Lo scorso 22 giugno, il Vaticano ha inviato al Governo italiano una nota verbale chiedendo, in sostanza, che il DDL Zan venga modificato nella parte in cui «si stabilisce la criminalizzazione delle condotte discriminatorie per motivi “fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere”» perché «avrebbero l’effetto di incidere negativamente sulle libertà assicurate alla Chiesa cattolica e ai suoi fedeli dal vigente regime concordatario.»
Ora, la notizia della nota e dei sui contenuti, ripresa dai giornali, e poi da esponenti del mondo politico oltre che degli operatori del diritto, ha suscitato non poche polemiche.
Di fatti, se da un lato vi è chi sostiene che la predetta nota, in quanto atto diplomatico spesso usato dagli Stati, non costituisca affatto un atto di ingerenza, d’altra parte, invece, vi è chi sostiene che, al di là della sua qualificazione normativa, si tratti di un atto “ontologicamente” molto invasivo in quanto intrinsecamente idoneo ad esercitare una forte pressione su una legge ancora in fase di discussione.
Tanto che, proprio ad arginarne gli effetti, è intervenuta la replica del Presidente del Consiglio Mario Draghi il quale ha chiarito che l’Italia è uno Stato laico, non confessionale e che, quindi, ha il potere di legiferare liberamente, seppur nel rispetto dei principi costituzionali e degli impegni internazionali assunti, tra i quali vi è il Concordato con la Chiesa.Avv. Viola Zuddas, Civilista
Ma cosa si intende per laicità dello Stato?
Questo principio, in realtà, non è sancito in modo espresso nella Costituzione ma deriva dall’opera interpretativa della Corte costituzionale che con la storica sentenza del 12 aprile 1989, n. 203 ha ritenuto che dalle norme costituzionali riguardanti il fenomeno religioso si potessero desumere diverse garanzie e, in particolare:
- salvaguardia della libertà di religione in regime di pluralismo confessionale e culturale,
- pari protezione alla coscienza delle persone che si riconoscano in una fede o in nessuna,
- equidistanza ed imparzialità rispetto a tutte le confessioni religiose.
Ebbene, come abbiamo già analizzato nei nostri precedenti articoli (https://www.forjus.it/2021/05/17/perche-litalia-ha-bisogno-del-ddl-zan/ e https://www.forjus.it/2021/05/20/ddl-zan-novita-legislative-e-risvolti-pratici-parte-2/), il DDL Zan è volto a promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione nonché a contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere, in attuazione dei princìpi di eguaglianza e di pari dignità sociale sanciti dalla Costituzione.
Non si vede, dunque, come il DDL Zan nella sua attuale formulazione possa incidere negativamente sulle libertà assicurate alla Chiesa ed ai suoi fedeli.
È, poi, importante ricordare che il nostro Paese si colloca al 35° posto in Europa per la lotta alle discriminazioni fondate sul sesso proprio perché non vi è un sistema legislativo in grado di assicurare efficacemente l’inclusione delle persone LGBTIQ nella società o che si occupi di reprimere con risolutezza atteggiamenti discriminatori, stigmatizzanti e violenti nei loro confronti.
Legge anti LGBTIQ in Ungheria: atto di ingerenza da parte degli Stati membri dell’Unione Europea?
Nello scenario europeo, una “querelle” dello stesso si è scatenata a seguito dell’approvazione da parte del parlamento ungherese di una legge che vieta la condivisione di qualsiasi contenuto che promuova l’omosessualità o il cambio di sesso a chiunque abbia meno di 18 anni.
In occasione de Consiglio Europeo tenutosi lo scorso 24 giugno, numerosi Capi di Stato e di Governo dei Paesi membri dell’Unione hanno immediatamente manifestato la loro ferma opposizione al premier Ungherese rispetto alla predetta legge, in quanto considerata un vero e proprio attentato alla democrazia, all’uguaglianza e alla libertà.
