Il disturbo della condotta: pennacchio evolutivo o emergenza sociale?
Introduzione
La rabbia è riconosciuta universalmente come una delle emozioni di base (e per definizione funzionale alla sopravvivenza) e l’aggressività, nella coerenza della sua funzione evolutiva, è perfettamente integrata con il comportamento animale, primati compresi.
E in maniera più complessa e raffinata nell’homo sapiens.
La capacità di difendersi e di attaccare un aggressore, proteggere il proprio nucleo di pari, protestare per le cure mancate, inviare un segnale di alt per proteggere un piccolo indifeso sono solo una parte di tutti i meccanismi ancestrali di sopravvivenza per i quali la rabbia e l’aggressività si dimostrano utili e vitali. Alberto Anedda, Neuropsichiatra Infantile
Nell’essere umano (a differenza di altri primati meno evoluti) le emozioni di base risultano il fondamento nel quale vanno poi a svilupparsi complessi modelli operativi interni, diramandosi nel sistema di intersoggettività e comunicazione simbolica (e linguistica): questo ha consentito alla nostra specie di organizzare un sistema sociale e di relazione così elegante da risultare potenziale creatore di molteplici meccanismi adattivi nei confronti dell’ambiente circostante.
L’aggressività, nonostante sia presente sin dalla culla, viene naturalmente inibita mediante la crescita e la maturazione cerebrale (e relazionale) con una duplice funzione: la sopravvivenza del singolo e il mantenimento della comunità di peers.
A partire dalla fine del primo anno di vita un comportamento aggressivo può costituire persino un mezzo per garantire lo sviluppo della propria identità: ne sono un esempio gli scoppi d’ira del bambino quando gli viene impedita un’esperienza di esplorazione o di mancate cure. L’aggressività diventa quindi non solo un modo per ottenere protezione da parte della figura di attaccamento, ma anche una risposta difensiva nei confronti della mancanza di sensibilità dei caregivers.
Infine si può concettualmente suddividere tale costrutto in due aree, che presentano a loro volta funzioni e significati diversi: l’aggressività reattiva (o affettiva) e l’aggressività proattiva (o predatoria).
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- L’aggressività reattiva viene definita come la risposta messa in atto per difendersi da una minaccia, reale o percepita tale. Inoltre, l’aggressività reattiva risulta essere impulsiva e non pianificata, e si associa (soprattutto quando disregolata) ad un’attivazione del sistema di allerta .
- L’aggressività proattiva non richiede alcun effetto esterno scatenante: è finalizzata al raggiungimento di un obiettivo diretto (generalmente nei confronti di un altro essere umano), con lo scopo di gestirla e trarne un qualsiasi vantaggio. L’aggressività predatoria, a differenza della precedente, risulta quindi pianificata e calcolata.
Definizione
La persona che presenta un Disturbo della Condotta (CD, Conduct Disorder) manifesta modalità comportamentali caratterizzate dalla sistematica e persistente violazione delle regole, dei diritti dell’altro e delle norme sociali, con conseguenze talvolta molto gravi sul piano del funzionamento globale dell’individuo e sull’impatto nei confronti dell’ambiente circostante. Tale disturbo, per essere definito secondo i criteri del DSM-5 (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), si deve presentare prima dei 18 anni, e risulta spesso essere il precursore del Disturbo Antisociale di Personalità in età adulta, rientrando a far parte tra i disturbi da comportamento dirompente, del controllo degli impulsi e della condotta.Alberto Anedda, Neuropsichiatra Infantile
Nello specifico, i cluster sintomatologici del disturbo vengono raggruppati in quattro categorie:
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- Aggressione a persone e animali: la persona può presentare un’interazione minacciosa con la finalità di intimorire, può frequentemente utilizzare armi (bianche e non) con l’intento di causare danni fisici a terzi, mette in atto comportamenti crudeli nei confronti di persone o animali quali aggressione, scippo, estorsione o rapina a mano armata che prevedono l’affronto diretto di una vittima, con talvolta costrizione ad attività sessuali indesiderate.
- Distruzione della proprietà: distruzione di proprietà altrui, piromania.
