Reddito di libertà: una misura a sostegno delle donne vittime di violenza
La Convenzione di Istanbul (maggio 2011), all’interno della definizione di violenza domestica, insieme alle più conosciute forme di violenza fisica, sessuale e psicologica, inserisce la violenza economica.
L’indipendenza economica, infatti, è un aspetto rilevante, anche se spesso poco evidenziato, delle situazioni di subalternità in ambito relazionale e domestico.
Nel contesto socio culturale italiano e non solo, le donne molto spesso hanno difficoltà ad individuare la violenza economica come un abuso perché culturalmente è considerato normale che una donna non lavori.Claudio Casti, Operatore Patronato Inac Cagliari
La marcata differenza nella gestione del denaro all’interno del nucleo familiare spesso va di pari passo con la separazione dei ruoli all’interno dello stesso. Questa separazione a sua volta alimenta un circolo vizioso che rafforza la posizione di subalternità: dalle statistiche redatte grazie ai dati raccolti nei Centri antiviolenza, una donna su tre subisce violenza economica (dati aggiornati al 2021), ma i numeri reali potrebbero essere ben più alti.
Il fenomeno non è ben conosciuto e le donne spesso si rivolgono a un centro antiviolenza solo quando la forma di violenza che subiscono si fa più eclatante.
Lo sportello Mia Economia di Fondazione Pangea ha stilato un identikit delle vittime di violenza economica. Gli abusi si verificano a tutti i livelli socio-economici, sono vissuti da donne di ogni classe e livello di reddito e riguardano principalmente la fascia d’età tra i 40 e i 60 anni.
Lo stato emergenziale del 2020 e il conseguente periodo di lockdown hanno portato maggiormente all’attenzione pubblica i casi limite di violenza di genere all’interno del contesto familiare, mettendo anche in luce situazioni di prevaricazione psicologica ed economica.
Le motivazioni che possono spingere a non abbandonare il nucleo familiare e a sopportare i soprusi di un compagno violento sono spesso riconducibili al fatto che lo stesso è l’unico percettore di reddito della famiglia.Claudio Casti, Operatore Patronato Inac Cagliari
In questo contesto trova finalmente applicazione il D.P.C.M. del 17 dicembre 2020, ex art. 105 – bis del decreto Rilancio 34/2020, che introduce il cosiddetto Reddito di Libertà (Rdl) per le donne vittime di violenza, per cui viene stanziato un fondo di 9 milioni di euro. Ulteriori somme integrative possono essere stanziate dalle singole Regioni/Province autonome ad integrazione di quanto spettante, come indicato dal messaggio INPS 1053 del 7 marzo 2022.
Partendo dal presupposto che un primo passo verso l’uscita dalla posizione di subalternità parte dal raggiungimento dell’indipendenza economica, il Reddito di Libertà è volto proprio ad agevolare un percorso di emancipazione delle donne vittime di violenza e in condizione di povertà nonché il sostegno per l’istruzione e la formazione dei figli minori, e opera parallelamente al percorso di emancipazione e autonomia intrapreso presso il Centro antiviolenza.
Emerge dalle statistiche dei Centri antiviolenza che una donna su tre che vi si presenta, lo fa con i figli, fatto non marginale che evidenzia l’importanza del supporto offerto dalla misura Rdl.
Il contributo economico viene erogato dalle Regioni per tramite dei Comuni, su domanda presso l’Ufficio dei Servizi Sociali e consiste in 400 euro mensili non imponibili, spettanti per un massimo di 12 mensilità.Claudio Casti, Operatore Patronato Inac Cagliari
Il contributo non è incompatibile con altre prestazioni a sostegno del reddito erogate dall’INPS o eventuale pensione di invalidità, e spetta alle donne cittadine italiane, cittadine della Comunità Europea, o extracomunitarie munite di regolare permesso di soggiorno. Rientrano inoltre tra le beneficiarie le cittadine straniere con status di rifugiate politiche o protezione sussidiaria.
Alla domanda andrà allegata la dichiarazione del responsabile legale del Centro antiviolenza che ha preso in carico la vittima di violenza, e la dichiarazione dello stato di bisogno straordinario ed urgente, firmata dal responsabile del Servizio Sociale di riferimento.
Claudio Casti, Operatore Patronato Inac Cagliari
Sono nato a Cagliari nel 1981, dopo gli studi in biologia, dal 2008 ho lavorato al Caf – Cia e al Patronato Inac nelle sedi di Cagliari, San Sperate e Sestu.
