNRR, dirette a favorire le attività di inclusione sociale per soggetti fragili e vulnerabili, come famiglie e bambini, anziani non autosufficienti, disabili e persone senza dimora per oltre 1,25 miliardi di euro. 

    ​Qual è l’iter da seguire una volta presentato il progetto?  

    Si segnala che al fine di rendere effettivo il piano europeo-nazionale, a partire dal 21 giugno 2022 sono disponibili i format delle schede progetto relative all’Avviso pubblico n. 1/2022 PNRR Next generation Eu, con relativi piani finanziari e cronoprogrammi, suddivise per le diverse linee di finanziamento. Le schede progetto dovranno essere caricate dai Comuni e Ambiti Territoriali Sociali (ATS) ammessi al finanziamento sull’applicativo gestionale che sarà messo a disposizione dall’ Amministrazione. Dopodiché, le schede progetto saranno oggetto di verifica in sede di sottoscrizione delle convenzioni. 

    In conclusione, questo breve contributo, che presta maggiore attenzione alle categorie dei soggetti fragili e vulnerabili, si inserisce all’interno di una cornice più complessa che intende evidenziare come l’Unione Europea, con il suo programma di finanziamento, ha deciso di gettare le basi per il futuro dell’Europa. 

    Il nome “Next generation” non è certamente un caso: è un investimento a favore e nell’interesse delle generazioni future affinché possano godere di economie e società più sostenibili, resilienti e pronte alle nuove sfide del domani. 

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