- Frode o furto: introduzione in proprietà altrui, bugie o menzogne finalizzati all’ottenere favori o all’evitare doveri, furti di articoli di valore senza affrontare direttamente la vittima.
- Gravi violazioni di regole: spesso, già prima dei 13 anni, l’individuo contravviene alle regole familiari trascorrendo la notte fuori, o allontanandosi da casa di notte senza rientrarvi per un lungo periodo, o marinando frequentemente la scuola.
Cause e storia naturale
Il CD (Disturbo Comportamentale) viene definito in parte in base al livello di compromissione della vita familiare, sociale o scolastica del bambino o adolescente: per la diagnosi sono sufficienti 3/15 sintomi (purché non si manifestino in più categorie). Le cause e i fattori di rischio includono fattori ambientali (che vanno da un attaccamento disorganizzato a un ambiente degradato/ostile) a fattori individuali (geni, comorbidità con ADHD, temperamento, ecc.). La maggior parte dei sintomi del CD, sia che si manifestino in età giovanile o più tardi, sono spesso gravi e possono condurre a problemi emotivi e sociali con talvolta risvolti legali; non è raro inoltre che la persona con un disturbo della condotta presenti anche una maggiore suscettibilità (ed eventuale utilizzo) alle sostanze d’abuso (cannabis, cocaina, alcool, ecc.) e partecipi ad attività illecite.
Specifica con emozioni prosociali limitate
È inoltre descritto un sottotipo del CD, definito dalla carenza più o meno marcata delle emozioni prosociali e dell’empatia, che risulta predittivo per una struttura di comportamento caratterizzata da problemi di condotta più severi e persistenti.
Da cosa è caratterizzata tale specifica?
- Mancanza di rimorso e senso di colpa (Lack of remorse or guilt): la persona non prova emozioni di colpa relativamente alle proprie azioni, con scarsa preoccupazione sulle conseguenze negative di quello che può aver commesso.
- Mancanza di empatia, “callosità” (Callous-Lack of empathy): la persona non è condizionata da quello che possono provare le altre persone, ed è descritta come fredda o poco sensibile.
- Disinteresse nei confronti delle sue performance (Unconcerned about performance): la persona appare disinteressata da quello che possono essere i suoi obbiettivi scolastici o lavorativi, senza mettere in atto alcuno sforzo per raggiungere i risultati (anche quando gli obiettivi sono chiari); può spesso rivolgersi agli altri come colpevoli per i suoi insuccessi.
- Appiattimento affettivo (Shallow or deficient affect): la persona non appare in grado di esprimere i propri sentimenti (se non in maniera superficiale) tranne che per avere dei vantaggi dagli altri (es. manipola o intimidisce).
La specifica con emozioni prosociali limitate ci richiede di confrontarci con le basi sottostanti a tale disturbo. Il comportamento nei pazienti affetti da CD può quindi manifestarsi in due forme: in una, la persona manifesta problemi nella regolazione delle emozioni forti, rabbiose e ostili. Una minoranza di pazienti con CD, invece di manifestare emozioni come rabbia e ostilità presenta una carenza dell’empatia e del senso di colpa. Tali bambini (e adolescenti) tendono a manipolare gli altri per un loro tornaconto personale: con ridotti livelli d’ansia e la tendenza ad annoiarsi facilmente preferiscono attività sempre nuove, eccitanti, persino pericolose, con la probabilità perciò i manifestare i quattro sintomi dello specificatore.
Conclusioni
Il disturbo della condotta deve considerarsi a tutti gli effetti un disturbo cronico e complesso, e come tale deve essere impostato il piano di intervento.
Tale plan si deve basare su diversi livelli: sulla comunità in cui la persona vive, sulla famiglia (es. parent training) e sull’individuo (come la psicoterapia o interventi farmacologici, da considerarsi su pazienti che non rispondono agli altri trattamenti o che presentano aggressività marcata e comportamenti violenti). Si è rivelato inoltre molto utile per la prevenzione in età precoce il programma terapeutico Coping Power, che si avvale di un lavoro di equipe sui diversi contesti di vita del bambino, quali la scuola e la famiglia.