Dal 2014 sono operatore nella sede provinciale del Patronato Inac di Cagliari.
Focus di diritto civile • Avv. Francesco Sanna
Matrimonio forzato e violenza di genere
La Corte di Cassazione ha stabilito, con l’ordinanza del 20 aprile 2022 n. 12647, che la violenza fisica e psichica esercitate contro una donna per costringerla a convolare a nozze configura una vera e propria fattispecie di violenza di genere.
In generale, la violenza in parola rientra tra quelle oggetto di riconoscimento di protezione internazionale e così il matrimonio imposto con la coercizione fisica e psichica consumate nei confronti di una donna, costituisce violenza di genere.
Secondo la giurisprudenza del Supremo Collegio – in ossequio a quanto sancito dalla Convenzione di Istanbul – l’obbligo a contrarre matrimonio non si può considerare come fatto di natura privata ma rientra nell’ambito della violenza di genere e qu8ndi meritevole di piena tutela.Avv. Francesco Sanna, Diritto Civile
Ciò vale anche se la donna in questione è sottoposta a codici di comportamento, come il Codice del Kanun, applicato nelle aree rurali del nord dell’Albania, dove la posizione della donna – ancora oggi purtroppo – è di completa sottomissione all’uomo.
I fatti oggetto di causa
Una donna albanese, fuggita dall’Albania perché i familiari le volevano imporre il matrimonio con un uomo vent’anni più grande di lei, aveva chiesto il riconoscimento della protezione internazionale e, in particolare, dello status di rifugiata e, in via subordinata, il riconoscimento della protezione sussidiaria e, in via di ulteriore subordine, il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari.
La competente commissione territoriale aveva respinto l’istanza e la donna decise di presentare contro questo provvedimento ricorso davanti al Tribunale.
In precedenza aveva cercato di opporsi scappando di casa senza successo ed era stata sottoposta a violenze fisiche e psicologiche, oltrechè a minacce da parte del padre che deteneva illegalmente armi da fuoco.
La povera ragazza, come ultimo disperato tentativo di sottrarsi al matrimonio forzato, si era rifugiata in un convento di suore che l’avevano aiutata a fuggire in Italia il giorno prima della data fissata per le nozze.
Il Tribunale, pur considerando credendo alla versione dei fatti resi dalla donna, suffragati della documentazione prodotta, rigettavano il ricorso.
La decisione del Tribunale
Secondo i giudici di merito, il Paese di origine della ragazza aveva garantito idonee forme di protezione e il matrimonio imposto non poteva considerarsi alla stessa stregua di una forma di persecuzione, presupposto necessario ai fini del riconoscimento dello status di rifugiata.
Ancora, secondo il Tribunale, la protezione sussidiaria poteva essere concessa se si fosse dimostrato che la giovane era sottoposta alla disciplina del Codice del Kanun.
Questo codice impone alla donna una posizione di sottomissione rispetto all’uomo, al punto di essere definita come “niente altro che un otre da riempire”.Avv. Francesco Sanna, Diritto Civile
La soggezione al codice sopra menzionato avrebbe integrato un danno grave che la legge avrebbe potuto e dovuto punire, ma secondo i giudici, nel caso specifico, la ragazza avrebbe potuto ignorare il Codice del Kanun.
Ragion per cui il Tribunale aveva rigettato le richieste della giovane donna.
L’ordinanza della Corte di Cassazione
Di converso la Suprema Corte di Cassazione ha considerato fondato il ricorso della ragazza ritenendo il decreto impugnato affetto da inemendabili errori di diritto.
La Corte ha censurato, per quanto qui di interesse, il decreto impugnato laddove definisce il racconto della richiedente asilo come una semplice vicenda endofamiliare di natura privatistica.
Sul punto, la giurisprudenza di legittimità (Cass. 12333/2017; Cass. 16172/2021), in casi simili, ha affermato che il matrimonio coartato e la reiterata violenza fisica e psichica integrano una violenza di genere.Avv. Francesco Sanna, Diritto Civile
I Supremi Giudici hanno ricordato come il matrimonio imposto al quale si sommano atti di violenza fisica e psichica, costituisca un motivo di riconoscimento della protezione internazionale. Difatti. il matrimonio imposto e la violenza fisica e psichica consumata ai danni di una donna integrano una violenza di genere e, come tali, rientrano tra le ipotesi di riconoscimento della protezione internazionale (Cass. 15466/2014, Cass. 25873/2013, Cass. 25463/2016, Cass. 28152/2017).