Ebbene, dette contestazioni sono state da taluni qualificate come atto di ingerenza statale nei confronti di un altro Stato sovrano, al pari del discusso intervento Vaticano sul ben noto Ddl Zan.
Al riguardo, non appare superfluo precisare che il principio di non ingerenza, fondamentale per il mantenimento di relazioni internazionali pacifiche tra gli Stati, ribadito anche nell’Atto di Helsinki del 1975, pone l’obbligo a carico di tutti gli Stati di non interferire negli affari interni di un altro Stato e trova il suo fondamento nel principio che stabilisce l’uguaglianza sovrana fra gli stessi.
Ora, al di là della discutibilità nella forma e nella sostanza della nota Vaticana, le recenti contestazioni mosse dagli Stati Europei e dalle Istituzioni UE nei confronti del governo ungherese non sembrano potersi qualificare come atti di ingerenza da parte di attori statuali e non statuali nei confronti di un altro Stato sovrano.
L’eccepita violazione del suddetto principio è, invero, totalmente avulsa da qualsivoglia ragione di carattere giuridico se si pensa che gli Stati membri dell’Unione possono attivare, ai sensi dell’art. 7 del Trattato sull’Unione Europea (TUE), già una procedura di pre-allarme allorquando vi sia un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro dei valori di cui all’art. 2, ossia della dignità umana, libertà, democrazia, uguaglianza, rispetto dei diritti umani e delle minoranze su cui si fonda l’Unione.
In forza di detta procedura vengono indirizzate allo Stato membro in questione delle raccomandazioni e, solo in caso di constatazione dell’esistenza di una violazione grave e persistente, il Consiglio può decidere di sospendere alcuni diritti nei confronti di quest’ultimo.
Trattasi nientemeno che dei valori che ogni Stato europeo che domanda di diventare membro dell’Unione deve rispettare ed impegnarsi a promuovere.
Ebbene, proprio le predette condizioni per l’ammissione, oltre al rispetto e gli adattamenti ai trattati su cui è fondata l’Unione Europea, formano l’oggetto di un accordo tra gli Stati membri dell’Unione e lo Stato richiedente e sottoposto a ratifica – così entrando a far parte dei singoli ordinamenti nazionali – da tutti gli Stati contraenti, con conseguente obbligo in capo agli stessi di adempiervi dando piena attuazione al contenuto.
Gli Stati aderenti, dunque, assumono un vero e proprio obbligo in quanto non solo devono dimostrare di rispettare i valori di cui all’art. 2 TUE, ma assumono altresì l’impegno formale di promuoverli, insieme ai Trattati istitutivi, tanto sul piano interno che su quello internazionale.
La violazione degli obblighi da parte degli Stati membri dei Trattati e dei principi ivi sanciti, che può estrinsecarsi sia mediante condotte commissive – ad esempio, come nel caso ungherese, adottando atti normativi interni contrari ai trattati e ai suoi principi – che omissive – ossia omettendo di compiere qualunque condotta necessaria alla promozione e attuazione degli atti comunitari e dei principi -, consente tanto a ciascuno degli Stati membri quanto alla Commissione di attivare il cd. ricorso per inadempimento o infrazione davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Ad esito del giudizio, la Corte potrà comminare allo Stato accertato inadempiente il pagamento di una sanzione.
In conclusione, il complesso quadro normativo brevemente riportato consente di affermare che le contestazioni mosse al governo ungherese da parte degli Stati membri (a differenza dell’intervento Vaticano) non siano affatto qualificabili come atti di ingerenza ma, al contrario, eccezioni pressoché legittime della violazione dei principi e valori oggetto degli accordi di adesione e dei Trattati istitutivi da parte dello Stato Ungherese che, in quanto Paese membro, è giuridicamente obbligato al loro rispetto e promozione anche all’interno dell’ordinamento nazionale mediante l’emanazione di norme che siano lo specchio di quei valori che costituiscono la colonna vertebrale dell’Unione Europea.Avv. Eleonora Pintus, Internazionalista e diritto dell’Unione Europea