Appare ormai ovvio che, nella sua complessità e cronicità, il CD appaia come una vera e propria sfida per il sistema di cura, soprattutto per i diversi risvolti etici e legali (ed economici) che possono interfacciarsi costantemente nella vita di chi ne soffre e dei suoi cari: a tal proposito appare quindi necessario focalizzare e programmare i sistemi di aiuto e cura sempre di più verso la prevenzione e l’identificazione dei fattori di rischio (sia individuali che comunitari). Solo un lavoro che parta dallo stato e dalla società potrà quindi favorire la liberazione progressiva da tutti gli stigmi e i pregiudizi che interessano il mondo della salute mentale, ancor più quando si tratta di bambini e adolescenti. Alberto Anedda, Neuropsichiatra Infantile
Alberto Anedda, Neuropsichiatra Infantile
Sono un medico chirurgo, specialista in Neuropsichiatria Infantile, Psicoterapeuta Cognitivo Comportamentale Costruttivista.
Ho svolto la mia attività clinica in diversi servizi integrati in Italia e all’estero, centri territoriali di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza e centri convenzionati di riabilitazione globale per minori.
Dal 2020 lavoro presso il centro Lucio Bini di Cagliari come Neuropsichiatra e Psicoterapeuta, con attenzione speciale per pazienti affetti da tutti i disturbi psichiatrici e dal mese di Luglio 2021 presto servizio come Dirigente Medico all’interno della Clinica di Neuropsichiatria dell’Infanzia e l’Adolescenza presso l’Ospedale Microcitemico A. Cao di Cagliari.
Nello specifico si sottolinea particolare elezione per valutazione e trattamento dei Disturbi del Neurosviluppo (ADHD, Autismo, Disturbi dell’Apprendimento, Tic e Tourette), Disturbi da Comportamento Dirompente e della Condotta (Disturbo Oppositivo Provocatorio e Disturbo della Condotta), Disturbi dell’Umore, Disturbo Ossessivo Compulsivo e Disturbi d’Ansia.
Mi occupo inoltre di Psicoterapia Cognitivo-Costruttivista per minori e adulti, interventi mirati di supporto alla genitorialità (Parent Training), terapia farmacologica nell’ambito dei disturbi psichiatrici per minori e adulti, attività di formazione (corsi e seminari) e presto inoltre servizio come Consulente Tecnico di Parte (CTP).
Focus di diritto penale • Avv. Claudia Piroddu
L’imputabilità del minore
Quando si parla di Disturbo della Condotta e, più in generale, delle conseguenze anche sul piano penale dei comportamenti legati a tale condizione, sorge spontaneo chiedersi: il minore che commette un reato può essere perseguito penalmente?
Per rispondere a tale quesito occorre introdurre il principio di carattere generale, previsto nell’art. 85 c.p., secondo il quale “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. È imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere”.
In altre parole, per l’Ordinamento penale italiano, affinché ad un soggetto -sia esso maggiorenne o minorenne- possa essere inflitta una sanzione penale, non è sufficiente che egli abbia commesso un reato, ma occorre altresì che la condotta antigiuridica possa essere personalmente rimproverata all’autore della stessa.
Dalla semplice lettura della norma poc’anzi riportata, si evince chiaramente che per Legge il requisito dell’imputabilità è legato al possesso della capacità di intendere e di volere al momento della commissione del reato.
A questo proposito, giova chiarire che la capacità di intendere viene definita come la capacità di comprendere correttamente il mondo esterno, nonché il significato, le conseguenze e il disvalore sociale delle proprie azioni, mentre la capacità di volere è la capacità di autodeterminarsi liberamente e di scegliere in modo consapevole come agire.
Pertanto, in mancanza anche di una sola delle suddette condizioni, il soggetto non potrà essere considerato imputabile e, dunque, perseguibile penalmente.
Quando si acquisisce, per la legge penale, la capacità di intendere e di volere?
Se dinnanzi ad un soggetto adulto che ha raggiunto la maggiore età, l’imputabilità è sempre presunta -salvo la presenza di alcune condizioni, come ad esempio il vizio di mente-, nel caso in cui l’autore del reato sia minorenne è necessario operare una distinzione.