Sempre secondo i Giudici della Cassazione, il Tribunale avrebbe ignorato le norme contenute nella Convenzione di Istanbul del 2011 (ratificata dall’Italia con legge 77/2013) sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica.
I giudici di merito, escludendo il riconoscimento della protezione internazionale, hanno sbagliato a considerare decisivo il provvedimento temporaneo assunto dallo Stato di origine della donna, senza valutare il prosieguo della vicenda, vale a dire, la fuga in convento e la partenza per l’Italia il giorno precedente alle nozze.Avv. Francesco Sanna, Diritto Civile
Hanno sbagliato ad escludere la ricorrente dai soggetti meritevoli di tutela pur ammettendo che era stata privata della libertà di autodeterminarsi, come scegliere se e chi sposare.
Alla luce di quanto sopra motivato, la Cassazione ha accolto il ricorso e ha cassato la decisione con rinvio dopo avere considerato le fonti relative alla condizione delle donne in Albania, in particolare, il rapporto annuale 2017/2018 di Amnesty International sull’inadeguatezza delle misure di protezione delle donne dalla violenza domestica.
In virtù ed in ossequio alla decisione del Supremo Collegio, il giudice del rinvio dovrà riesaminare i fatti e dare applicazione ai principi di diritto sopra sanciti, al fine di stabilire:
“se, in caso di rientro nel Paese di origine, esista la certezza, la probabilità, o anche l’unico rischio, per la richiedente asilo, di subire nuovamente atti di violenza di genere, per aver opposto, nell’esercizio della sua fondamentale libertà di autodeterminazione, un rifiuto ad un matrimonio combinato, subendo, di conseguenza, atti di violenza fisica e psichica.”
Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu
La violenza economica può integrare il reato di maltrattamenti?
Prima di esaminare i principali orientamenti giurisprudenziali in tema di maltrattamenti contro i familiari e conviventi, occorre premettere che la violenza domestica e di genere si manifesta attraverso molteplici modalità e, pertanto, non può essere circoscritta esclusivamente alle condotte di violenza fisica, ma vi rientrano anche quei comportamenti finalizzati ad esercitare un controllo sulla vittima, tanto sul piano psicologico, quanto sotto il profilo economico, attraverso la privazione dei mezzi di sussistenza.
In particolare, la Convenzione di Istanbul, ratificata con la L. 27 giugno 2013, n. 77, all’art. 3, sancisce il diritto delle donne a vivere libere da qualsiasi forma di violenza e prevaricazione.
Sebbene nel codice penale italiano non compaia una vera e propria definizione di “violenza domestica”, la stessa, in linea con quanto stabilito dalla Convenzione poc’anzi menzionata, deve essere intesa come l’insieme dei comportamenti vessatori volti a ledere la dignità della persona, limitandone la sfera di autodeterminazione, fino a ridurla ad essere un mero strumento di soddisfacimento dei bisogni del soggetto maltrattante.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale
A tale riguardo, giova precisare che il reato di maltrattamenti previsto nell’art. 572 c.p. –applicabile sia ai membri del nucleo familiare che alle “famiglie di fatto”, nonché ogni qual volta i soggetti siano legati da rapporti di reciproca assistenza e protezione, ivi compresi i luoghi di lavoro (si veda, Cass. pen., sent. n. 51591/2016)- si caratterizza, sotto il profilo materiale, nel compimento di una serie di atti di violenza fisica e psicologica, reiterati nel tempo.
Invero, trattandosi di un reato necessariamente abituale, le condotte devono inserirsi in un contesto unitario, suscettibile di imporre alla vittima un contesto di vita opprimente ed insostenibile.
Con riferimento all’elemento psicologico, è richiesto il dolo, che consiste nella volontà dell’autore delle condotte di sottomettere la persona offesa, negandole la libertà e la dignità.
Attraverso la norma in esame, quindi, il Legislatore ha voluto introdurre uno strumento di tutela della dignità personale dei componenti della famiglia e della tollerabilità della convivenza tra gli stessi.
I comportamenti ascrivibili al delitto di maltrattamenti possono consistere in percosse, lesioni, offese, minacce, umiliazioni, sofferenze morali e violazioni della sfera sessuale della vittima, così da ingenerare una sopraffazione sistematica e da rendere la convivenza particolarmente dolorosa e degradante.