Invero, l’art. 97 c.p. stabilisce che l’imputabilità è sempre esclusa qualora si tratti di un soggetto che, al momento della commissione del fatto, non aveva compiuto i quattordici anni.
Si tratta di una presunzione assoluta di non colpevolezza che prescinde dall’effettivo riscontro della capacità di intendere e di volere.
In tale specifica ipotesi, infatti, è ragionevole ritenere, sulla base della mera età anagrafica, che l’autore del reato non possa considerarsi colpevole e che non possano essere adottate misure penali di carattere sanzionatorio a suo carico.
Egli, infatti, proprio in ragione della giovanissima età, non ha raggiunto un sufficiente grado di sviluppo fisico e psichico, tale da giustificare un giudizio di responsabilità penale, sebbene, ove ne ricorrano i presupposti, possano essere adottate misure volte a intervenire sulla eventuale pericolosità sociale del minore.
Avendo riguardo al minore di età compresa tra i quattordici e i diciotto anni, invece, l’art. 98 c.p. prevede che l’imputabilità non sia presunta e che la capacità di intendere e di volere debba essere accertata in concreto dal Tribunale per i Minorenni, competente in tali ipotesi, attraverso il necessario apporto di periti e consulenti tecnici.Claudia Piroddu, Avvocato
In particolare, solo mediante l’assistenza di figure professionali esperte in ambito medico, psicologico e pedagogico, è possibile giungere ad una valutazione globale della personalità del minore e del contesto familiare e sociale in cui è maturato il reato e ciò al fine di soddisfare il principio fondante del diritto penale minorile che tende, in via principale, alla rieducazione del minore autore di un reato, oltre che alla predisposizione di un adeguato trattamento sanzionatorio.
Infermità e immaturità: due concetti distinti
Per valutare se il minore debba rispondere del reato commesso assume rilevanza, innanzi tutto, l’accertamento del cd. vizio di mente, che sussiste in presenza di una causa di natura patologica e che può essere totale o parziale.
Nel primo caso, il vizio di mente determina l’esclusione dell’imputabilità (art. 88 c.p.), mentre nel secondo caso, trattandosi di un’infermità che comunque influisce sulla capacità di intendere o di volere, ma senza escluderla, il soggetto si considera imputabile e la pena sarà, pertanto, diminuita (art. 89 c.p.).
Qualora non sussista un vizio di mente, occorre procedere all’ulteriore valutazione del grado di “maturità” raggiunto dal minore, poiché, proprio in considerazione delle peculiarità dell’ambito minorile, la capacità di intendere e di volere si connota di aspetti aggiuntivi rispetto a quella dell’adulto.
Il concetto di maturità non è definito dal Legislatore, tuttavia, è strettamente legato al processo di sviluppo fisico, psichico, morale e sociale del minore che, all’evidenza, deve essere rapportato, da un lato, al preciso momento di commissione del fatto e, dall’altro lato, alla tipologia di reato che è stato realizzato.
È importante sottolineare che infermità e immaturità siano due concetti affini ma distinti, di conseguenza, il minore, pur in assenza di un vizio di mente, può considerarsi “immaturo” e, quindi, non imputabile, laddove sia stato riscontrato uno sviluppo inadeguato della personalità, della coscienza morale, nonché delle capacità affettive e volitive, tale da riverberarsi sulla effettiva capacità di intendere o di volere del soggetto.Claudia Piroddu, Avvocato
In definitiva, quando ci si trova dinnanzi al minore che commette un reato è necessario di volta in volta, attraverso l’ausilio di figure altamente specializzate, verificare la causa di tali condotte e se la stessa sia o meno riconducibile alla sussistenza di uno stato di infermità mentale o di un insufficiente sviluppo della maturazione fisica e psichica del minore, i quali, come detto, possono influire significativamente sull’imputabilità dello stesso ed escludere la responsabilità penale.
Focus di diritto civile • Avv. Viola Zuddas
Bullismo e reazione della vittima
Come abbiamo visto nel focus a cura del Dott. Alberto Anedda, un disturbo della condotta (Conduct Disorder, “CD”) implica uno schema comportamentale ripetitivo che porta l’individuo che ne soffre a violare i diritti delle persone con cui si entra in contatto.
I giovani affetti da un disturbo della condotta solo nei casi più gravi manifestano la carenza, più o meno marcata, delle emozioni prosociali e dell’empatia: essi, infatti, non provano emozioni di colpa relativamente alle proprie azioni e, tendenzialmente, non si preoccupano delle conseguenze negative di quello che possono aver commesso.
Non è infrequente, dunque, che questi giovani possano compiere atti di prevaricazione nei confronti di loro coetanei o, addirittura, nei confronti di ragazzi più piccoli.
Si tratta, in particolare, di veri e propri atti di aggressione reiterata volti alla sopraffazione o intimidazione (sia fisica che psicologica) di un’altra persona che, purtroppo, sono in costante aumento soprattutto tra i giovanissimi.
Tra questi comportamenti può essere riconosciuta anche una modalità prevaricatrice che, seppur nel linguaggio comune può venir definita come “bullismo”, è solo una delle molteplici sfaccettature sociali che si presentano in un quadro clinico così complesso.Viola Zuddas, Avvocato
Il bullismo, quindi, è una fattispecie articolata, caratterizzata da una moltitudine di comportamenti che possono essere molto diversi tra di loro (si pensi, ad esempio, alle aggressioni fisiche con calci e pugni ed a quelle verbali con intento denigratorio) e, soprattutto, possono essere attuati in tempi differenti: per questo motivo, dunque, può accadere che i singoli atti vengano valutati come se fossero slegati gli uni dagli altri e non nel loro insieme.
L’evidente difficoltà nel riconoscere in concreto come “atti di bullismo” un certo modello comportamentale determina la necessità di porre particolare attenzione anche al contesto sociale in cui si verificano tali fatti, al fine di evitare che i predetti comportamenti vengano intesi come semplici screzi tra ragazzi.
Tra l’altro, non è infrequente che un individuo che ha subito atti prevaricatori a sua volta ne diventi artefice in prima persona.
Inoltre, durante la pandemia, e in particolare nel periodo di lockdown, è cresciuto esponenzialmente anche il fenomeno del cyberbullismo, ovvero il bullismo attuato attraverso strumenti telematici.
Questo fenomeno, peraltro, è pericoloso tanto quello “tradizionale” poiché, muovendo da un distaccamento dalla dimensione materiale o fisica (in quanto realizzato online), amplifica la sensazione di anonimato e impunità, giacché sfugge a qualsiasi limite fisico e geografico.
A ciò si aggiunga che diversi studi condotti su questo fenomeno hanno evidenziato come vi sia un vero e proprio indebolimento delle remore di natura etica, in quanto la possibilità di agire online, magari pure attraverso un profilo falso, consente al cyberbullo di sentirsi più libero nell’esprimersi e, dunque, di utilizzare un linguaggio che non impiegherebbe nella vita reale.
Ma chi è responsabile, dal punto di vista civile, degli atti di bullismo compiuti dal minore?
Per rispondere a questa domanda è necessario, intanto, avere riguardo di quanto prescritto dall’art. 2048 c.c., rubricato “Responsabilità dei genitori, dei tutori, dei precettori e dei maestri d’arte”, che – per ciò che qui è di interesse – pone a carico dei genitori l’onere di impartire ai figli l’educazione necessaria per non recare danni a terzi nella loro vita di relazione.
I genitori, inoltre, sono tenuti a vigilare sull’adeguatezza dell’educazione impartita poiché questa dev’essere effettivamente idonea rispetto al carattere ed alle attitudini del minore e, altresì, rispetto al contesto sociale in cui si svolge la sua vita di relazione.
Nell’ipotesi in cui il minore dovesse compiere atti di bullismo, quindi, i genitori rispondono in sede civile delle carenze educative cui l’illecito commesso dal figlio sia riconducibile.
Ma se un minore vittima di bullismo reagisce e causa un danno al suo aggressore?
Poniamo il caso in cui un minore, vittima di bullismo, decida di ribellarsi al suo aggressore e, preso dalla rabbia e dalla frustrazione, gli sferri un pugno per vendicarsi dei torti subiti.