Ebbene, la violenza economica subita dal coniuge o dal convivente, all’evidenza, ben può costituire una delle modalità attraverso le quali si esplica il reato di maltrattamenti previsto nel citato art. 572 c.p., essendo una condotta astrattamente idonea ad integrare gli elementi costitutivi del delitto de quo.Avv. Claudia Piroddu, Diritto Penale
Sul punto, la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 18937 del 10 gennaio 2016, ha, tuttavia, ribadito che la privazione delle disponibilità economiche, consistente, ad esempio, nell’impedire alla persona offesa l’uso del bancomat o del conto corrente, nonché nell’impedire alla stessa di essere economicamente indipendente dal soggetto maltrattante o nel concederle, sempre sotto costante controllo, limitate somme di denaro da destinare solamente all’acquisto di beni di prima necessità, è soltanto una delle numerose modalità di maltrattamento previste dalla norma incriminatrice.
In altri termini, affinché la cd. violenza economica sia idonea ad integrare il reato di maltrattamenti è necessario che la medesima si configuri come condotta vessatoria e che, quindi, sia inserita all’interno di una cornice abituale di violenza fisica e/o psicologica.
Nella specie, giova sottolineare, infatti, che le decisioni aventi ad oggetto la gestione delle spese inerenti il ménage familiare, anche nell’ipotesi in cui non siano pienamente condivise da entrambi i coniugi, non possono di per sé integrare il reato di maltrattamenti, a meno che non costituiscano il frutto di comprovati atti di violenza fisica o di prevaricazione psicologica, suscettibili di provocare un vero e proprio stato di prostrazione psico-fisica della vittima (si veda, Cass. pen., sent. n. 43960/2015).
In conclusione, le condotte di privazione delle disponibilità economiche, anche quelle perpetrate in un contesto sociale agiato, per poter integrare in reato di maltrattamenti di cui all’art. 572 c.p. devono essere inserite in una condotta criminosa più ampia, tali cioè da configurare condotte abituali che ledono la dignità personale di chi le subisce e da rendere scarsamente tollerabile la prosecuzione della convivenza.
Focus di diritto civile • Avv. Viola Zuddas
La violenza di genere ed i maltrattamenti economici
La violenza contro le donne rappresenta una violazione dei diritti umani che ha varie e preoccupanti sfaccettature poiché colpisce tantissimi e diversi aspetti della vita di chi la subisce.
Come abbiamo avuto modo di analizzare nei precedenti articoli e focus sul tema, ci sono diverse forme di violenza: accanto a quella fisica, che si distingue per l’impiego di forza volta a sopraffare fisicamente una persona attraverso anche botte e percosse, c’è la violenza psicologica che si caratterizza per comportamenti o atteggiamenti idonei ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di un danno ingiusto, consistenti in minacce, insulti, umiliazioni, atti denigratori di vario tipo, ecc.
Ad ogni forma di violenza ovviamente sono collegati effetti differenti che incidono -a breve o a lungo termine- su diversi aspetti della vita della persona, come ad esempio sulla salute fisica, mentale e altresì su quella sessuale.
La violenza, peraltro, può avere pure risvolti negativi sulla sfera economica perché, come già anticipato, ha diverse sfaccettature e può nascondersi anche dietro azioni dal carattere puramente omissivo che non si ripercuotono sull’integrità psico – fisica della vittima ma, appunto, su aspetti patrimoniali.
Questo discorso è tanto più vero quanto è più marcato il divario economico tra i due compagni o tra i due coniugi e, a maggior ragione, nell’ipotesi in cui vi sia una vera e propria dipendenza economica da parte di uno nei confronti dell’altro.
Difatti, generalmente le vittime di questo tipo di violenza non hanno fonti di guadagno proprie e per poter far fronte alle spese quotidiane sono costrette a chiedere somme di denaro al compagno / coniuge che le elargisce non senza rimostranze o, nei casi con maggiore conflittualità, oppone addirittura un netto rifiuto.
In un simile contesto, dunque, può accadere che il compagno/coniuge economicamente più forte impedisca all’altro di raggiungere la propria indipendenza, magari semplicemente scoraggiando delle scelte di vita, di lavoro o di studio che potrebbero portare un certo grado di soddisfazione anche economica.Avv. Viola Zuddas, Diritto Civile
Questo può avvenire attraverso una serie di condotte, spesso molto differenti tra loro e quindi difficilmente riconoscibili a prima vista, che però mirano ad impedire all’altro la partecipazione alla gestione delle finanze familiari e, come detto, a privarlo di adeguate risorse economiche.