Ebbene, in questo caso è necessario contestualizzare il comportamento posto in essere dal minore vessato (o, come si dice comunemente, “bullizzato”) ed indagare le condizioni di umiliazione a cui egli è stato ripetutamente sottoposto nel tempo.
Infatti, pur essendo doverosa la repressione di comportamenti vendicativi che sfociano poi in atti violenti, deve comunque tenersi in considerazione il contesto sociale in cui essi sono stati posti in essere ed i motivi.
In altre parole, il Giudice deve valutare attentamente se il ragazzino, che abbia sferrato il pugno, abbia in precedenza subito degli atti prevaricatori e vessatori che l’abbiano portato a reagire con violenza.
In caso affermativo, quindi, il Giudice dovrà valutare un vero e proprio concorso di colpa da parte del bullo – aggressore: infatti, se lui per primo non avesse posto in essere atti di bullismo (cioè, aggressività eterodiretta fisica o verbale), l’altro non sarebbe stato portato a reagire in quel modo.
In tale ipotesi, dunque, il bullo – aggressore vedrà ridotto il risarcimento eventualmente spettantigli in maniera proporzionata alla gravità della sua precedente condotta.
A tale soluzione si giunge anche laddove la reazione della vittima bullizzata avvenga in un momento successivo e non contestuale al comportamento prevaricatorio del bullo.
Al riguardo, la giurisprudenza più attenta e sensibile è solita prendere come riferimento il criterio della cosiddetta causalità individuale che sposta l’attenzione da un criterio di natura meramente “temporale” ad uno che consenta di attribuire il giusto peso – in termini di spiegazione causale – a tutte le circostanze del caso concreto pure se accadute in tempi differenti.Viola Zuddas, Avvocato
Questo criterio, dunque, è particolarmente indicato per il bullismo proprio perché – come abbiamo già analizzato in precedenza – è un fenomeno complesso, caratterizzato dal compimento di una molteplicità di atti e comportamenti posti in tempi diversi.
Ebbene, pure in questa ipotesi si dovrà ricostruire la dimensione complessiva in cui si sono svolti i fatti e, in particolare, se il ragazzino che ha posto in essere una condotta violenta abbia in precedenza subito dei comportamenti prevaricatori e vessatori che hanno inciso in maniera significativa sulla sua serenità.
In conclusione, il fenomeno del bullismo non dà vita ad un conflitto meramente individuale ma richiede un coacervo di interventi coordinati finalizzati a reprimere tali comportamenti di prevaricazione e ad evitare eventuali istinti vendicativi da parte delle vittime.
Focus di diritto civile • Avv. Francesco Sanna
Bullismo e responsabilità civile
In primis è bene ricordare che la Repubblica riconosce e garantisce, ai sensi degli artt. 2 e 31 Cost., i diritti dell’infanzia e della gioventù.
Ancora, la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del bambino del 1989, ratificata dall’Italia con Legge del 27 maggio 1991, n. 176, prefiggendosi la tutela del bambino, prevede che la risposta educativa deve risultare sempre proporzionata alla gravità del comportamento dell’alunno.
Una prima e completa definizione di atto di bullismo è stata fornita dallo psicologo svedese-norvegese Dan Olweus (professore di ricerca di psicologia presso l’Università di Bergen, in Norvegia, e riconosciuto come pioniere della ricerca sul bullismo) secondo il quale: ‹‹uno studente è oggetto di comportamenti di bullismo, o è prevaricato o vittimizzato, laddove venga esposto, nel corso del tempo, ad azioni offensive poste in atto da uno o più compagni››.Francesco Sanna, Avvocato
Da un certo punto di vista, il bullismo ha un rapporto di analogia con il mobbing: almeno a livello di inquadramento dei presupposti giuridici necessari per poter verificare o meno la sussistenza di tale fenomeno in determinate fattispecie. Difatti, analoghe sono le violenze morali e le manovre psicologiche, nonché la sistematicità delle azioni tese ad umiliare un soggetto “debole”.
Tuttavia, venendo al tema che qui ci occupa, devesi precisare che anche un solo episodio di violenza fisica e/o morale può dare luogo ad un vero e proprio atto di bullismo, con tutto ciò che ne consegue in termini di responsabilità giuridica civile. Inoltre, il soggetto attivo del bullismo è quasi sempre un minorenne, così come la vittima, e questo comporta che il fatto antigiuridico deve essere imputato civilisticamente ai genitori (culpa in educando), ex art. 2048 c.c. ovvero alla scuola ed ai docenti (culpa in vigilando), oltre che allo stesso studente sotto il profilo penale, disciplinare e risarcitorio.
In generale, i docenti hanno il dovere di vigilare sugli studenti e sono responsabili dei danni causati a terzi dal fatto illecito dei loro allievi, se avviene nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza, ai sensi dell’art. 2048, comma 2, c.c.
L’articolo 61 della Legge 11 luglio 1980, n. 312, ha previsto la surrogazione, nel lato passivo dell’Amministrazione al personale scolastico, nell’obbligazione risarcitoria verso i terzi danneggiati e la conseguente esclusione della legittimazione passiva degli insegnanti (salvo i casi di rivalsa nel caso in cui si dimostri che l’insegnante ha tenuto un comportamento gravemente colposo o doloso nella causazione dell’evento).
La colpa dell’insegnante e anche della scuola assume i caratteri della colpa grave nel caso in cui comportamento vessatorio di uno o più alunni in danno di un altro o di altri alunni fosse ben noto.
I genitori, nel momento in cui affidano i propri figli all’istituto scolastico, vengono sollevati dalla predetta culpa in vigilando, ma non da quella in educando (art. 2048, comma 1, c.c.).
Ragion per cui le due forme di responsabilità – genitoriale e scolastica – non sono alternative, bensì concorrenti.
La colpa dei genitori può fondarsi, oltreché sull’art. 2048 c.c., anche sull’art. 2047 c.c., a seconda che il minore sia o meno capace d’intendere e di volere.
Così se il figlio minore ha la capacità di intendere e di volere, la sua responsabilità, si affianca a quella dei genitori.
Per quanto attiene alla responsabilità del Ministero dell’istruzione o dell’ente gestore di una scuola privata, questa può essere duplice: o contrattuale, se si deduce l’inadempimento dell’obbligo assunto dal danneggiante di vigilare; oppure extracontrattuale, se la domanda poggia sul neminem laedere.
Sul punto, è bene precisare che in capo al Ministero o all’ente gestore della scuola privata grava una presunzione di responsabilità iuris tantum; così sostanziandosi una sorta di responsabilità oggettiva superabile solo fornendo la prova di non aver potuto impedire il fatto.Francesco Sanna, Avvocato
A comprova di quanto testè affermato per superare la forte presunzione di responsabilità del Ministero è stata necessaria la dimostrazione di avere adottato misure preventive atte a scongiurare situazioni antigiuridiche. (cfr. Tribunale di Milano, sez. X civ., sentenza n. 8081/13)
Ancora, come accennato in alcuni casi trova applicazione l’articolo 2055 c.c., stante la natura solidale della responsabilità dei genitori e del precettore per il fatto illecito commesso dall’alunno. Pertanto, ove sia ipotizzabile un difetto di educazione, la responsabilità del genitore concorre con quella del docente, salva la pressoché impossibile prova liberatoria di avere impartito al figlio un’adeguata educazione e vigilanza.
Quanto ai soggetti passivi del giudizio, le istituzioni scolastiche statali sono compenetrate nell’Amministrazione dello stato, con patrocinio dell’Avvocatura dello Stato.
Nel caso di scuola statale, per i danni all’alunno trova applicazione il foro erariale ex art. 25 c.p.c. e quello del giudice del luogo dove ha sede l’Ufficio dell’Avvocatura dello Stato nel cui distretto si trova il giudice che sarebbe competente secondo le regole ordinarie.
Focus di diritto dell’Unione Europea • Avv. Eleonora Pintus
Unione Europea e tutela della salute mentale: il Programma “EU4Health”
La salute mentale è un diritto fondamentale dell’uomo.
Trattasi di una condizione indispensabile al benessere, alla qualità della vita ed alla salute fisica, oltre che favorire l’apprendimento, il lavoro e la partecipazione alla società.