Tra queste le più diffuse, e quindi note, sono:
- non fornire alcuna informazione sul conto corrente e negarvi l’accesso,
- controllo ossessivo delle spese sostenute dall’altro, magari anche dietro presentazione di scontrini e fatture per verificarne gli importi,
- nessuna elargizione di denaro contante se non nella misura strettamente necessaria per far fronte a delle spese irrinunciabili per la gestione della casa e, comunque, già preventivate e concordate,
- non fornire alcuna indicazione circa la situazione economico – patrimoniale propria né del nucleo familiare, in maniera tale da tenere all’oscuro l’altro su tutte le questioni economiche concernenti il ménage familiare,
- ritardo nella corresponsione del denaro per far fronte alle spese necessarie, ecc.
Queste sono solo alcune delle condotte che vengono poste in essere e che, assieme ad altri fattori tipici, concorrono ad integrare i cosiddetti “maltrattamenti economici”.
Come già detto, si tratta di una forma di violenza che viene esercitata contro una persona dipendente economicamente che spesso è la propria compagna o la propria moglie: pertanto, queste condotte rientrano a pieno titolo nella violenza di genere.
Sul punto è importante ricordare che si parla di “violenza di genere” per descrivere tutte quelle forme di violenza che riguardano le persone discriminate in base al sesso e che, in un modo o in un altro, riflettono la disparità di potere e di condizione su cui si fonda il rapporto tra uomo e donna, ed in cui quest’ultima è in posizione subordinata al primo.Avv. Viola Zuddas, Diritto Civile
Si parla, in sostanza, di struttura o sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale.
Ci sono, ovviamente, casi in cui le violenze sono esercitate anche contro gli uomini – e , si badi bene, sono altrettanto esecrabili – però costituiscono una percentuale talmente irrisoria che il fenomeno non è valutato come una fattispecie a sé, tipica e riconoscibile come, al contrario, avviene nei casi di violenza contro le donne o, più nello specifico, di femminicidio.
Al riguardo, deve precisarsi che l’aumento dei casi di violenza di genere ha spinto il Legislatore nazionale ad agire sotto un duplice profilo:
- da una parte ha inteso reprimere più duramente alcuni delitti: pensiamo, ad esempio, alla Legge sul femminicidio ed al cosiddetto Codice Rosso che prevedono un inasprimento della pena comminata per alcuni delitti come il reato di minaccia, di violenza sessuale e di stalking,
- dall’altra, invece, si è concentrato per riconoscere maggiore tutela per le vittime: pensiamo, ad esempio, all’istituzione dei fondi a sostegno delle donne vittime di violenza e degli orfani di crimini domestici non autosufficienti economicamente.
Tuttavia, in tema di maltrattamenti economici il Legislatore italiano (disattendendo i principi UE sanciti con la Convenzione di Istanbul) non ha ancora adottato delle misure specifiche che consentano alla donna che ne è vittima di ottenere in tempi rapidi una tutela efficace, giacché disposizioni come quelle previste in tema di maltrattamenti in famiglia richiedono, comunque, che vengano posti in essere anche atti di violenza fisica o di prevaricazione psicologica.
Non sempre, però, ciò accade perché i maltrattamenti economici sono espressione subdola della violenza di genere e, tendenzialmente, sono connotati da attività di carattere omissivo che, comunque, non incidono sull’integrità fisica della vittima.
In sostanza, dunque, la “sola” violenza economica non è sufficiente per la configurazione di alcuna fattispecie delittuosa e, conseguentemente, per far ottenere tutela alla donna.
Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus
Il Fondo sociale Europeo Plus a tutela delle donne
Come rilevato dalla recente Proposta di direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’8 marzo 2022 sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza di genere “Per violenza contro le donne si intende una violenza di genere perpetrata nei confronti di una donna in quanto tale o che colpisce per antonomasia le donne”.
Per violenza, dunque, si intendono tutti gli atti di violenza di genere che provocano o potrebbero provocare danni o qualunque espressione di sofferenze fisiche, sessuali, psicologiche ed anche economiche perpetrate a danno delle donne, ivi compresa la mera minaccia di metterle in pratica Questo tipo di violenza affonda le sue radici nella disparità di genere che, solo a partire dagli anni 90, è stata considerata una forma di discriminazione nei confronti delle donne e una violazione dei diritti umani. Oggi, la violenza di genere nei confronti delle donne è al centro del dibattito politico e oggetto di tutela multilivello, tanto nazionale quanto europeo ed internazionale.