Nella maggior parte dei casi, i disturbi mentali hanno origine nella fase dell’adolescenza, provocando immensa sofferenza agli individui, alle famiglie e alla collettività in quanto rientrano fra le principali cause di invalidità che si riverbera inevitabilmente in vari settori della società civile quali quello dell’istruzione, giustizia, oltre che per l’economia e il mercato del lavoro e per i sistemi di welfare sociale nell’UE.
Negli anni, e ancor più nell’attuale periodo storico colpito duramente dalla pandemia mondiale, in Europa i disturbi mentali sono notevolmente aumentati e, tra questi, la depressione è probabilmente uno dei più diffusi.
Al fine di trovare una soluzione condivisa atta a migliorare la salute mentale della popolazione, già nel 2008, veniva siglato a Bruxelles il “Patto europeo per la salute e il benessere mentale”, in occasione della conferenza europea ad alto livello sulla salute mentale.
Il Patto ribadisce il diritto di ogni cittadino di godere di buona salute mentale quale presupposto fondamentale per la realizzazione degli obiettivi sanciti nel Trattato di Lisbona.
L’intesa, varata dalla Commissione europea in collaborazione con la presidenza slovena e con l’Oms Europa, mirava ad affrontare e risolvere le sempre più comuni problematiche nel campo della salute mentale, oltre che mettere in comune le esperienze maturate in tutta l’Unione Europea in particolare avuto riguardo ai seguenti ambiti: prevenzione del suicidio e della depressione; salute mentale tra i giovani e nel mondo della scuola; salute mentale sul lavoro; salute mentale tra gli anziani; lotta contro la stigmatizzazione e l’esclusione sociale.
Su tale scia, l’Unione Europea ha perseverato nel cercare fornire una risposta ambiziosa alle problematiche connesse alla salute mentale tanto che, il 24 marzo 2021, è stato adottato il Regolamento n. 522/2021 il quale istituisce il programma «UE per la salute» (EU4Health) per il periodo del quadro finanziario pluriennale 2021-2027 che stabilisce gli obiettivi del programma, le forme di finanziamento dell’Unione e le regole di erogazione dei finanziamenti.
Il programma è giunto alla sua quarta edizione e, rispetto alle precedenti, è quello che ha beneficiato di maggiori attenzioni a livello politico, nonché di una maggiore dotazione finanziaria.
Ma cosa prevede il Regolamento e quale impatto ha sul settore sanitario?
Esso mira ad integrare le politiche degli Stati membri al fine di migliorare la salute umana in tutta l’Unione e garantire un elevato livello di protezione.
In particolare, come sancito all’articolo 4 del Regolamento, l’Unione sostiene le azioni in materia di prevenzione delle malattie e di promozione della salute e intervenire, altresì, a sostegno delle azioni volte a migliorare la salute mentale, prestando particolare attenzione ai nuovi modelli di assistenza .
Per realizzare questi obiettivi, il programma EU4Health 2021-2027 ha una dotazione totale di 5,1 miliardi di euro, nettamente superiore ai precedenti programmi, messi a disposizione per rafforzare e promuovere l’innovazione nel settore sanitario e, così, rispondere alle emergenze sanitarie del nostro tempo e future quali Covid-19, malattie trasmissibili e non trasmissibili, tumori e, altresì, la salute mentale, annoverata tra le principali priorità sanitarie al pari della lotta contro il cancro, la lotta all’antibiotico-resistenza e il miglioramento dei tassi di vaccinazione.
Dunque, come precisato dalla Commissione Europea nel piano di lavoro (“Work Plan 2021”) del Programma per l’azione dell’Unione Europea nel campo della salute per il periodo 2021-2027 – che stabilisce le priorità e le azioni per il 2021, inclusa l’allocazione delle risorse – il primo passo da compiere per demonizzare gli stereotipi legati alla salute mentale vi è quello di aumentare la consapevolezza, condividere la conoscenza ed il sapere a livello comune, attraverso lo sviluppo di un sistema di informazione, ricerca e conoscenza sulla salute mentale per tutta l’Unione Europea. Eleonora Pintus, Avvocato