In questo contesto, come anche evidenziato nel Focus dell’esperto del mese, “la Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa per la prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul)”, adottata nel 2011 ed entrata in vigore nel 2014, rappresenta il principale strumento giuridico vincolante in vigore per la protezione delle donne vittime di violenza, per la prevenzione delle forme di violenza di genere e violenza domestica.
Sebbene a livello Europeo nessuno strumento giuridico si occupa in modo specifico della violenza contro le donne e della violenza domestica, ve ne sono alcuni particolarmente rilevanti che stabiliscono norme generali applicabili anche a questa categoria di vittime di violenza la cui espressione può assumere varie forme. A titolo esemplificativo si può menzionare: la direttiva 2012/29/UE “direttiva sui diritti delle vittime”; le direttiva 2011/99/UE (“direttiva sull’ordine di protezione europeo”) e il regolamento (UE) n. 606/2013 (“regolamento sul riconoscimento reciproco”),che consentono il riconoscimento transfrontaliero degli ordini di protezione emessi a norma del diritto nazionale; la direttiva 2004/80/CE del Consiglio (“direttiva sull’indennizzo”) che consente alle vittime di reati intenzionali violenti di chiedere un risarcimento da parte dello Stato; le “direttive sulla parità di genere” che stabiliscono che le molestie sessuali e a sfondo sessuale sul lavoro sono contrarie al principio della parità di trattamento tra uomini e donne.
Le disposizioni vigenti a livello dell’Unione e nazionale si sono rivelate del tutto insufficienti ed inefficaci a combattere e prevenire efficacemente la violenza contro le donne e la violenza domestica. Quest’ultima, in particolare, è un grave problema sociale che, con difficoltà, emerge dal contesto delle mura domestiche ove può manifestarsi in svariate forme tra le quali, come anticipato, oltre che di carattere fisico, sessuale, e psicologico, può declinarsi nelle forme della violenza di tipo economico. Detta condotta, può manifestarsi con comportamenti diretti a limitare o negare l’accesso alle risorse economiche e familiari, o controllare l’utilizzo del denaro, o ancora impedire di avere un lavoro e un’entrata finanziaria personale, al fine di esercitare sulla vittima un controllo indiretto e renderla incapace di esercitare la propria indipendenza e individualità.
Al fine di garantire una maggior tutela, l’Unione Europea non solo mira fornire un quadro giuridico generale in grado di combattere efficacemente la violenza contro le donne e la violenza domestica in tutta l’Unione introducendo misure riguardanti la definizione dei reati e delle pene irrogabili, la protezione delle vittime e l’accesso alla giustizia, la prevenzione, il coordinamento e la cooperazione, ma mira a fornire diretta assistenza alle vittime mediante strumenti di assistenza economica e finanziaria che possano aiutarle a raggiungere una dimensione di indipendenza economica.
Il Fondo Sociale Europeo Plus
Tra gli strumenti di più recente attuazione che tiene conto delle esigenze specifiche delle donne non possiamo non richiamare il Fondo sociale europeo Plus. Si tratta di un programma di finanziamento che intende aiutare gli Stati membri non solo ad affrontare l’emergenza causata dalla pandemia di coronavirus, ma soprattutto a ottenere elevati livelli di occupazione e una protezione sociale equa.
Il fondo mira a prestare particolare tutela alle donne attraverso il finanziamento di progetti nelle regioni dell’UE per offrire loro nuove opportunità attraverso l’accesso a finanziamenti, l’assistenza personalizzata o la consulenza per aiutarle ad avviare un’impresa.
Il 25 agosto la Commissione ha approvato il nuovo il Programma Regionale del Fondo Sociale Europeo Plus per il periodo di programmazione comunitaria 2021-2027 seguito, a livello regionale, dall’approvazione del “PR FSE+ Sardegna” che ha consentito alla Regione Sardegna di ottenere una dote finanziaria notevole, di 744 milioni di euro. Si tratta di uno strumento fondamentale per raggiungere in Sardegna migliori condizioni in termini di occupazione, istruzione, formazione e politiche sociali che consentirà di migliorare la condizione occupazionale di migliaia di disoccupati sardi, e soprattutto di giovani e donne, attraverso il potenziamento dell’offerta formativa e dei servizi sociali per le fasce più fragili e vulnerabili.